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Autore: LaSentinella    24/06/2017    1 recensioni
Il protagonista, ormai anziano, racconta al nipote un episodio particolare della propria vita e gli chiede, infine, un grande favore.
Genere: Azione, Horror, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Antichità, L'Ottocento
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Firenze, 24 marzo 1948
Caro nipote,

Nello scriverti questa lettera, il mio animo non è sereno. Preferirei nascondere tutto quello che ho visto, rinchiuderlo, isolarlo e cancellarlo dalla mente, ma non posso farlo.

Come ti ho raccontato più volte, il mio lavoro non è semplice. Quando ero più giovane, trovavo divertente e affascinante l'idea di viaggiare alla ricerca di vecchi manufatti e antichi reperti, ma ormai tutto quell’entusiasmo ha lasciato il posto alla malinconia e alla nostalgia. Noto molti giovani che non vedono l’ora di intraprendere la carriera di archeologo, sono ansiosi di recarsi in luoghi sperduti per scovare pezzi di storia.

Chissà se qualcuno di loro ce la farà. Del mio vecchio gruppo universitario, nessuno è mai riuscito a trovare nulla. Quasi nessuno.

Ti chiedo di non raccontare quello che sto per dirti, l’ultima cosa che vorrei è che il peso di questo segreto venga a gravare sulle tue spalle, ma sono vecchio, ho bisogno di raccontare la verità questa  volta e ho bisogno che tu ponga fine a tutto questo.

Ricordo ancora l’entusiasmo nel preparare la spedizione. Era il 27 giugno 1892, io e i miei colleghi dell’università eravamo poco più che ventenni ed eravamo pronti per partire. Pochi mesi prima, un archeologo Peruviano, Pedro Vargas, aveva scoperto alcune mummie e manufatti Inca poco distanti da Lima. Grazie alle conoscenze del nostro professore di “Storia delle civiltà precolombiane”, io e altri tre miei colleghi eravamo riusciti a entrare nella squadra di ricerca del signor Vargas. Avevamo studiato tutto nei minimi dettagli. Conoscevamo il territorio, i reperti rinvenuti e avevamo passato mesi a studiare tutto quello che all’epoca si sapeva sulla civiltà Inca.

Il viaggio ci sembrò infinito, impiegammo quasi un mese per arrivare a Bahia, dove all’epoca gli schiavi africani sbarcavano per lavorare nelle piantagioni, poi ci vollero ancora alcuni giorni per attraversare il Brasile. Purtroppo non arrivammo mai in Perù. Raggiungemmo il fiume Xingu servendoci di una piccola automobile, da lì proseguimmo con una barca, sfruttando i grandi fiumi navigabili che caratterizzano questa terra. Iniziammo ad avere problemi lungo il rio Madeira, la nostra vecchia e malandata imbarcazione divenne ben presto inutilizzabile e fummo costretti a scendere a terra.

Non ci lasciammo scoraggiare da quel piccolo inconveniente perché dalle nostre mappe sapevamo che a pochi chilometri di distanza c’era un piccolo villaggio di pescatori immerso nella foresta. Decidemmo di dividerci, due dei miei colleghi andarono verso il villaggio in cerca di aiuto, io e il terzo dei miei colleghi restammo nei pressi della barca con tutte le attrezzature e i bagagli.

È impressionante la quantità di animali che vidi in poche ore. Il primo fu un pappagallo. Il piumaggio era screziato di blu, rosso, nero e bianco. Le ali erano verdi e una corona di piume degna di un capo tribù Sioux gli ornavano la testa. Abbagliato da tutti quei colori, non notai immediatamente il piccolo oggetto che stringeva nel becco nero. Mi avvicinai per osservarlo meglio, ma ottenni solo il risultato di spaventare l’animale che volò poco più lontano. Lo seguii e, forse per spaventarmi, l’animale alzò le penne del capo e iniziò a ondeggiare facendo uno strano rumore. Nell’aprire il becco per emettere quel suono, l’oggetto che teneva stretto scivolò via e atterrò proprio davanti ai miei piedi. Solo in quel momento me ne accorsi.

Lo raccolsi e lo pulii con il mio fazzoletto. Ricoperto da uno strato di polvere e fango induriti, si nascondeva un piccolo manufatto dorato. Lo osservai meglio e notai che la statuetta rappresentava il viso di un uomo adornato da un paio di orecchini di cristallo incastonati nel metallo, sul capo portava quello che sembrava un copricapo indigeno.

Si fece sera, i nostri due colleghi non tornarono e iniziammo a preoccuparci. Con il buio il paesaggio si fece più spaventoso. Il dolce rumore dei richiami degli uccelli e delle scimmie aveva lasciato il posto a sibili sommessi, ruggiti in lontananza e creature striscianti tra i cespugli. Nonostante le brutte condizioni in cui verteva l’imbarcazione, era provvista di una cabina perciò decidemmo di rinchiuderci e attendere il mattino. Uscire di notte alla ricerca dei nostri colleghi sarebbe stato imprudente.

La mattina dopo, ci svegliammo circondati da un gruppo di sei nativi. Sembravano pacifici, provammo a comunicare con loro per ottenere informazioni riguardanti il villaggio di pescatori e i nostri colleghi dispersi.

Devi sapere che gli Indios sono popolazioni inusuali. Vivono come uomini primitivi, svestiti. Utilizzano armi rudimentali e si adornano il viso con monili e pitturandolo con colori sgargianti, quasi volessero imitare l’incantevole piumaggio degli straordinari volatili che popolano questa foresta. Quello non fu il mio primo incontro con loro, la prima volta che vidi un indio fu a casa di tuo zio Giorgio quando al suo rientro dal viaggio nelle Americhe portò a casa quella schiava perché aiutasse sua moglie con le faccende domestiche. In quell’occasione ebbi la possibilità di conversare con quella donna e nonostante parlasse poco la nostra lingua, mi feci raccontare della sua tribù di origine e delle sue usanze.

Mi sentì abbastanza tranquillo, i nativi parevano miti e disponibili perciò ci lasciammo ingannare e li seguimmo sperando di poterci avvicinare al villaggio di pescatori. Dopo poco più di mezz’ora, scoprimmo che gli Indios ci avevano condotto al loro villaggio e non a quello dei pescatori. Mi chiesi in che modo avremmo potuto prendere contatto con i soccorsi, non avevano messaggeri a cui affidare una missiva e di certo non avevano il telegrafo. Cercai di approcciare uno degli uomini che ci scortavano per chiedere spiegazioni, ma passando accanto a un focolare notai il cappello di uno dei miei colleghi dispersi abbandonato a terra. Mi fermai e scorsi nelle braci un anello d’argento.

Sei sempre stato un uomo intelligente, nipote mio, avrai capito cosa era accaduto a quei poveri sventurati. Queste tribù primitive sono note per le loro barbare usanze e nonostante i loro modi affabili bisogna sempre mantenere alta la guardia e non lasciarsi ingannare. Noi eravamo finiti dritti dentro la tana del leone e ora ogni via di fuga sembrava bloccata.

Fui il primo a essere legato, questo diede un po’ di vantaggio al mio collega che riuscì a raggiungere la Bodeo che aveva accuratamente nascosto sotto la camicia. Minacciò i selvaggi, ma questi non si mostrarono intimoriti, probabilmente non avevano mai visto una rivoltella in vita loro e si mostrarono più incuriositi che spaventati dallo strano oggetto. Partì un colpo, uno dei guerrieri si accasciò e scoppiò il finimondo. Mentre i selvaggi aggredivano il mio collega, udii il rumore di un altro colpo partire dalla canna della pistola, poi la folla si disperse e vidi il mio collega giacere a terra, senza vita.

Quello che accadde in seguito non lo racconterò, le immagini ora si annebbiano nella mia mente, ho cercato di dimenticare, ho provato a raccontarmi che non fosse vero, che mi fossi immaginato tutto, che una pratica così disumana non potesse esistere. Vedendo i selvaggi banchettare, quella sera, non potei fare a meno di perdere i sensi, mentre gli avanzi del mio collega marcivano accatastati accanto a me.

La mattina dopo mi svegliai al sorgere delle prime luci del mattino, mi guardai intorno cercando un modo per fuggire al mio destino. Vidi passare un bambino e tentai di corromperlo, cercai di convincerlo a liberarmi. Lui pareva divertirsi, mi guardava con i suoi occhi tondi e allegri e sorrideva. Gli proposi uno scambio, la mia libertà in cambio dell’oggetto dorato che avevo trovato nella foresta. Lui prese l’oggetto dalla mia tasca. Il suo umore cambiò, sembrava spaventato, gettò a terra il piccolo gioiello d’oro e cristalli e ci sputò sopra, poi corse via urlando.

Raggiunsi il manufatto con i piedi e riuscii a tirarlo a me. Nel frattempo vidi avvicinarsi con fare preoccupato quello che immagino fosse il capo tribù, circondato dai guerrieri e accompagnato da un’anziana donna. La donna mi si avvicinò, scorse la testa dorata e ripeté lo stesso rituale del ragazzino. A quel punto due dei guerrieri mi slegarono, mi afferrarono per le braccia e mi condussero in fretta al limite del villaggio. Volevano vedermi sparire, mi stavano liberando.

Colsi l’opportunità al volo e iniziai a correre senza una meta, stringendo la piccola testa responsabile della mia liberazione tra le mani e assaporando l’effimero gusto della libertà.

Corsi nella foresta senza rendermi conto di dove stessi andando o di quanto tempo stesse passando e mi fermai solo quando raggiunsi una pianura con alcune case lungo il rio. Senza rendermene conto ero finito dritto al villaggio di pescatori che in quel momento rappresentava la mia unica via di salvezza. Fui soccorso da due uomini che mi condussero in una piccola casa di legno. Raccontai tutto quello che avevo passato e mostrai la testa dorata. Loro la esaminarono e mi dissero che rappresentava un dio Indios e che una leggenda locale raccontava che il dio proteggesse dalle minacce esterne chiunque portasse una sua immagine con sé. Pensai fosse una cosa positiva e non capii perché i selvaggi si fossero spaventati. Mi raccontarono che il monile proteggeva chi lo portava, ma conduceva alla disgrazia e alla morte chiunque gli stesse attorno e che ogni volta che qualcuno accanto a lui moriva, il portatore si ammalava.

Ovviamente non diedi peso a quelle parole, i pescatori non avevano alcuna paura a restarmi accanto e mi aiutarono a rientrare a casa il prima possibile.

Fu durante il viaggio di ritorno da quella terra infernale che mi ammalai del morbo che mi sta conducendo alla morte.

Quando arrivai a casa, pulii la testa dorata. Ora i cristalli degli orecchini brillavano e l’oro era lucente. Lo rinchiusi in una scatolina e finì per dimenticarlo in qualche cassetto. In seguito mi sposai, ebbi tua madre e i sui fratelli e vissi quarant’anni sereni crogiolandomi nell’affetto della mia famiglia. Ritrovai il monile esattamente una settimana dopo che il mio figlio minore si trasferì negli Stati Uniti per insegnare all’università. Rivederlo fece riemergere gli orrori del passato.

Proprio in quel periodo tua nonna morì per un ictus e la mia malattia si aggravò. Passai la prima notte di lutto a piangere mentre la faccia sorridente del dio Indio mi osservava da sopra il comodino e mi chiesi se, dopotutto, la leggenda fosse vera. Rinchiusi nuovamente l’opera del demonio nella sua scatola, impaurito e dubbioso.

Come sai, non sono un uomo superstizioso, non credo al soprannaturale, non credo neppure in Dio in realtà. Eppure vivere sapendo che quel mostro malefico risiede nella mia casa mi riempie di preoccupazioni. Ho pensato a molti modi per liberarmene, ma non voglio che qualcun altro incontri la mia stessa rovina. Penso che l’unica soluzione possibile sia quella di distruggerlo, ma per me è impossibile. La mia malattia mi consente solo di scriverti queste parole a macchina, ormai non posso più fare nulla da solo e so che il tempo che mi rimane è poco. Ecco quindi che ti chiedo un favore, ti supplico di rendermi felice in questi ultimi mesi, di alleggerire il mio animo distruggendo la testa del dio Indio che ti ho spedito. Non vorrei chiedere a te di assumerti questo peso, ma ho perso molti amici e parenti nell’ultima grande guerra e non so a chi altro rivolgermi.

Con la speranza di ricevere presto buone notizie, ti saluto.

Abbi cura di te.
   
 
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