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Autore: Nina Ninetta    30/06/2017    2 recensioni
Roberta è una giornalista caparbia, sicura di sé e del suo talento che aspira al successo, ma il suo caporedattore le affida un compito che lei ritiene degradante e indecoroso per una con la sua competenza: scrivere la biografia di uno sportivo.
Terza classificata al contest "Stelle d’Oriente” indetto da Dollarbaby sul forum di EFP, a pari merito con "Il destino di un boia" di Airalila". Premio speciale "Cuore del Dragone" nello stesso contest.
Quinta classificata al contest "Zodiac Game" indetto da Emanuela.Emy79 sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 4
Scelte

"... le piacevoli follie che essi commettono..."
 
Lo vidi apparire come un ologramma, un minuto prima non c'era, un minuto dopo si era materializzato a un passo dal tavolo dove sedevo con mio padre. D'istinto mi alzai, senza sapere bene cosa fare o cosa avrebbe fatto lui. Mi lanciò uno sguardo fiero prima di presentarsi al mio vecchio come Fabrìcio Cruz, o amigo di sua figlia.
Sapevo che se non mi fossi seduta immediatamente le gambe non mi avrebbero retta a lungo. Cosa intendevano precisamente i brasiliani per amigo?
Amico? Compagno? Fidanzato?
La risata di mio padre mi riportò con la mente sulla terra, lo sentii mentre lo invitava a sedersi con noi.
Cosa stava succedendo?
Parlarono di calcio, di club e nazionali, di cucina tipica sud americana e di carni da macello argentine. L'unica che si sentiva come quelle povere bestiole era proprio la sottoscritta.
Avevo appena infilato in bocca una forchettata di risotto quando mio padre esclamò.
«Robertina» lo guardai da sopra il piatto e avvertii gli occhietti irrisori di Fabrìcio su di me. «Com'è strana la vita, amore» mi preparai psicologicamente al peggio. «Ti ricordi quando da piccola dicevi che i tipi mori, quelli con la carnagione scura e non ti piacevano?» Rischiai di soffocare, afferrai il bicchiere con l'acqua e bevvi a grandi sorsate.
«Papi!» Sbottai, ma nemmeno quello fermò la folle corsa di mio padre. Lo osservai posare una mano sul braccio di Fabrìcio, il quale sorrideva di sottecchi, si stava divertendo da matti.
«Li odiava proprio!» Rise. «E detestava i ragazzi pieni di tatuaggi dove non batte il sole!»
Fabrìcio si voltò nella mia direzione, continuando a tenere quel sorriso ebete dipinto sul viso.
«Realmente
Gli lanciai un'occhiata di fuoco, lasciandogli intendere che se avesse approfondito quell'assurda conversazione sarebbe stato peggio per lui.
Fabrìcio si offrì di accompagnarlo fino alla stazione, tuttavia mio padre preferì chiamare un taxi. Mi abbracciò forte al momento di salutarci e sentii, come ogni volta, un groppo alla gola. Sapevo che lui ci sarebbe sempre stato, qualsiasi cosa fosse successa, qualsiasi scelta avessi preso in futuro, lui mi avrebbe sostenuta.
Porse la mano al mio amigo, quindi lo attirò a sé abbracciandolo e stampandogli due baci sulle guance. Il taxi lo portò via da me, rimasi ad osservare la macchina fin quando svoltò al semaforo.
«E così odiavi i tipi con i tatuaggi e la pelle scura» quella sua vocina insolente s'insinuò nella mia mente, roteai gli occhi al cielo e sospirai.
«Non iniziare!» Esclamai prendendo a camminare, ma la sua mano si chiuse intorno alla mia e mi tirò a sé, stringendomi in un abbraccio. Il cuore aumentò i suoi battiti e a soli pochi millimetri dalle sue labbra le ricordai sulla mia pelle nuda.
«La mia auto è proprio lì» la sua bocca era vicinissima, dannatamente eccitante.
«Volevo fare due passi» lo stuzzicai e mi strinse ancor di più.
«Io avevo un'altra idea…» mi sorrise accattivante e mi sciolsi.
 
Ricordo la camera immersa nella penombra, a malapena riuscivo a distinguere le sagome dei mobili. Mi sdraiai sul letto, poi fu su di me. Mi baciò a lungo, le nostre lingue s'intrecciavano e si scioglievano in una danza perpetua, ma instancabile. Con delicatezza sfiorò il mio ventre con le dita, fino a salire sulla curva dei seni e lì trattenni il primo gemito. Mi afferrai alla sua schiena forte per liberarmi della giacca e del top. La sua lingua prese a lambire la pelle scoperta della pancia e del collo, inarcai la schiena per slacciare i gancetti del reggiseno e ben presto lo sentii sui miei seni.  
Ero in estasi ed eravamo solo a metà dell'opera.
Ginocchioni su di me lo osservai disfarsi della maglia. Non riuscivo a smettere di fissare il suo fisico perfetto e la sua carnagione ambrata, così diversa dalla mia, così diabolicamente invitante. Mi sorrise malizioso e riprese a lasciare scie di baci su ogni centimetro di pelle libera da indumenti, mentre prendeva a slacciare i bottoni del mio jeans. Il primo, il secondo, il terzo, ma il quarto oppose resistenza.
«Accidenti» disse fra i denti, mentre la sua bocca era sulla mia. Ridemmo insieme e le mie mani andarono in soccorso alle sue. Mi sfilò i pantaloni, però questa volta fui io a prendere il controllo di lui, mettendomi cavalcioni e percorrendo con le labbra il suo addome glabro. Gli slacciai la cintura e tirai giù la lampo dei pantaloni. Eravamo entrambi in biancheria intima e il desiderio che avevamo l'uno dell'altra era così forte da poterlo afferrare concretamente. Quasi doleva. Aprii gli occhi e mi persi nei suoi: il castano pareva più scuro, l'aureola gialla brillava come il sole. Aveva il respiro irregolare e il viso madido di sudore. Era così perfettamente meraviglioso. Gli accarezzai la nuca.
«Rimani a dormire da me esta noite» la sua non era una domanda. Sorrisi con malizia, giocherellando con i suoi capelli.
«Dipende da lei… signor Cruz» ricambiò con uno splendido sorriso.
Feci l’amore come se fosse stata la mia prima volta, con l’ansia di sentirlo mio e di sentirmi sua, persi in un solo corpo, senz’altro al mondo, eccetto noi due.
Restò qualche secondo ancora dentro di me, senza smettere quell’espressione birbante. Gli diedi un simpatico buffetto sul viso, sorridendo a mia volta.
«Non montarti la testa!» Scherzai. Mi baciò in modo fugace prima di sdraiarsi al mio fianco e tenermi stretta. Poco dopo ci addormentammo: in fondo aveva passato il test, per quella notte potevo concedergli la mia presenza al suo canto.
 

 
L'acqua corrente è gelida a contatto con le mani, ed è proprio quello che mi ci vuole per rinfrescarmi le idee e destarmi da questo torpore. Fisso la mia immagine riflessa nello specchio. Non ho una bella c'era. D'altronde dopo una notte insonne a rimuginare minuziosamente su ogni evento che mi ha portato nella situazione attuale, a fare le scelte che mi aspettano, cosa pretendo? Attraverso l'ampio e breve corridoio che mi porta alla cucina, senza smettere di pensare per un solo momento a lei e a quella notte di passione.
La nostra prima notte insieme, dove ogni parte dei nostri corpi, ogni muscolo, ogni centimetro della nostra pelle furono coinvolti, travolgendoci in un ibrido di sensazioni eccitanti e meravigliose.
Quando quella mattina aprii gli occhi lei era lì, accanto a me, con le ginocchia strette contro i seni e i denti a rosicare nervosamente un'unghia. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé. Ancora stordito feci per allungare un braccio e stringerla, ma mi gelò con gli occhi.
«Cosa intendevi per amigo?»
Sbattei le palpebre un paio di volte, incerto. Puntellandomi sui gomiti mi misi a sedere, sentendomi una specie di rottame, abbozzai un sorriso.
«Non ridere» mi apostrofò severa. Ero sempre più confuso, feci per chiederle cosa le era preso, quale fosse il senso di quella domanda, ma di nuovo fermò ogni mio fare o dire.
«Dico sul serio, cosa intendevi per amigo?»
«Ma cos-» smise di guardarmi in faccia e riprese a morsicare le unghie.
«Perché io non l'ho capito e-e»
«Se mi fai parlare!» Sbottai infastidito da ogni sua interruzione. Si voltò di scatto, era evidente che non si aspettava un'esclamazione con tale impeto, ma perlomeno ero riuscito a catturare la sua attenzione. «Forse se mi spiegassi para o bem la situazione, potrei anche risponderti» lei tornò a guardare davanti a sé un punto inesistente.
«Ieri sera, quando ti sei presentato a mio padre, hai detto che eri “l'amigo di sua figlia”» prese una pausa. «Cosa intendevi per amigo?»
Non riuscii a trattenermi dal ridere. Robbie mi fulminò tra l'offesa e l'indignata. L'abbracciai e questa volta non oppose resistenza. Sdraiandola sotto di me intrecciai le mie gambe alle sue, avvertivo distintamente la sua rigidità contro il mio corpo. Esigeva una risposta, glielo leggevo nei suoi occhi azzurri. Di una cosa ero certo: non era quello il risveglio che mi sarei augurato, non era quella la frase che avrei voluto mi rivolgesse dopo la nostra prima volta, ma con Robbie ogni cosa è imprevedibile e fuori dagli schemi.
«Amigo è tutto quello che vuoi» i suoi occhi furono attraversati da uno scintillio appena percettibile, sebbene non fosse appagata da quella spiegazione. Pretendeva certezze.
«Robbie» era il tono che avrei usato per spiegarmi ad un bambino, «sto cercando di dirti che eu sou tuo e che tu sei meu, se lo-» mi passò una mano dietro al collo e spinse la mia bocca contro la sua. Le nostre lingue si avvinghiarono e le sue gambe si strinsero intorno alle mie, sentii immediatamente l'eccitazione concentrarsi nel basso ventre, poi mi sussurrò che avrebbe fatto una doccia.
Sentii distintamente il getto dell'acqua provenire dal bagno accanto alla camera dove me ne stavo sdraiato sul letto, a pancia in su, coperto per metà dalle lenzuola. Ero di nuovo eccitato, mi vedevo a possederla sotto la doccia, con lei aggrappata al mio bacino e la schiena contro le mattonelle bagnate. Mi alzai di slancio e la raggiunsi. Non sembrò meravigliata di vedermi. Ci sorridemmo da buoni intenditori, come due vecchi amanti che si lanciano uno sguardo furtivo e consapevole. La baciai con foga e in quel mentre pensai che non mi sarei mai potuto stancare di lei.
 
Apro il frigo e la luce all'interno inonda me e lo spazio circostante. Osservo il cibo e le bevande che questi contiene, senza vederli realmente. Distrattamente, o forse semplicemente per abitudine, afferro un bibita energetica - dal colore improbabile - e ne bevo un lungo sorso direttamente dalla bottiglia.
Sono trascorsi poco più di due mesi da quella mattina e solo una settimana fa, svegliandomi nel cuore della notte nel suo piccolo monolocale, mi accorsi che lei non era più accanto a me. La trovai in ginocchio e in lacrime sul pavimento del bagno.
Il suo sguardo era disperato, le sue parole incomprensibili. Feci per sollevarla da terra.
«VATTENE VIA!» Mi urlò contro, la sua voce era colma di rabbia. Scossi il capo, incredulo. Vederla così mi faceva male, era fragile e vulnerabile e non riuscivo a capirne il motivo. Mi accovacciai di fronte a lei, senza sapere bene cosa fare o cosa dire. La vidi coprirsi il viso e piangere, provai a parlarle con una calma innaturale.
«Robbie...» presi un po' di tempo, soppesando ogni minima parola. «Por favor, mi vuoi dire cosa è successo?»
Fu come se non avesse udito la mia domanda e feci un respiro profondo, sfiorandole i polsi per liberare il suo volto da quelle mani che lo nascondevano. Fu inutile.
Mi guardai attorno, in cerca di un indizio che mi aiutasse a comprendere la sua disperazione. Lo trovai sul bordo della vasca da bagno. Mi alzai, avevo la sensazione di muovermi al rallentatore, cominciando a rendermi conto della situazione, poi quello che vidi diede conferma ai miei timori.
Mi lasciai cadere con le ginocchia al suo fianco e l'abbracciai, tentò di liberarsi dalla mia morsa colpendomi all'addome e al viso. In parte riuscivo a comprendere la sua rabbia, anche se non del tutto. La strinsi fino a limitare ogni minimo movimento e, alla fine, si arrese.
 

 
Fisso lo schermo del notebook, oramai andato in standby, tutto nero, come il colore che vedevo davanti a me in quella notte in cui ogni progetto che avevo creato per il futuro si stava dissolvendo. Sospiro e volto lo sguardo al soffitto, mentre la pioggia riprende il suo scrosciare tumultuoso.
Mi chiedo se sarà d'accordo con la mia scelta.
Avverto dei passi dietro di me. È lui.
«Ehi» dice, sedendosi al mio fianco e lasciando distrattamente una bottiglia di bevanda energetica accanto alla mia tazza.
«Ehi» gli faccio eco, mentre lo osservo interagire con il PC. La luce artificiale del monitor gli illumina il viso, scorgo i segni della stanchezza e dell'insonnia, dei tormenti che evidentemente non lo lasciano da giorni, gli stessi che attanagliano il mio cuore e la mia coscienza. Istintivamente gli accarezzo una guancia e la barbetta ispida mi punge il palmo. Mi guarda e abbozzo un sorriso.
«Venha cá» bisbiglia, mentre circonda le mie spalle. Mi accoccolo sulle sue gambe e prende a carezzarmi i capelli, delineando la curva dei riccioli. Vorrei piangere.
Ricordo la disperazione e la paura che mi invase in quel momento, lontano solo pochi giorni – tre o forse quattro. Il terrore mi annebbiò ogni pensiero coerente, ogni possibile spiraglio di autocontrollo. Mi sorressi al bordo della vasca, piegandomi lentamente su ginocchia instabili e tremanti. Gli gridai di andare via, coprendomi il volto con le mani per non lasciargli vedere le lacrime, illudendomi che se le avessi nascoste non avrei dovuto affrontare le conseguenze. Mi strinse, ma cercai di allontanarlo colpendolo dove capitava, nonostante ciò non smise mai di abbracciarmi e alla fine, priva di forze, mi lasciai cullare. Dopo qualche minuto aggrappata alla sua canotta scura gli confessai di essere incinta. Mi strinse ancora più forte.
«Lo so» mi disse bisbigliando. «Lo so»,
«Cosa facciamo?» Il mio pianto si era trasformato in singhiozzi convulsi. Non riuscivo a ragionare e questa era la cosa che mi destabilizzava più di tutte, non riuscivo a trovare una via d'uscita e avevo l'impressione che la testa mi sarebbe esplosa da un momento all'altro. Fabrìcio prese a carezzarmi i capelli.
«Qual è il problema? Noi-» lo allontanai da me con una spinta e lo fissai rabbiosa, quasi offesa.
«Qual è il problema?!» Gli feci eco. «Qual è-il-problema?» Ripetei, scandendo parola per parola. «Te lo dico io qual è il problema» iniziai. «Il problema è che io non ti conosco, ecco qual è il problema! Il problema è che non voglio un bambino a rovinare i miei piani per il futuro! È tutto un problema!» Mi alzai e incamminai verso la camera da letto. Lui mi seguì a ruota.
«Cosa significa che non mi conosci?» Si tratteneva dall'urlare, ma io no. Io non riuscivo a catalizzare la rabbia.
«Stiamo insieme da due mesi, come puoi pretendere di conoscere una persona dopo due mesi?!» Le mie parole lo offesero, il suo sguardo si abbassò e strinse i pugni lungo i fianchi.
«Non ti lascerò» inizialmente non compresi la sua frase e gli chiesi di ripetere. Alzò di scatto gli occhi e li puntò dentro i miei. «È questa la tua paura? Che io ti possa abbandonare con il bambino?» Mossi l'indice davanti al suo viso in segno di negazione.
«Oh, no, no, no! Io non ho paura che tu mi possa lasciare da sola con un bambino, e sai perché?» Mi guardò severo, serrando la mascella, sapeva benissimo cosa stavo per dirgli ed era evidente che non gli piaceva, nemmeno un po', eppure dovevo dirglielo.
Dovevo.
«Perché IO non avrò nessun bambino.»
«Lo ucciderai?»
Questa volta fui io a guardarlo incollerita. Uccidere non era la forma verbale che più mi garbava.
«Smettila!» Esclamai, sedendomi sul letto e prendendomi la testa fra le mani.
«Di fare cosa?»
«Di fare esattamente quello che stai facendo!» Sbottai guardandolo. «Di farmi sentire in colpa per una colpa che non ho!» Si accomodò al mio fianco e mi sfiorò una mano. A quel contatto rabbrividii e sentii le lacrime riprendere a bruciare.
«È nostro figlio.»
Quelle parole mi piombarono addosso come un uragano. Mi alzai di scatto, scuotendo il capo, ripresi a piangere.
«Non è giusto» sussurrai, fece per abbracciarmi ma lo arrestai con il palmo delle mani appena prima che potesse toccarmi. «Come abbiamo potuto pensare che tra di noi potesse funzionare?»
«Non-»
«Guardaci, Fabrìcio, guardaci. Siamo il sole e la luna, siamo l'estate e l'inverno. Tu vuoi un bambino, io no. Io devo pensare al lavoro, alla mia carriera. A me stessa» sospirai.
Si voltò, dandomi le spalle, disse che sarebbe stato via qualche giorno con la squadra per una partita in trasferta, disse che al suo ritorno gli avrei dovuto comunicare la mia decisione, perché, a quel punto, la scelta era soltanto mia.
Disse che qualsiasi cosa avessi deciso, lui sarebbe stato dalla mia parte.
Disse che non mi avrebbe lasciata sola, mai.
E poi disse che senza il sole la luna non riuscirebbe a brillare.
Prese le sue cose e andò via.
Non ho avuto sue notizie fino a questa sera, quando ha bussato alla mia porta. Ci siamo salutati senza sorriderci.
Io ho fatto la mia scelta.
 

 
«Venha cá» sussurro, circondandole le spalle con un braccio, lascio che si sdrai sulle mie gambe. Nervosamente prendo a giocherellare con un suo ricciolo.
«Fabrìcio...» la sua voce è flebile, strozzata dal pianto che a stento trattiene. Mi stringe un ginocchio con la mano a volermi trasmettere tutte le sue paure e i suoi timori. Si nasconde il volto con l'altro palmo, come fa sempre per occultare le sue lacrime, infatti inizia a singhiozzare.
Credo di conoscere la sua decisione dal momento in cui ha scoperto di aspettare un bambino da me, e la conferma non sono queste lacrime o la tensione che mi trasmette attraverso la sua morsa, ma è stata la sua non-espressione sul ciglio della porta d'ingresso. Il suo volto era assente, i suoi occhi azzurri tendevano ad una strana tonalità di grigio, il suo sguardo imperscrutabile. Se dovessi descrivere Robbie in una parola userei il termine spenta. Né felicità, né rabbia sul suo viso ed è stata proprio la mancanza di quest'ultima a darmi la certezza che aveva fatto la sua scelta e che la nostra storia non avrebbe avuto un lieto fine.
Peccato.
«I-io…» piange e la luce di un fulmine penetra attraverso le tende. «Io no-non...» le accarezzo il capo, un groppo alla gola mi rende difficile parlare. Deglutisco e  facendo un ultimo sforzo mento, affermando che va tutto bene, deve solo stare tranquilla. Ma la realtà è un'altra, è diversa. Totalmente diversa. Affonda il viso nelle mie cosce e la lacrime mi bagnano il pantalone di felpa. «M-mi dispiace» balbetta. «Mi dispiace ta-tanto» continua e lentamente chiudo gli occhi. Sono umidi. Sto facendo un grande sforzo per evitare di chiederle di ripensarci o di prendersi ancora del tempo, perché so perfettamente che sarebbe del tutto inutile. Robbie ha fatto la sua scelta e non si tirerebbe indietro di fronte a niente.
Se la sto odiando per questo?
Non lo so, ma di sicuro non è amore quello che provo per lei adesso.
«Ho-ho prenotato in-in ospedale  per… pe-per…»
«Ok» è tutto quello che riesco a dire.
«Ve-verrai con me?» Ha smesso di piangere, ma la sua voce rimane rotta da singulti.
«Se vuoi...» stringo i pugni e mi auguro che dica di no, invece annuisce. «Ok» mi ritrovo a ripetere.
Un tuono interrompe il nostro momentaneo silenzio e solo ora mi accorgo di stare a fissare la copertina della mia biografia. Quei giorni mi sembrano lontani anni luce. La pioggia scrosciante ci fa da sottofondo, tuttavia questa volta non ci sarà alcun arcobaleno.
«Hai ragione tu» comincio e lei non si muove, non risponde, attende con il fiato sospeso. «Non siamo fatti per stare insieme» si allontana da me, tira su le ginocchia fino al petto. Non posso vederle ma so che le lacrime hanno ripreso a bagnare le sue guance. «Domani verrò con te» prendo un po' di tempo, «poi-»
«Ho capito» mi interrompe, il suo tono adesso è duro. La osservo alzarsi con lentezza, la coperta a quadri scivola ai suoi piedi e ho un vago ricordo di quando la spogliai del cappotto che, come un mantello, ricadde sul pavimento, proprio qui a casa sua, dopo la presentazione del libro. Ha il capo chino e non si volta a guardarmi mentre si stringe nel suo stesso abbraccio.
«Vado a letto» annuncia e a piedi nudi, proprio come piace a lei, scompare nel buio della casa.
"Poi è finita" stavo per dirle.
 
 

Epilogo


 
La sala d'attesa è vuota.
Ci siamo solo io e lui e questo enorme macigno che mi comprime tutta: testa, gola, stomaco… cuore. Faccio fatica a respirare. Ogni volta che inspiro sento una fitta che mi attanaglia l'addome.
Fabrìcio Cruz è seduto al mio fianco, lo osservo di soppiatto: ha lo sguardo perso nel vuoto, rivolto fuori dalla finestra, il è cielo è di un azzurro terso. Dalla conversazione di questa notte non ci siamo scambiati una sola parola. Ho come l'impressione che sia stata la nostra ultima chiacchierata.
Le sue mani - grandi e scure - sono intrecciate in grembo. Vorrei sfiorargliele, vorrei che prendesse le mie nelle sue e me le stringesse forte, per tranquillizzarmi, per farmi sentire che lui è qui.  Anche se dopo non ci sarà più.
Il suo volto è paurosamente spossato, con le occhiaie e la barbetta di qualche giorno non sembra neppure lui. Sto per chiudere la mano intorno alla sua quando un'infermiera annuncia il mio nome. Confermo la presenza con l'indice.
«Prego, si accomodi» continua, tenendo la porta aperta per me.
Mi alzo e le gambe tremano. Fabrìcio si volta a guardarmi, serio. Pagherei oro per vedere di nuovo un suo sorriso.
«Ti spiace se aspetto qui?»
"Tantissimo" vorrei rispondergli, invece gli rivolgo un flebile "no" scuotendo il capo. 
Nuda dalla vita in giù mi ritrovo distesa su questo anonimo lettino bianco. Alle pareti le immagini dell'evoluzione del feto.
Ho il cuore che martella nel petto come un ossesso, il mio corpo è scosso da brividi che non hanno nulla a che vedere con il freddo.
Stringo i pugni fino a farmi penetrare le unghie nella carne.
Ho bisogno di lui, ho bisogno che stia qui vicino a me a tenermi la mano, ho bisogno di sentire la sua presenza, il calore del suo corpo, il suo respiro, di vedere i suoi occhi striati di giallo dall'aria birbante e furbetta che mi scrutano, ho bisogno del suo immenso sorriso.
Un uomo alto e in camice bianco si avvicina, borbotta un saluto formale, quindi si copre il naso e la bocca con una mascherina mentre si accomoda sullo sgabello accanto al lettino. Mi punta un'enorme lampada in faccia e la luce mi abbaglia.
Cielo e se fa paura!
«Allora, signorina...» la sua voce è roca e profonda. «É sicura?» Mi chiede.
Lo guardo e improvvisamente ogni paura scompare, il cuore rallenta i suoi battiti, il peso della coscienza si alleggerisce.
«No» mi metto a sedere al centro del lettino e lui si toglie la maschera, adesso il suo sorriso è più spontaneo. «Ho cambiato idea. Scusi per il disturbo…» mi aiuta a scendere ed è lui a ringraziare me per la vita di mio figlio che ho appena salvato.
Fabrìcio è accanto alla finestra, con le braccia conserte guarda il cielo sconfinato e le montagne che si stagliano all'orizzonte.
Mi incammino nella sua direzione, nonostante i tacchi delle scarpe ticchettino sul pavimento di linoleum non si volta indietro. Lo affianco e vedo quello che ha rapito la sua attenzione: una scuola di equitazione, alcuni fantini saltano ostacoli in sella a splendidi puledri.
«Signor Cruz...» mi fissa sollevando un sopracciglio, io rivolgo lo sguardo al panorama, a stento trattengo un sorriso. «La avverto fin da adesso che sarà la mamma a scegliere il nome di suo figlio» ritorno a guardarlo e vedo un luccichio nei suoi occhi.
«Graças a Deus! Graças, Robbie!» Fa per abbracciarmi, ma lo fermo.
«Parlo seriamente: niente nomi sudamericani impronunciabili» mi afferra il viso con entrambi i palmi e mi bacia. Il contatto delle nostre labbra è delicato. Uno, due, tre baci casti, poi la sua lingua incontra la mia. Il suo sapore, il suo profumo, con le dita gli sfioro i riccioli morbidi, poi il collo. Ho un'inaspettata e furente voglia di lui. Di noi.
 
Siamo sul divano di casa mia, lo stesso che questa notte ci ha visti distanti chilometri e chilometri, scossi da emozioni simili e insieme diverse.
Sul tavolino vi sono ancora la tazza da cui ho bevuto la camomilla e la bottiglia della sua bevanda energetica, vuota per metà: testimoni imparziali della notte appena trascorsa. E poi, ovviamente, c'è il mio ultimo libro che parla di lui.
In un attimo gli sono addosso cavalcioni, le sue mani sono ovunque sul mio corpo nudo, le mie dita lo accarezzano lungo la schiena e l'addome, le nostre lingue, di nuovo congiunte, si muovono frenetiche e bramose. Ogni tanto mi lascio sfuggire un gemito di piacere quando mi sfora la spina dorsale. Il nostro infinito bacio continua anche adesso che si distende su di me, sfregando i nostri sessi, ancora vestiti.
«Robbie...» mi chiama fra i denti mentre mi spoglia delle mutandine, e la risposta che ottiene è un mugolio. «E se facesse male al bambino?» Sghignazzo, senza allontanare la mia bocca dalla sua, sento il desiderio che ho di lui crescere smisuratamente.
«Oh, ma farà tanto bene alla mamma» alza appena il capo per guardarmi, le nostre labbra si separano, noto il suo sorriso intrigante. So cosa sta per fare: mi entra dentro, di netto, strappandomi un ansimo lungo e profondo. Riprende a baciarmi soffocando i miei gemiti, senza darmi tregua o un momento per riprendere fiato.
 
Tanto è inutile: nostro figlio porterà il nome che sceglierò io.
O almeno credo.



fine

  
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