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Autore: Luana89    24/06/2017    3 recensioni
«Misha, sai cosa dicevano i navajo mentre camminavano in questo preciso luogo?» Sophia ci guardò come se si aspettasse una risposta, io scrollai semplicemente le spalle dando l’ennesimo tiro alla mia sigaretta. La sua voce divenne improvvisamente bassa, era l’eco di ogni mio battito. «Con la bellezza dinanzi a me avanzo. Con la bellezza dietro di me avanzo. Con la bellezza sotto di me avanzo. Con la bellezza sopra di me avanzo – l’aria si fermò improvvisamente, quasi ascoltasse anche lei – Finisce nella bellezza. Finisce nella bellezza» Sophia chiuse gli occhi come se cercasse di assaporarne meglio le parole. Misha corrugò la fronte probabilmente riflettendo sul senso di quel discorso. «E perché me lo stai dicendo?». Il silenzio ci assordò per qualche attimo.
«Sostituisci la parola ‘’bellezza’’ con ciò che ami di più, e avrai la risposta al quesito» gettai a terra la sigaretta allontanandomi da loro, mentre il mio riflesso diveniva simile ad un miraggio.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
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ACT XXII

 
Cinque giorni esatti. Mi pareva che io ed Aleksandr non fossimo mai stati lontani tutto quel tempo, mi immaginai il suo viso invecchiato almeno di un anno. Mi immaginai tutte le cose che mi avrebbe detto e le parole che mi avrebbe tirato contro. Me l'immaginai mentre mi cercava ovunque, perché io sapevo che lui non avrebbe mai lasciato perdere.
"Desidero la morte, Shùra", quante volte l'avevo ripetuto e quante altre lui mi aveva fatto un occhio nero?
San Pietroburgo si era rivelata una città vivibile, avevo fatto tutto il necessario in quei giorni per far perdere le mie tracce e regalare una nuova identità ad Irina che avevo prelevato dall’aeroporto prima che lo facesse quel bastardo di Sergej. Finalmente potevo guardarla mentre mangiava, mentre rideva e mentre mi chiamava "fratellone", parola che mai avrei potuto sperare di sentire - ma a quanto pare Shùra aveva sempre avuto ragione: i miracoli esistono.
Irina ricominciò a sorridere alla vita e regalò a me il suo sorprendente entusiasmo ed il suo ottimismo. Eravamo maledettamente diversi, ma allo stesso tempo incredibilmente simili.
Spazzolavamo i denti prima dal basso verso l'alto e poi da sinistra verso destra. Masticavamo rumorosamente, prima di dormire ci massaggiavamo il lobo dell'orecchio ed avevamo gli stessi spaventosi occhi, lo stesso calore e le mani simili. Quel giorno mi domandò dove fossi diretto, mi trovava di buon umore. Le risposi che stavo andando a riprendermi la mia vita, per riplasmarla a mio piacimento.
Lo vedevo, Shùra era girato di spalle ma si guardava chiaramente attorno, l'arancione del cielo riflesso su quel lago dava all'atmosfera un qualcosa di surreale, mi avvicinai senza farmi sentire.
«Si dice che morire aspettando non è il giusto modo per riprendersi la propria vita». Sentendo la mia voce si voltò di scatto, mi guardò con sgomento, fui quasi certo di sentirlo deglutire e la sua carnagione riprese colore poco a poco.
Si avvicinò a me come una furia e mi prese il colletto del giubbotto di pelle stringendolo tra le dita.
«Idiota del cazzo, dove eri finito? Perché non mi hai chiamato? HO VISTO IL TUO FUNERALE CAZZO». Mi ero perso un gran bel funerale.
 «Possibile che la prima cosa che fai quando mi vedi è urlarmi contro? Non dico che mi aspettavo un bacio, ma almeno una misera venerazione». Risi, ma a quanto pare Shùra non era in vena quanto me di fare battute. Mi lanciò un’occhiata torva.
«Quando la smetterai di essere così idiota, Mikhail?». Sospirò sembrando stanco e si allontanò di qualche passo da me.
Stava accadendo sul serio, per la prima volta non eravamo sull'attenti, pronti a sparare a qualcuno che voleva farci fuori. Non temevamo per una chiamata di Sergej che ci avrebbe rovinato la giornata.
Mi immaginai Sophia seduta sulla barca un po' più in là rispetto a noi, sentivo la sua voce incitarci a salire su quella catapecchia del cazzo. Angolai le labbra in un sorriso spontaneo, divertito come poche volte. Mi immaginai che subito dopo tentasse di buttarmi in acqua perché aveva saputo che ancora una volta avevo fatto incazzare Nadja o le avevo detto qualcosa di troppo volgare.
Mi immaginai anche Nadja, sorridente, serena che mi prendeva la mano chiedendomi di conoscere Irina. Probabilmente avrebbero solo sparlato di me, ma in fin dei conti sarei stato contento di avere le mie donne in casa e al sicuro. Vive e che mi facevano vivere.
«Shùra se ti butti lì dentro e stai almeno un minuto ti darò diecimila dollari, parola di Misha». Spezzai così il silenzio,  sicuro che lui ricordasse quelle parole.
«La tua parola non vale un cazzo, ma voglio fidarmi. Accetto». Mi sorrise complice e ci guardammo.
 
Stavolta in quel lago ci tuffammo entrambi.
E adesso erano ventimila i dollari che gli dovevo. Merda.
 

Aleksandr POV

 
Rimasi ventiquattrore ad osservare la superficie del lago, aggrappandomi con forza alla fede e alla speranza. Misha non comparve e il mio cuore si perse tra le spire dell'acqua fredda come trafitto da miliardi di spilli, mozzandomi il respiro. A cosa serviva ottenere una nuova vita se non potevo godermela insieme a lui? A cosa serviva presentarsi nuovamente al cospetto di Sophia senza colui che valeva oro ai nostri occhi? Ero vivo, ma senza Misha l'operazione era un completo fallimento.
«Si dice che morire aspettando non è il giusto modo per riprendersi la propria vita». La voce di Mikhail rimbombò tra le pareti sorde del mio cuore. Allargai le narici trattenendo le lacrime, tirando su col naso prima di voltarmi a guardarlo mentre la vita tornava lenta a scorrere nelle vene riempiendomi di un calore familiare. Lo strattonai con forza, volevo fargliela pagare per avermi fatto perdere in poche ore dieci anni della mia – adesso forse preziosa –  vita.
‘’Hai idea di quanto io ti abbia aspettato? Bloccato su questo lago, senza la forza di andare avanti né tornare indietro?‶ non lo dissi, non ce n'era bisogno perché Misha più di tutti sapeva. Il silenzio prevalse, ci godemmo lo spettacolo assaporando il gusto della vita.
«Cosa farai adesso, Misha?». Lo vidi sorridere soddisfatto.
«Non ho alcun programma, mi godrò i miei soldi, Irina, te, Nadja e ..». Non fece il nome di Sophia, ma nonostante ciò rimbombò più forte di qualsiasi urlo. Lo vidi riprendere fiato e continuare ancora a parlare.
«Tornerai da lei? O meglio, pensi che lei ti aspetterà?» ci pensai su qualche secondo prima di schioccare la lingua contro il palato.
«Mi aspetterà. Mi aspetta da una vita» Silenzio. Il vento increspò l'acqua.
«Ho come l’impressione di essere qui per salutarti definitivamente». La sua voce si spense.
«Non definitivamente. E’ solo un arrivederci provvisorio, ci rivedremo». Lo fissai sorridendo. Dovevo ritrovare me stesso, e per farlo dovevo allontanarmi da coloro che più amavo. Lo avevo sempre saputo in fondo, ma passare dalle parole ai fatti era più doloroso di quanto mi aspettassi.
«Shùra se ti butti lì dentro e stai almeno un minuto ti darò diecimila dollari, parola di Misha»  non piansi sentendo nuovamente quelle parole a distanza di anni, mi feci semplicemente forza sorridendo.
«La tua parola non vale un cazzo, ma voglio fidarmi. Accetto». Scoppiammo a ridere entrambi guardandoci per un lungo istante, fu Misha a riprendere ancora una volta il discorso.
«Quindi adesso temi che la tua anima possa congelarsi?» sorrisi sghembo scrollando le spalle.
«Sono ancora alla ricerca della mia anima, la troverò al quinto soviet probabilmente, mi aspetta rinchiusa in quello specchio da vent’anni ormai. Ah, prima che dimentichi ..sei carino quando sorridi, fallo più spesso». Mi spinse contrariato e imbarazzato.
«Shùra, cosa mi porterai dal tuo viaggio? Mi aspetto almeno un cazzo di regalo». Mi fissò seriamente.
«Non saprei, cosa vorresti?». Scrollai le spalle, nei nostri conti vi erano adesso trenta milioni di dollari, non c’era nulla che non potessi donargli.
«Portami l’orizzonte». Chinai il capo annuendo appena, guardando quello di fronte a noi.
 
‘L’anima trema nell’enigma eterno; fratello, soffro la tua stessa pena: attendo un’alba e non so dirti quale’.
Adesso si. Adesso lo so.
 
 

Nadja POV

 
Fissavo le bare contenenti i corpi di Mikhail e Aleksandr con la stessa freddezza della neve che cadeva attorno a me. Così tutti pensavano, così tutti credevano, anche io mi ero convinta che lì dentro fossero presenti quei due o non sarei stata abbastanza convincente.
Non avevo dormito per giorni, il piano girava tutto attorno me, la morte simulata, il cambio dei corpi con altri due simili ed infine le cure tempestive agli ex sicari.
Tutto sembrava andare come pianificato, ma la vita è sempre pronta a coglierti alla sprovvista e io questo lo sapevo benissimo.
Sergej soffriva, a modo suo, e tutti i presenti erano a conoscenza dell'enorme lutto che aveva colpito la Bratva , colpita al cuore, nel suo orgoglio e nella sua forza. Colui che avevo sempre ammirato quasi come un padre e che mi aveva salvata all'età di dieci anni, mi poggiò una mano sulla spalla obbligandomi a spostare l’attenzione dalle bare ormai calate nel terreno a lui: sì, Sergej stava soffrendo.
«Sii forte. So che tu e Mikhail...»
«Mikhail era solo un passatempo per me, Sergej. Non ci sono mai stati sentimenti a legarci» Sergej sorrise e capì perfettamente a quale tipo di rapporto stavo alludendo accettandolo meglio del previsto.
Feci un sospiro leggero, tornando a fissare quelle bare che sentivo essere vuote nonostante fingessi di vederle piene. Non mi avvicinai a loro e non gettai nessun fiore su di esse, aspettai semplicemente la fine del funerale per poi allontanarmi assieme a tutti i presenti, lasciando Sergej nella sua autocommiserazione.
Mi sentii una traditrice per pochi secondi.
Avevo appena tradito colui che mi aveva salvato da un triste destino, mi aveva cresciuta, sfamata, mi aveva dato una casa e una prospettiva di vita ben migliore rispetto a quello che le sarebbe accaduto se fossi rimasta sola. Eppure lo tradii, per amore di qualcun'altro.
Sollevai gli occhi al cielo, i fiocchi di neve si poggiarono sul mio viso e si trasformarono in acqua immediatamente, rigandomi le guance come se fossero le lacrime che non avevo versato.
Era arrivato anche per me il momento di morire.
Speranza, il mio cuore ne era pieno.
Chiusi gli occhi ed un piccolo sorriso si disegnò sul mio volto stanco ed affaticato, sarei morta ed avrei atteso il giorno in cui avrei ricominciato a vivere. Con lui.
 
***
 
«Non so se avremo un futuro, non so se quello che abbiamo avuto è abbastanza da poter essere definito passato, ma abbiamo il presente e certe volte vorrei poterlo fermare. Questo orologio è per te. Così tra un mese esatto, quando ci rincontreremo, sarai puntuale. Non arrivare in ritardo Mikhail, o non te lo perdonerò. »
«Non farò tardi, in quel caso ti concederò il diritto di mettere il muso e non mi lamenterò. »
 
*** 
 
I fogli con la sentenza finale erano lì, sparsi su quel tavolo che Sergej continuava a fissare. Non sembrava capirci molto, il silenzio in quella stanza si fece pesante, sembrava volermi perforare i timpani per quanto assordante fosse.
«Un mese». Ripetè lui, e io annuì.
Un mese esatto di vita, nulla di più e nulla di meno.
La ‘’malattia’’ che sembrava avermi colpita ora mi stava lentamente ed inesorabilmente portandomi alla morte, peggiorando di giorno in giorno, respiro dopo respiro. Ogni battito del mio cuore non era altro che una gentile concessione di qualcuno più in alto di loro e io volevo tenere quel poco tempo solamente per me. Fu questo ciò che dissi.
«Un mese e tutto finirà. Ti ho sempre servito con devozione, ti sarò per sempre grata per tutto quello che hai fatto per me. Ma ora ti chiedo di poter essere libera da ogni incarico, da ogni responsabilità. Uscirò da quella porta e Nadja smetterà di esistere». Parlai chiaramente, ripetendo quella sua richiesta che sembrava essere un ultimo desiderio detto ad alta voce.
Sergej si alzò dalla propria scrivania, camminò lentamente attorno ad essa e mi raggiunse dalla parte opposta, poggiandomi poi le mani sulle spalle.
Erano così pesanti, sembravano dei macigni di colpe che puzzavano di sangue e carne marcia.
Mi sorrise, un sorriso che avevo sperato mi rivolgesse per gran parte della mia vita ma che ora non aveva più lo stesso significato. L'indifferenza fu l'unica cosa che ottenne da me.
«Sei stata brava in tutti questi anni. Mi sei stata fedele e mi hai deluso poche volte. Hai imparato dai tuoi errori, hai salvato i miei uomini e ti sei rivelata essere più importante di quanto tu creda, Naden'ka». “Importante”, per non dire “utile”. Feci appena un accenno di sorriso, senza esagerare, sembrando così davvero naturale.
«Mi piange il cuore nell'apprendere una notizia del genere. Cara Naden'ka, in memoria di tuo padre accetto la tua richiesta». Mi sorrise di nuovo e la voglia di uccidere quell'uomo solo per aver nominato mio padre si fece largo in me in maniera prepotente e fin troppo seria. Per un attimo il viso di Mikhail scomparve completamente dai miei pensieri, divenne un ricordo lontano ed offuscato dalla rabbia che sentivo crescere di secondo in secondo, mentre ci guardavamo negli occhi con calma apparente.
«Vai, vivi quello che ti rimane da vivere e non ti preoccupare per i soldi, ne avrai più che a sufficienza per vivere come una principessa in questo periodo». Il suo tono dava l'impressione di voler essere schifosamente umano e dolce, come se davvero tenesse a me anche solo per quel momento. Forse era così, dopotutto mi aveva fatta crescere a pochi metri dalla sua stessa casa e per me fu davvero il colmo sentirmi chiamare “principessa” da quell'uomo. Avevo sempre desiderato quel momento, eppure ora che lo potevo assaporare aveva il gusto insipido di una sconfitta.  Non sarei mai stata una principessa e questo non mi importava più.
«Ti ringrazio, Sergej. Addio». Dissi semplicemente quelle parole poco prima che le sue mani grandi che teneva ancora premute sulle spalle non si spostassero sul mio viso che baciò due volte, sulle guance.
Un gesto del tutto prevedibile dal capo della Bravta.
«Addio, Naden'ka. Sii felice». Furono le nostre ultime parole, prima che interrompessi ogni contatto con quell'uomo e mi voltassi verso quella grande porta che era diventata il simbolo della mia libertà.
Una volta fuori respirai a pieni polmoni l'aria invernale di quella fredda Mosca, la città nella quale ero cresciuta e che ora stavo abbandonando.
Un mese di vita e poi sarei morta.
Per me era l'esatto opposto: dopo quel mese, avrei potuto sentire di nuovo le braccia di Mikhail stringermi nuovamente.
Una perfetta bugia detta all'uomo più pericoloso al mondo, allo scadere di quei trenta giorni nessuna malattia si sarebbe presa la mia vita in realtà, ma nel mondo di Sergej andava così, e solamente a quel punto sarei stata libera da ogni cosa.
Sollevai nuovamente gli occhi al cielo, sentii un senso di pace e serenità mentre mi allontanavo dal palazzo in cui avevo trascorso tutta la mia infanzia e adolescenza, senza voltarmi nemmeno una volta. Pensai a mio padre, mi rivolsi a lui mentre quell'enorme casa si faceva sempre più piccola dietro di me così come la vita che avevo sempre vissuto a metà.

 
 

Mikhail POV

 
Non avevo dimenticato lei e forse non ne sarei mai stato capace, solo in quel mese me n’ero reso conto davvero. Indossavo l'orologio che mi aveva regalato nella speranza che fossi puntuale e per la prima volta in vita mia lo ero, accidenti.
"...Ci vedremo dove ci siamo visti la prima volta, quella vera intendo... quando eravamo piccoli", me lo disse quel giorno che passammo a scambiarci qualche promessa ancora aggrovigliati tra le coperte, prima del saluto. Eppure passarono i primi cinque minuti, poi dieci e quegli stessi dieci diventarono venti. Nadja non c'era, non era arrivata. Mi guardai attorno, era una strada comune quella, parecchia gente di passaggio e io abbastanza camuffato per non farmi riconoscere da nessuno. Il palazzo di Sergej non era troppo lontano e io ero sicuro che fosse stato lì il nostro primo incontro. Proprio in quel momento una bambina mi passò di fronte, le cadde il gelato di mano e cominciò a piangere mentre suo fratello sbuffava e la scuoteva per farla stare zitta. Un lampo mi illuminò gli occhi, era passata ormai più di mezz'ora ma io ero nel posto sbagliato, nella parte completamente opposta a quella giusta.
Cominciai a correre, lasciai che il berretto che avevo in testa cadesse togliendomi la sciarpa quasi a forza, come se non mi permettesse di respirare. Il ricordo di noi da bambini mi riaffiorò alla mente: come al solito io e Shùra eravamo scappati da quel palazzo opprimente per fare una passeggiata, era un giorno di pioggia come quello e lungo il sentiero del parco che mi piaceva tanto scorgemmo una bambina in lacrime ai piedi dell'albero che mi sembrava essere immenso. Domandai a Shùra cos'avesse quella bambina, ma ovviamente lui non mi seppe rispondere. Ripensando a quell’episodio iniziai a ridere col fiatone mentre correvo da lei, quindici anni dopo.
Ricordai di esserle andato vicino e di averle donato la margherita più schifosa che potessi strappare dal prato, l'avevo raccolta il giorno prima e ce l'avevo ancora nei pantaloni come portafortuna. "Se guardi questa le lacrime si fermeranno per sempre", le dissi. E per un attimo credetti che il mio fosse stato una sorta d'incantesimo. La piccola Nadja smise di piangere e più in là con gli anni avrei scoperto che anche da grande non l'avrebbe fatto poi così spesso.
La vidi a pochi metri da me, avevo percorso così tanti chilometri che ormai doveva essere passata un ora, le poche soste che feci durante quella corsa non mi permisero di recuperare del tutto il fiato. Nadja mi venne incontro, sembrava distrutta e se era possibile ancora più magra. Eppure era bella, raggiante anche in un cupo giorno di pioggia. Ci abbracciammo così stretti che respirare mi risultò ancora più difficile.
«Sei un'idiota! Avevi promesso! Non ti ho chiesto tanto, solo di essere puntale, razza di deficiente! Che cos'hai in quella testa? Possibile che non puoi fare nemmeno una cosa che ti viene detta? Bastardo. Ti odio. Vattene. MI SI SONO ROVINATI I TACCHI PER COLPA TUA!». Piangeva mentre mi urlava contro quelle parole, ma al tempo stesso non mi lasciava andare nemmeno un secondo. Risi appena, in modo affannoso cercai di risponderle dandole qualche pacca sulla schiena.
«Ti giuro che ero arrivato in anticipo, ma... solo dopo ho ricordato quale fosse il posto giusto»
«Ti avevo detto che se fossi arrivato in ritardo non ti avrei perdonato». Ci staccammo per un secondo solo per guardarci negli occhi, sorrisi e le scostai i capelli bagnati dal viso, era come se la stessi guardando per la prima volta.
«Ti ho detto che avrei accettato il fatto che mi avresti tenuto il muso, non che ti avrei lasciato perdere»
«...Baciami». Pregò con un ansimo e io le sfiorai col pollice quelle labbra che avevo sognato tutte le notti. Ci baciammo. Fu un bacio delicato come se un velo si fosse posato sulle nostre bocche. Diventò presto ebbro del miscuglio tra il sapore della pioggia e la dolcezza selvatica delle labbra carnose di Nadja. Quelle stesse labbra si mossero, gonfiandosi leggermente, e si schiusero dando vita a qualcosa di molto più passionale.
 
Nessuno dei due sembrò sentirsi addosso quella pioggia.

 
 

Sophia POV

 
San Francisco, 2019
 
Passavo intere giornata a riversare il mio amore in cambio dei sorrisi timidi dei bambini dell’Eden Orphanage. Alcuni mi chiamavano “Tata”, altri “Maestra”. Per i meno timidi ero semplicemente “Hailey”. Avevo stravolto la mia vita e per la prima volta avevo scelto chi essere, come vivere, chi diventare. Eppure qualcosa, qualcuno continuava a mancare. Quella era una mancanza costante, che perseverava da tre anni a questa parte. Le due stanze chiuse a chiave, in quell’appartamento, me lo ricordavano ogni giorno come se poi potessi scordarmi di chi ho amato.
Erano molte le cose ad essere cambiate: il mio nome, il mio lavoro, la mia casa, il mio guardaroba ed avevo persino tagliato i miei capelli! Guadagnavo lo stretto necessario per pagare le bollette e vivere modestamente in un appartamento che non era mio. Era “nostro”, di noi tre. Tornata a San Francisco, la prima cosa che feci fu quella di tornare a casa, la nostra casa, e ricominciare tutto da lì. Dal principio. “Se ti perdi torna sempre dove potrò trovarti”; Shùra me lo diceva sempre.
Tutto sommato potevo considerarmi felice e fortunata. Avevo di cosa vivere, ero diventata indipendente e nessuno voleva attentare alla mia vita mettendomi una taglia sulla testa. Ero cresciuta, finalmente. Era cambiato tutto, o quasi. 
   
I sentimenti, quelli, erano rimasti immutati negli anni.
   
Continuavo ad aspettare, sempre, in un silenzio così pesante da diventare insopportabile. Avevo comprato un giradischi e qualche vecchio vinile dei Beatles per sentirmi meno sola tra quelle quattro mura così fredde. Mi capitava spesso di tornare a casa e sedermi sul divano che avevamo condiviso così tante volte, guardando le dirette dall’Opera di Mosca e metter su della buona musica per scacciare via ogni pensiero. Canticchiavo “we all live in a yellow submarine” con disperata enfasi sperando di scacciare ogni altro pensiero, ogni dubbio, ogni paura.
   
   Erano passati tre anni e io non avevo avuto neanche una loro notizia.
   
Quel 31 dicembre 2019 fu diverso. Tornai a casa con i biglietti che i miei bambini mi avevano scritto per il mio compleanno, fintamente felice. Shùra compiva gli anni quello stesso giorno. Posai il tutto sul tavolo, lasciai cadere la giacca a terra e camminai velocemente verso il giradischi. Questa volta era Here Comes the Sun a riempire il vuoto della mente. Mi rifugiai in quest’allegra canzone, spensierata, e mi affacciai dalla finestra senza fare nulla. Guardavo fuori e basta, tutto qui.
La musica s’interruppe bruscamente. Delle braccia m’avvolsero in un abbraccio caldo e famigliare. Non mi mossi, non respirai. Giurai a me stessa di non aver toccato neanche un bicchiere di vodka, almeno non per il momento. Mancavano ancora diversi minuti prima di brindare al nuovo anno. Sentivo il suo respiro, caldo contro il collo. Come scordare quel profumo, quel tepore. Come scordarsi Aleksandr.
Avevo sognato quel momento per così tanto tempo che mi chiesi se stessi sognando ad occhi aperti o se la stanchezza avesse iniziato a giocare brutti scherzi. Eppure era tutto così reale, così vero.
Mi voltai e lo vidi. Vidi il suo viso indecifrabile, gli occhi che non facevano trasparire alcuna emozione e le mani segnate dal tempo. Mi venne voglia di carezzare la sua guancia per accertarmi della sua presenza, ma indietreggiai impaurita. Avevo paura di vivere un sogno, anzi, uno di quegli incubi così realistici da lasciarti l’amaro in bocca al risveglio. Non sarebbe stato il primo comunque. Indietreggiai di un altro passo che paradossalmente ci unì. Le sue mani scattarono e mi strinsero a lui più forte che mai. Mi stringevano le spalle, mi dicevano “sono qui, adesso sono qui con te, non sono un sogno”. Restammo in quella posizione per interminabili secondi e poi la presa si sciolse lasciando spazio alla voce.
«Alla nuova Hailey Allen posso fare gli auguri o dovremmo ripresentarci? ». La sua voce. Oh, la sua voce era sempre la stessa, proprio come me la ricordavo: calda, profonda, roca.
Lo guardai con indecisione e non risposi. Andai a sedermi sul divano, il viso tra le mani come a misurarmi la febbre e gli occhi sulla bottiglia di Vodka ancora sigillata.
 
«Sophia, sono tornato. Sono tornato per te»
«Non parlare»
«Sonech’ka.. ?»
«Ho detto “non parlare” e non chiamarmi così. Tu non puoi chiamarmi così»
«Sonech’ka, ti prego. Ho mantenuto la mia promessa. Sono venuto a prenderti. Ti ho chiesto d’aspettare e tu mi hai dato la tua parola»
   
Aggrottai le sopracciglia furiosa. Mi alzai, avanzai, affrontai il suo sguardo profondo e fermo e lo colpii. Il palmo della mia mano si stampò sulla sua guancia lasciando un segno rosso e caldo. Lui non si mosse. Si limitò a guardare le lacrime che avevano cominciato a bruciare le mie di guance. Le asciugò con una carezza. Strinsi il colletto della sua camicia tra le dita e lo strattonai con una rabbia tale da non riconoscermi più. Piangevo ed urlavo. Piangevo e lo colpivo. Piangevo e mi liberavo.
«TRE ANNI. TRE. ANNI. PER QUANTO ALTRO TEMPO VOLEVI FARMI ASPETTARE? PERCHÈ NON DIECI? HAI MAI PENSATO A ME? PERCHÈ NON MI HAI FATTO SAPERE NIENTE? POTEVI ALMENO DIRE CHE ERI IN VITA, SAI? ALEKSANDR, TRE ANNI SENZA TUE NOTIZIE. NON FARLO MAI PIÙ. MAI PIÙ». Questa volta fu lui a non rispondere. Lasciò che tutta la mia rabbia scivolasse via lontana da me. Asciugò ogni mia lacrima con quei baci che mi erano mancati terribilmente. Mi cullò, mi confortò e mi ripeté che era lì per me, solamente per me, per sempre.
   
«Ti amo, Sophia. Mi sei mancata da morire»
«E tu sei un cane. Vattene via»
«Di già.. ? Ma sono appena tornato, scimmia»
«La vedi la porta, no?»
«Allora molla la presa, altrimenti come vado?»
«No»
«No cosa?»
«Ti amo anche io e non ti lascio più»
   
Quella notte del 31 dicembre 2019 facemmo l’amore e ci promettemmo amore eterno. Nessuno ci avrebbe più divisi. Nessuno.
 
 

Aleksandr POV
 

Aleksandr Belov, nato il 31 Dicembre del 1987 e morto il 3 Novembre del 2016.
Aleksandr Petrov, nato il 31 Dicembre del 1987.
 
Tra le due persone vi era una differenza abissale, uno era morto e l'altro intrappolato in quello specchio del quinto soviet adesso sporco ed incrostato dal tempo e dalle vicissitudini, che come un fiume non in grado d'essere arginato aveva spazzato via tutto: tranne la fede. In quei tre anni mi aggrappai a quella, col timore perenne che le persone mi lasciassero indietro, ma con la ferma convinzione di dover ritrovare quel piccolo e spaventato bambino prima di poter tornare a considerarmi un essere umano. E così feci. Lasciai Misha al lago con la promessa di rivederci, non accadde però perché entrambi troppo impegnati a ricostruire pezzo dopo pezzo una vita confusa e sparpagliata in miliardi di tasselli, alcuni dolorosi, altri difficili e altri ancora gioiosi. Sedetti sul tavolo ovale della mia vita iniziando ad incastrarne i pezzi, alle volte li persi, altre li confusi, ma ciò che lentamente venne fuori fu un quadro che neppure io avrei immaginato. Tornai nel mio appartamento del quinto soviet, a San Pietroburgo, vissi lì per quasi tre anni, piansi ogni giorno davanti a quello specchio toccando il riflesso di un uomo che non sapeva più neppure lui chi fosse, alla ricerca del bambino perduto. Alla fine lo trovai. Ci sorridemmo, il bambino con ingenuità e perdono mentre il maggiore con dolore e speranza.
 
Riaccesi il telefono dopo il lungo volo, suonò quasi subito, non riconobbi il numero.
«Pronto?». Dall'altro capo del telefono una voce bassa e familiare.
«Tanti auguri bastardo». Sorrisi facendo cenno ad un taxi di fermarsi.
«Guarda un po' chi si ricorda di suo fratello in una fredda giornata di dicembre». Un sospiro dall'altra parte.
«Carino il maglione, a quanto pare sembri sempre lo stesso è un bene. Ti do ventiquattrore di tempo prima di irrompere in casa nostra». La chiamata venne chiusa senza darmi possibilità di replica, mi girai osservando fuori, alla ricerca di quella figura familiare che mi sembrò di vedere in lontananza; mossi la mano in segno di saluto, non fui però sicuro di aver visto bene.
17-17-12, la porta si aprì come per magia. La magia dell'attesa, della crudele speranza, della consapevolezza di aver lasciato Sophia ai margini in attesa di qualcosa che neppure lei riusciva a capire. La musica inondò l'appartamento senza riuscire a sovrastare i battiti del mio cuore non appena vidi la figura rivolta verso la grande vetrata; sorrisi andandole vicino, non avevo perso l'abitudine di camminare come se dovessi sempre nascondermi. L'abbracciai da dietro respirandone l'odore, sapeva di tutto ciò che mi era assolutamente mancato: di amore, di calore e di famiglia. La mia e quella di Misha. Deglutii ricacciando indietro le lacrime.
«Alla nuova Hailey Allen posso fare gli auguri o dovremmo ripresentarci?». La vidi indietreggiare troppo sconvolta anche solo per poter emettere un qualsiasi verso che non fosse il singhiozzo che precede le lacrime, e alla fine avvenne davvero. Pianse e mi schiaffeggiò. Pianse e mi abbracciò. Pianse e mi amò. Il riassunto di un'intera vita. La nostra.
«E' la terza volta che mi schiaffeggi, mi era mancato anche questo». Quanto era passato dal mio ingresso in quella casa? Quanto dovevo ancora raccontarle? Sarebbe bastata una vita? A me probabilmente no.
Facemmo l'amore come se all'alba dovessimo dirci addio. Non accadde. All'alba Sophia guardava il mio viso e io guardavo il suo, legandoci all’infinito.
Ero cambiato? Probabilmente no, avevo ancora anime sulla coscienza, mani sporche di sangue ma avevo la fede. Avevo fede nel poterle espiare, avevo fede nell'accettare le sue punizioni quando sarebbe arrivato il mio momento. Avevo fede di poter essere felice, insieme a lei. Ancora ed ancora.
 
— If I got locked away and we lost it all today, tell me honestly: would you still love me the same?
— Yes.
 
 

Arizona

 
«Perché porca puttana siamo tornati qui?» Misha sputò a terra indicandomi la saliva, erano grumi di sabbia quelli, o avevo le visioni?
«Misha possibile che alla soglia dei trent’anni non hai ancora imparato ad ammirare e apprezzare in silenzio? Ma soprattutto a parlare come un essere umano decente?». La voce contrariata di Sophia mi fece ridere.
«Misha, hai scoperto alla fine con quale parola sostituiresti la ‘’bellezza’’ dei Navajo?». Ci fissammo in silenzio, Sophia ci superò iniziando a camminare all’indietro, guardandoci e accarezzandosi il ventre ormai pronunciato.
«Alla fine hai mantenuto la tua parola». Mi sorrise furbo.
«Mantengo sempre la parola. Ti piace l’orizzonte che ti ho portato?». Lo fissammo insieme mentre Sophia continuava a chiamarci.
«Sophì se caschi ti apro il culo, mio nipote deve essere protetto». La indicò velocizzando il passo. Li seguii di buona lena, stavolta dovevo dare ragione a quel coglione.
«Sonech’ka se fai del male a mio figlio chiedo il divorzio». Le sorrisi affabile e mi beccai un calcio. Sposarsi col ventre già gonfio non era stato il massimo, aveva passato gli ultimi mesi a colpevolizzarmi istericamente per ‘’l’incidente’’ dicendo che la gente avrebbe pensato l’avessi sposata solo per quello. Nessuno poteva immaginare quante cose ci fossero tra noi mentre all’altare entrambi pronunciavamo il nostro ‘’si, lo voglio’’.  
«A proposito.. siamo tutti d’accordo a chiamarlo Mikhail, vero?». Non risposi subito, cercando di non ridere.
«Dovresti chiederlo alla balenottera, è lei che comanda». Indicai Sophia che minacciò di calciarmi ancora.
«Non trovate io sia diventata più bella con la gravidanza?». Si accarezzò i capelli adesso più lunghi, sbattendo le ciglia.
«NO». Lo urlammo insieme tra i suoi strepiti, le nostre risate e il tramonto rovente che ci vide nuovamente riuniti.
 
Non so Misha, ma io confido in ciò che dissero i Navajo e so quale parola sostituire a ‘’bellezza’’.
La mia parola è: amore. Il nostro. 

 
  
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