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Autore: TotalEclipseOfTheHeart    01/07/2017    2 recensioni
Unico Erede al Trono di Shukai - Shi, Ryujin appartiene a alla specie dei Naga, Dragoni millenari votati a difendere la razza umana dalla minaccia dei demoni.
Ormai raggiunto il suo 777° Anno di Vita, per lui è arrivato il momento di entrare ufficialmente nel mondo degli adulti, abbandonando le sue fattezze umane per diventare, finalmente, un Naga a tutti gli effetti.
Per farlo, però, deve, innanzitutto, ottenere il proprio Karisuma, l'essenza stessa del potere di un Naga.
E solo sconfiggendo 100 Oni, all'interno del Naraka, la Dimensione Demoniaca, potrà riuscirvi.
Con lui, vi sarà Hitomi, sua ancella e amica d'infanzia.
Tuttavia, Ryujin non desidera affatto prendere il suo posto tra i Naga. Ed è fermamente convinto che la guerra che vede la sua specie opporsi, per proteggere gli umani, agli Oni da migliaia di anni non possa appartenergli.
Durante questo viaggio alla ricerca di sè stesso, si troverà ad affrontare quelle paure che mai è riuscito a sconfiggere prima ... e, forse, anche qualcosa di più.
Storia partecipante al contest "Stelle d’Oriente” Indetto da Dollarbaby sul forum di EFP
Storia partecipante allo "Yin e Yang Contest" Indetto da Jadis_ sul forum di EFP
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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CAPITOLO II – IL NARAKA




Ricordo ancora molto bene quei momenti.
Sebbene infatti i racconti sul Passaggio dei Naga non fossero certo pochi, vivere la discesa nel Naraka in prima persona era un qualcosa di completamente diverso, ben differente da ciò che mi ero immaginato per tutto quel tempo e quasi impossibile da spiegare a parole verso coloro che non hanno avuto modo di vivere tale esperienza in prima persona.
Superato il Portale, ci trovammo all’interno di uno stretto, angusto e dannatamente umido percorso sotterraneo. Il soffitto era bassissimo, le pareti in roccia umida e coperta di muschi putridi, a tratti così tagliente che bisognava prestare parecchia attenzione per non finire col ferirsi. Un gocciolio sommesso e continuo riecheggiava presso il sentiero, che si districava tra pozze di liquido scuro, odore di chiuso e continue svolte e curve, tanto che non ci mettemmo certo molto per perdere totalmente il senso dell’orientamento.
Io incedevo per primo, mentre Hitomi mi era alle spalle, la mano imperlata di sudore freddo che stringeva convulsamente il mio yukata in cerca di un minimo di conforto.
Ci vollero almeno tre ore, per emergere finalmente nel Naraka vero e proprio.
Improvvisamente, il sentiero iniziò ad allargarsi, lasciando spazio a un paesaggio ben differente. La riva del Namida no Kawa, il Fiume Infernale, si estendeva per leghe e leghe di fronte a noi, mentre una spiaggetta di ciottoli di un bianco spettrale conduceva alle acque torbide del corso. Il Namida no Kawa, così chiamato a causa dei lamenti dei dannati che provenivano dalle sue onde tumultuose, era composto unicamente da acque rosse e scarlatte come il sangue appena versato: un contrasto insolito con i ciottoli bianchi e perfettamente ovali delle sue rive. L’aria era satura di polveri, che si insinuavano in ogni dove impedendo quasi di respirare, coprendo ogni superficie possibile e avvolgendo l’atmosfera con un forte odore di gesso bruciato e zolfo. Uno spettacolo terribile ma unico al tempo stesso.
Sospirai, depositando momentaneamente a terra i bagagli ed estraendo una vecchia e consunta mappa di viaggio che, da generazioni, guidava i Naga per quelle lande desolate alla ricerca del proprio Karisuma e, quindi, anche di sé stessi. Sebbene, notoriamente, solo la presenza delle Elette, giovani vergini consacrate al Rito del Passaggio, consentiva di capire chiaramente in che direzione ci si stesse dirigendo.
Si trattava di un semplice pezzo di pergamena ingiallito e rovinato dagli anni, ma ancora affidabile e perfettamente utile allo scopo. Lo osservai tetro, e per la prima volta mi ritrovai a sbattere il muso contro tutta la difficoltà della missione che mi aspettava: il Naraka si estendeva per miglia e miglia sottoterra. Era una landa infida e desolata, dove era quasi impossibile sopravvivere se non per gli Oni che vi abitavano, un luogo orribile e inospitale, la cui sola traversata ci avrebbe impiegato, nel migliore dei casi, mesi e mesi di viaggio. Solo superare lo Shirosa Baku, il Deserto Bianco (che a dispetto del nome candido era una landa sterminata e fredda dio solo sa quanto, ma evidentemente gli Oni speravano che, chiamandola così, sarebbe parsa più come un villaggio vacanza) ci avrebbe potuto prendere mesi.
E, diciamocelo, pensavate veramente che fossi il tipo da sprecare il mio INESTIMABILE tempo per un percorso simile? Figuriamoci, non ero minimamente disposto a spendere tutte quelle ore per un viaggio alla cui fine avrei trovato solo un’orda di demoni schizzati, senza garanzia di ritorno e col rischio di finire all’obitorio prima ancora di entrare nella Città delle Ossa. No … infatti, nei giorni precedenti avevo quindi maturato un’ideucccia davvero niente male.
Ok, forse, c’è un motivo preciso se tutti i miei predecessori non l’avevano mai presa in considerazione.
E forse, e sottolineo forse, era l’idea più folle, assurda e bacata che potesse mai capitarmi per la testa. Motivo per cui non avrei certo esitato a metterla in atto!
Ora, è notoriamente risaputo che, tra i demoni, ve ne è uno, e solo uno, in grado di valerne almeno 100 dei suoi simili. Nessuno sapeva quale fosse realmente il suo nome, e d'altronde, era impossibile aver modo di conoscerlo, trattandosi di una creatura così antica e misteriosa da superare di gran lunga, in termini di età, anche i Naga più anziani. Non si sapeva da dove venisse, ma d’altronde poco importava, almeno per i fini della mia ricerca.
Gli Oni solevano rivolgersi a lui come l’Imperatore.
E già qui potete capire il perché a inizio capitolo abbia detto che tale idea, ossia quella di sconfiggere lui invece che i 100 demoni, fosse totalmente e indiscutibilmente assurda.
La cosa però non finisce qui.
L’Imperatore era il sovrano indiscusso degli Oni, la loro autorità massima, e diversamente dalla maggior parte di loro, la sua sede si trovava dal lato opposto del Naraka, nella capitale.
Orochi si ergeva verso Sud, e il tratto che ci separava da essa era indubbiamente più breve di quello che avremmo dovuto percorrere attraversando il Deserto Bianco (che d’ora in poi, per ovvi motivi, chiamerò il Deserto delle Fregature). Con un po’ di fortuna, il viaggio ci avrebbe impiegato poco più di una settimana.
Un affare unico, no?
C’era però un altro piccolo, minuscolo e totalmente insignificante dettaglio, da aggiungere ai motivi per cui altri avrebbero ritenuto la mia idea a dir poco suicida.
Ossia, l’Akai Sabaku o Deserto Rosso (e dal nome potrete capire la straordinaria fantasia che gli Oni possiedono nell’affibbiare nomi in giro). Altrimenti conosciuto come il Cimitero dei Naga.
E con questo ho detto tutto. Fatto sta che si trattava di un apparentemente piccolo e innocuo deserto, le cui sabbie rosse come il sangue venivano continuamente spazzate da tempeste e dove orientarsi, senza ovviamente un’Eletta al seguito, era pressoché impossibile. Inoltre, i vapori e i fumi presenti nell’atmosfera erano a dir poco nocivi per noi Naga, così terribilmente letali che, a dire il vero, si riscontravano si e no un paio di casi in cui lo sfortunato fosse sopravvissuto alla loro inalazione. E anche lì era stato tutto un colpo di fortuna.
Comunque, io ero convinto che la traversata non sarebbe stata affatto impossibile.
Con una buona preparazione, e un turbante coperto d’acqua addosso, ero certo che riuscire nell’impresa non avrebbe potuto certo rivelarsi così complicato come tutti lo descrivevano … o almeno lo speravo.
Risparmiandomi mesi e mesi di tragitto inutili e sfiancanti.
Per poi, finalmente, potermene fare ritorno a Shukai – Shi, a rilassarmi fino all’apparentemente imminente dipartita di mio padre.
Geniale, no?
Purtroppo, non avrei avuto vita facile.
Specialmente visto e considerato che, per quanto spesso persa e sbadata, Hitomi non era certo il tipo da farsi fregare così facilmente.
 

Accadde durante il nostro terzo giorno di viaggio.
Per tutto il tempo, avevo accuratamente evitato di mettere Hitomi a conoscenza del mio progetto suicida, così che, una volta arrivati presso l’Akai Sabaku, con un po’ di fortuna non avrebbe potuto costringermi a fare dietro front nemmeno volendo … o almeno era questa la mia speranza.
Fatto sta che, improvvisamente, mentre percorrevamo ancora la riva del Namida no Kawa, diretti a Sud, sentii un tonfo netto alle mie spalle, e i passi di lei fermarsi. Alzai gli occhi al cielo, esasperato, e già pronto a scommettere che, probabilmente, aveva finito nuovamente con l’inciampare nei propri piedi, finendo dritta distesa a terra.
Mi voltai, per poi alzare un sopracciglio, lievemente sorpreso nel vedermela di fronte. Integra, con le mani sui fianchi, la sacca da viaggio abbandonata a terra e un cipiglio insolitamente furioso in viso.
Sentii il sangue defluirmi dal volto, mentre gli occhi color acquamarina di lei dardeggiavano assassini su di me, e quindi sorrisi, con aria falsamente innocente, cercando di dire: “E-ehi … che fai ferma lì? Guarda che la marcia verso lo Shirosa Baku è ancora lunga … ehm …”
Questa volta, fu lei a inarcare un sopracciglio, e improvvisamente nella mia mente iniziò a fare capolino una bruttissima deduzione. Che avesse seriamente compreso come, per tutto quel tempo, non avessi fatto altro che giocarla?
La conferma arrivò un istante dopo, quando, dopo aver inspirato profondamente, lei finalmente esplose: “TU!”, e già qui eravamo messi male. Insomma, solitamente, lei preferiva sempre darmi del Voi, come d’altronde era stata educata a fare, in qualità di mia ancella e servitrice. Tuttavia c’erano momenti, sebbene solitamente (e fortunatamente) molto rari, in cui lasciava perdere quel piccolo convenevole e, in preda all’ira (solitamente ingiustificata, visto che ovviamente io ero un gran santo e non mi cacciavo proprio mai nei guai, come avrete capito da questo racconto), iniziava a darmi del Tu … oltre che dell’idiota, dell’imbecille, dell’irresponsabile e tanti altri epiteti certamente immeritati. E quando lo faceva … beh, era meglio correre ai ripari.
Comunque, dove ero rimasto?
Ahhh, si …
“TU!”, sbottò, il viso rosso dall’ira, “Sei – un – grandissimo – deficiente Ryujin Amaterasu Tianlong VII!”, raggelai, sentendo il mio nome completo e realizzando che, molto probabilmente, non sarei nemmeno arrivato a Orochi, visto che lei avrebbe risparmiato all’Imperatore Oni la fatica di ammazzarmi, “Seriamente credevi che non avrei capito quello che ti passava per la testa? -Dobbiamo andare a Sud per trovare un guado-, dice lui … come no! Altro che guado e guado, tu stai andando a Sud perché vuoi attraversare l’Akai Sabaku, vero?!?”
Sorrisi, cercando di impostare l’aria da cucciolo innocente più realistica che potessi elaborare, per poi dire, dolcemente: “Eddai Tomi …”, sorrisi tra me e me, sapevo bene come, quando usavo quel soprannome, alla fine lei capitolasse sempre, “… lo sai che non mi farei MAI venire in mente un’idea così folle e assurda, no? Siamo cresciuti insieme … mi ci vedi veramente ad andare incontro a morte certa SOLO per risparmiare qualcosa come mesi e mesi del mio personalmente preziosissimo tempo?”, chiesi.
Lei incrociò le braccia, e in effetti non aveva proprio tutti i torti. Visto che, da come l’avevo buttata giù, pareva che fosse proprio quella la mia intenzione.
Quindi sbuffò: “No, che non lo so. Visto e considerato come, da piccolo, ti cacciassi sempre in situazioni simili … perché -VOLEVI VIVERE LA VITA AL MEGLIO- .”, disse, mimando (e a mio parere anche abbastanza male) una delle mie espressioni tipiche, per poi riprendere, “Però questo … ohhh, no, no, no … che potesse passarti per la testa un’idea simile. Nemmeno io lo avrei mai immaginato. Non se ne parla neanche, tu non ti farai ammazzare, non finché ci sono io qui a guidarti.”
Sospirai, esasperato.
Ecco, ora capite perché non volevo portarmela dietro?
Insomma, quando ci si metteva, sapeva essere davvero incredibilmente fastidiosa.
Mi fossi preso su una delle Elette del Tempio, non avrei nemmeno dovuto tribolare tanto, per convincerle. Dopotutto, forse quelle tipette erano anche totalmente prive di carattere, ma, almeno, non mettevano puntualmente in discussione tutte le mie decisioni come invece faceva lei.
Cadde il silenzio, mentre continuava a fissarmi decisa. Non mi serviva un gran genio per comprendere come, dalla sua insolita postura, non avrebbe mosso più nemmeno un passo per seguirmi.
Quindi … beh, feci la sola cosa che mi rimaneva da fare.
“E-ehi … l-lasciami andare immediatamente, razza di scemo!”, sbottò, mentre, senza tante cerimonie, me la issavo in spalla. Ringraziai il cielo per la sua totale mancanza di peso, che mi permise senza problemi di mettermela in spalla, per poi avviarmi deciso per quella strada che, ormai, avevo ufficialmente deciso di percorrere.

 
Continuò a urlare come una gallina fino a sera, al punto che, quando finalmente la lasciai andare a terra per preparare il campo, mi sentii quasi sollevato.
Avevo le orecchie che mi fischiavano come non mai, e mentre lei si piazzava a braccia incrociate ai miei piedi iniziai a sistemare le nostre cose, preparandoci per la notte.
Quando finalmente ebbi finito, mi voltai, alzando un sopracciglio nel vederla ancora ferma lì, più seria e arrabbiata che mai. Il mio sguardo saettò rapido verso il fuoco, e quel pasto non ancora pronto, visto che, solitamente, fino ad allora era stata lei a occuparsi della preparazione di pranzo e cena.
Tornai a fissarla, questa volta visibilmente scocciato. La cosa iniziava a darmi seriamente sui nervi, e sentivo che, di quel passo, avrei finito veramente col mollarla lì e proseguire da solo. Anche se, senza lei che era un’Eletta, non avrei avuto modo di riconoscere il Nord dal Sud nemmeno volendo, cartina o non cartina che fosse.
“Allora? Che fine ha fatto il mio pranzo?!?”, chiesi, osservandola infastidito.
Gli occhi di lei mi sfiorarono appena, mentre un lampo di frustrazione li attraversava fulmineo.
“Puoi benissimo arrangiarti da solo, principino. Io non muoverò più un dito, fino a quando non avrai deciso di tornare indietro e riprendere il vecchio percorso.”, disse, voltandosi quindi di lato, più determinata che mai a non cedermi nemmeno un centimetro di terreno nella nostra muta lotta a chi l’avrebbe avuta vinta.
Sbuffai, rimboccandomi le maniche e dicendo, altrettanto cocciutamente: “Bene … significa che mi arrangerò da solo. Non mi serve certo il tuo aiuto.”, affermai, prima di armeggiare con le bisacce, alla ricerca di qualcosa per preparare la cena.
Per essere sincero, non avevo nemmeno la più remota idea di come avrei fatto. Insomma … fino ad allora, quando ero stato al Palazzo di Giada ci pensavano i cuochi a soddisfare il mio insaziabile appetito, e da quando eravamo partiti era stata sempre Hitomi a preparare i pasti.
Tuttavia, la determinazione di mostrarle che, nonostante tutto, potevo cavarmela anche senza di lei era troppo forte per farmi demordere, quindi mi diedi da fare … senza successo.
Non avevo nemmeno la più pallida idea di come approcciare quell’insolita situazione, per cui andai a naso. Mentre cercavo di mettere dell’acqua sul pentolino in rame, per fare un brodo, mi scottai qualcosa come una decina buona di volte. Poi, cercai di tagliare le verdure … ma diavolo … come faceva lei a farlo così bene? Erano così umide che schizzavano via ogni volta che cercavo di prenderle, e la carne era durissima.
Dopo qualche minuto di lotta affiatata con le vivande, fu con un: “Cazzo!”, ben poco educato che ritrassi un dito, osservando un lento gocciolio di sangue dorato laddove il coltello era penetrato nella carne.
Osservai critico la ferita.
Non pareva grave, solo estesa, con una buona fasciatura non avrebbe avuto problemi a rimarginarsi. Solo che, da solo, non avevo nemmeno la più pallida idea di come farla.
Intanto, per tutto il tempo lei non mi aveva perso d’occhio nemmeno per un istante.
Osservò critica il mio approccio alla cena, e solo dopo realizzai come, nel frattempo, avesse continuato a ridacchiare divertita da sotto i baffi, posandosi una mano davanti per non essere notata.
Tuttavia, non appena vide il coltello che mi penetrava nelle carni, mi si precipitò subito a fianco. La osservai sorpreso, visto che, comunque, non pensavo si sarebbe mai smossa dalla sua decisione di non aiutarmi.
Però non dissi nulla, limitandomi a guardarla in silenzio mentre, zitta, iniziava a pulire la ferita e fasciarla. Quando ebbe finito, osservai silenzioso il suo operato: “Questa farà male per un po’.”, osservai, afono, mentre lei mi guardava in silenzio.
La sentii sospirare, mentre si alzava e, dandomi alle spalle, iniziava ad armeggiare con le verdure: “Comunque non credere di averla passata liscia, chiaro? Sono ancora contraria a questa cosa. Visto che però se dipendesse da te moriremmo tutti di fame, qui ci penso io.”, disse, senza nemmeno voltarsi. La osservai sorpreso, poi sorrisi.
Dopotutto, aveva perfettamente ragione.
Mi sedetti in un angolo, osservandola in silenzio e riflettendo cupo sulle sue ultime parole. Effettivamente, se non fosse venuta con me probabilmente sarei morto di fame da tempo … e non solo … era lei che sapeva come orientarsi in quel posto, e solo lei sapeva fare il bucato, così come trovare cibo anche in quelle lande o reperire dell’acqua potabile.
Io, invece, oltre a tirare di spada, non era che servissi proprio a molto.
Fino ad allora, in effetti, non ci avevo mai riflettuto particolarmente. E adesso che quella consapevolezza aveva iniziato a fare capolino nella mia mente non potevo che sentirmi frustrato, all’idea di dover dipendere (IO!) in tutto e per tutto da una semplice e comunissima umana.
Non potevo tollerarlo.
La fissai, quindi mi alzai, con un sospiro.
Rimuginarci sopra non mi avrebbe certo aiutato, per cui dissi, tranquillo: “Bene … io vado ad allenarmi. Voglio essere pronto quando sarà ora e … chiamami se hai bisogno.”, dissi, mentre lei sorrideva, divertita.
Certo, come se io, lì, avrei potuto essere di un qualche supporto.
Glielo leggevo in faccia che non ci credeva nemmeno lei.
Tuttavia, non dissi niente, incassando il colpo in silenzio e dirigendomi taciturno verso il retro dell’accampamento, il bokken* stretto in pugno.
Ovviamente, per affrontare l’Imperatore avrei utilizzato Yoosenmaru, la mia katana … fino a quando non fossi però giunto a destinazione, avrei preferito non doverla sfoderare. In parte, perché non volevo utilizzarla per niente e in parte perché … beh, quell’arma aveva una storia molto particolare alle spalle, e ogni volta che la impugnavo avevo come la netta sensazione di avere un enorme peso sulle spalle.
Mi era stata donata da Hitomi … quando compii il mio 100° Anno di Vita.
Inizialmente, non ero poi così intemperante, come divenni invece negli anni successivi.
Passavo il mio tempo al Palazzo di Giada, correndo dietro a Makoto, chiedendogli di portarmi sempre in giro con lui, anche quando aveva delle importanti faccende burocratiche da portare a termine. Ero un ragazzino solare ed energico e io e lei eravamo unitissimi … passavamo il tempo a giocare assieme, nonostante la disapprovazione dei miei tutori, che proprio non riuscivano a comprendere la mia amicizia nei confronti di una servitrice e, peggio ancora, di un essere umana qualunque.
Loro però non erano gli unici a vedere male quella mia abitudine.
Anche gli altri ragazzini, figli di nobili, si chiedevano perché preferissi passare il mio tempo con lei piuttosto che uscire a giocare con loro. Pensavano che fosse quanto mai strano … non avevo altri amici all’infuori di lei, e non parlavo quasi con nessuno, fatta eccezione Hitomi e Makoto.
Un giorno … le cose finirono col degenerare.
Come tutti i pomeriggi, io e lei ci eravamo messi d’accordo per incontrarci alle Scuderie Reali, perché volevo insegnarle la caccia col falcone, arte solitamente riservata solo ai membri più illustri della nobiltà.
Quando arrivò, visibilmente in ritardo e con un grosso livido violaceo sull’occhio, non ci misi molto a fare due più due. Anche perché, già allora, lei non era proprio capace di tenermi segreto qualcosa, e la assillai così tanto per sapere chi l’avesse ferita in quel modo che alla fine cedette.
La sera, andai dagli altri ragazzini.
Per la verità, sebbene a quel tempo fossi molto diverso, una caratteristica rimaneva sempre.
Il mio masochismo.
No, quello non è mai cambiato.
E si che, di fronte a una dozzina buona di ragazzini, alcuni dei quali anche più grandi di me, avrei pur dovuto capire quanto il mio proposito di vendetta fosse del tutto folle.
Tuttavia, in quel momento ero troppo fuori dai gangheri per pensarci … prima ancora che potessero salutarmi (che bastardi … facevano pure come se niente fosse accaduto! Pensai …) ero già loro addosso.
Menando calci e pugni come un forsennato, gridando a squarciagola e si … forse ci diedi un po’ troppo dentro con quelle minacce di morte.
Fatto sta che, alla fine, gli stronzetti tornarono a casa a piangere dietro le sottane delle loro madri, e io finii in infermeria. Con qualche osso rotto, innumerevoli lividi e un occhio pesto.
Quando, comunque, quella sera Hitomi venne da me in lacrime, fu con un sorriso fiero (ma abbastanza ammaccato a dire il vero) che l’accolsi, dicendo che era tutto finito e che, d’ora in poi, nessuno l’avrebbe più ferita.
Peccato che, almeno sulla prima parte, mi sbagliassi di grosso.
Mio padre non prese affatto bene la storia della rissa.
E decise quindi di darmi una punizione esemplare.
Mandando per i successivi 10 anni Hitomi presso il Tempio delle Elette.
Ora … non fu tanto l’idea di vederla andare via a traumatizzarmi, quanto la consapevolezza di ciò che significava essere un’Eletta.
Tutti sapevano molto bene cosa fossero le Elette, e quale destino, spesso e volentieri, le attendesse. Vergini a vita, fungevano da “bussola” all’interno del Naraka ed erano costrette a rispondere immediatamente a qualsiasi Naga decidesse di convocarle. Sebbene fosse considerato un grande onore (certo, costringessero me a restare vergine per sempre probabilmente mi ucciderei prima) spesso finivano per perdere la vita nella propria missione. Visto e considerato che, comunque, nessun Naga era realmente interessato a farle sopravvivere.
Comunque, quella decisione mi fece letteralmente rimanere di sasso.
Non potevo sopportare l’idea di perderla, e sebbene lei l’avesse presa, come sempre d’altronde, bene non potevo che chiedermi se mai l’avrei rivista.
Quando partì, poche settimane dopo, l’aspettavo all’ingresso del palazzo, a capo chino, così da nascondere quelle lacrime che, nonostante tutto, iniziavano già a incresparmi gli occhi, cercando di fuoriuscire.
Non avevo mai pianto prima, non in pubblico almeno. Dopotutto, odiavo mostrarmi debole di fronte agli altri, tuttavia quella volta non potei proprio trattenermi, e quando lei mi venne incontro, abbracciandomi sorridente, prima di guardarmi intensamente negli occhi. Per un istante, trattenni il fiato, mentre quelle iridi color acquamarina riuscivano, come sempre, a penetrarmi nell’animo e a farmi sentire, sebbene non di molto, più tranquillo.
Quando li abbassai, vidi che mi aveva depositato in mano una katana.
La osservai, perplesso, senza capire realmente cosa volesse dire.
Fu lei a rispondere: “Così, la prossima volta che vuoi cacciarti nei guai per aiutare qualcuno potrai difenderti a dovere. Si chiama Yoosenmaru.”
Osservai ammirato la spada, sorridendo appena nel sentire quel nome così particolare.
Era bellissima, leggera come una piuma, ma affilata come un rasoio. La lama era completamente nera, come l’inchiostro, con intarsi dorati che ne decoravano il piatto nei pressi dell’impugnatura, foderata in tessuto onice e oro. La tsuba andava a formare il disegno di un dragone, mentre il filo lievemente seghettato le donava un’aria magnifica e letale al tempo stesso.
Ne rimasi letteralmente conquistato.
La osservai, non sapendo bene cosa dire, ma anche lo avessi saputo, non avrei potuto comunque fare nulla. Prima che potessi anche solo salutarla, il gruppo di sacerdoti giunti per condurla al Tempio del Sole l’avevano già allontanata da me, guidandola in silenzio per il sentiero che, da lì, l’avrebbe condotta verso la sua nuova vita.
Inutile dire come, dopo tutto ciò, trascorsi un lungo periodo chiuso in me stesso.
Il senso di colpa, il dolore e la solitudine mi accompagnavano ovunque andassi, e la consapevolezza di essere il solo e unico responsabile del suo allontanamento mi corrodeva il cuore, impedendomi di dormire e pensare.
Tuttavia, i mesi passarono, trasformandosi in anni.
Lentamente, mi convinsi che, se non mi fossi mai legato a un essere umana come lei, nulla di tutto ciò sarebbe mai accaduto. Lei non mi sarebbe stata portata via, in un viaggio senza garanzia di ritorno, e io non avrei passato tutto quel tempo a soffrire per quel vuoto che, ormai, era quasi divenuto parte integrante di me stesso.
Così, divenni l’uomo che sono ora.
Freddo e indifferente ai dolori degli altri, così da non rischiare di provare nuovamente quella sofferenza. Concentrato su me e me soltanto, così da non dover temere di perdere qualcosa. Sempre e solo alla ricerca di una felicità che, ero convinto, avrei potuto trovare affogando quel peso invisibile che mi assillava da anni nei piaceri e negli svaghi, senza pensare più a nulla.
Eppure, mentre, il viso imperlato di sudore, continuavo a muovermi agile in quella sera silenziosa, non potevo non chiedermi se, per tutto quel tempo, avessi realmente intrapreso la strada giusta. Mi ero isolato dal resto del mondo, sperando di non dover dipendere più da nessuno, ma, senza i miei servitori e le mie ancelle, da solo non valevo nulla.
Ciò che era accaduto quel giorno ne era la prova. Senza Hitomi, sarei stato completamente perso.
Fu allora, credo, che decisi, seppure tacitamente, che, almeno, avrei dovuto fare qualsiasi cosa per riportarla a casa sana e salva. Se la spada era il mio unico pregio, allora che la usassi almeno per difenderla.
Era il minimo che potessi fare, altrimenti, la consapevolezza di dover dipendere in tutto e per tutto da lei mi avrebbe corroso da dentro.
 

Raggiungemmo l’inizio dell’Akai Sabaku il giorno seguente.
Per tutto il tragitto, Hitomi non aveva più spiccato parola. Certo, continuava a occuparsi dei pasti e di tutto il resto come prima, anche se dubitavo che lo facesse più per mancanza di alternative che altro, tuttavia, non mi aveva più parlato.
Immaginai che, come avevo sperato nel tenerle nascosto il mio progetto, alla fine si fosse rassegnata all’idea di seguire quel piano. Anche perché, comunque, tornare indietro sarebbe stato totalmente deleterio, ora che eravamo a un passo dal raggiungere la nostra meta.
Comunque, alla fine eravamo arrivati ai margini del Deserto Rosso. E che dire?
Non avevo mai visto nulla del genere. Certo, non è che fosse proprio il tipo di posto che si suggerirebbe per le vacanze estive ma … era comunque di una bellezza unica e sublime, per quanto indubbiamente letale.
Proprio attorno a noi, si distendeva una landa rossa come il sangue, le cui sabbie fini quanto polvere magica venivano spazzate solo ogni tanto da lievi sbuffi di vento bollente, mentre dune altissime si alternavano le une alle altre. Un paesaggio sterminato e infinito, in cui il tempo pareva quasi fermarsi, tale era l’afa e la caluria di quel posto, così intense da creare giochi di tremolii e illusioni evanescenti di fronte ai nostri occhi stupiti. Alto, sopra il nostro capo, un sole lucente, la cui origine non avrei certo saputo spiegare, visto che ci trovavamo sottoterra … comunque, fatto stava che, in quel luogo fuori dallo spazio e dal tempo, quell’astro dannatamente cocente continuava a starsene sempre lì, fermo e immobile, a ustionarci le spalle e ad assistere in silenzio alla nostra solitaria traversata. Visto che, da quando ci eravamo addentrati in quelle lande, non avevamo intravisto alcun segno di anima viva.
Eppure, quando quel giorno iniziammo ad addentrarci nel deserto, nulla avrebbe mai potuto farmi pensare che quello fosse proprio l’Akai Sabaku, il leggendario Cimitero dei Naga. Fatta eccezione per il caldo straziante, non vedevo traccia delle famose polveri e fumi in grado di uccidere persino un Drago adulto, né tantomeno mi sentivo particolarmente affaticato.
Ovviamente, dovevo ancora comprendere come, in realtà, tutto ciò non facesse altro che parte di una trappola mortale in cui, di quel passo, avrei finito col caderci dentro senza speranza di uscita.
 

Ormai, nessuno di noi due sapeva più quanto tempo fosse passato. O quanto mancasse alla meta.
Inizialmente, il viaggio era stato perfettamente tranquillo. Caldo bestiale a parte, procedevamo spediti e decisi, fermandoci per riposare e ripristinare il turbante coperto d’acqua che, di comune accordo con Hitomi, avevo deciso di indossare nella speranza di filtrare, seppure di poco, quelle fantomatiche polveri di cui, a dire il vero, fino ad allora non avevamo nemmeno scorto traccia.
A soli tre giorni di marcia, però, le cose erano cambiate completamente.
Il clima prima tranquillo del deserto era improvvisamente cambiato, quasi come a seguire il muto ordine di una forza maggiore ancora ignota, e in meno di pochi istanti ci eravamo trovati avvolti da una fittissima tempesta di sabbia, sballottati da un lato all’altro e del tutto incapaci di vedere anche solo a un palmo dal naso.
Hitomi e io ci tenevamo il più stretti possibile, il capo chino sotto i cappucci in seta, cercando di ignorare al meglio la sensazione della sabbia bollente che entrava nelle vesti, nelle nari … ovunque, rendendoci impossibile anche solo respirare o tenere gli occhi aperti.
Lentamente, passo dopo passo, continuammo la nostra marcia.
Anche quando i nostri piedi iniziarono ad affondare nella sabbia, e ci trovammo costretti ad aprirci un varco con la forza delle gambe per proseguire. Anche quando il bruciore di quelle polveri incandescenti non iniziò a roderci la pelle, sgretolandola e arrossandola fino a causarci ferite tanto dolorose quanto sfiancanti. Anche quando, dopo ore e ore di marcia continua a ininterrotta, sentimmo le forze venirci lentamente meno.
Eravamo in trappola.
Quel posto maledetto ci aveva letteralmente giocati.
Facendoci percorrere un tragitto così lungo, prima di colpire impietoso col proprio veleno, ci aveva tolto letteralmente ogni speranza di fuga. Non potevamo tornare indietro, sapevamo bene come, altrimenti, saremmo certamente morti nel viaggio. Quindi, che ci piacesse o meno, eravamo costretti a proseguire, cercando di ignorare al meglio quella situazione sempre più disperata.
Iniziai a rendermi conto essere rimasto indietro al terzo giorno di quell’inferno mortale. Quando alzai il capo, verso sera, mi accorsi con stupore di come, nel frattempo, Hitomi avesse continuato a proseguire, lasciandomi a parecchi passi di distanza. Inoltre, con mio sommo stupore, mi dovetti anche rendere conto di come, chissà per quale motivo, la mia vista iniziava a farsi sempre più sfocata. Continuavo a incedere, fermamente convinto che non potesse essere nulla, ma presto mi dovetti rassegnare alla dura verità: non riuscivo a vedere più niente. Gli occhi erano sempre più pesanti, la testa scottava, mi ritrovai ad appoggiarmi alla spalla di lei senza nemmeno rendermi conto di come ci fossi finito, mentre parole confuse e lontane mi giungevano all’orecchio.
Sapevo che era lei a pronunciarle, ma ero così confuso e intontito che mi sembravano quasi un miraggio lontano e remoto, una melodia dolce e suadente che mi incoraggiava a proseguire. E così mi imposi di fare.
Incedetti, passo dopo passo, masticando ogni singolo istante di quella tortura infernale, cercando di guadagnarmi, pollice su pollice, anche solo un minimo di vantaggio contro quel nemico invisibile e spietato, in una lotta che, iniziai a temere, non si sarebbe mai conclusa. Non prima della mia infausta dipartita, almeno.
Le febbri sopraggiunsero poche ore dopo.
Sentivo il corpo farsi sempre più bollente, un torpore letale mi avvolgeva le membra, invitandomi a lasciarmi andare, mentre la schiena di ingobbiva esausta sotto quel senso di suadente pesantezza che mi trascinava sempre più in basso. Giù, giù, giù fino a un oblio senza fine.
Sotto le palpebre socchiuse, immagini indistinte e lontane continuavano ad alternarsi senza sosta. Una sequenza apparentemente priva di senso, ma che riconduceva il me stesso di allora a quel percorso che mi aveva fatto diventare ciò che ero, facendomi riassaggiare, istante dopo istante, ogni singolo ricordo. Ogni singolo dolore. Ogni singola perdita.
Rivissi, come fosse accaduto il giorno prima, la mia infanzia.
Il legame con Hitomi, la mia innocenza ancora priva di preoccupazioni e timori, totalmente all’oscuro di come, in realtà, il mondo sia crudele e ognuno non sappia che pensare solo e soltanto a sé stesso. Rividi quell’amore (perché si, realizzai, quello era amore, seppur ancora acerbo, indifeso e inconsapevole, ma era amore) che ci aveva uniti. Quel sentimento fragile e indeciso, innocente e inesperto … così debole che, quando la tempesta era arrivata, si era sciolto come neve al sole. Lasciando solo un vuoto senza fine alle proprie spalle.
L’ammirazione per mio fratello. I giorni passati a rincorrerlo su quelle mie gambette ancora piccole, cercando sempre di stargli accanto, anche quando, a dire la verità, i suoi doveri avrebbero dovuto intrattenerlo altrove. Eppure, constatai con rammarico, lui trovava sempre un momento per me. Ogni volta che ne aveva l’occasione, mi permetteva di assistere ai concili di guerra, di accompagnarlo nei suoi viaggi, di stare sveglio con lui fino a tardi per rispondere alle missive della nobiltà. Perché, se ero io, Makoto sapeva sempre trovare un momento libero da dedicarmi.
E poi, a coronare il tutto, lui. Mio padre.
Tianlong era, e sarebbe sempre stato, per me e per tutti l’essenza stessa del potere. La sua forza e il suo carisma non avevano rivali, e il mio desiderio, seppure mai realizzato, di essere degno della sua stima e del suo rispetto era sempre stato parte integrante del mio modo di vivere.
O almeno, fino a quando tutto non era cambiato.
Non ero mai riuscito a perdonarlo realmente per aver costretto Hitomi a diventare un’Eletta. E da quel giorno, il nostro rapporto si incrinò irrimediabilmente, finendo sepolto sotto strati e strati di rancore inespresso che mi condussero, negli anni successivi, a staccarmi sempre di più da quella vita di corte che non faceva altro che suscitare in me il più autentico disgusto. Non sopportavo i volti falsamente adulatori dei suoi seguaci, non tolleravo la presenza, sempre e immancabilmente pressante, di tutti quei lecchini e consiglieri, a dirmi cosa fosse o non fosse opportuno fare per un giovane principe della mia età.
Unica consolazione era, forse, la presenza di quell’unica figura che accennava, seppure silenziosamente, a comprendere il mio disagio: mio zio, Shenlong.
Nonostante l’indole radicalmente differente, lui era sempre stato, per me, l’unica ancora di salvezza in quel mare d’ipocrisia e pomposità senza fine. Aveva rappresentato un idolo e un mentore, da seguire e imitare con tutto me stesso … era quella parte di me stesso che mai avrei saputo esprimere. Eppure, diversamente da me, lui sapeva sempre come muoversi all’interno della corte, così da non far trapelare il proprio disprezzo e mascherarlo nei momenti più opportuni con continue e assidue viaggi verso terre lontane.
Mi resi definitivamente conto di stare delirando quando, la sera, ci accampammo per la notte.
Sebbene a fatica, alla fine lei riuscì a erigere una tenda per proteggerci dalle sabbie, e una volta all’interno si mise subito all’opera per preparare dell’acqua fresca e degli impacchi per farmi scendere la febbre.
Seguivo i suoi movimenti intontito e, per la prima volta dopo anni e anni, iniziai a chiedermi come avessi fatto a non notarla per tutto quel tempo.
Le sue movenze erano, seppure pregne d’ansia e preoccupazione, pur sempre aggraziate e sublimi. Si muoveva decisa, perfettamente consapevole, anche tra le lacrime e i singhiozzi causati dalla mia situazione sempre più precaria, di ciò che stava facendo e ciò che doveva essere fatto.
Ok, va bene. Forse, quelle febbri mi avevano completamente dato di volta il cervello, visto come, ormai, mi fossi ripromesso di non cascarci una seconda volta.
Tuttavia qualcosa, probabilmente quella parte dei miei neuroni ancora funzionante (ed erano pochi), mi diceva che forse non avevo mai smesso realmente di vederla in quel modo, o quantomeno di sperare che le cose tornassero come prima. Ero consapevole, almeno in parte, che tutta quell’ammirazione improvvisa nei suoi confronti non poteva essere completamente frutto delle febbri o della mia immaginazione, e quella coscienza mi scuoteva e mi turbava al tempo stesso.
Aprire nuovamente il mio cuore a simili sentimenti avrebbe inevitabilmente significato rimanerne ancora scottato, ed ero sicurissimo che fosse l’ultimo mio desiderio.
Tuttavia, fu solo quando era ormai troppo tardi che mi resi conto di come, tra una riflessione cretina e l’altra, avessi completamente perso il senno. Infatti, quando mi venne appresso, e cercò di consolare il mio dolore con una pezza d’acqua fresca, mi sfuggì, in modo totalmente INNOCENTE E INVOLONTARIO (o forse no … non ne sono ancora venuto a capo): “Ma tu, chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?”
Ecco … questo è il fatto.
Ora vi starete certamente rotolando a terra dal ridere.
Eppure lo dissi veramente, e lei, arrossendo come sempre quando le facevo (seppure di rado) dei complimenti, abbassò il capo, mormorando: “Mio signore, vi prego. Le febbri vi stanno facendo parlare senza coscienza di causa … io sono solo la vostra umile ancella.”
Sorrisi, scuotendo il capo rassegnato.
Dopotutto, lei era sempre stata così: innocente, modesta e incredibilmente gentile. Con tutti e verso tutti … dovevo essere pazzo per non averlo capito prima.
Tuttavia, non avevo ancora compreso quanto la sua dedizione nei miei confronti fosse realmente potente. Ma lo capii molto presto.
 

Il giorno seguente, le mie condizioni non erano minimamente migliorate.
La febbre non accennava a passare, mi rodeva il petto con vampe di calore sempre più potenti, e in alcuni istanti mi pareva quasi di sentire il petto scoppiare, mentre il cuore pompava il sangue nelle vene con una forza mai provata prima. La gola era secca, riarsa dal dolore e della sete, e le palpebre si chiudevano pesanti sugli occhi spossati.
Eppure, al contrario, gli altri miei sensi parevano come affinati da quella situazione sempre più vicina alla morte che mi assillava. Percepivo con chiarezza i movimenti di Hitomi al mio fianco, i suoi singhiozzi disperati e le sue lacrime fedeli … potevo quasi vederla, muoversi assidua da un lato all’altro della tenda, cercando invano di farmi stare meglio.
Improvvisamente, però, parve chetarsi. Alzai, seppure forzatamente, il capo, e allora la vidi.
Stava consultando un vecchio tomo, un manoscritto tramandato di generazione in generazione alle Elette per imparare a gestire e comprendere i propri doveri e poteri.
E quando il suo sguardo, questa volta non più umido di lacrime ma carico di determinazione, incontrò il mio, capii subito cosa volesse fare.
E sentii il terreno inghiottirmi.
Scossi il capo, improvvisamente più lucido, dicendo: “No … non se ne parla nemmeno. Non ti permetterò di fare una cosa del genere per aiutarmi. Vattene … io non posso tornare indietro, ma ora che la morte mi sta già sussurrando suadente all’orecchio, nulla ti intrattiene realmente a starmi accanto. Torna in superficie, creati una nuova vita. Nessuno verrà a cercarti.”
Lei sorrise, e fu allora che lo notai. Per la prima volta, nel suo sguardo: un amore cieco, sincero e profondo.
“Va tutto bene, mio signore. Se siete voi, sarò più che felice di donarvi la mia innocenza … è il solo modo. Sapete bene quanto me che solo il cruore e la verginità di un’Eletta possiede un potere sufficiente a curare il vostro male e se … se sarà necessario per guarirvi, io … sono perfettamente disposta a fare questo sacrificio anche se … anche se sono consapevole che per voi io non varrò mai altrettanto.”, sorrise, questa volta, però, nei suoi occhi vidi anche una tristezza, profonda e implacabile, che mi scavò un vuoto nel cuore.
E l’avrei anche fermata, se proprio in quell’istante le sue labbra non si fossero posate sulle mie. Sgranai gli occhi, sorpreso e indeciso, come non ero mai stato realmente di fronte a nessun’altra donna.
Come immagino avrete certamente già compreso, io non ero proprio un gran stinco di santo in termini di castità, e non avevo mai avuto tante difficoltà a trattare con una fanciulla come mi succedeva con lei.
Tuttavia, ero troppo debole per oppormi quindi, che mi piacesse o meno, fui costretto ad assecondarla, mentre, lentamente, si infilava sotto le coperte e, trepidamente d’attesa inespressa, mi spogliava del kimono e dell’obi, per poi osservare silenziosa quel fisico che, tante volte, si era trovata a curare nei periodi di malattia e sconforto.
Sentii i suoi occhi color acquamarina sondarmi l’animo, andando oltre l’armatura di freddezza e indifferenza che avevo eretto negli anni, osservando silenziosa quel vuoto profondo e inconsolabile che si era formato a seguito della partenza di lei e del tradimento di Makoto.
Voltai il capo, incapace di sostenere quello sguardo in grado, come sempre, di far emergere quei lati di me che spesso vorrei non possedere nemmeno.
Fu lei a sollevarmi il mento, costringendomi a guardarla negli occhi mentre, lentamente, si spogliava a sua volta, lasciando cadere quelle sete che coprivano il suo fisico esile e leggiadro a terra. Osservai, silenzioso, quel fisico che, seppure quasi privo di curve, possedeva lo stesso fascino di uno spirito dei boschi.
La pelle scintillava, perfetta e candida, sotto il lume del candele profumate, mentre i capelli corvini, simili a inchiostro fuso, le cadevano lungo i fianchi, lisci e perfetti. Le mani, piccole ma perfettamente curate, corsero rapide sul mio viso, sfiorandolo appena, con timore quasi reverenziale, per poi toccare lievemente quella chioma dorata di cui ero sempre andato tanto fiero.
Sorrise, timida, mettendosi a cavalcioni su di me e iniziando a percorrere la mia pelle, bollente a causa delle febbri, con una scia di delicati baci.
Sospirai, chiudendo gli occhi e, per la prima volta dopo lungo, lunghissimo tempo, decisi di lasciarmi tutto alle spalle.
Di dimenticare ogni cosa, di scordare il dolore passato e le preoccupazioni future. Non volevo più pensare, desideravo solo abbandonarmi a quelle carezze così dolci e delicate, a quegli occhi così innocenti e a quell’amore tanto fedele e cieco, al punto da sfiorare quasi la venerazione.
Sorrise, quasi potesse realmente sentire i miei pensieri, e, lentamente, iniziò a sfiorarmi, inesperta e indecisa, certo, ma non per questo meno determinata.
Sorrisi, tra me e me, mentre iniziavo ad assecondare i suoi gesti.
Quella notte, a dispetto della tempesta di sabbia che, impietosa, continuava a infuriare fuori dalla nostra tenda, noi consumammo la nostra notte assieme. E nonostante il mio senso di colpa, nonostante il dolore nel vederla donarsi con tanta dedizione a me, nonostante il futuro sempre più incerto, almeno per un istante, potei finalmente vedere uno scorcio di luce nel mio orizzonte. Non ero più solo un principino capriccioso e indifferente, non dovevo più temere il rancore e il biasimo della corte perché sapevo che, per lei, sarei stato sempre solo e soltanto io. Senza doveri, senza oneri o titoli.
E per questo fui felice.
Il nostro rapporto fu dolce, delicato.
Feci il possibile per renderla quell’esperienza il meno dolorosa possibile (sebbene, a dire il vero, ero così rincretinito da capire a malapena DOVE fare COSA, ma dettagli, le mie straordinarie doti riproduttive avrebbero compensano ampiamente a tale mancanza).
Passai la notte al suo fianco, a sfiorare silenzioso quei seni perfetti, quel ventre piatto e liscio, quel collo così esile e innocente. Ascoltai deliziato i suoi sospiri, mentre quei gemiti lievi mi facevano sorridere divertito, e intanto la vidi, seppure nel rossore delle sue gote innocenti, togliersi l’intimo, annuii, silenzioso.
 

Confesso che svegliarmi, all’alba del giorno seguente, mi fu dannatamente difficile.
E non tanto perché stessi ancora male (seriamente, fino ad allora avevo sempre creduto le leggende sul potere della cosiddetta “Innocenza Celestiale” solo delle immense, colossali ed enormi bufale) in fatti, a dire il vero, sprizzavo vitalità da tutti i pori.
Insomma, non mi ero mai sentito meglio in vita mia (eccetto forse quando quel fulmine mi aveva colpito, ma è abbastanza noto come i Naga siano in grado di incanalare l’energia astrale contenuta negli elementi). Era come se fossi risorto a nuova vita, l’adrenalina mi scorreva potente nelle vene, e avevo persino la netta impressione che anche il mio potere spirituale ne fosse uscito fortificato, al punto che ero assolutamente impaziente di proseguire col nostro viaggio.
Il problema fu, piuttosto, il silenzio da funerale che era caduto tra me e Hitomi subito dopo quella notte.
Lei, il viso rosso e imbarazzato, il capo chino e gli occhi lucidi, non riusciva nemmeno a guardarmi in faccia (e non certo perché fosse andata male, perché diciamocelo, sono troppo geniale per fallire su quel fronte). Più che altro, avevo la netta e a dir vero sempre più spiacevole impressione che lei, per tutto il tempo, non avesse mai realmente pensato che ciò che era accaduto tra noi due potesse essere più che un “Andiamo a letto assieme così ti salvo la pelle”.
E la cosa, dovevo ammettere, mi lasciava non certo indifferente.
Anzi, per la prima volta, mi chiedevo come diamine avessi fatto a raggiungere quel punto.
Perché, ogni volta che la guardavo, pareva convincersi sempre di più che io non potessi aver tratto nessun piacere da ciò che era successo tra noi due? L’avevo veramente costretta, con i miei anni di continua e costante indifferenza, ad avere una così bassa opinione di sé. Non riuscivo proprio a capacitarmene … la sola idea che lei potesse arrivare ad abbandonare tutte le proprie speranze e a denigrarsi in quel modo solo a causa mia mi risultava totalmente inconcepibile.
D’altra parte, però, nemmeno io sapevo esattamente come prendere in mano quella situazione.
L’avevo ignorata e sottovalutata per anni, dando per scontata la sua presenza per così tanto tempo da non rendermi mai realmente conto di quanto fosse indispensabile per me. Come potevo anche solo PRETENDERE di cercare delle scuse?
Non ero assolutamente nella posizione di poter avanzare delle pretese su di lei.
Non dopo che, di sua spontanea volontà e perfettamente consapevole della realtà dei fatti, lei mi aveva concesso comunque la sua prima volta. Senza curarsi del fatto che, per quanto ne sapeva, probabilmente l’avrei ricordata come solo una delle tante fanciulle che mi ero portato a letto. Insomma … non potevo proprio dire di essere messo bene.
E ne ero perfettamente consapevole.
Quindi, ci limitammo a sistemare le nostre cose, ognuno immerso nel proprio silenzio, e metterci in marcia per proseguire il viaggio.





Note dell'Autrice:
Eccoci qui con un nuovo capitolo.
Finalmente, è emerso qualche nuovo dettaglio su come Ryujin sia diventato quello del racconto.
Tuttavia, non è certo tutto qui, nei prossimi capitoli troverete molte altre sorprese ... comunque, per ora, spero che la storia sia stata di vostro gradimento. Ringrazio tutti coloro che continuano a seguirmi e mi hanno accompagnata per questo percorso.
Detto questo, attenddo i vostri commenti, e alla prossima!

Teoth
   
 
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