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Autore: Raptor Pardus    06/07/2017    0 recensioni
Quando ti senti prossimo alla fine inizi poco a poco a rivedere tutta la tua vita, un episodio alla volta.
Tanti piccoli flash, tutti i tuoi rimorsi, i rancori, gli sbagli, chiedendoti se ciò che hai fatto sia stata la scelta giusta, o avevi invece un’opzione migliore.
Più le forze ti abbandonano più le immagini accelerano, fino a divenire un turbine vorticoso, macchie di colore senza senso, e quando arrivi a non capirci più nulla, torni alla realtà.
Torni alle tue stanche membra avvizzite, torni a fissare le tue mani scarne e rugose, torni ai dolori al petto e alla fatica ad ogni tuo minimo respiro.
Sei cosciente della morte che si avvicina, sei cosciente che ti stai spegnendo, eppure non vuoi lasciarti andare, non vuoi farti prendere dal freddo.
Perché hai paura.
Ti interroghi terrorizzato su cosa ci sia dopo, sul buio che inghiottirà la luce, su chi ti stai lasciando indietro e su chi stai raggiungendo, se c’è davvero qualcuno da raggiungere.
Ti chiedi se tutte quelle storie che da bambino ti hanno infilato in testa a forza abbiano un barlume di verità, sperando così di ritrovare un po’ di calore, ti chiedi se ti abbiano raccontato
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una vita

 
Quando ti senti prossimo alla fine inizi poco a poco a rivedere tutta la tua vita, un episodio alla volta.
Tanti piccoli flash, tutti i tuoi rimorsi, i rancori, gli sbagli, chiedendoti se ciò che hai fatto sia stata la scelta giusta, o avevi invece un’opzione migliore.
Più le forze ti abbandonano più le immagini accelerano, fino a divenire un turbine vorticoso, macchie di colore senza senso, e quando arrivi a non capirci più nulla, torni alla realtà.
Torni alle tue stanche membra avvizzite, torni a fissare le tue mani scarne e rugose, torni ai dolori al petto e alla fatica ad ogni tuo minimo respiro.
Sei cosciente della morte che si avvicina, sei cosciente che ti stai spegnendo, eppure non vuoi lasciarti andare, non vuoi farti prendere dal freddo.
Perché hai paura.
Ti interroghi terrorizzato su cosa ci sia dopo, sul buio che inghiottirà la luce, su chi ti stai lasciando indietro e su chi stai raggiungendo, se c’è davvero qualcuno da raggiungere.
Ti chiedi se tutte quelle storie che da bambino ti hanno infilato in testa a forza abbiano un barlume di verità, sperando così di ritrovare un po’ di calore, ti chiedi se ti abbiano raccontato la storia giusta, o se invece finirai all’inferno.
Ti domandi se il paradiso esista, o se sia tutta una menzogna, ma nel dubbio chiedi comunque perdono per ogni cosa chi ti salta in mente, e intanto ancora non riesci a dire addio.
Poi non senti più gli arti, le dita ti si irrigidiscono, l’oscurità ti avvolge mentre esali l’ultimo respiro.
Ma il buio non dura neanche un istante.
Non riesci nemmeno a pensare di contare fino ad uno che subito vedi una luce intensa e distante, e ti senti come tirare fuori dallo stretto e rovente tunnel in cui ora ti ritrovi.
La luce si avvicina, ti attira, ti abbaglia, ormai sei cieco.
Poi sei fuori e riesci appena a schiudere gli occhi, nonostante la luce ti continui a stordire.
Sei sporco e umido, e ti accorgi d’essere nudo mentre la mente ti si svuota da ogni ricordo o pensiero, ma poco ti importa, rimani muto, forse perché non riesci più a parlare, nemmeno ricordi come si faccia, ed i rumori ti frastornano troppo per provare a farlo.
Una mano verde ti afferra, ed il lattice ti fa rabbrividire al contatto.
Ma cos’è il lattice? Cos’è il verde? Cosa diamine è una mano?
Ti senti sollevare in aria, un colpo secco alla schiena ti fa male, così male che finalmente apri gli occhi ed emetti il tuo primo vagito.
 
Il tuo inizio è nebuloso, e lo resta per un bel po’.
La prima cosa che metti a fuoco e fissi in mente è la cosa che vedi più spesso, quello che impari presto essere un volto, il volto di tua madre.
Null’altro colgono i tuoi piccoli occhi, e su di lei si fissano.
Per te lei è il mondo.
Poi l’oscurità intorno a lei si dissipa, altri volti si fanno a te familiari, altri oggetti finiscono nella tua bocca, altro suolo che non sia la culla o le braccia di chi ti nutre finisce sotto le tue mani.
 “Madre” è la prima parola sensata che dici, nonostante ti esca distorta da una gola che difficilmente controlli, e ancora non sai cosa significa.
Poco a poco ne comprendi il significato, insieme ad altre poche parole.
Comprendi finalmente cosa è una culla, ma ancora non sai come arrivare al resto che da poco hai scoperto intorno.
Poi le mani non toccano più il suolo, e sono vuoto e vertigini ad accoglierti.
Con incertezza muovi i primi passi, eppure man mano che avanzi ti rendi conto che la conquista appena fatta ti riempie di una gioia inspiegabile.
Non importa la caduta che a momenti ora ti faceva sbattere la testa, torni in piedi e continui fino a stancarti, fino a quando l’ondeggiare tra un passo e l’altro diviene un ricordo.
Poi l’azione diventa spontanea, la dai per scontata, e ne perdi la gioia, ne perdi il ricordo.
Così come nebuloso è stato il tuo inizio, così nebulosi sono i tuoi ricordi di allora.
Invece ora è tutto così nitido, anche se molto sfugge ancora alla tua comprensione.
Sai solo che c’è un mondo che ti aspetta, e non vedi l’ora di andare a scoprirlo.
 
Il più grande orrore che puoi affrontare nell’ordinarietà della tua infanzia è sicuramente la domanda “Cosa vuoi diventare?”.
Speranzoso rispondi senza dubbi, senza esitazione, in un istante, creandoti sogni irrealizzabili in cui comunque stoltamente credi.
Più cresci più vedi la realtà farsi nitida intorno a te, e i tuoi sogni crollano, perdi l’ottimismo e riconosci di esserti fatto false speranze.
Perché scopri i tuoi limiti.
Questo è tutto.
Più il tuo corpo si rafforza e le tue capacità crescono, più ti rendi conto che oltre certi punti non puoi andare, più la tua conoscenza cresce, più la tua sete di sapere viene frenata dallo scoprire quanto ancora c’è da apprendere.
Impari quanto poche siano le tue risorse rispetto all’enormità del mondo che man mano ti si apre davanti, e capisci che non puoi correre all’infinito.
E allora inizi a frenare.
È allora che divieni adulto, quando ti arrendi a quanto ti sovrasta, quando l’accidia ti conquista, perché tanto sai che non ce la farai.
Eppure il cammino fino a quel momento è lungo.
Anzi, sarà lungo, perché ancora tutto questo non lo sai, nella tua innocente ignoranza.
È come se tu sapessi quello che ti aspetta, ma non ne sei cosciente, ti culli nel tuo essere piccolo negando di saperlo, destreggiandoti su una corda sospesa nel vuoto.
Perché è come essere in un circo, solo non te ne rendi conto, forse perché un circo ancora non lo hai visto.
Tutto è in bilico, puoi solo andare avanti e a malapena voltarti, mentre sotto di te le bestie del tuo essere vengono mostrate a sconosciuti urlanti.
Ma grazie al cielo sei piccolo, e di bestie dentro di te ne hai poche.
Ma prima o poi queste crescono.
Sono le prime sconfitte della tua vita, quel giocattolo negato che volevi tanto, in maniera orrendamente esagerata, sono i fallimenti a scuola, le risa altrui, i primi amori negati, gli insuccessi quotidiani che si accumulano uno sopra l’altro costruendo una barriera d’insicurezza che continui ad avere attorno.
Per abbatterla non v’è modo, se non capire che continuerai a sbagliare, è naturale.
Ricordi a malapena quegli attimi dopo la tua nascita, i primi anni di vita, tra le braccia di tua madre, eppure senti senza saperlo che preferiresti tornare tra quelle braccia, sfuggenti alla tua vista ancora abbozzata, alla marea di calci sui denti che prenderai.
Hai mosso i primi passi da tempo, eppure, sebbene sia stato per te una gioia scoprire la posizione eretta, vorresti tornare a gattonare pur di abbassare la testa sotto tutto quel frastuono che dalla nascita ti perseguita.
E soffri, e scopri altri come te, e sai di non essere solo, e dimentichi la sofferenza, e cerchi altri ancora, sperando che un giorno tu la sofferenza nemmeno sappia cosa sia.
 
La scuola non è stata così male, a conti fatti.
Rispetto a dove ti trovi adesso non lo è stata di sicuro.
Sputi a terra un grumo di sangue, insieme al tuo primo dente rotto, un molare.
Guardi in faccia il tuo avversario, i suoi tratti distorti dal velo di sangue che ti è colato sull’occhio.
A malapena lo vedi, a stento distingui il volto offuscato, riconosciuto più per il ricordo che hai di lui che per quello che osservi adesso.
La rabbia ti acceca, non percepisci nessuno intorno a te, a malapena avverti le urla della folla allucinata dalla violenza, sei solo col tuo sfidante.
Cogli a stento la stanchezza che lo pervade, è la stessa che pervade te, cogli a stento le sue ferite che tu stesso a fatica gli hai inferto, tutto concentrato sul non farti distrarre dal dolore delle tue.
Uno spintone e sei a terra, di nuovo, ormai la schiena è insensibile all’aguzzo pietrisco del vecchio asfalto che ti penetra la carne, ma non molli.
Ti alzi e continui a combattere, a prendere i colpi, a restituirli con più vigore.
Non hai avuto la fortuna di nascere in un posto tranquillo, né quella di essere benestante.
Il diritto a tenere la testa alta nel tuo mondo ce lo si guadagna così, a pugni.
Getti a terra il tuo avversario e lo blocchi col tuo peso, pregando che smetta di scalciare e si arrenda.
Quando non senti più movimento ti stacchi, massaggiandoti il naso dolorante e finalmente vedi il tuo avversario per quello che è.
Un ragazzetto come te, a tratti forse più gracilino, eppure era quel bulletto che per una ragione a te sconosciuta ti angustiava fino a poco tempo prima.
Tre brutti mesi la tua ultima estate, eppure non puoi fare nulla per riavvolgere il nastro e cercare di aggiustarla.
Non puoi tornare indietro a tentare di conquistare quella ragazza che tanto ti piaceva, non puoi tornare indietro per evitare di piangerti addosso così tanto, non vale la pena rimpiangere di non aver affrontato prima i tuoi problemi, non puoi, tanto la vita ti lancerà addosso roba molto peggiore, inconsciamente già lo sai.
Raccogli la maglietta, sporca e lacera, e la usi per pulirti gli occhi.
Lacrime non scorreranno sul tuo volto, non oggi.
Oggi hai vinto, ma ciò che ti interessa adesso è tornare a casa, prima che il dolore prenda il sopravvento e l’adrenalina svanisca dalle vene.
Ti fai strada tra la piccola folla intorno a voi, incurante degli strattoni, e ti allontani lentamente, respirando a pieni polmoni l’aria malsana del tuo sobborgo.
È quando superi il crinale che nascondeva la costa alla tua vista che ti rendi conto di quanto stupido e inutile sia ciò che hai appena fatto, ma tanto di cose stupide e inutili ne continuerai a fare per tutta la vita, una più dannosamente piacevole dell’altra.
 
Fissi i suoi occhi agitato.
Non è la prima volta che sei impreparato, eppure è così poeticamente bello esserlo, è speciale.
Spaesato abbassi gli occhi verso le mani, torcendoti le dita sudaticce, mordendoti le labbra per non riuscire a dire le parole che non ti vengono in mente, maledicendo il momento in cui hai deciso di andare a braccio in un’occasione così delicata.
Lei afferra le tue mani e le stringe forte, quasi a volerti fare male, eppure il gesto risulta così piacevole che ti immergi in quel pressante contatto, tanto atteso.
Alzi lo sguardo e ti perdi di nuovo nei suoi occhi, profondi e azzurri come l’oceano.
Lei li chiude e si avvicina rapida e graziosa, e il suo contatto porta anche te a chiudere involontariamente gli occhi, un automatismo naturale che non ti sai spiegare, che non ti vuoi spiegare.
L’istante che segue dura un’eternità, attraversata dal bollente brivido che ti scende lungo il ventre, dal vuoto che ti riempie la mente, dall’incuranza che rivolgi alle persone che intorno vi osservano, distratte, immerse nei loro oceani di pensieri, navigli portati da altri venti.
Ora ci siete solo tu e lei, ed il morbido e umido contatto delle vostre labbra che vi rendono un’unica cosa, uno scoglio in mezzo alla burrasca, fermo e incurante del vento e della pioggia.
Il guizzo delle sua lingua tra i tuoi denti ti strappa uno sbuffo divertito, palesando il tuo nervosismo che scivola via lungo la sua gola.
Ora che sei rilassato lei si stacca, e l’aria investe i tuoi polmoni come i suoi.
Torna a fissarti, e i suoi occhi dolci riempiono i tuoi di felicità ed euforica speranza.
Un sussurro impercettibile esce dalla sua bocca e raggiunge il tuo orecchio, nonostante tutto il superfluo rumore proveniente dal mondo esterno.
“Sì.”
Tu la stringi fra le tue rudi braccia e affondi la testa nell’incavo della sua spalla, restando muto per non rovinare la magia che così dolcemente lei ha creato.
 
Dici addio ai tuoi professori un’ultima volta.
Gente odiata, amata, rispettata, poco importa, restano uomini ai tuoi occhi.
Saluti i tuoi compagni, malinconico, sia che ti siano stati accanto, sia che abbiano sofferto la tua presenza come anime in pena.
Ormai è finita, ognuno perdona i peccati altrui.
La bile che in questi anni si è accumulata in te fluisce via, torni a respirare, assapori la libertà.
Ed è adesso che comprendi che non hai nulla da fare.
Subito ti assale l’ansia, il terrore del futuro che ti è addosso.
Un lavoro, altro studio, altro lavoro, qualcosa che non ti faccia stare fermo, qualsiasi cosa, devi rimanere attivo, prima che la sonnolenza ti culli nel tuo lento poltrire.
Assapori già il mare oltre il crinale, vicino casa, ma senti l’amaro in bocca, sapendo che dopo non hai niente ad attenderti, e il sapore ti rovina l’estate.
Passano i giorni e la calura non scema, e tu ancora non sai cosa fare.
Smarrito guardi i tuoi amici sparire dalla strada, fuggire in posti migliori, mentre tu resti lì, anche se mai solo.
E poi finalmente, nell’alba degli ultimi giorni d’estate, trovi la risposta.
È il tuo primo, piccolo lavoretto, ma ti ci tuffi a testa bassa, spinto dalla passione, è qualcosa che ti appaga, ed è ciò che conta, nient’altro.
Sei mesi passano in fretta, e sei cordialmente sbattuto fuori, ma ormai non ti scoraggi più, hai capito il meccanismo.
Hai finalmente i soldi per quella vecchia automobile che da un po’ desideravi, ora che sai guidare, seppur con diffidenza, e non aspetti nemmeno un giorno per metterla sulla strada, sai già dove andare, ed i ricordi d’infanzia ti spingono sulla lunga via.
È sera tarda quando arrivi, ma non vedi l’ora di mostraglielo, non stai più nella pelle.
Le stelle rilucono su tutto il nero mare che avete sopra la testa, risplendendo di riflesso nei vostri occhi, mescolandosi alla luce delle lontane case che colorano la terra ancor più nera del cielo.
Le stringi la mano, ti accoccoli accanto a lei sul cofano della macchina, e fissi il firmamento.
Non ci siete per nessuno, la vostra ombra soltanto trema nella notte, e per quella notte, come quando lei ti strinse le mani per la prima volta, tornate ad essere una cosa sola.
 
Chiudi i cartoni con malinconia, li carichi sul camion e fissi la porta da cui uscivi ogni giorno, ogni mattina, la casa che ogni sera ti accoglieva, tiepida nella sua piccolezza.
Un'altra città ti attende, ma per te è tutta un’altra vita, un altro mondo.
Sei spaventato, non sai cosa ti aspetta, non sai nemmeno cosa avrai intorno, però sai che intorno a te avrai gente amata, pronta a fare i tuoi stessi sacrifici.
Stringi in pugno le chiavi della macchina, fissi i tuoi vecchi sulla soglia, che ti guardano soddisfatti di ciò che ti hanno aiutato a diventare.
Non vuoi andare ancora però, l’ansia ti spinge a ritardare ancora cinque minuti.
La tua ragazza afferra lo scatolone che tu hai lasciato a terra e lo carica con lieve fatica nel cofano, pronta a partire.
Lei è di gran lunga più coraggiosa di te, lo sai, lei non teme nulla, è il tuo faro, la luce che ti guida nell’insondata vita.
Ti poggia una mano sulla spalla, come già altre volte ha fatto, e la paura svanisce.
Dici addio ai tuoi genitori e sali in macchina, rassicurato dall’amorevole tocco.
Il borbottio del motore in accensione al tuo giro di chiave ti carica di energia e speranza, e finalmente ti senti pronto a dire addio alla tua vecchia casa.
Ora ne avrai una tua, avrai un lavoro, presto una famiglia nuova, ma non temi più nulla, il faro ti investe con la sua luce abbagliante, e sei pronto a lanciarti nel vasto e insondato oceano che è la vita che hai ancora davanti.
 
Non è così terribile sposarsi.
Ormai ogni cosa è fatta, non c’è nulla da temere.
Sei stranamente tranquillo mentre attendi la sposa all’altare.
La spoglia chiesa romanica è piccola, eppure gremita di persone, quasi schiacciate contro le grezze pareti in tufo che reggono la bassa e scura volta a crociera.
Il grosso portone è spalancato, la luce si riversa nella sala e inonda i presenti, avvolgendoli nel candore della primavera.
Poi lei appare, emergendo da quel mare di luce, bellissima come sempre, il volto seminascosto dal velo.
Si avvicina lentamente, a passo cadenzato, seguendo la musica leggera che aleggia per la chiesa.
Ora non vivi che per lei, in quel momento la sua figura è il tuo mondo, e con trepidazione attendi che ti si accosti per poter alzare il suo velo e vedere il suo splendido volto, lo desideri come un naufrago nel deserto desidera l’acqua, attraversando le onde delle dune senza meta.
La guardi attraverso il velo, cercando affamato i suoi occhi, intravedi il suo sorriso, più luminoso della luce stessa, e ti senti pronto a voltarti verso il prete.
Poche, brevi frasi di rito e due singole sillabe, e finalmente assapori il momento tanto atteso, la sua vittoria tanto agognata.
Alzi il sottile velo e con gioia ti tuffi su quelle morbide labbra, affogando nel piacere che la sua bocca ti fa assaporare ogni volta, questa volta rafforzato dal sapere che ora è tua moglie.
 
Il nervosismo che ti pervade è maggiore persino di quello che avevi quando l’hai conosciuta, di quando le hai chiesto di uscire, di quando ti sei fatto avanti e di quando hai deciso che era con lei che volevi passare la tua vita.
Per un attimo fissi oltre l’oblò della porta e non vedi il telo verde, i medici e le sue snelle gambe ingrossate dalla gestazione, vedi l’altare alla quale l’aspettavi, e tu sei lì, e la fissi, cercando i suoi capelli color del miele sotto quel velo bianco, quel leggero spruzzo di lentiggini sul naso, nascosto dal rossore dell’emozione.
Poi un altro urlo, e l’agitazione ti fa tornare alla realtà.
Stringendo la cuffietta che ti è stata data fissi ancora nell’oblò, e lei è lì, stesa sul tavolo operatorio, circondata dagli infermieri.
Indossi quella dannata cuffietta con la fatica delle mani tremanti e sudate sotto il lattice dei guanti ed entri.
Lei urla ancora, tu invece non capisci niente, è tutto troppo rapido.
Le stringi forte la mano, come lei fece quando ti baciò la prima volta, e lei ricambia con ancora più forza.
Un altro urlo e poi un gemito, e tra le risate soddisfatte del dottore emerge finalmente il pianto di un bambino.
Tua moglie lo prende in braccio, sorridente, i capelli color del miele scuriti e attaccati alla fronte dal sudore.
È un minuscolo maschietto, uno scricciolo, così fragile da farti venire un groppo alla gola.
Ha i tuoi capelli scuri, intravedi già il tuo mento spigoloso, eppure, quando per un istante schiude gli occhi e li richiude subito accecato, vedi in quelle perle nere gli occhi di tua moglie, e già conosci le lentiggini che appena spunteranno su quegli zigomi affilati.
È in questo momento che ti senti davvero adulto, ma sei felice di essere arrivato a questo giorno, senza rimpianto per ogni singolo istante della tua fanciullezza.
 
Ti asciughi il sudore dalla fronte e riafferri la leva, riprendendo a muoverla avanti e indietro meccanicamente.
Il calore della fornace ti uccide ogni istante di più, ma questo è il tuo lavoro, sei pagato per morire là dentro.
Dopo anni a soffrire vicino a quel forno hai smesso di avvertire il danno che ti provoca.
Ignori il dolore alla spalla, non vuoi che un piccolo incidente della settimana prima ti faccia perdere un mese di lavoro, un mese di paga, un mese di pane sulla tavola per te e tuo figlio.
Per tuo figlio ed il tuo unico amore.
Ricordi ancora il primo bacio che le desti come fosse ieri.
Una lacrima di malinconia ti solca il viso, nascosta nel sudore.
Ti asciughi la fronte e riprendi a lavorare, scacciando i bei ricordi che sono sul punto di assalirti.
Avrai domani per piangere la tua solitudine, avrai domani per pensare all’amara ironia del fatto che il tuo essere giunto qui per dar loro da mangiare è stato probabilmente la causa della sua morte, la stessa che sicuramente divorerà te, e che preghi risparmierà tuo figlio.
 
La bara scende lenta nella terra, alla stessa velocità della lacrima solitaria che solca la tua guancia.
Tuo figlio, ormai grande, è accanto a te, visibilmente in pena, eppure non piange.
Avresti voluto avesse sua madre affianco ancora per un po’, almeno fino alla fine dei suoi studi, avresti voluto avere tua moglie affianco ancora, goderti con lei la pensione e invecchiare con lei serenamente.
Invece eccovi là, a piangere la sua scomparsa.
Non rimpiangi nulla, ringrazi ogni singolo momento passato con lei, ogni passione, ogni litigio, ogni fuoco spento e ogni fiamma mantenuta accesa, ogni notte passata al suo fianco e ogni sospiro che lei ha tirato poggiandosi sulle tue spalle.
Maledici il cancro che se l’è portata via, negandoti altri attimi come quelli, negandoti una vecchiaia, torni bambino e desideri ciò che non puoi avere, un’ultima volta, un’ultima dannatissima, maledettissima, fottutissima volta, ma sai che ciò che chiedi non accadrà.
Getti un ultimo fiore sulla sua nera bara, mentre le prime zolle di terra vengono gettate su di lei, a portarla definitivamente lontano da te.
 
Invecchi senza rendertene conto, poco a poco, una ruga alla volta.
Ti senti morire ogni giorno, eppure vivi ancora, ogni giorno più solo.
Vedi tuo figlio crescere, fare i tuoi stessi sbagli, compiere le tue stesse imprese, vedi gli occhi di tua moglie su quel viso così familiare, il tuo.
Lo vedi uscire di casa per andare sulla sua strada, lo vedi tornare con due piccoli nipotini in braccio, più piccoli di lui alla sua nascita.
Lo vedi amare una donna meglio di come tu hai amato la tua, vedi sua moglie amare tuo figlio esattamente come sua madre ha amato il suo, e ringrazi il giorno in cui l’hai incontrata, dando il via a tutta questa storia.
Dio, quanto l’hai amata.
Dio, quanto l’ami ancora.
Le spalle stanche si abbassano, le braccia e le gambe smagriscono, la pancia lievemente avanza, non più trattenuta dalla fatica del lavoro.
Serenamente accetti la tua solitudine, sapendo di aver creato in qualche modo comunque gioia.
Ti avvolgi nelle coperte e attendi che il freddo ti prenda, sperando di continuare a generare in qualche maniera assurda gioia anche dopo che te ne sarai andato, eppure ti assale un dubbio esistenziale, a cui nessuno può dare risposta.
E mentre ti spegni inizi a chiederti cosa ancora ti attende.
 
Mentre respiri affannosamente hai come un senso di déjà-vu, ma dura solo un istante.
Ormai è andata, non puoi far nulla, eppure ti raggomitoli rantolando sotto le coperte sperando che ti diano la protezione che cerchi, inutilmente.
Quando ti senti prossimo alla fine inizi poco a poco a rivedere tutta la tua vita, un episodio alla volta.
Tanti piccoli flash, tutti i tuoi rimorsi, i rancori, gli sbagli, chiedendoti se ciò che hai fatto sia stata la scelta giusta, o avevi invece un’opzione migliore.
Più le forze ti abbandonano più le immagini accelerano, fino a divenire un turbine vorticoso, macchie di colore senza senso, e quando arrivi a non capirci più nulla, torni alla realtà.
Torni alle tue stanche membra avvizzite, torni a fissare le tue mani scarne e rugose, torni ai dolori al petto e alla fatica ad ogni tuo minimo respiro.
Sei cosciente della morte che si avvicina, sei cosciente che ti stai spegnendo, eppure non vuoi lasciarti andare, non vuoi farti prendere dal freddo.
Perché hai paura.
Ti interroghi terrorizzato su cosa ci sia dopo, sul buio che inghiottirà la luce, su chi ti stai lasciando indietro e su chi stai raggiungendo, se c’è davvero qualcuno da raggiungere.
Ti chiedi se tutte quelle storie che da bambino ti hanno infilato in testa a forza abbiano un barlume di verità, sperando così di ritrovare un po’ di calore, ti chiedi se ti abbiano raccontato la storia giusta, o se invece finirai all’inferno.
Ti domandi se il paradiso esista, o se sia tutta una menzogna, ma nel dubbio chiedi comunque perdono per ogni cosa chi ti salta in mente, e intanto ancora non riesci a dire addio.
Poi non senti più gli arti, le dita ti si irrigidiscono, l’oscurità ti avvolge mentre esali l’ultimo respiro.
Ma il buio non dura neanche un istante.
Giri la tua ultima pagina, ormai la tua storia è finita, eppure… già apri un nuovo libro.
   
 
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