Atlante
Faceva caldo, un caldo soffocante.
“Armin, esco a stendere il bucato”.
Alzò la testa e con un sorriso annuì alla madre, vedendola sparire oltre la
porta di servizio, l’ingombro del cesto dei panni tra le mani. Una volta rimasto solo
si lasciò sfuggire un respiro profondo, godendosi la tranquillità della casa
vuota.
Era una calda giornata primaverile, il sole filtrava dalle tende
accostate alle finestre e rifletteva giochi di luce sul legno del tavolo da
pranzo. Bevve dal bicchiere accanto e, ultimato il suo pasto, si apprestò a
rassettare la sala. Non che ci fosse molto da fare: non potevano permettersi
grandi quantità di cibo e, di conseguenza, le stoviglie da lavare erano poche e
quasi sempre linde. Ogni briciola era un dono dal cielo per la sua famiglia e a
fine banchetto i piatti risultavano talmente bianchi da non sembrare appena
utilizzati. Sistemò gli utensili nei ripiani appositi e spiò la madre nel
cortile: a giudicare dalla quantità di lenzuola aggrovigliate nella cesta, ce
ne avrebbe messo di tempo.
Con un sorriso soddisfatto, corse alla volta del piano superiore cercando di
non attirare l’attenzione del genitore all’esterno, il rumore concitato dei
passi attutito dal vecchio tappeto. Attraversò il corridoio difilato e, individuata
la porta, saltò gli ultimi scalini rimasti a due a due, fermandosi con
sacralità al principio dell’angusta stanza. Gli piaceva immergersi nella vecchia
soffitta di casa.
L’ambiente era piccolo e scuro, granelli di polvere si sollevavano e volavano
al minimo movimento, creando un’atmosfera magica in cui il tempo sembrava
scorrere con un ritmo proprio, dilatandosi e allungandosi a suo piacimento. Non
era particolarmente ingombra, anzi: di generazione in generazione, i componenti
della famiglia si erano passati mobili, attrezzi ed ogni altro oggetto utile
alla vita quotidiana con cura e rispetto, riciclando ciò che era riutilizzabile
e recuperando ciò che veniva rotto o risultava troppo antiquato. Erano poveri,
i mezzi a disposizione erano pochi ma, in fin dei conti, non gli era mai
mancato nulla. In casa, perlomeno.
Un paio di bauli e alcune cassette di legno erano ordinatamente impilati nella
parete di fondo, un vecchio armadio, uno scrittoio e diverse sedie bisognose di
un restauro erano state poste alla sua destra, occupando gran parte della
superficie.
Si avvicinò alla scrivania su cui passava ore a leggere,
indisturbato e protetto in un mondo tutto suo, illuminato dalla debole luce
solare che si infilava dalla piccola e unica finestra tonda come un oblò. L’aria
era pesante, il caldo avvolgente si depositava e concentrava all’interno della stanza
tanto da togliere il respiro e costringerlo a spalancare l’apertura in modo da
far circolare un po’ di ossigeno. Era da quella piccola fessura circolare che
spiava la strada e la vita scorrere all’esterno, quando l’oppressione si faceva
più avvolgente e i sentimenti traboccavano dalle palpebre. Ogni tanto, dall’alto
della sua postazione, immaginava d’essere il capitano di una nave, impervio e
coraggioso, che sfidava tempeste e cavalloni anomali in nome della scienza,
portando alto il vessillo della scoperta e sfidando il blu oscuro e sconfinato
dell’oceano.
Tirò un cassetto del vecchio mobile
facendo forza con la mano, il quale scricchiolando e raschiando contro il legno
consumato dalle termiti si aprì con non poca difficoltà, mostrando il proprio
contenuto avvolto in un panno e custodito con cura agli occhi emozionati del
giovane ragazzo. Lo prese e se lo pose in grembo, carezzando con le dita la
vecchia e ruvida copertina di pelle.
Lo aveva trovato per sbaglio, sbirciando tra i vecchi bauli e ben nascosto tra le
cianfrusaglie lasciate dagli avi. Aveva capito subito che si trattava di un
oggetto proibito, probabilmente unico al mondo. Soggiogato dalla curiosità,
aveva immediatamente spiato al suo interno, tuffandosi nei colori, nel profumo
e nella sensazione tattile che solo un libro antico e portatore di segreti
sapeva regalare. Le pagine ingiallite dal tempo erano decorate con splendide
immagini di luoghi mai visitati, cartine geografiche di paesi inesplorati e
creature animalesche dagli aspetti bizzarri, contornati da esaustive
descrizioni in una scrittura lontana e aulica. Narrava di distese di sabbia
lunghe chilometri, in cui le condizioni della vita erano impervie se non
impossibili; continenti circondati dal ghiaccio, immense calotte bianche galleggianti,
case di orsi bianchi – bianchi! Non bruni come i più comuni – e strani volatili
che si muovevano su due zampe; di estese pozze d’acqua salata, dimora di pesci
grandi come abitazioni, profonde tanto da poter sommergere montagne e con onde
più scure del cielo buio della notte. L’oceano.
Quel giorno si strinse forte al petto il vecchio tomo, tesoro prezioso e gemma
lucente di un terreno arido, decidendo di non farne parola con nessuno in casa.
Ed ora, seduto alla scrivania, il caldo rarefatto del sottotetto ad inumidirgli
la nuca bionda, si tuffò nuovamente nella privata contemplazione del libro
seguendo con le falangi le pieghe del rivestimento marrone scuro e screpolato, piccoli
granelli di pelle che si depositavano al contatto; inciso sulla facciata
principale, sotto la grande scritta de L’Atlante Geografico, l’immagine in rilievo di un essere gigantesco, umanoide, intento a sorreggere sulle possenti spalle una grande
palla di terra e acqua, il mondo. Un
mondo completamente diverso da quello che conosceva, da quello narrato dai libri di scuola. Un mondo
tondo, come lo era anche il suo, ma
non circondato da lunghe mura bensì da catene montuose con valichi percorribili
e cime da scalare. Un mondo composto prevalentemente dall’azzurro dell’acqua e
non da quello del cielo, costretto a rimirare come un quadro, la costante
cornice bianca a rammentargli i propri confini.
Una piega gli solcò la fronte nello seguire il bordo di quell’essere forte e teso,
un immagine che fin dalla prima occhiata lo aveva affascinato e intimorito. A
guardarlo bene, le sembianze potevano parere quelle di una persona, però…
Il cuore gli rimbalzò nel petto e deglutì un malloppo d’aria. Un brivido gelido
corse lungo la colonna vertebrale, restituendogli una sensazione di sgradevole
disagio che si espandeva dalla punta dei piedi fino al capo.
Non ne aveva mai visto uno in vita sua e sperava vivamente non dovesse mai
accadere, eppure… gli sembrava decisamente un titano quello costretto a sorreggere il peso del mondo, a reggere eternamente
sulle spalle la Volta Celeste.
Scosse la testa e si strinse il libro tra le braccia, lo sguardo alla finestra,
oltre il vetro appannato e lontano sulla sagoma della candida cinta. Si passò
una mano alla fronte imperlata di sudore, il caldo gli stava decisamente dando
alla testa. Vide l’amico di sempre ciondolare lungo la strada, seguito dall’ombra
onnipresente della ragazzina sua compagna di avventure e di vita. Svoltarono l’angolo
e sparirono dalla sua silenziosa ispezione, probabilmente diretti al fiume.
Depose il tesoro nel suo scrigno e saltò con i piedi a terra, deciso a
raggiungerli.
Erano gli unici con i quali poteva condividere i suoi pensieri.
L’aria rarefatta della sera era carica di aspettative.
Il colore vermiglio del cielo rappresentava alla perfezione l’atmosfera tesa ed
elettrica che li circondava, sembrava promettere lingue di fuoco e pioggia di
braci ardenti. Armin si riscosse e fu come svegliarsi da un sogno, dovette
sbattere le palpebre ripetutamente per recuperare appieno le proprie facoltà
mentali. Il ricordo era giunto prepotente e inaspettato, lo aveva percepito
vivido e vicino, come un’esperienza
appena vissuta e non lontana negli anni. Si sentiva indolenzito e stanco fino
al midollo, avrebbe dato qualsiasi cosa per immergervisi nuovamente e
ritrovarsi a casa, nella soffitta, il vociare ovattato delle persone sulla
strada, la madre a stendere in cortile. Il libro.
Guardò avanti a sé, le urla delle persone nelle orecchie e i passi vibranti dei
giganti che si dirigevano verso le mura. Tra le case diroccate, i rivoli di
fumo e le scie dei sistemi di manovra tridimensionale, lo vide sollevare il
pesante masso e caricarselo sulle spalle con un urlo cavernoso, gutturale e
profondo tanto da risuonargli nella cassa toracica e fargli fremere le
ginocchia.
Il caldo soffocante gli appiattiva i capelli sul viso e sulla nuca, avrebbe
voluto affacciarsi al suo piccolo oblò e refrigerarsi al dolce spirare del
vento, spiare gli amici fidati come fece quel giorno, ma non vi erano finestre
nelle mura su cui era appeso.
Vide Eren, lontano, muovere un primo passo incerto, la testa titanica piegata
contro la dura scorza della roccia. Nuovamente padrone di sé, proseguì
lentamente verso la breccia nel muro, le immense braccia tremanti.
Deglutì vistosamente Armin, le sopracciglia contratte e gli occhi carichi di
muta determinazione. Il loro piccolo mondo era stato nuovamente violato, i limiti
sormontati e il flebile equilibrio spazzato con l’imposizione di una mano. Come
un fiume alla deriva, l’esterno si era riversato senza sosta nelle fragili
sponde della loro esistenza, riorganizzando i confini e fondendo la loro
isolata civiltà in una terra unica.
Non mosse lo sguardo, lo tenne fisso sul lento proseguire del titano con alle
spalle il peso del mondo, farsi strada tra i detriti, le vite spezzate e i
sogni infranti, lento ma inesorabile contro il male, la speranza dell’umanità stretta tra le braccia.
Il ricordo dell’Atlante leggero nella
mente, la vista dell’oceano sempre più vicina.
*Nella mitologia greca, Atlante è
il nome del titano costretto a sorreggere il peso della volta celeste per l’eternità.
Grazie per l’attenzione dedicatami,
auguro a tutti un buon weekend. ^^
Un bacio
hibou.