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Autore: Raptor Pardus    06/07/2017    1 recensioni
Per primo vidi il nero.
Poi apparve il rosso, quando il cielo si illuminò dell’immensa alba.
Il gigantesco disco dorato del sole emerse dall’arida pianura e la illuminò tutta, portando il giorno in quella che mi apparve essere la savana africana.
La piana, dal picco da cui la osservavo, pareva deserta, desolata, morta.
Un lieve vento, ancor più arido della pianura, soffiava fresco spazzando l’erba secca.
Mi chinai a toccare la terra sulla quale mi ero svegliato, curioso come un bambino che per la prima volta gattona.
Una zolla di terriccio ricoperto d’erba, isolata in mezzo alla nuda roccia rossa, spuntava solitaria e pietosamente fiera ai miei piedi.
Osservai ipnotizzato quei gracili fili mossi dalla brezza, affondai le dita nel friabile terreno scuro e me ne riempii la mano.
Avvicinai quel delicato tesoro al mio viso, ma appena aprii il palmo la terra e l’erba si polverizzarono, volando via in grigi vortici avvitati nell’aria.
Non sapevo come ero arrivato lì, non sapevo nemmeno quando l’avevo fatto, però sapevo una cosa, avevo un pensiero fisso che mi martellava nella testa, incuneandosi come un chiodo nel mio cervello, insistente.
Acqua, dovevo trovare assolutamente dell’acqua.
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Incubus

 
Per primo vidi il nero.
Poi apparve il rosso, quando il cielo si illuminò dell’immensa alba.
Il gigantesco disco dorato del sole emerse dall’arida pianura e la illuminò tutta, portando il giorno in quella che mi apparve essere la savana africana.
La piana, dal picco da cui la osservavo, pareva deserta, desolata, morta.
Un lieve vento, ancor più arido della pianura, soffiava fresco spazzando l’erba secca.
Mi chinai a toccare la terra sulla quale mi ero svegliato, curioso come un bambino che per la prima volta gattona.
Una zolla di terriccio ricoperto d’erba, isolata in mezzo alla nuda roccia rossa, spuntava solitaria e pietosamente fiera ai miei piedi.
Osservai ipnotizzato quei gracili fili mossi dalla brezza, affondai le dita nel friabile terreno scuro e me ne riempii la mano.
Avvicinai quel delicato tesoro al mio viso, ma appena riaprii il palmo la terra e l’erba si polverizzarono, volando via in grigi vortici avvitati nell’aria.
Non sapevo come ero arrivato lì, non sapevo nemmeno quando l’avevo fatto, però sapevo una cosa, avevo un pensiero fisso che mi martellava nella testa, incuneandosi come un chiodo nel mio cervello, insistente.
Acqua, dovevo trovare assolutamente dell’acqua.
Fissai di nuovo l’orizzonte.
Il cielo rosso andava ora schiarendosi, passando ad un arancio desertico pieno di sfumature azzurre.
Scrutai la pianura, cercando i segni di una qualche fonte d’aiuto, ma non un villaggio appariva all’orizzonte.
Inspirai a fondo e mi misi in cammino, scendendo da quella scogliera esotica.
Scesi a valle, aiutandomi con un ramo spezzato trovato non so dove, apparso nelle mie mani non so quando.
Andai verso Ovest, lasciandomi il sole alle spalle, andando dritto non so perché verso un punto che l’istinto senza motivo diceva essere il mio obbiettivo.
Camminai per ore, giorni forse, persi subito il conto del tempo che passava a ogni mio passo, mentre il sole pigramente correva a rilento lungo la sua tratta.
Ero avvolto nel silenzio, se si escludeva il lieve ululato del vento che mi raggiungeva quando un rigoglioso baobab mi si parava davanti.
Essi erano l’unica forma di vita che mi appariva in salute e mi davano speranza, spingendomi a continuare lungo il mio cammino.
All’improvviso mi sentii osservato, ma non provai nemmeno a voltarmi verso la scura figura che avvertivo essere alle mie spalle, seguendomi come un ombra lungo il mio cammino.
Continuavo a camminare, sempre nella stessa direzione, mentre il sole lentamente giungeva al suo primo zenit, eppure sapevo che era passato più tempo di ciò che il cielo mi diceva.
Davanti a me apparvero finalmente i primi animali, mentre con sollievo mi sentivo di nuovo libero dal peso di chi mi spiava.
I primi ad apparire furono alcuni elefanti, lontani dietro una collina, tutti diretti nella mia stessa direzione, poi apparvero delle zebre, e infine poche giraffe, qualche leggiadra gazzella e alcuni pigri gnu.
Tutti come me in cerca d’acqua, tutti maledettamente scarni e gracili, assetati oltre ogni dire.
Infine vidi un cavallo, in perfetta forma e persino sellato, un baio di magnifica bellezza che brucava noncurante l’erba secca.
Finse di non notarmi quando mi avvicinai a lui, e a malapena avvicinò il muso alla mia mano quando la porsi per accarezzarlo, ma non fece storie quando montai in sella.
Lentamente ci dirigemmo di nuovo verso Ovest, mentre il sole poco a poco accelerava sempre più, fino a giungere all’orizzonte.
Eppure… non avevo camminato più di prima.
Questa notte fu stellata , di una bellezza disarmante, ma non durò che pochi secondi, allontana dal sole che faceva di nuovo capolino da oriente e giungeva in qualche minuto al tramonto, poi di nuovo in pochi secondi, in un ciclo sempre più rapido.
Il cavallo mi portò finalmente al limite di un crinale, dietro il quale si stendeva la vastità del deserto, a perdita d’occhio, e finalmente, in mezzo a quel mare pieno di sabbia, un’oasi rigogliosa, un lago di un azzurro cristallino circondato da verdi palme.
Scesi da cavallo e percorsi la distanza che mi separava dalla salvezza, ma essa sembrava non diminuire mai.
Il sole aveva smesso di tramontare, fermandosi finalmente all’orizzonte davanti a me, accecandomi.
Mi voltai, e vidi che il cavallo era sparito, senza lasciare traccia.
Mi voltai di nuovo verso la pozza, e nuovamente mi sentii osservato, schiacciato dalla presenza che mi toglieva il fiato con la sola percezione del suo sguardo addosso.
Faticosamente avanzai sulla sabbia che lasciava il posto alla terra rossa, scurita dall’umidità, ma più mi avvicinavo, più un peso mi spingeva giù, facendomi piegare pur di continuare.
Arrivai finalmente alla mia salvezza, strisciando, ma quando allungai la mano per toccare l’acqua, ebbi un colpo.
Essa non c’era, non ne rimanevano che le ossa, ancora attaccate dalle cartilagini.
Urlai, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono.
Mentre perdevo consistenza e venivo risucchiato verso l’alto, vidi il mio scheletro rannicchiato sulla riva del lago, in posizione fetale.
Poi il buio.
 
Riaprii gli occhi e mi ritrovai immerso nel blu.
Ci misi poco a capire che mi trovavo nel vasto e sporco bagno di un qualche grosso locale abbandonato.
Sentivo solo il rumore dei miei battiti, accelerati dalla paura, intervallati dal ronzare della malandata luce al neon che illuminava vagamente la stanza, con quel profondo alone azzurro.
Il terrore mi colse mentre, strisciando i piedi, abbandonavo quei disgustosi locali e mi ritrovavo nel corridoio di un ospedale immerso nel buio.
Ero completamente solo, accompagnato solo da sedie a rotelle e barelle accatastate lungo i muri, illuminati ogni tanto dalle scintille di una lampada rotta, che invano tentava di riaccendersi, fiacca.
Il cuore batteva all’impazzata, martellando come un cannone nel mio petto, facendomi scendere gocce di sudore freddo lungo le tempie, facendomi digrignare i denti mentre affogavo nella disperazione.
Una presenza in fondo al corridoio mi fece salire un brivido lungo la schiena.
Arrivò tra le scintille e lo sfrigolante rumore di un corto circuito, lenta come un ariete pronto a sbrecciare le mura della mia lucidità mentale.
La pelle tumefatta, ricoperta di tagli infetti e spacchi grondanti pus, ricopriva un fisico asciutto, un corpo nerboruto e imponente, un gigante fatto di dolore e atroci sofferenze, di disgusto al solo guardarlo.
Iniziai a correre nella direzione opposta, voltandomi rare volte indietro solo per rendermi conto che quell’essere mi seguiva impassibile, lanciandomi dietro le attrezzature mediche in un vano tentativo di rallentarlo.
Lui, nudo, le travolgeva ignorandole.
Più io correvo più lui si avvicinava, facendosi sempre più grande davanti ai miei occhi, rendendo più definiti i dettagli della sua faccia.
Occhi iniettati di sangue spuntavano in quel viso di suino che nascondeva le fauci di un lupo, dai denti aguzzi e grondanti saliva.
Le sue mani vuote, enormi come badili, per me reggevano mannaie che mi spingevano a correre ancora più velocemente, ignorando le fitte che iniziavano ad attanagliarmi i polmoni.
Sbattei contro una porta a doppio battente, bloccata dall’altra parte e dura come la roccia.
Invano cercai di aprirla, spingendo, invano cerca di sfondarla, tirando calci contro le maniglie di lucido metallo in cui vedevo riflessa la paura che il mio corpo rivelava.
Non provai nemmeno a urlare, ma piansi come un neonato, sbattendo i pugni contro i vetri da cui potevo scorgere un altro infinito corridoio, la mia salvezza, fino a farmi male alle mani e a ricoprirmi di sangue le nocche.
L’essere mi raggiunse che ancora piangevo, i miei singhiozzi coperti dal suo lugubre ringhio sommesso.
Non mi aggredì né si scompose, semplicemente alzò una mano e mi toccò.
Il gelido contatto mi fece venire i conati di vomito, in un moto di repulsione che mai avevo provato prima, che mi spingeva a schiacciare la schiena contro i battenti, pur sapendo che non vi era via di scampo.
Mi fissai il petto, dove mi aveva toccato, proprio sul cuore, dove sentivo l’ustione del ghiaccio che mi stava entrando in corpo, e mi accorsi che mi stavo scarnificando.
La pelle e i muscoli si consumavano, lasciando scoperte le ossa sbiancate e ricoperte di vene e gli organi che si liquefacevano in un fiume di maleodorante pus.
Il mio pianto divenne un muto urlo, mentre mi accasciavo sul pavimento dell’ospedale e divenivo uno scheletro.
Di nuovo la morte mi aveva preso, lasciando di me solo le ossa.
Di nuovo mi sentii separato dal mio corpo, poi il buio.
 
Questa volta mi svegliai in un campo di grano, dorato e pronto alla mietitura.
Il cielo, che in un primo momento mi era apparso dorato anch’esso ma di una tonalità più pallida, divenne improvvisamente di un azzurro intenso, attraversato qua e là da qualche bianca nuvola filiforme.
Accarezzai il grano, sentendo dentro di me un profondo calore.
Non so perché, ma sentivo di aver compiuto la mia missione.
Acqua era l’unica parola che mi sembrava di conoscere, era tutto ciò che mi attraversava la testa.
Lontano, al centro del campo, vasto come un deserto, sorgeva una solitaria fattoria tutta in legno, accompagnata nella sua solitudine solo da un mulino a vento americano, le cui pale in lenta rotazione, cullate dal vento, cigolavano sommessamente.
Non ne capivo il motivo, ma quel mare di grano mi riempiva di felicità.
Girai su me stesso per guardarmi intorno, sorridendo, e nel tempo di un istante tutto cambiò.
I miei occhi tornarono sulla fattoria, ora fumante e annerita, la sua carcassa esplosa in una nube nera e fluida che si muoveva contro di me, palesemente controvento.
Il terrore mi colse mentre la macchia scura si faceva sempre più vicina, mentre il suo ronzante frastuono mi assordava le orecchie, facendomi capire che erano locuste grandi quanto il palmo della mia mano e intente a divorare ogni cosa.
Quando quello sciame mi circondò, un varco si aprì sulla fattoria, dandomi un falso barlume di speranza, durato un istante e seguito di nuovo dalla più cupa disperazione.
Di nuovo l’oscura creatura era di fronte a me, e lentamente avanzava nel grano, insensibile alle locuste che le si avvicinavano, evitandola accuratamente all’ultimo.
Non feci nemmeno in tempo a urlare né provai a voltarmi per fuggire, poiché le locuste mi furono addosso e mi divorarono la carne seduta stante, ognuna staccandone un morso, lasciando solo le mie ossa in mezzo alle messi stuprate e massacrate.
E ancora una volta su di me calò il buio.
 
Quando ripresi coscienza il campo non era più dorato, ma verde e viola.
Le piante che vi crescevano forti e rigogliose sembravano di fragola, ma erano alte quanto spighe di grano e su di loro crescevano prugne.
Sapevo che tutto ciò era assurdo, ma finsi inconsciamente che tutto quello fosse la normalità.
Il cielo era lo stesso di prima, di un azzurro intenso e velato qua e là di bianco, ma la fattoria era sparita.
Al suo posto ora vi era una ragazza, bionda e riccioluta, dai boccoli color del grano, con indosso solo un semplice vestito rosso ricoperto di piccoli pois bianchi.
Sorrisi di nuovo e le corsi incontro mentre lei volteggiava tra le piante, sorridendomi innocentemente.
Stranamente stavolta riuscivo ad avvicinarmi senza problemi, senza che i miei piedi affondassero in una melma invisibile, senza che lo spazio tra di noi si allungasse a dismisura.
Non so come mi venne in mente il suo nome, pur sapendo che non avevo mai visto quella donna in vita mia ma, appena aprii la bocca per chiamarla, mi sentii sprofondare nel vuoto.
La terra si aprì sotto di me divorandomi e io caddi in un abisso oscuro e profondo.
Sbattei contro le pareti e gli speroni di roccia, scorticandomi gli arti e la faccia, mentre la luce diveniva sempre più un lontano ricordo, e infine, dopo una caduta durata un’era, impattai contro il suolo.
Ero incredibilmente vivo, eppure cieco, ma ancora cosciente del mio corpo, non come le altre volte.
Mi alzai spolverandomi dolorante, guardandomi intorno e cercando di vedere il cielo alto sopra di me, ma nulla vedevo in ogni direzione se non l’oscurità.
Eppure sapevo che sopra di me si apriva una crepa lunga quanto l’equatore stesso.
Abbassai lo sguardo disperato, sperando che una soluzione, non potendo dall’alto, venisse dal basso.
Un puntino luminoso apparve lontano nell’oscurità, un’ancora di salvezza in un abisso di solitudine.
Mi incamminai verso di lui, ma più mi avvicinavo, più le mie spalle si facevano pesanti, schiacciate dalla pressione di ciò che vi era sopra di me.
Non sapevo come ero ora in una fossa in fondo al mare, potevo vedere le bolle di aria che abbandonavano la mia bocca, nonostante non sentissi il bisogno di riprendere fiato né l’acqua che mi invadeva la gola.
La luce oramai era davanti a me però, potevo allungare un braccio e stringerla nella mia mano, ma come la sfiorai con un dito mi accorsi dei due pallidi occhi che mi fissavano affamati.
L’enorme pesce degli abissi a cui avevo toccato l’esca mi fissò per un lunghissimo istante, durante il quale mi sentii come circondato da viscide meduse giganti, eppure solo insieme a quel mostro, che infine spalancò la bocca, mostrandomi la sua fitta selva di lunghi denti affilati come rasoi.
Per un attimo vidi di nuovo, dentro la sua gigantesca bocca, quel maledetto essere che mi inseguiva.
Poi i suoi denti calarono su di me e mi strapparono la pelle con un morso, lasciando di me solo le ossa.
 
Alzai la testa urlando, come svegliandomi da un’orribile incubo.
Davanti a me non c’era che metallo grigio, sporco di alghe e salsedine.
Mi guardai intorno impaurito, spaesato, di nuovo solo.
Ero su una vecchia chiatta da sbarco, circondato da gemiti e pianti, rumori di eliche nell’acqua e motori al lavoro, e dallo sciabordio del mare che si infrangeva in piccole onde contro le paratie della goffa imbarcazione.
Sulla mia testa pesava un elmetto americano, sulle mie spalle gravava uno zaino militare, tra le mie mani imbracciavo un fucile semiautomatico, ma non capivo perché ero lì.
Ero solo, in mezzo all’oceano, senza un commilitone, senza un ufficiale, senza nemmeno il pilota di quel mezzo che procedeva da solo in mezzo alle scure acque verdi dell’Atlantico.
La chiatta impattò contro qualcosa, l’assordante suono di un fischietto mi perforò i timpani e il portellone del mezzo si abbassò in un pesante clangore metallico.
In automatico corsi sulla spiaggia grigia, urlando come un pazzo mentre intorno a me altri fantasmi urlavano come pazzi anch’essi, in mezzo al fischiare di pallottole invisibili e gemiti e grida che si accumulavano sotto il frastuono di mitragliatrici pesanti e cannoni.
Mi fermai in mezzo al nulla, a metà tra la profonda battigia e il crinale roccioso ricoperto di arbusti e filo spinato dall’altra parte della spiaggia, fissando ciò che mi circondava.
La spiaggia era completamente deserta, costellata qua e là da bunker in cemento, cavalli di frisia arrugginiti e ostacoli navali imbevuti d’acqua salata.
Guardai i lati della spiaggia, lunga chissà quanto.
Nulla da una parte, nulla dall’altra.
Ma l’essere era di nuovo lì, dietro di me, a metà tra la battigia e le colline.
Mi fissava con i suoi occhi porcini, senza fare nulla.
Gli puntai l’arma contro, senza riuscire a sparare.
Poi trovai il coraggio e sussultando piegai l’indice tremante.
Nonostante le ripetute pressioni sul grilletto, lo scorrere dell’otturatore e il rinculo che mi vibrava lungo la spalla, dall’arma non fuoriuscirono né bossoli, ne proiettili, né essa emise alcun suono.
Nemmeno espulse la clip dopo l’ottavo colpo.
Mi inginocchiai piangendo, mentre il fucile mi scivolava dalle mani e affondava con un tonfo nella sabbia.
Lui nemmeno si avvicinò, mi puntò semplicemente un dito contro, nel silenzio più assoluto, senza più urla, senza più gemiti, senza nemmeno il frastuono delle mitragliatrici.
Lo fissai un’ultima volta, gli occhi velati dalle lacrime.
Poi un invisibile proiettile d’artiglieria esplose proprio su di me, lasciando sulla sabbia solo il mio teschio.
 
Mi ritrovai dentro un cinema, seduto da solo in mezzo ad una marea di poltroncine in velluto rosso.
Sullo schermo proiettavano un film muto, in bianco e nero, palesemente francese.
Il protagonista era un mimo, infelice perché lasciato dalla sua amata, intento a camminare desolato per un boulevard di Parigi, circondato da alberi morti.
In fondo alla strada si poteva scorgere lontano l’Arc de Triomphe, decadente e lugubre, eppure bellissimo nella sua maestosità.
Il mimo passeggiava senza meta per la città abbandonata, il capo chino e le spalle curve, fissando le foglie gettate dall’autunno inoltrato sull’asfalto, fino a quando magicamente si ritrovò su un ponte.
Guardò il corso della Senna sotto di lui, e mentre superava il cornicione, ipnotizzato dall’acqua che scorreva schiumosa, lo schermo poco a poco si riempì di colori.
Per prime si colorarono di rosso le labbra dell’artista, poi distinsi finalmente tra il cerone del suo viso e le due gocce di inchiostro sotto i suoi occhi, poi venne il turno del cielo pallido e infine tutto il resto.
Il mimo aprì le braccia ad angelo e finalmente sorrise sereno, mentre lo schermo perdeva i suoi bordi e cominciava ad avvolgermi con fare materno, portandomi dentro la scena.
Si gettò lentamente, senza esitazione, in un tuffo da atleta.
La caduta durò non so quanto, come se il ponte fosse diventato un immenso grattacielo, e quando finalmente il mimo giunse a pochi centimetri dall’acqua, percorse una parabola perfetta, di una bellezza artistica disarmante.
Improvvisamente il mimo aveva le ali, sembrava un gabbiano, e volava dritto verso l’alto, circondato solo dalle nuvole, in una salita ancor più lunga della discesa.
Poi improvvisamente impattò con l’acqua, divenendo un delfino.
Potevo vederlo dalle profondità dell’oceano, potevo udirne i suoni ovattati dall’acqua.
Il delfino percorse miglia e miglia, guizzando tra un’onda e un’altra, fino a quando non giunse ad un’isoletta.
Mentre si avvicinava alla spiaggia, mentre l’acqua si faceva più bassa, le pinne divennero mani e la coda divenne i piedi, e il delfino fu di nuovo un mimo.
Strisciò sulla sabbia bagnata e si accasciò sui primi fili d’erba, rannicchiandosi in posizione fetale, mentre la pelle e i muscoli gocciolavano via insieme all’acqua marina, e di lui non rimase che uno scheletro che stringeva tra le braccia aggrappate al petto un cuore pulsante.
Di nuovo sentii una presenza dietro di me, in piedi tra i sedili del cinema.
Stavolta sorrisi e chiusi gli occhi sereno.
 
Per la prima volta dall’inizio di quella notte aprii gli occhi veramente.
Intorno a me vi era il buio della mia stanza.
Boccheggiai, non riuscendo a parlare, respirando a malapena.
Non riuscivo a muovere un singolo muscolo, bloccato com’ero nel mio letto, solo gli occhi andavano da una parte all’altra cercando una spiegazione a tutto quello.
Poi la videro.
La figura, rannicchiata, era seduta sul mio petto, gracile e minuta, una versione pietosa del mostro che mi aveva inseguito fino a quel momento.
Mi guardò allucinato, e io la guardai di rimando, non per coraggio, ma perché non avevo scelta, rinchiuso in quella prigione creata dal mio stesso corpo.
Nonostante tutti i miei sforzi, nonostante tutta la forza di volontà che potevo impiegare, non riuscivo ad alzare né un braccio né un dito, inchiodato lì nell’oscurità e costretto a fissare le mie paure negli occhi, rabbrividendo per il freddo che ciò mi causava.
Le vibrazioni smossero la creatura, che inclinò la testa e ghignò divertita, spiegando due minuscole ali di pipistrello nascoste fino a qualche momento prima nelle pieghe della carne infetta.
Più il terrore mi attraversava il corpo e mi chiudeva la gola, più le ali crescevano fino a divenire gigantesche, terrorizzandomi ancora di più.
La mia bocca rimase spalancata mentre soffocavo inerme nel sonno, mentre la mia mente piagnucolava di voler essere svegliata il prima possibile.
Eppure sapevo di essere già sveglio.
Rimanemmo lì a fissarci per un lungo istante durato quanto l’intera storia dell’universo, immobili entrambi, mentre le ali continuavano a crescere ad ogni battito del mio cuore fino ad avvolgerci, nascondendo l’oscurità della mia stanza in un’oscurità ancor più nera.
Quel demone aprì di poco le fauci, mostrando canini affilati e incisivi appuntiti, e sibilò qualcosa.
<< Ben sveglio. >>
Non capii come né quando sparì, non avvertii nemmeno il suo peso che si spostava liberandomi i polmoni, però so che un secondo dopo aver pronunciato quei bisbigli non c’era più.
Finalmente riuscii a muovere un dito, e la mia bocca emise il primo suono da quando mi ero addormentato.

   
 
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