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Autore: EchoS_    26/06/2017    0 recensioni
Asja Diotiallevi si ritiene un'adolescente come le altre; va a scuola, ha una migliore amica e si diverte come tutti gli altri ragazzi della sua età.
Quando due misteriosi fratelli entrano a far parte della sua vita, però, si accorgerà di quanto in realtà sia speciale.
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angolo di Paradiso

*

Capitolo I

 

Asja

 

Per chi si fosse mai chiesto come sia l'inferno, la scuola superiore può esserne un'ottima rappresentazione.

Ragazzi che ridono, si spintonato e si palpeggiano contro gli armadietti come se avessero deciso di procrearci sopra, professori isterici o sull'orlo di una crisi depressiva e bidelli che ti urlano dietro se osi anche solo aprire una merendina nel corridoio che hanno appena lavato. Uno schifo totale, insomma. E ritornarci dopo l'estate è sempre una gran seccatura.

Non è mai piacevole svegliarsi e avere ancora più della metà dei compiti delle vacanze estive da finire. Ma ormai quella routine si ripeteva da tre anni e, ora che stavo per cominciare il quarto ed ultimo anno di scuola superiore, ci avevo tristemente fatto l'abitudine. Distrattamente, avviai la riproduzione casuale del mio i-pod nuovo di zecca, uno dei frutti dei miei numerosi ricatti morali alla famiglia, premendo la fronte contro il finestrino dello scuolabus. L'arrivo dell'autunno si stava facendo sentire, e soprattutto si vedeva già terribilmente che l'estate stava abbandonando la città.

Newport è sempre stata una cittadina anonima, quel posto dove vedi sempre le solite facce, dove chiunque per strada ti saluta. Questo la rendeva inospitale agli occhi dei turisti, che si guardavano bene dall'avvicinarvisi. Ma comunque l'amavo, ero nata e cresciuta lì e non avrei mai voluto trasferirmi.

Io, Asja Diotiallevi, ero forse la persona più abitudinaria al mondo e nonostante cercassi spesso di passare inosservata, non mi riusciva: occhi azzurri e capelli di un rosso accecante esclusi, ero una ragazza di diciassette anni come le altre, forse anche un tantino anonima, che amava la musica e lo sport, le uscite con gli amici e detestava la scuola. Niente di particolarmente eclatante. Nel mio istituto non c'erano ragazzi che avrebbero fatto carte false pur di uscire con me, non avevo la fila di ammiratori, nessuno lasciava per me dei bigliettini d'amore nell'armadietto. Non che fossi brutta, ma bastavo a me stessa e non avevo bisogno d'altro. Un pensiero che probabilmente fa solo una monaca di clausura che ha appena preso i voti, ma non ci avevo mai dato troppo peso. Ero in pace con me stessa, e quello mi bastava per condurre una vita felice.

O almeno, mi era bastato fino a quel momento.
Quando mi ricordai di essere su un pulmino assieme ad una quindicina di altri a studenti che sembravano essere esattamente del mio stesso umore, diretta verso il luogo in cui sarei rimasta rinchiusa per un altro lungo anno, mi venne quasi la nausea. Emisi un piccolo gemito infastidito e mi strappai le cuffie dalle orecchie con stizza.
Dire che mi trovavo nella merda fino al collo era riduttivo: nella cartella avevo poco meno della metà dei compiti che avrei dovuto svolgere e tutto ciò che avevo studiato l'anno prima era stato rimosso accuratamente. Mi sarei sicuramente beccata una ramanzina da ogni singolo professore e sapevo che quello non era il modo migliore di inaugurare il nuovo anno scolastico.
Il pulmino si fermò davanti alla scuola superiore della periferia di Newport, una palazzina piuttosto anonima color giallo canarino. Scesi dal bus e una brezza salmastra e autunnale mi investì, costringendomi a stringermi nella giacca a vento verde che indossavo. Presi un grosso respiro, prima di aprire gli occhi per fissare l'edificio immobile davanti a me. Non mi era mancato nemmeno un po'.

«Asja!» Due mani piccole e sottili si posarono sui miei occhi e non potei fare a meno di sorridere, involontariamente, stando al gioco. «Indovina chi sono.»
«Penny, lo so che sei tu.»
«Però così non c'è gusto.»
Penelope era forse una delle ragioni per cui non avevo mai avuto un ragazzo: era la mia migliore amica praticamente da sempre, per quello che riuscivo a ricordare ed era più alta e formosa di me, con dei capelli biondi che sembravano non finire mai e due brillanti occhi verdi. Non potevamo essere più diverse, ma quello che ci legava andava aldilà dell'amicizia, aldilà dell'amore, era qualcosa di potente, di indissolubile, che nessuno poteva sciogliere e nemmeno capire. Probabilmente a scuola pensavano tutti che fossimo due pazze morbose, che non facevano mai niente senza l'appoggio dell'altra. Che lo pensassero pure. Anche perché era la verità.

«Che hai combinato quest'estate? Il tuo cellulare risultava sempre irraggiungibile», le chiesi mentre ci incamminavano insieme verso il cancello della scuola.
«Mia madre mi ha portata in meditazione su qualche gelido monte europeo. Eravamo completamente tagliate fuori dal mondo» borbottò lei, portandosi dietro l'orecchio un ciuffo di capelli biondi. «E tu? Tuo padre ti ha ancora rinchiuso in quel campo estivo?»
Gemetti. Odiavo quel posto fin da quando ero bambina e ogni anno mi chiedevo fino a che età mi sarebbe toccato andarci. Più di quel posto odiavo solo il fatto di essere obbligata a fare qualcosa. E mio padre era un vero maestro nel costringermi a fare cose che odiavo, una perfetta combinazione. Penny mi sorrise, in un vano tentativo di tirarmi su il morale. «Non mettere il muso.»

«Sono solo stanca della solita vita, Pen» borbottai acidamente, sistemandomi la cartella sulle spalle per poi arrotolare le cuffie e annegarle nella tasca.
«Quest'anno studieremo tante cose nuove» rise lei, dandomi una gomitata su un fianco.
«E' bello sapere che la tua idea di novità si limita al programma scolastico» storsi le labbra, alzando leggermente gli occhi al cielo. Tuttavia ero parecchio divertita.
«Che cosa vuoi che succeda? Che cada un'astronave in palestra?»
Mi strinse nelle spalle, valutando con sincero interesse l'idea. «Sarebbe un inizio.»

Ci avviammo nel corridoio principale della scuola che in pochi secondi si era riempito di studenti di tutti gli anni. La prima ora di lezione, il primo giorno dell'anno quegli idioti che creavano l'orario avevano deciso che noi due avremmo dovuto iniziare con matematica. Non avevo mai avuto un buon rapporto con quella materia, come tutte le persone normali, dopotutto: troppi segni, lettere che si mischiavano a numeri, segni provenienti dal greco... Da brividi.

Penny ed io ci sedemmo assieme al secondo banco né troppo vicine né troppo lontane dalla cattedra, perché secondo noi era quella migliore per non essere scoperti intenti a copiare o a chiacchierare.

E fu in quel momento che lo vidi la prima volta.

Lo notai subito, perché ero sicura di non averlo mai visto prima. Era alto, lo si poteva capire nonostante fosse seduto composto sulla sedia di fronte al banco, che sembrava essere fin troppo piccolo per lui, come se non riuscisse nemmeno a trovare posto per le gambe. Aveva i capelli biondi e gli occhi blu, talmente intensi che lo si poteva notare persino da quella distanza.

Penny mi tirò una gomitata. «Wow, hai visto quel tipo?»

Il ragazzo nuovo si girò a guardarmi in maniera intensa, poi si voltò di scatto e fissò la lavagna, come se ci fosse scritto qualcosa di imperdibile.

Mi accorsi solo in quel momento del professore che scrutava la classe con aria piuttosto truce, invitando ogni tanto qualcuno a ritornare al proprio posto. Distolsi lo sguardo, sperando che nessuno mi avesse vista fissare tanto intensamente il nuovo ragazzo che era seduto poco distante da me.

«Buongiorno a tutti, ragazzi, e buon anno» borbottò il professore, aprendo il registro e facendo velocemente l'appello. Pochi nomi prima del mio, toccò a lui. «Daniel Callaghan.»

«Eccomi.»

«Ah, tu sei quello nuovo. Aspetta solo un secondo.» Terminò di fare l'appello, poi si rivolse di nuovo a Daniel. «Ci racconti qualcosa di te? Da dove vieni?» chiese, intrecciando le mani e appoggiandoci sopra il mento con finto interesse.

Daniel fece roteare gli occhi verso l'alto, poi fissò il professore con uno sguardo vacuo. «Da Londra» ci informò, con uno strano divertimento nella voce. Penny sembrava sempre più interessata alla venuta del nuovo alunno.

«Mhh, bene. E ti piace qui?»

«Sì, credo. » Daniel questa volta sorrise, però non sembrava molto divertito.

Il professore assunse un'espressione di disapprovazione. «Alloggi in una casa-famiglia oppure...»

«No, ho una casa qui. Ci vivevo con i miei genitori.» Non sembrava molto sicuro di ciò che diceva, a dirla tutta. I suoi occhi erano brillanti, ma in qualche modo cupi, come se dietro le sue iridi si celassero altri segreti. Continuava a fissare il professore con scarso interesse, il mento appoggiato sulle mani giunte.

«Loro sono rimasti a Londra?»

«Sono morti.» Daniel tentava di nascondere un palese nervosismo. Mi chiesi il perché. Forse il fatto di trovarsi in una classe di 20 perfetti sconosciuti, più un professore che lo sottoponeva ad una specie di interrogatorio, lo metteva a disagio.

«Oh, mi dispiace. Perciò vivi da solo?» Il dispiacere del professore era falso, si poteva leggere la noia su ogni angolo del suo viso spigoloso, quelle che stava facendo erano semplici domande di circostanza.

Il ragazzo annuì. «Sì.»

«Fratelli o sorelle?» L'uomo inclinò la testa di lato, questa volta sinceramente curioso, come se non riuscisse a credere al fatto che un ragazzino potesse già vivere da solo. Daniel sembrò esitare per un istante, si guardò le mani e sussurrò qualcosa a bassa voce. Nessuno riuscì a sentirlo. Alzò nuovamente lo sguardo e tornò a fissare il professore. «Nessuno con cui vada d'accordo.»

«Va bene. Spero ti troverai bene, in questa classe. Se c'è qualcosa che non capisci, non esitare a chiederlo.»

«Grazie» sentenziò, con un tono piuttosto serio, e l'interessamento per il nuovo acquisto terminò lì.

Le prime due ore volarono rapidissime e per tutto il tempo non riuscii a distogliere lo sguardo da Daniel, ed avevo anche l'assurda sensazione che lui fissasse me, di nascosto, senza farsi vedere. Era come se riuscissi a percepire il suo sguardo su di me. Il che era assurdo perché quando stavo vicino a Penelope di solito io ero l'ultima di cui i ragazzi si accorgevano.

Quando suonò la campanella dell'intervallo, sospirai di sollievo.

«Allora? Cosa ne pensi?» mi chiese Penny quando uscimmo dalla classe dirette verso i distributori automatici del primo piano.

Sapevo benissimo a cosa -a chi- si riferisse ma tentai ugualmente di fare la finta tonta. «Di cosa?»

«Del nuovo compagno, no?» rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, sistemandosi nervosamente i capelli biondi.

Le lanciai una rapida occhiata, giusto per tentare di capire che tipo di risposta si aspettasse. «Carino» azzardai, stringendomi disinvoltamente nelle spalle.

Lei mi fissò allibita, come se avessi appena bestemmiato. «Carino? Tutto qui?»

Sospirai, mentre finivo i miei craker. «Cosa vuoi che ti dica?»

«Non trovi che sia bello da mozzare il fiato?» mormorò lei, elettrizzata. La fissai, leggermente scettica.

Visto che mi stavo rifiutando di rispondere, mi rifilò una gomitata. «Non fare quella faccia scocciata. Sai che ho perfettamente ragione» borbottò, stringendo le mani sui fianchi, fissandomi severamente.

«E va bene, Daniel è bellissimo. Sei contenta adesso?» sbottai, più per esasperazione che per reale convinzione.

«Lieto di sentirtelo dire.» Sentii una voce provenire dalle mie spalle, e il panico si impossessò di me. Patetica scena da film strappalacrime: lui mi stava guardando curioso, sorridendo leggermente, con un cipiglio decisamente divertito. Arrossii violentemente, rendendomi conto della figuraccia appena fatta.

Ero troppo impegnata a maledirmi per poter dire qualcosa.

Penny invece sembrava ad un passo dal morire di crepacuore. Mi fece un rapido sorriso, mentre io tentavo di non guardare Daniel in faccia. Avrei voluto sotterrarmi.

«Piacere, sono Penelope» si presentò lei prontamente, con un sorriso a centoventi denti. Lui ricambiò il sorriso e strinse la sua mano.

Mi contenni dallo sbuffare, perché sapevo che Penelope mi avrebbe uccisa se non avessi colto quell'occasione, così strinsi anche io la mano di Daniel, mormorando un disinteressato: «Asja.»

Quando le nostre due mani si sfiorarono, sentii una strana sensazione e la vista mi si appannò per un attimo: fu come se mi mancasse il respiro all'improvviso, come se avessi sentito una scossa elettrica pervadermi tutta, per un istante vidi solo bianco, come una luce. Lasciai la presa di scatto, spaventata, sfiorandomi il polso. Fissai prima Penny, poi Daniel, giusto per assicurarmi se avessero notato qualcosa. Che cavolo mi stava succedendo? Deglutii rumorosamente e mi riavviai nervosamente i capelli.

Daniel mi fissava con un'espressione seria e stupita che non riuscii a decifrare fino in fondo, ma presto le sue labbra si piegarono in un beffardo sorriso scanzonato.

«Dicevi?» aggiunse, con un tono decisamente divertito. Probabilmente si era accorto di quanto potessi essere ridicola, non sembrava essersi scordato della mia figuraccia.

«Com'è l'Inghilterra?» chiese Penny dal nulla, nel disperato tentativo di cambiare argomento e gliene fui grata, anche perché era tutta colpa sua. Lui sorrise, si appoggiò con la schiena al muro e incrociò le gambe.

«Non la conosco molto bene, in realtà. Non ho mai messo piede fuori da Londra» bisbigliò, a voce talmente bassa, che mi risultò difficile riuscire a sentirlo; la sua voce era decisamente coperta dal rumoroso vociare degli studenti che si godevano un momento di libertà prima di tornare sui banchi. Non sembrava morire dalla voglia di parlare di sé.

Distolsi lo sguardo. «E' vero quello che hai detto al professore?»

Inarcò le sopracciglia. «Cosa?»

«Che vivi da solo» aggiunse Penny al posto mio, affascinata. Lui corrugò la fronte, come se non si aspettasse quel tipo di domanda.

«Sì, è vero» confermò, senza dilungarsi oltre.

«Come sono morti i tuoi genitori?» domandai senza pensarci. Penelope accanto a me mi stava guardando allibita, ma io fissai Daniel negli occhi. Probabilmente a mente fredda non gli avrei mai posto una domanda del genere. Però non sembrava triste, anzi, la sua espressione era impassibile. Alzò gli occhi al cielo, nel chiaro tentativo di evitare il mio sguardo.

«Sono caduti da un posto molto alto» mormorò piattamente, continuando a non guardarmi. Ebbi la tentazione di chiedere da quale posto fossero caduti, ma la sua espressione mi fece capire che non mi avrebbe risposto, avevo già osato troppo ed in più lo sguardo omicida di Penelope mi scoraggiò. Sorrisi ancora una volta, come a volerlo consolare, ma lui non mi guardò nemmeno.

«Anche mia madre è morta» buttai lì, assurdamente. Non ne parlavo mai molto volentieri, di solito ero restia ad affrontare questo argomento, ma mi sentivo strana. Come se le mie emozioni fossero controllate, spiate. Rimanemmo tutti e tre un attimo in silenzio poi, quando lui -finalmente- tornò a guardarmi.

Si fece improvvisamente interessato «Com'era?»

«Una donna magnifica. Ci assomigliavamo molto. Lei era sempre gentile con tutti. Un'ottima madre, insomma.» Rivivere quei momenti, quelli passati con mia madre, scatenò dentro di me un dolore intenso, lancinante, che sapevo di conoscere bene. Penny mi mise una mano sulla spalla e la strinse.

«Tu invece sei solo» aggiunse lei e non sembrava una domanda.

Daniel sospirò e si passò la mano libera tra i capelli biondi. «Sì» ammise solamente, con un piccolo sorriso.

Ero sempre più curiosa. «Nessuno si è mai preso cura di te?»

Lui sembrò esitare, ma poi rispose: «Diciamo di sì, ma è successo molto tempo fa. Ho sempre badato a me stesso, per quello che mi ricordo.» Aveva uno sguardo vacuo.

«Deve essere stato difficile per te.»

«Sì, lo è stato. Ma ora sto meglio, mi sono liberato da quello che mi opprimeva.»

Non ebbi il tempo nemmeno di riflettere su quella sua enigmatica risposta, perché suonò la campanella e Daniel si fiondò subito in classe, come se volesse sfuggire al mio piccolo interrogatorio.

«E' stata la conversazione più strana della mia vita» dichiarò Penelope, trascinandomi nuovamente ai nostri posti. Poi spostò lo sguardo su di me, guardandomi con un cipiglio preoccupato. «Tutto bene?»
Non avevo smesso di pensarci. «Quando l'ho toccato, ho avvertito una strana sensazione.»

Lei mi lanciò un'occhiata maliziosa. «Si chiamano ormoni, tesoro.»

Decisi di lasciar perdere, forse stavo solo diventando pazza e quando si tratta di ragazzi è difficile che Penny ragioni lucidamente. Le ore di scuola passarono in fretta. Per tutto il resto della mattinata non sono riuscii a scordare la sensazione che toccare Daniel mi aveva causato.

Al trillare allegro della campanella, un fiume di studenti impazienti si riversò fuori dalla scuola. Io ed Penny, come al solito, uscimmo per ultime.
«Oggi usciamo, no?» mi chiese Penny, ma io scossi la testa. Lei mi guardò confusamente e poi sospirai rassegnata: sembrava essersi dimenticata del fatto che io avessi un lavoro e soprattutto che non tutti avevano un padre a capo di una delle più importanti testate giornalistiche della città.

«Devo lavorare, oggi ho il turno in libreria.»




Salve :)
Ho pubblicato questa storia già molte volte, ma non l'avevo mai rivista. Come avevo precedentemente detto, ho iniziato a scriverla quando facevo seconda superiore (ora sono al primo anno di università) e mi ci sono molto affezionata, però appunto necessitava di correzioni e modifiche, sia dal punto di vista della trama che da quello della grammatica.
Ora però siamo qui, l'ho finita ed inviata ad un paio di case editrici, giusto per vedere che fine farà. La pubblico qui per vedere se effettivamente piace al pubblico (me lo hanno consigliato gli editori), quindi mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate. Capisco che da questo capitolo non si possano trarre molte conclusioni ma direi che è un'inizio.
Perciò lasciatemi una piccola recensione, o mandatemi anche solo un messaggino privato, per farmi avere il vostro parere! Sarei felicissima di rispondere a vostre eventuali domande o soddisfare qualche curiosità.

Credo di non avere altro da dire, quindi un grazie in anticipo a chi leggerà!

 

  
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