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Autore: Slytherin Nikla    08/07/2017    1 recensioni
Con Sister Act ho un rapporto particolare, condensabile in "guardo il film, mi viene voglia di scrivere". E ogni occasione è buona per indagare sul mio personaggio preferito (la Madre Superiora), ma ancor più per speculare sul suo rapporto con l'unica persona in grado di farle cambiare opinione. Da qui, dunque, la domanda: e se O'Hara avesse deciso di aspettare notizie, invece che nel proprio ufficio, in quello di lei?
(sì, lo so, la ship è azzardata, don't like don't read, quelle cose lì)
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Madre Superiora
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La Madre Superiora del convento di Santa Caterina guardò le sue consorelle attraversare velocemente la strada e si rese conto di stare scuotendo la testa. Per essere la vigilia di un avvenimento tanto impensabile, e per essere un gruppo di donne abituate ad andare a letto ben prima della mezzanotte, doveva riconoscere che nonostante fossero ormai passate le tre erano insospettabilmente in forma. Adrenalina, rifletté. Non si poteva certo dire che fosse stata una serata tranquilla.
Sorella Alma era sulla porta ad aspettarle e alla Superiora non sfuggì l’espressione elettrizzata con cui aveva riconosciuto Deloris in mezzo al gruppo – ma fu piuttosto stupita che, una volta salutate le altre e accolta con un abbraccio Deloris, si attardasse ad aspettare lei.
«Mi occuperò io del portone, Alma, non è necessario che…»
«Monsignor O’Hara è nel suo ufficio, reverenda Madre.»
«O’Hara? Perché?»
«Gli ho detto che senz’altro lei lo avrebbe informato dell’accaduto una volta di ritorno,» mormorò la suora, fedele al principio universale per cui il tono della voce di una persona sembra sempre essere inversamente proporzionale alle sue capacità uditive. «Ma ha preferito rimanere.»
«Oh,» esalò la Superiora, senza sapere con certezza se fosse una reazione di gratitudine o di disappunto. Era esausta, e l’idea di vedere qualcuno l’opprimeva. Ma aveva anche un gran bisogno di ripercorrere gli eventi di quella serata assurda. Era confusa. «Bene, vado…Vado subito. Sorelle! Sorelle! Credo che per una volta saremo giustificate se sospendiamo la preghiera del mattino… Dormite, vi aspetta un compito importante.» In un fruscio di sussurri e di pesanti abiti neri il corridoio tornò presto deserto e la Madre Superiora si diresse in fretta al proprio ufficio, per sollevare O’Hara di un’attesa che si era protratta ben oltre quanto sarebbe stato opportuno.
Aprì la porta di slancio e per un attimo se ne pentì – ma George O’Hara, che si era chiaramente addormentato con il gomito ben piantato sul bracciolo a sostenere la testa, si era svegliato con grazia inaspettata, senza trasalire: si era voltato verso di lei e aveva sorriso al di là dei propri occhi assonnati, e aveva represso uno sbadiglio e richiuso un paio di volte la mano come a scacciarne il torpore e si era alzato, questo sì rapidamente, per andarle incontro.
«Com’è…?» domandò cauto, senza finire la frase. Non era mai stato un uomo di molte parole – non che lei lo fosse – ma certe conversazioni non avevano bisogno di trovare voce per essere condivise.
«È andato tutto bene. Deloris è tornata con noi, sana e salva.» L’essenziale. Lo spazio di una frase o due, il riassunto perfetto. O’Hara annuì.
«Grazie a Dio.»
«Grazie a Dio.»
Si soffermò a guardarla: c’era in lei un’aria insolita, come un misto tutt’altro che inspiegabile di stanchezza enorme ed incredibile energia – immobile appena oltre la porta, con il suo portamento perfetto e le mani strette l’una all’altra, reduce da nientemeno che una missione di salvataggio con annesso volo in elicottero, quella donna che da sempre considerava formidabile gli sembrò adesso magnifica, così magnifica da non poterle staccare gli occhi di dosso per il timore di perdere il privilegio d’essere illuminato dalla sua semplice presenza. E lei se ne rese conto. E cinquant’anni dopo l’ultima volta che le era capitato, arrossì.
«Devo…andare, lo so. Vorrà riposare, Reverenda Madre, è stata una serata tanto ai limiti del-» ma quando monsignor O’Hara aveva distolto lo sguardo lei aveva d’improvviso realizzato la propria solitudine, riconosciuto la sensazione familiare di inevitabilità – il momento in cui avrebbe dovuto da sola fare i conti con il pericolo corso quella sera era lì, nello spazio del passo di un uomo, quell’uomo, nell’oltrepassare una porta, la sua porta, per andarsene. Il primo singhiozzo le sfuggì direttamente dalla gola. «Reverenda Madre!» O’Hara aveva alzato gli occhi preoccupato e la figura sottile e tesa che gli stava di fronte gli sembrò sul punto di spezzarsi. Le prese le mani fra le proprie, come per scaldarle, come per comunicarle attraverso la pelle che no, non doveva temere, non se ne sarebbe andato fino a che non l’avesse vista tornare se stessa. Lei, che aveva riconosciuto quella rassicurazione muta, si allontanò da lui.
«Non è niente. Non è niente,» ripeté, solenne. Non lo guardava. «Sì, ho bisogno di dormire un po’. È solo un po’ di stanchezza, non c’è niente di cui…»
«Margaret.» Pesante e definitivo, il suo stesso nome si era abbattuto su di lei come il fendente di un’arma. Quanti anni erano che O’Hara non la chiamava per nome?
«Non c’è niente di cui preoccuparsi,» insisté. «Niente che una notte di sonno non possa sistemare. Ho anche sospeso la preghiera mattutina, quindi non…»
«Dimmi cos’è successo.»
«È andato tutto bene. È questo che conta.»
«Dimmi cos’è successo.»
«L’importante è che-»
«Margaret.» C’era stato questa volta, nel pronunciare il suo nome, l’eco indistinta di una minaccia, una minaccia a fin di bene che la Superiora conosceva per antica consuetudine. Non era quello il tono che tutti loro – tutti loro con un ruolo di guida nella comunità, quale che fosse la comunità – usavano come extrema ratio?
«Ora, George, ora. Per cortesia. Il paternalismo no.» Riconobbe la traccia di un sorriso all’angolo delle sue labbra. La riconobbe e ne fu oltremodo infastidita. «Sono ben oltre l’età in cui il paternalismo è tollerabile,» aggiunse piccata.
«Non era paternalismo, era preoccupazione. E comunque no, non ti servirà imbastire una discussione per distrarmi da quello che ti ho chiesto. Dimmi cos’è successo.»
«Niente che non fosse prevedibile.»
«Ti sei-Vi siete trovate in pericolo.» La Madre Superiora sospirò con cautela, nel tentativo di non stuzzicare il grosso nodo che sentiva in gola.
«Non lo so. Forse no, non noi, almeno, non io, ma quell’uomo, il modo in cui…» Nello spazio di un respiro, il nodo in gola da non stuzzicare era scomparso, sotterrato di cocci di singhiozzi spezzati e frasi interrotte e lacrime inaspettate. Provò a spiegare dell’ansia nel viaggio, dell’imbarazzo fra i tavoli del casinò; cercò di dare un nome all’incontenibile audacia con cui aveva portato le consorelle a salvare una donna che pur non essendo una di loro aveva fatto una tale breccia nelle loro esistenze, cercò di spiegargli – di spiegare a lui, l’uomo tutto altruismo e bisogno di fare il bene – quanto si fosse biasimata, nel trovarsi senza una via d’uscita, per avere lasciato che l’istinto di un attimo mettesse a rischio tante vite nel tentativo di salvarne una. E raccontò di Vince LaRocca, di quella pistola puntata contro Deloris, di quanto inevitabile era sembrata per qualche secondo la conclusione. Di come si era districata fra le sorelle per difendere Deloris. Di come con il senno di poi si era resa conto che quella non era stata una sua idea.
«Sì, anch’io sono certo che sia stato Dio a muovere i tuoi passi,» mormorò lui, accarezzandole piano le nocche. Le aveva preso le mani di nuovo non appena quel pianto era iniziato ed era particolarmente felice di averlo fatto.
«Non Dio,» esalò lei, gli occhi pieni di lacrime. O’Hara la guardò senza capire. «Non è stato Dio. Sei stato tu.» La fronte dell’uomo si corrugò, ma nemmeno allora le lasciò le mani.
«Se vuoi che capisca, devi spiegarmi…Se vuoi.»
«Oh, non è niente di che. Ho solo… Ho solo fatto quello che avresti fatto tu. E l’ho fatto perché sapevo che era quello che avresti fatto tu. Non…» rimase in silenzio per così tanto tempo che se O’Hara non l’avesse conosciuta bene quanto la conosceva avrebbe creduto che la frase si fosse, semplicemente, estinta in se stessa. Invece la conosceva. E aspettò. «Non riuscivo a pensare ad altro.»
«A cos’avrei fatto io? Addirittura?»
«No. Non a cos’avresti fatto.» Di nuovo silenzio. Di nuovo lo spettro vago di un respiro rotto dal pianto. Di nuovo un’attesa tutt’altro che vana. «A te.»
O’Hara sorrise suo malgrado, sapendo che non era il momento, sapendo che non erano le condizioni, sapendo che non erano le persone per far sì che ci fosse da sorridere. Eppure sorrise, e le lasciò le mani per sfiorarle il viso. «A me,» ripeté, in un tono indefinito a metà fra l’affermazione e la domanda.
«Ho pensato che se fossi morta me ne sarei andata senza averti visto un’ultima volta.» Aveva gli occhi chiusi, le guance rigate di lacrime. Le dita di O’Hara erano tiepide contro la pelle del suo viso. «Un pensiero stupido. Lo so.»
«Perché credi che abbia voluto restare qui ad aspettare il vostro ritorno?» le domandò lui con tenerezza, e si godette con un moto d’orgoglio la rapidità con cui era tornata a guardarlo, sconvolta. «Avevo bisogno di vederti, di sapere che eri al sicuro. Di vederti al sicuro coi miei occhi…» esitò per un istante più del necessario mentre il suo pollice sfiorava con apparente casualità l’angolo delle labbra di lei. Se si fosse sottratta a quel contatto, pensò, non avrebbe lasciato che quell’incerto argomentare arrivasse fino in fondo. Lei non diede neppure il minimo cenno di volersi allontanare. «Di vedere coi miei occhi che eri tornata da me.»
Nuove lacrime si affacciarono sull’orlo delle ciglia chiare di lei, lacrime che pure a George O’Hara parvero diverse da quelle che gli avevano bagnato le dita fino a pochi minuti prima. La vide sorridere appena, abbassare le palpebre e rialzarle su occhi arrossati, sì, ma ora limpidi. «Oh, George, che sciocchezza,» lo rimproverò, sollevandosi inconsciamente sulla punta dei piedi per essergli più vicina. «Credevo che ormai lo sapessi. Tornerò sempre da te.»
Nonostante l’abitudine ormai più che trentennale a mantenere in piedi fra loro un confine invalicabile, O’Hara la strinse contro di sé fino ad annullare ogni distanza. Notti come quella non erano fatte per la solitudine.



(a questo punto, domandone: Secondo capitolo?)
  
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