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Autore: meiousetsuna    08/06/2017    7 recensioni
Una piccola storia come un sorso di tè profumato e dorato.
Su come un investigatore geniale possa trovarsi in difficoltà quando deve scoprire piccole cose, apparentemente semplici, che potrebbero minare il suo rapporto con John.
Con un caldo abbraccio a chi mi regalerà cinque minuti per leggere,
Setsuna
[Sherlock/Implied!John]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mancare in questo dettaglio, avrebbe fatto sì che l’acqua appena versata rispettando la perfetta temperatura richiesta si raffreddasse leggermente, compromettendo il risultato finale.
Sherlock poteva essere assai noncurante quando si trattava di cibo, quel bruto mezzo di sopravvivenza che serviva a far deambulare il suo corpo senza giramenti di testa per la debolezza in momenti poco opportuni come un inseguimento, e relativamente accondiscendente quando gli accadeva di adattarsi a un caffè.
A volte gli sembrava di avere a che fare con l’F.B.I. invece che con Scotland Yard: possibile che ogni poliziotto del mondo vivesse di ciambelle, hamburger e ingurgitasse caffeina a litri?
Interessante, magari avrebbe avuto più visite on line se invece di catalogare tabacco avesse aggiunto una lista delle banalità relative alle centrali delle forze dell’ordine… no, non doveva distrarsi.
Il giusto grado di calore era il meno, visto che quel tè lo stava preparando per il suo blogger.
Non avrebbe accettato da se stesso che la teiera fosse troppo tiepida o così bollente da non poterla toccare.
Sarebbe stata sbagliata, invece che attraente come un raggio di sole che s’intrufola da uno spiraglio, verso il quale si tendono naturalmente le mani.
Un po’ come faceva lui quando si sentiva male per una ferita superficiale che cercava di nascondere a John perché non si spaventasse, ma mentre tornavano a casa in taxi non riusciva a evitare di stringersi lievemente al suo braccio per trovare conforto.
La prima volta il dottore l’aveva considerato romantico, poi quando aveva visto il sangue sul fianco della camicia bianca gli aveva rivolto parole non proprio sentimentali, mentre lo bendava e redarguiva di non farlo più.
Il che ― chiaro ― era stato frequente.
Mentre apriva la confezione di Darjeeling nuova, controllando che avesse il pieno aroma di uva moscata e un retrogusto muschiato, e che neppure la minima quantità di umidità si fosse introdotta nel prezioso pacchetto ― se necessario avrebbe osservato una fogliolina al microscopio, a che scopo essere un chimico, e il migliore? ― Sherlock iniziò a stilare un elenco delle possibilità.
Dunque, John era uscito sbattendo la porta e rivolgendogli una vivace bestemmia perché… partire esaminando l’ipotesi più ovvia era sempre una buona strategia.
La risposta più probabile era quel barattolo pieno di orecchie nel frigorifero, anche se non c’era motivo di prenderla così male. Aveva giurato, per l’esattezza, di non riempire gli scomparti di schifosi pezzi di cadavere che avrebbero contaminato i loro alimenti, e non aveva mentito.
Il contenitore aveva il tappo gommato per il sottovuoto, e l’esterno era perfettamente disinfettato. Inoltre, in molte culture aborigene le orecchie venivano disseccate per farne collane e a lui serviva studiare in quanti giorni non fosse più possibile trovare i fori per i comuni orecchini piuttosto che quelli più larghi da piercing.
La scienza richiedeva sacrifici personali, e non c’era posto per un secondo frigo, in cucina. Ma pur facendo parte dell’apprezzabile categoria dei medici, questo il suo fidanzato non riusciva a comprenderlo.
Sherlock riempì per tre quarti il bricchetto del latte, valutando se versarne già una nuvola sul fondo della tazza; era la tipica usanza inglese della middle class, e John avrebbe apprezzato; ma lui era troppo sofisticato, e non avendo scelto una porcellana antica, ma il vetro, non c’era bisogno di evitare che si crepasse col calore.
Quel servizio da tè pratico e informale era rimasto nello scatolone per un anno, prima di ricordarsi di averlo; era un regalo di Natale di Molly per loro due, e come al solito era stata molto carina, malgrado la situazione non potesse che farla soffrire.
Questo faceva, a chiunque lo avvicinava?
Seduceva, intrigava e poi deludeva e voltava le spalle? L’aveva fatto anche a lui?
Era spesso assente, con lo spirito se non anche come presenza: voleva riflettere in un silenzio degno di un monastero induista per poi suonare il violino alle tre di notte, perché gli andava così, lo ispirava.
Quanta pazienza serviva a restargli vicino, invece di gettargli l’amato Stradivari dalla finestra?
A non pensare di cercare un’altra relazione più normale, soddisfacente, gestibile?
L’investigatore dosò con mano sicura i tre cucchiaini di tè ― né pieni né rasi ―, due per loro, uno per la teiera.
Stare con lui era come un giro sulle montagne russe; un giorno si litigava, l’altro si faceva pace, un terzo John si accorgeva di parlare con la poltrona vuota perché Sherlock era sgattaiolato via dopo un sms di Lestrade, o che il suo computer era stato manomesso cancellando i file considerati inutili da quella bella testa stravagante del suo ragazzo.
Quello che sapeva fare meglio erano i gesti riparatori, come quello che stava approntando in quel momento, più che cambiare comportamento prima di fare danni.
Per quanto sarebbe bastato?
Se questa volta invece di fare il giro dell’isolato, bere un vero cappuccino e comprare il giornale per leggere solo le prime tre pagine, quelle di cronaca, prima di gettarlo, si fosse allontanato molto di più?
Non era una cosa correttissima, ma naturalmente una volta aveva dovuto seguirlo, oppure la gelosia l’avrebbe tormentato troppo.
Poteva tornare di notte, domani, mandare qualcuno a prendere il suo bagaglio… no, sarebbe comunque passato di persona.
Con movimenti lenti ed eleganti, Sherlock posizionò i colini in metallo sulle tazze ― metodo migliore di usare quelli di retina dove le foglioline restano tutte appallottolate ― controllando quanto mancava ai cinque minuti di infusione.
Quello era il segreto di una bevanda davvero riuscita: trovare l’equilibrio tra un calore sufficiente a sprigionare tutto il profumo e le qualità del tè, e il suo bisogno di respirare, di non essere bruciato o lasciato a soffocare troppo tempo in acqua.
Un po’ come faceva John con lui; gli conduceva luce, gli scaldava il cuore, ma non lo stringeva troppo.
Lo ripagava? Riusciva a dare in cambio la parte più bella di sé, quella nascosta da un’apparente ruvida secchezza?
Il dottore poteva anche essere offeso perché la sera precedente Sherlock si era rifiutato di cenare con un ottimo pollo alle mandorle che gli aveva portato dal miglior ristorante cinese di Marylebone, per non avere afflusso di sangue allo stomaco piuttosto che al cervello; doveva pensare a come due omicidi identici si fossero verificati nello stesso istante, con vittime assolutamente non connesse tra loro.
Questa diatriba sul cibo era estenuante per ambedue, lo sapeva.
Sherlock ricordò con un sorriso il giorno in cui, dopo l’ennesima lite sull’argomento, John gli aveva tirato dietro due piatti e rovesciato a terra quello che era sul tavolo, per poi sollevarlo di peso ― quindi era meglio restare magri, no? ― per sbatterlo a sedere sul mobile.
Gli aveva praticamente strappato i vestiti di dosso, minacciandolo di farlo pentire, invece l’aveva preso con ancora più dolcezza del solito; mai John gli avrebbe fatto male così, ma sentirlo gridare con rabbia era stato terribilmente eccitante, forse la volta più bella di tutte.
Alla fine non aveva potuto che compiacerlo, sedendosi e mangiando quello che era sopravvissuto a quel terremoto come un bambino ubbidiente, a parte essere abbigliato della tovaglia preferita della signora Hudson.
Il biondo aveva riso, e si era anche lasciato imboccare un tramezzino, per sgridarlo ancora con gli occhi mentre lo baciava.
Con delle pinzette d’argento Sherlock posizionò una decina di zollette in una ciotola; tutti e due gradivano lo zucchero, anche se John aveva preso a mettere due zollette poco dopo essersi trasferito in Baker Street. Forse si era inconsciamente allineato ai suoi gusti, forse gli serviva per mandare giù qualche boccone amaro. Poteva anche esserci un buon motivo, però.
Quei quadretti bianchi, duri, cristallini che si lasciavano sciogliere subito gli somigliavano. Algidi nel loro aspetto, pronti a fondersi per il piacere di John.
Mancava poco, secondo i suoi calcoli ― ti prego, non farmi sbagliare su questo ― poteva preparare le tazze.
Erano così semplici da averle snobbate tutto quel tempo, eppure offrivano un gran vantaggio.
Erano trasparenti, oneste sul loro contenuto, maneggevoli, e non rischiavano facilmente di andare in cocci; l’oro aranciato del tè le impreziosiva, e non ne era alterato. Una volta piene erano molto più belle di quanto si sarebbe detto a una valutazione superficiale.
I cucchiaini furono posati sui piattini, la teiera sulla sua tovaglietta circolare.
L’avrebbe lavata senza detersivo, anche se sapeva benissimo che il vetro non conserva memoria dell’aroma del tè; era l’idea a contare, non voler cancellare l’esperienza.
Adesso John era un po’ in ritardo sul previsto… ecco, ora ricordava qual era la cosa grave; la cocaina che aveva accidentalmente trovato dietro un libro.
A poco era valsa la sua richiesta di usare la logica: se avesse voluto nasconderla, l’avrebbe mai messa in un posto così stupido? Ovviamente era una bustina di riserva che non aveva più avuto bisogno di consumare, e per quanto John non lo avesse accusato di mentire, scoprirla l’aveva innervosito, amareggiato e demotivato. Era chiaro che si fosse domandato se fosse all’altezza di essere la vera soluzione, la più giusta per il detective.
‘Fammi rimediare, John’.
Il rumore del portone chiuso di fretta non era mai stato così bello, pensò Sherlock, contando i diciassette passi che salivano i gradini.
Si fissarono per qualche secondo, il dottore fermo sulla porta della cucina, il bruno seduto, le mani composte.
Piano, spinse in avanti una tazza verso John.
“Ho preparato il tuo tè preferito”.
“Va bene”.
“Ti va?”
“Voglio dire che ti scuso, che va bene che tu sia tu”.
Sherlock non rispose nulla, prendendo una mano di John nella sua, curvandosi a baciarla con devozione, gli occhi chiusi perché non si rivelassero troppo liquidi.
John non era mancino, e reggere la tazza con la sinistra era un po’ scomodo, ma non importava.
Non avrebbe sottratto le dita dall’intreccio di quelle di Sherlock: mai, e per nessun motivo.







  
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