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Autore: Suzerain    26/06/2017    1 recensioni
Alcuni sostengono che l’atto stesso del desiderare sia di per sé impuro. L’avidità, ciò che ha permesso all’umanità di macchiarsi del più grande dei peccati, precludendole l’assoluta perfezione; l’avidità, ciò che intorbidisce un’esistenza che avrebbe altrimenti potuto bramare il divino. Affinché si possa raggiungere la felicità, insistono, quel sentimento va lasciato da parte – a poco a poco sarebbe marcito, e con esso i ricordi che porta con sé.
{kuga!centric | tsukasa/kuga}
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kuga Terunori, Tsukasa Eishi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Felicità.
Autrice: Suzerain.
Fandom: Shokugeki no Souma (食戟のソーマ)

Rating: Giallo.
Pairing: Tsukasa/Kuga.
Personaggi: Terunori Kuga, Eishi Tsukasa.
Desclaimer: I personaggi di Shokugeki no Souma non mi appartengono, essendo sotto il copyright di Yuto Tsukuda (storia) e Shun Saeki (disegni). L'icon utilizzata nelle note autore e le situazioni narrate, sono invece di mia proprietà
Ambientazione: Non specificata all'interno della serie.
Note dell'autrice: Una delle cose che mi lega a Shokugeki no Souma è l'innata capacità della serie e dei suoi personaggi di stuzzicare la mia fantasia al punto da spronarmi ad abbandonare i miei lunghi periodi di blocco. E' stato così ormai quasi due anni fa per Ryou ed Akira, ed ora è toccato a Tsukasa e Kuga, che adoro insieme dalla loro prima comparsa. Grazie agli ultimi capitoli, e per festeggiare l'annuncio della terza serie da una parte e l'uscita dell'oav dedicato all'élite dall'altra, ho voluto dedicare loro questo scritto.
Non è particolarmente lavorato, né vanta particolari pretese. Ma, se mi è concesso dirlo, mi sono divertita davvero molto nello scriverlo - e questa, credo sia la cosa più importante.
Come sempre, ringrazio chiunque sia arrivato sin qui e si appresti a leggere la mia storia, fosse anche soltanto per il tempo dedicatomi. 

 

Alcuni sostengono che l’atto stesso del desiderare sia di per sé impuro. L’avidità, ciò che ha permesso all’umanità di macchiarsi del più grande dei peccati, precludendole l’assoluta perfezione; l’avidità, ciò che intorbidisce un’esistenza che avrebbe altrimenti potuto bramare il divino. Affinché si possa raggiungere la felicità, insistono, quel sentimento va lasciato da parte – a poco a poco sarebbe marcito, e con esso i ricordi che porta con sé.
Marcisce, parassita all’interno del corpo; s’appropria di carni un tempo immacolate, s’insinua nelle vene. Marcisce. Non c’è nulla che possa impedirlo, che possa fermarne l’avanzata.
E’ ilare – non avrebbe dovuto portare alla felicità?

E’ sempre stato scontato, ottenere ciò che desiderava. Aveva talento, Kuga, più di quanto i suoi genitori avessero mai potuto auspicarsi; aveva dalla sua la bellezza, il fascino, il peso del cognome che porta. E’ sempre stato facile ottenere ciò che voleva, e mai aveva avuto necessità d’impegnarsi, affannarsi per raggiungere questo o quel risultato. Con il tempo, persino il pensiero di riuscire a trovare qualcuno alla sua altezza aveva cominciato ad apparire ridicolo, pari alla speranza di quegli sciocchi che non accettavano i propri limiti; e di quella lui non si sarebbe mai nutrito, mai ne avrebbe fatto la propria fonte sarebbe stato stupido, e del resto la stupidità non gli era mai stata propria.
Persino la Totsuki, ai primi tempi, lo annoiava. Nullità che annaspavano in un mare per loro troppo grande, che tendevano le mani verso un cielo che non li avrebbe mai accolti; volti, miriadi di visi di cui non si era mai preoccupato imparare il nome una perdita di tempo, perché mai sarebbero stati pari, lui e loro.
Persino la Totsuki, ai primi tempi, lo annoiava.
Fino a quando non aveva sperimentato in prima persona cosa significasse avvertire l’acqua nei polmoni e ritrovarsi, inaspettatamente, a levare le dita verso quell’azzurro che sempre aveva percepito come vicino. Ed allora, a propria volta, al pari di quegli esseri che aveva sino a quel momento disprezzato, aveva annaspato, Terunori; aveva cercato l’aria rendendosi per la prima volta conto di quanto importante fosse e di quanto l’avesse data per scontata. E la mano s’era aperta e chiusa, una volta, due, quattro.

Lì, cercando di afferrare l’inconsistenza della neve. 

Mai avrebbe creduto che quel candore potesse essere letale, che nella trasparenza di quello sguardo, al di là di una bellezza che pareva destinata ad essere eterna, potesse esservi l’essenza stessa della brama. Mai avrebbe creduto, quando anni prima s’era iscritto a quella scuola, che un giorno persino lui avrebbe ambito a qualcosa che riusciva a raggiungere solo con lo sguardo.
Rivincita – non gli importava ciò che avrebbe dovuto sacrificare, se avesse dovuto barattare il suo stesso io. Di nuovo la mano si sarebbe tesa, e sarebbero state fiamme tutt’intorno, il calore del fuoco vivo a sciogliere quel bianco che ancora, a distanza di tempo, annebbia quello sguardo che un tempo gli aveva concesso la visione della vetta del mondo.
Rivincita. L’avrebbe ottenuta, ne avrebbe saggiato il sapore.
Lì, cercando di discernerlo da quello di labbra non sue.

Le mani di Tsukasa lo sfiorano. Le sue dita sono fredde, i polpastrelli lisci; con lentezza si appropriano dei lembi di pelle che la camicia ora aperta lascia intravedere, la stessa placidità ch’è poi di lui tipica – e lui, Kuga, altro non può che mordersi le labbra, ribadendosi che almeno in quel momento, almeno nella penombra di un ufficio vuoto, almeno lì non gli avrebbe concesso la vittoria.
Ma il suo corpo gli risponde, e si ritrova a socchiudere gli occhi carmini mentre la sua bocca gli accarezza il lobo dell’orecchio ed il calore del suo respiro lo fa rabbrividire; ed è come se fosse la prima volta, una vergine mai sfiorata prima di quel momento. Nient’altro che ferita il calore che avverte diffondersi sul volto, ennesima frustata a quella bestia comunemente nota come orgoglio; s’acuisce quando serrare la bocca non basta più, e quei suoni prendono piano a riecheggiare tra le pareti di una stanza che mai come in quegli attimi sembra essere troppo piccola.
Lo sente distintamente sorridere, quell’incurvarsi di labbra che, mentre scivola lungo il suo collo diviene un ridacchiare lento, di flemma marcato; ma alla voce non dà sfogo, Eishi – non lo fa mai, quasi se non lo ritenga necessario, come se si trattasse di qualcosa di cui non aveva bisogno.
Non lo sopporta, ma non lo dice. Stringe le mani sulle sue spalle, gli si regge contro mentre lui lo spinge ancora contro la scrivania, dimentico per un istante soltanto di quei documenti che, urtati dal corpo di Terunori, scivolano sul pavimento e vi si sparpagliano in maniera disordinata.
E quando i denti mordono là contro il collo, allora e soltanto allora Kuga stringe di più.
Chiama il mio nome – lo pensa, ma non lo dice.
Eppure è ciò che quel singolo sospiro lascia trapelare, quello che quasi anela. Ed Eishi sorride ancora, e di nuovo lì, contro il suo orecchio, lo illude ma non l’accontenta.
E nuovamente il più giovane si chiede, mentre chiude gli occhi e lascia che per brevi istanti l’oscurità l’avvolga, se in quel parassita a poco a poco s’insinua nella sua pelle, se nel tentativo di dimenticare e mettere da parte il desiderio si possa davvero ritrovare la felicità.
Marcisce. Artiglia i suoi organi logorandoli, così che a restare non è altro che una poltiglia senza colore; si decompone là dove le sue dita lo toccano, le sue labbra lo baciano, le sue braccia l’attirano contro di sé.
E’ ilare.
   
 
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