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Autore: Meneldil    21/06/2017    0 recensioni
Schizzi. Rapide, istintive annotazioni delle idee e delle emozioni di ogni artista che si rispetti: vivo, morto o parzialmente deceduto. Kieren non fa eccezione, perché quando ha una matita, una penna, un carboncino tra le mani, la sua mente vaga e finalmente può esprimersi senza timori, si sente un po' più libera, più felice, quasi viva.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Amy Dyer, Kieren Walker, Simon Monroe
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Fame, silenzio, grida, ingordigia.

Scaffali, fremiti, lamenti, un corpo.

Lei, compagna di caccia dal giorno della resurrezione, lo sguardo privo di volontà, i gesti inconsapevoli, incoscienti, bestiali.

Morte, il cranio che impatta contro il metallo di una mensola. Voracità, bisogno, smania.

Quel corpo, probabilmente noto, ormai cadavere inerte, preda.

La tenebra svanisce, lo scenario si dissolve, il ricordo si allontana, nuovamente nascosto in agguato. Le immagini, spoglie di sentimenti nel momento in cui avvenivano, lasciano dietro di loro una scia di orrore, rimorso per quei gesti istintivi e contro natura, dettati dalla necessità e messi in atto senza alcuna coscienza.

Le allucinazioni mi hanno colto alla sprovvista, lo hanno sempre fatto, arrivavano quando mi sentivo debole, indifeso, smarrito, solo. Soprattutto quando ero solo. Ma erano mesi ormai che non tornavano più, sembrava che avessi raggiunto un certo equilibrio, credevo di aver ottenuto qualcosa, mi ero illuso che tutti questi sacrifici avessero dato un risultato. E allora come mai sono bastate una paio di battute di Gary e l'accenno di una rissa a ridurmi così? Disperato groviglio di tremiti raggomitolato sul ciglio di una strada, combattuto tra l'istinto di correre via e la paura di muovere un muscolo, come quando da bambini sotto le coperte ci si tormenta nell'indecisione, che sia meglio uscire allo scoperto, per controllare cosa abbia provocato un rumore sinistro, o forse rimanere rintanato e immobile fingendo di dormire.

Il freddo del vento muove le foglie degli alberi, ma non sfiora la mia pelle, così come qualche rara goccia di pioggia che mi cade addosso non sembra bagnare, non percepisco niente, neppure i miei stessi brividi o i singhiozzi, solo il livido colore della notte senza luna, il chiarore artificiale di un lampione e i riflessi malsani dei neon delle insegne. Un'imposta cigola dal primo pano di una casa, lascia filtrare dall'interno dell'edificio una luce pallida che illumina un viso anziano, invecchiato nella rigidità di quelle mura tanto da averne assunto i tratti ruvidi, marcati. I ritratti dei vecchi sono sempre una sorgente inesauribile di espressività, ogni ruga ne risalta un'emozione o un sentimento, dietro ogni tratto si nasconde un ricordo o un'esperienza. Da questo volto sgorgano a fiotti soltanto sospetto, diffidenza, ostilità. Caricatura degli sguardi che mi sento sempre addosso. Calco perfetto dei pensieri della gente verso di noi. Mostri.

Il desiderio ardente di sfuggire a quello scrutare gelido ha il sopravvento, corro, i passi incerti mi guidano verso casa, come se lì potessi essere al sicuro, voci inquiete mi perseguitano per tutta la strada, incubi ribaltati dove il mostro orrendo, spaventoso, cadaverico, con gli occhi infossati ed il viso digrignato, si fa vittima dell'eroe di guerra, con lo sguardo fiero, la medaglia al valore appuntata sul petto e la fascia dell'HVF stretta al braccio. Annego nell'oscurità del mio pensiero, soffocato dall'eco di risate di scherno, inciampo nel relitto di un insulto, sputato a mezza voce tempo fa, ore, mesi, giorni forse?

Poi finalmente a casa, salgo in camera, ma la smania febbrile che mi implora di fuggire non si calma. Cerco il passaporto, unica ancora di salvezza, sola via di fuga, accarezzo la pagina lucida si cui risalta la fototessera, scattata quando ancora non dovevo nascondermi sotto chili di fondotinta. Trovo la valigia, inizio a riempirla di vestiti, apro l'armadio, afferro cose a caso preso dalla fretta, improvvisamente mi ritrovo fra le mani la busta di plastica di Norfolk, con dentro i vestiti che avevo addosso il giorno del mio funerale, tentenno incerto, non sono sicuro di volerli abbandonare qui, in un armadio, a prendere polvere, ma ho deciso di volermi lasciare tutto questo alle spalle, quindo no, non ho alcuna intenzione di portarli con me a Parigi.

Chiudo la valigia con ancora il fiatone, ridicolo, non ho alcun bisogno di tutto questo ossigeno. Mi guardo intorno come se dovessi vedere questa stanza per l'ultima volta, mi mancherà, i ritratti e i dipinti attaccati da tutte le parti, le scatole da scarpe nascoste sotto il letto, dove ho conservato tutta la mia vita, quei pochi disegni segreti rinchiusi nel primo cassetto della scrivania, quelli che non mostravo mai a nessuno, dove in ogni tratto lasciavo un pezzetto della mia anima. E intanto immerso nei ricordi vado sfiorando le tele, i pennelli, le tavolozze e i fogli, passando un dito su un'ombreggiatura troppo marcata, appuntando un lapis, cercando di fare ordine sulla scrivania fino ad arrivare proprio a quel cassetto. Sfioro la chiave con la punta delle dita, la mano trema, serro il pugno, quasi aggrappandomi a quel piccolo oggetto infilato nella serratura, apro.

I ritratti appesi alle pareti di casa sono sotto gli occhi di tutti ogni giorno; è vero, ogni tanto mi scopro a fissarli a lungo, perso in una sfumatura che ancora non avevo colto, ma per lo più ho fatto l'abitudine alla loro presenza, sono una compagnia che do per scontata. I disegni in questo cassetto invece li tiro fuori di rado, ma quando li riguardo conservano sempre lo stesso sapore che avevano nel momento in cui, per la prima volta, ho staccato la punta della matita dal foglio ed ho visto il risultato. Mantengono intatta l'emozione che mi ha spinto in primo luogo a disegnarli. Molti non avrebbero motivo di essere conservati se non per il valore affettivo, alcuni sono dei veri e propri grovigli di linee, indecifrabili per chiunque fuorché me, uno è perfino talmente vecchio da non poter quasi essere chiamato disegno, è più che altro una pagina di quaderno stropicciata, fortunata e solitaria superstite di un'età lontana e innocente detta infanzia. Dal margine strappato si vedono ancora affiorare le tracce di esercizi di spelling, scritti a penna con l'irregolare grafia della scuola primaria. Odiavo quel quaderno, sempre tempestato da croci blu, segni rossi e altre correzioni frenetiche di un isterico insegnante bigotto. L'unico motivo per cui questo frammento è sopravvissuto è racchiuso nei tratti, ormai quasi indistinguibili, tracciati sul retro del foglio. Contorni imprecisi di un viso che incomprensibilmente mi ispirava fiducia, al di là dell'atteggiamento da capo banda, che manteneva con la schiera di ragazzini che lo seguivano. Rick, volto di cui, col tempo, ho imparato a conoscere le insicurezze e i sentimenti. Volto che popola la maggioranza dei fogli del piccolo tesoro rinchiuso in questo cassetto. Dai ritratti rubati ad un attimo di debolezza ai disegni che immortalano momenti di allegria o squarci di quotidianità. Fogli che scorrono tra le mie mani, lasciando scivolare fuori dai margini e dai bordi delle pagine gocce di emozioni, che scivolano a valle e si accumulano, formando un nodo alla gola e un lago al centro del petto. E stringendo tra le mani questo mucchio inanimato di carta e inchiostro e grafite, che pure è capace di racchiude infiniti istanti di una vita, per quanto passata, conclusa, finita, lascio infine che il fiume di ricordi esondi, e impetuoso travolga tutto nell'irrazionalità della sua piena.

Fa male sentire di avere il bisogno di piangere ma non avere più lacrime da versare, è come essere sull'orlo di una rupe ma non avere la forza di lasciarsi andare, e vivere temendo il tuo stesso irrealizzabile desiderio di cadere.

Perché non posso cadere?

Perché mi è stata negata l'unica naturale certezza della vita?

Perché mi è stata negata la morte?

Perché la desidero ancora?

Mi sento vuoto dentro, sento vuote le mie azioni, vuote le azioni altrui, vuoto lo scopo da raggiungere.

Ma poi dal mucchio di fogli ne compare uno inaspettato, recente. Lo schizzo che poche ore prima avevo abbandonato, lasciandolo cadere in un cassetto qualunque era finito proprio lì, nel luogo a cui sembrava voler appartenere, fra i ricordi più intensi, tra le pietre miliari della mia breve storia. Ciao, Simon. Chi sei veramente? Perché hai il volto di una persona vera, che conosce la vita, il dolore, la morte, eppure parli con la voce di un profeta, che sa solo la risposta giusta per avere ragione e non dirti niente di vero?

In che cosa credi, Simon?

Che cosa ti spinge ad andare avanti nella tua missione?

C'è della luce dietro le ombre del tuo viso?

E così continuo ad interrogare il ritratto che ho fatto io stesso, cercando una risposta fra le righe, riempiendo pian piano di sfumature i vuoti bianchi del foglio, tentando di afferrare quell'idea che il disegno sembra aver colto e a me ancora sfugge. Cos'è quell'ombra che hai negli occhi, Simon? E come mai mi spinge a fare cose che non avrei mai fatto altrimenti? Non avrei mai affrontato Gary se tu ed Amy non foste stati lì in quel bar stasera, avrei continuato a subire passivamente le sue battute, i suoi insulti, i suoi cori dell'HVF. Cosa c'è in te che mi spinge a resistere? Non sono fatto per combattere, io non sono uno dei tuoi possibili seguaci, io mi sono già arreso molto tempo fa, e ancora nascondo i segni della mia resa sotto i polsi delle maniche di una vecchia felpa.

Io non sono qui per combattere un'altra vostra guerra, Simon, non di nuovo.

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Meneldil
   
 
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