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Autore: Aqua_    07/07/2017    3 recensioni
Vi siete mai chiesti quale sia il lato positivo dell'essere una fangirl - o un fanboy, anche se sono decisamente di meno. O meglio, vi siete mai chiesti se ce ne sia uno? Perché, ammettiamolo, andare a dormire alle quattro di mattina, dopo una maratona di Sherlock, e alzarsi due ore dopo non è proprio il massimo. Specialmente se quel giorno hai una riunione, anzi, la riunione, quella più importante dell'anno, e l'unica cosa a cui riesci a pensare è... no, scusate, non posso dirlo, magari non avete ancora visto l'episodio, e io non voglio fare spoiler.
Comunque, quello che volevo dire è che la vita di una fangirl non è affatto facile, anzi, tutt'altro. O no?
[STORIA IN REVISIONE]
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Devo ammetterlo: la mia capacità nel convincere le persone a fare ciò che voglio è maggiore di quanto pensassi. Ovviamente, con Martin non ha funzionato, ma con James sì. È bastato il nome di Isabel per fargli vuotare il sacco, anche se, visto quello che ho scoperto, avrei preferito non lo facesse. Ma ormai l’ha detto e io l’ho sentito, non posso mica dimenticarlo.
Esco dagli spogliatoi trascinandomi dietro il ragazzo, tenendolo per un braccio, senza nemmeno preoccuparmi di non fargli male. So che lui, teoricamente, non ha a che fare con ciò che i ha appena raccontato, ma sono talmente infuriata da non riuscire a pensare a nulla se non a uccidere il mio capo e pretendere spiegazioni dai miei fratelli, che sicuramente sapevano qualcosa e hanno deciso di tenermi all’oscuro della situazione.
«Una scommessa? Ha fatto una scommessa che implica il portarmi a letto e voi non mi avete detto niente?» urlo, appena mi ritrovo davanti a Kyle e Martin, che si scambiano un’occhiata perplessa – e anche colpevole, se devo essere sincera.
Martin sospira, mentre Kyle abbassa lo sguardo, dando l’impressione di essere improvvisamente interessato al colore delle sue scarpe.
«Allora? Potreste almeno degnarvi di rispondermi?» domando, dopo qualche minuto di silenzio, lasciando il braccio di James che, a giudicare dal suo mugolio di dolore, stavo ancora stringendo, e non lievemente.
«Non volevamo che lo sapessi» afferma Martin, rivolgendomi uno sguardo rassegnato.
«Grazie, Martin, non lo avevo capito» ribatto, sarcastica.
«Volevamo tenerti fuori da questo schifo, Nat» precisa Kyle, azzardandosi ad alzare gli occhi dal pavimento.
«Non ci siete riusciti» affermo, senza l’esplicita intenzione di ferire nessuno dei due, ma riuscendoci perfettamente. «E poi, avreste dovuto dirmelo. Dovevate dirmelo» esclamo, con la voce tremante – perché sì, nonostante stia cercando di reprimerle, sono sull’orlo delle lacrime.
«Oh, paperella.»
Martin si avvicina velocemente a me, per stringermi a sé con più forza del solito, in modo da impedirmi di divincolarmi da quella presa.
«Non chiamarmi paperella!» esclamo, tra i singhiozzi. È assurdo come, in quella situazione, riesca ad offendermi per un nomignolo che mi perseguita da, be’, da quando sono nata, e a cui sono abituata.
Rimaniamo immobili in quella posizione per una decina di minuti, fino a quando non sono sicura di aver pianto abbastanza. Mi scosto leggermente da lui, per quanto mi permette la morsa in cui ancora mi tiene, e aspetto che mi lasci andare.
«Ti ho bagnato la maglia» affermo, facendo un cenno alla chiazza umida che si è formata sul tessuto.
Martin fa spallucce, tirando fuori un pacchetto di fazzoletti dalla tasca e porgendomelo – anzi, lanciandomelo.
«Ho tre figli, Nat, ci sono abituato» dice, facendomi l’occhiolino.
Mi siedo accanto a lui – precisamente, tra lui e Don che, fino a quel momento è rimasto immobile e muto, senza fare una piega nonostante lo spettacolo che si è presentato ai suoi occhi – e mi sporgo leggermente per dare un’occhiata a Kyle, per assicurarmi di non averlo ferito troppo.
«Dov’è finito?» mormoro, quando mi ritrovo davanti al nulla.
Con lui, noto, è sparito anche James – non che la cosa mi interessi più di tanto, devo dire.
«Ha detto che andava ad ammazzare Clarkson, o qualcosa del genere» dice Don, con tono quasi annoiato.
«Oh» è l’unica cosa che riesco a dire, un po’ perché Kyle non è mai stato un tipo violento, un po’ perché non sono sicura di volere che prenda a pugni il mio capo.
Mi spiego, una parte di me vuole che lo prenda a pugni, calci e quant’altro, ma l’altra parte di me, quella meno vendicativa, pensa che si sarebbe potuto risolvere tutto a parole. D’altronde, se Kyle dovesse usare la violenza con tutti le persone che mi hanno ferita, a quest’ora mezza Londra potrebbe dichiarare di essere finita in una rissa con mio fratello. Non perché io sia uscita con mezza Londra, chiaro. Nemmeno con un quarto di Londra, né un ottavo, né un sedicesimo e via dicendo. Ringrazio chi di dovere per il fatto di non aver accennato a quanto successo in ufficio quella mattina, o avremmo seriamente rischiato delle denunce, se non peggio, Certo, l’unico a meritare una denuncia sarebbe Robert, e forse, forse, avrà ciò che si merita. Sì, se continua con quel comportamento una denuncia non gliela toglierà nessuno, nemmeno Nessuno in persona.
Okay, forse dovrei prendere la questione più seriamente.
***
La mattina dopo, quando mi presento a lavoro, sono più agitata di quanto non vorrei. Mi faccio coraggio, passando davanti alla scrivania di Isabel – vuota, perché lei è a casa, in malattia – e mi avvicino all’ufficio del capo, decisa a mettere in chiaro le cose e esigere le sue scuse.
«Uhm, capo, stavo pensando che… oh, miseriaccia.» esordisco, entrando senza bussare, cosa che avrei dovuto fare per risparmiarmi una tale vista. Siamo sinceri, onestamente il lato B del capo è un gran bel lato B, quindi non è proprio quello a turbarmi. No, è il fatto che ci siano due mani sopra a turbarmi, anche considerando che quelle sono le mani di Leah.
«Natalie! Non è come sembra, te lo assicuro.»
Lo guardo cercare di abbottonarsi la camicia piuttosto maldestramente, provando a ignorare il fatto che farebbe meglio ad abbottonarsi prima i pantaloni.
«Uffa, Nat, ci stavamo divertendo» sbuffa Leah, aggiustandosi la gonna ed accavallando le gambe.
«Oh, non ne dubito.»
«Posso spiegare.»
Uhm, perché no? Sono curiosa di sapere cosa potrebbe inventarsi.
«Sì, è il caso di farlo» mormoro, pregustandomi già quello che la sua mente potrebbe tirar fuori.
«Ecco, io stavo… noi… Leah stava, ecco, voglio dire…»
«Io?» lo interrompe Leah, senza nemmeno alzare lo sguardo dalla sua perfetta manicure – che ho sempre invidiato, tra l’altro.
«Sì, be’, tecnicamente hai iniziato tu.»
«Non mi sembravi tanto dispiaciuto»
Cerco di reprimere un ghigno, ma, ovviamente, non ci riesco. Non che uno dei due se ne accorga, chiaro, intenti come sono a litigare tra di loro.
«Comunque non è colpa mia se sei un morto di f-»
«MILLS!»
La voce del capo mi fa sobbalzare, distogliendomi dai miei pensieri. Giustamente, vista la mia grazia, il mio braccio destro sbatte contro la maniglia della porta, fortunatamente chiusa (non oso immaginare cosa potrebbero pensare i miei colleghi), e sono più che sicura che domani avrò un livido grande come l’Irlanda e la Groenlandia messe insieme.
Lancio un’occhiataccia al capo, aspettandomi di vederlo arrabbiato, ma invece sembra solo mortificato (e imbarazzato, chiaro. Chiunque sarebbe imbarazzato).
«Dille che non è vero, dille che non sono un… maniaco.»
Bah, capo. Onestamente, secondo me un po’ maniaco sei. Giusto un po’. Specialmente se consideriamo quello che sono venuta a sapere da James.
«Uhm, no. Non è un maniaco» borbotto, convinta più dallo sguardo da cucciolo che il capo sta facendo più che da altro. Devo ammettere che gli riesce piuttosto bene, anche se non gli si addice molto. Sarebbe come vedere Loki implorare la sottoscritta di aiutarlo - non che Loki sia ninfomane come il capo, intendiamoci. Che poi, mi chiedo se ninfomane si possa usare anche per gli uomini. I misteri della vita.
Leah sbuffa, scende dalla scrivania sulla quale era comodamente appollaiata ed esce dall’ufficio, mormorando qualcosa di simile a “Mi hai rovinato il divertimento” seguito da qualche insulto che mi rifiuto di ascoltare.
«Ti devo un favore» dice il capo, appena la porta si chiude alle spalle di Miss Sono-Una-Santarellina.
«Uno grosso, direi» puntualizzo, cercando un modo per cambiare discorso e portarlo su ciò che ho intenzione di dire – e di sentirmi dire.
«Trovato! Ti porto a cena fuori. Stasera.»
Oh, perfetto. Esattamente quello che volevo. Non vedevo l’ora che la persona che sta cercando di portarmi a letto per scommessa decidesse di invitarmi a cena. Mi gratto la testa, alla ricerca di qualcosa di sensato da dire, ma ovviamente non riesco a formulare nulla di abbastanza intelligente perché, a quanto pare, in compagnia di quest’uomo, il mio QI si riduce a zero. Fantastico.
«Okay» mi ritrovo a borbottare, senza alcuna reale convinzione.
Robert strabuzza gli occhi e sono certa che, se stesse bevendo, correrebbe il rischio di soffocarsi. Stupida, stupida Natalie. Accettare era l’ultima cosa che avrei dovuto fare. Sono un’idiota, un’idiota totale.
«Davvero? Hai davvero accettato?» domanda, sorpreso. Povero, non ci credeva nemmeno lui. Sembro davvero così senza cuore? Probabilmente sì.
Annuisco, maledicendomi per la mia assoluta incapacità di mentire.
«Be’, allora passo da te alle… 8?»
«Perfetto. Oh, capo, io mi abbottonerei i pantaloni, se fossi in te.»
Esco dall’ufficio scuotendo la testa, e per poco, assorta come sono nei miei pensieri, non finisco contro Leah che, in maniera decisamente poco carina, decide di rivolgermi un paio di insulti. Questa volta, l’unica cosa che riesco a pensare è che io, quegli insulti, me li merito.
***
Dovevo sapere che sarebbe stata una giornata tremenda dal primo istante in cui ho messo piede fuori dall’ufficio del capo. E invece no, non ci ho dato peso e sono riuscita a farmi mandare a quel paese – non meglio specificato – da almeno cinque persone, tra cui ben due Joe (vedi: fratello e collega sexy) per motivi a me sconosciuti, nel giro di nemmeno due ore. No, non è vero. Joe Uno, mio fratello, l’ha fatto perché gli ho rinfacciato per, più o meno la ventesima volta il fatto di essere andato in Russia senza di me, mentre Joe Due, be’, non ne ho davvero idea. No, fermi tutti. Si chiama Jake, non Joe. Ecco perché mi ha mandato a quel paese: devo aver sbagliato nome un paio di volte. O forse un po’ di più. Nulla di strano, chiaro.
Ma tralasciamo, ora che sono – finalmente – tornata a casa, c’è altro di cui occuparsi, ovvero l’insormontabile scoglio dell’abbigliamento in vista dell’appuntamento – odio definirlo così – con il capo. Per dirlo in altre parole, che accidenti mi metto? Non posso chiedere un consiglio a Isabel, si insospettirebbe troppo. Come biasimarla, io non mi preoccupo mai dei vestiti, nemmeno quando esco con qualcuno. L’ultima volta sono riuscita a presentarmi in jeans e maglietta. Non è durata nemmeno due settimane, ma non sono del tutto convinta che ciò abbia a che fare con il mio modo di vestire.
Okay, ho capito. L’unica possibilità è chiamare Kyle e sperare che non abbia altro da fare. Potrei sempre chiedere a Martin, ma quell’uomo ha un gusto pessimo. Una volta è riuscito a far mettere a sua figlia un vestito che sembrava uscito direttamente dall’armadio della nonna. Mia nonna, non della bambina, nonna che è nata nel 1939.
«Nat!»
Promemoria per me: allontanare il telefono dall’orecchio quando parlo con Kyle o rischiare di diventare prematuramente sorda, scelta mia.
«Ho assolutamente bisogno di un consiglio» rispondo, arrivando subito al punto.
«Uomini o vestiti?»
Sbuffo. Solo mio fratello può ridurre tutto a queste due opzioni. Ha ragione, per carità, ma mi fa sembrare troppo prevedibile.
«Entrambi» borbotto, gettando l’ennesima camicetta sul letto.
«Okay, uhm, a-arrivo» risponde, poi riattacca.
Noto il suo tono leggermente titubante, come se fosse troppo impegnato a fare altro per venire dalla sua adorata sorellina. Non appena arriva avrà un terzo grado con i fiocchi e i controfiocchi.
Come al solito, impiega non più di una decina di minuti per arrivare, ma ne impiega altrettanti per entrare in casa. Adesso, io non vorrei dire, ma quanto ci può volere per salire quattro scalini? E intendo quattro sul serio, ci sono solo quelli a separare il cancello dall’entrata. Il bello delle case indipendenti.
«Allora, qual è il problema?» domanda, chiudendosi la porta alle spalle.
«Non ho vestiti adatti»
«Che novità…» borbotta, entrando in camera mia con la nonchalance che solo lui riesce ad avere. Perché siamo gemelli, dice, ma è una scusa. Joe non è mai entrato in camera mia senza permesso, nemmeno quando eravamo piccoli.
«Uhm, Kyle, che stavi facendo quando ti ho chiamato?» domando, seguendolo e bloccandolo prima che vada a curiosare nel cassetto della biancheria per l’ennesima volta. Non è un maniaco, per carità, è solo che sa dove nascondo il mio diario segreto. Che poi, definirlo “segreto” è un azzardo, visto che lo legge più o meno chiunque.
«Oh, niente» risponde lui, scrollando le spalle.
«Quindi non eri con qualcuno?»
«Cosa te lo fa pensare?» chiede a sua volta, girandosi nel tentativo di non farmi vedere il rossore che gli colora le guance.
Mio fratello è un pessimo bugiardo, è ufficiale. Addirittura peggio di me, oserei dire. Non è nemmeno riuscito ad abbottonarsi la camicia decentemente.
«No, così…»
Preferisco risparmiare il vero terzo grado per quando tornerò a casa dal (disastr)appuntamento con Robert, sperando che non gli venga in mente di farlo a me.
Per ora, è meglio che mi concentri sul vestito che Kyle ha tirato fuori dal mio armadio, o meglio, ha riesumato. L’ultima volta che ho indossato quel vestito è successa, be’, quella cosa, almeno otto anni fa, e, mentre sono sicura che mi vada ancora bene – il bello di non ingrassare facilmente, immagino. E anche di avere le tette ferme alla seconda e mezza dall’età di quattordici anni – non sono altrettanto sicura che quel vestito non mi porterà la mia solita sfortuna.
«Chi è il fortunato?» domanda Kyle, non appena abbiamo constatato che sì, il vestito mi sta ancora.
«Uhm… un collega» mormoro, sperando che non si insospettisca.
Ovviamente, però, mio fratello si insospettisce eccome.
«Nat, non sarà quel viscido verme figlio di put-»
«No!» esclamo, prima che possa dare in escandescenze. «Si chiama Jake, ha l’ufficio vicino al mio» mento spudoratamente, sperando di convincerlo.
A quanto pare, Kyle non nota il mio rossore o, se lo nota, lo associa all’affermazione appena fatta.
«Meglio.»
«A proposito di Robert, Don mi ha detto che volevi picchiarlo o roba del genere…» azzardo, dandogli le spalle.
«Sì, uhm, ecco… volevo farlo» dice, con un espressione abbastanza imbarazzata – come se ci fosse qualcosa di imbarazzante nel voler difendere l’onore della propria amata sorella. «Poi Don mi ha convinto che avrei rischiato una denuncia, e ho pensato che avremmo dovuto risolverla in altro modo.»
«Ovvero?»
«Io, uhm… i-io ho parlato con suo padre.»
«Con Hector.»
«Esatto.»
«Che non ha la minima idea di chi tu sia.»
«Già.»
«E che probabilmente non può fare nulla.»
«Può licenziarlo.»
«Licenziarlo?»
«Sì, Natalie, licenziarlo» afferma Kyle, iniziando ad agitarsi. «Che tu ci creda o no, a Hector interessa il benessere dei suoi dipendenti.»
Se non fosse che non siamo più i suoi dipendenti, mi ritrovo a pensare, ma scelgo di non dire nulla. Improvvisamente, mi ritrovo a maledire la mia stupida idea di accettare l’invito del capo e a cercare un modo per annullare il tutto. Potrei chiamarlo, ma non mi va di sentire la sua voce; potrei mandargli un messaggio, o un’email, ma sarebbe una cosa alquanto… squallida? Capiamoci, io ho sempre detestato le persone che danno buca via messaggio, e non sopporterei l’idea di diventare una di esse.
I miei pensieri vengono interrotti dal trillo del cellulare, che mi avvisa della presenza di un nuovo messaggio. Inizialmente temo che sia Robert, che mi comunica che mi sta aspettando in macchina – in anticipo di una decina di minuti, ma, se non altro, non in ritardo – e inizio immediatamente a pensare a un modo per far sì che Kyle non veda la persona con cui dovrei uscire – anche se controvoglia.
Per mia fortuna – o sfortuna, vedete voi – qualcuno, ai piani alti, decide di concedermi una tregua dall’incredibile dose di sfiga presente nella mia vita. Apro il messaggio con le mani che tremano, ma, appena letto, mi ritrovo a tirare un sospiro di sollievo.
Imprevisto, sono bloccato a casa.
Il mio sospiro di sollievo, tuttavia, impiega pochissimo a diventare preoccupazione. Il “dobbiamo parlare” che segue quella frase è tutto meno che rassicurante.
A quanto pare, ho cantato vittoria troppo presto. Io e la sfiga non ci separeremo mai, mai e poi mai.
   
 
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