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Autore: RodenJaymes    10/07/2017    7 recensioni
**Fanfiction scritta per il contest "Sfida l'Autrice" indetto dal gruppo su Facebook "Takahashi Fanfiction Italia"**
Rincasando a notte fonda dal lavoro, Kagome rimane chiusa fuori perché ha perso le chiavi. Mentre si dispera, il portone del condominio in cui abita si apre e la ragazza si trova improvvisamente faccia a faccia con un bellissimo ragazzo dai capelli neri ed occhi scuri, mai visto prima. La curiosità riguardo il misterioso individuo non la lascerà in pace, nemmeno mentre tenta di fare la conoscenza del nuovo, scorbutico e schivo inquilino mezzo demone che si è appena trasferito nell'appartamento di fronte al suo.
Genere: Comico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Inuyasha, Kagome
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Le Lune di Sirio

Traccia assegnatami da: LittleDreamer90.
Rating: Giallo.
Genere: Romantico, con un pizzico di malinconico (altro a discrezione dell'autore)
Coppie: Inuyasha/Kagome
Tipo di copia: Het
Ulteriori Info: AU
Tipo di storia: One-Shot
Trama: Notte di Luna Nuova. Rincasando a notte fonda dal lavoro (scelta dell'autore il tipo di impiego), Kagome rimane chiusa fuori perché non trova/ha perso le chiavi. Mentre si dispera, il portone del condominio in cui abita si apre e la ragazza si trova improvvisamente faccia a faccia con un bellissimo ragazzo dai capelli neri ed occhi scuri, mai visto prima e ne rimane colpita. La curiosità riguardo il misterioso individuo non la lascerà in pace, nemmeno mentre tenta di fare la conoscenza del nuovo, scorbutico e schivo inquilino mezzo demone che si è appena trasferito nell'appartamento di fronte al suo. Mezzo demone che si troverà a maledire quella ragazzina invadente e la propria abitudine di farsi una solitaria passeggiata notturna nella sua notte umana.


[Luna nuova numero 1 – “Di chiavi, stelle e mansioni”]

 

La Luna è un usignolo muto.”
Max Ernst

«So, so you think you can teeeell... Heaven from Heeeell, blue skies from paaaain...»

Procedeva tranquillamente, canticchiando; era da sola, nonostante fosse sera tarda, perché non aveva voluto che qualcuno l'accompagnasse. Solo le note dei Pink Floyd che le rimbombavano nelle orecchie la scortavano nel suo ritorno a casa. Le ruote della bicicletta cigolavano colpendo l'asfalto, creando un rumore sinistro che, nell'oscurità della notte, avrebbe turbato chiunque. Era vecchia, Suzuna. Così aveva deciso di chiamare quella bici che le aveva regalato suo padre, molti anni addietro. Spesso le parlava, come se fosse un essere umano dotato di intelletto. Come se lei non fosse un essere umano dotato di intelletto...

«How I wish, how I wish you weereee heeeere! We're just two lost souls swimming in a fish bowl... year after year...»

Le piaceva, quella canzone. Le dava un senso di pace strano, un senso di pace che si mescolava all'amarezza per una mancanza, per un sogno non realizzato, per un compito non portato a termine...
Le si inumidivano gli occhi ogni volta che l'ascoltava. Per questo la sentiva mentre andava in bici; il vento le asciugava le lacrime e non doveva farlo da sola.

Era di ritorno dal bar in cui prestava servizio come cameriera. Servire ubriachi molesti sino alle due di notte non era certamente una delle sue massime aspirazioni; ma se voleva continuare a studiare astronomia, doveva stringere i denti ancora per un po'. Per le tasse universitarie, per non gravare troppo sulla madre, ormai vedova, che gestiva da sola le spese di un tempio adesso in declino.

Kagome Higurashi sollevò gli occhi grigi al cielo mentre la canzone si spegneva lentamente nelle sue orecchie. Era una notte di Luna nuova; il cielo era scuro, ma le stelle brillavano e prendevano il loro momento di gloria, senza la presenza dell'ospite notturna più preziosa.
Nonostante la poeticità del momento, la ragazza si stava improvvisamente rendendo conto che era davvero tardi e davvero buio. I lampioni della stradina luccicavano ad intermittenza e l'accorgersi in quel momento dell'assenza della Luna le stava dando un'inquietudine che non sapeva spiegare.
Fortunatamente, era quasi arrivata. Le ultime pedalate e avrebbe imboccato la via che l'avrebbe portata definitivamente a casa.

Con dei cigolii non troppo raccomandabili, Suzuna riuscì a portare Kagome alla meta agognata. La ragazza si fermò davanti lo stabile dove abitava e smontò dalla bici con un movimento repentino, che rischiò di farla cadere a terra. Era sempre stata un po' goffa e distratta; il nonno la rimproverava per quelle sue due spiccate caratteristiche, ma la gente la trovava spesso simpatica proprio per quei due motivi tanto biasimati.

Sospirò e lanciò una breve occhiata al suo palazzo. Lo stabile non era niente di che, ma Kagome lo aveva subito trovato carino. Era un rettangolo perfetto, se pur un po' logoro, di cinque piani, con un cancelletto sempre aperto a sorvegliarlo e – all'interno – un giardinetto un po' rado tutto intorno. A quel prezzo e in quella zona, non avrebbe potuto trovare di meglio.

Legò con cura Suzuna nell'apposito “posto delle bici” – un palo della luce poco fuori dal cancelletto d'ingresso del condominio – e si avvicinò al portone. Si guardò un po' in giro con una sorta di circospezione, prima di cominciare a rovistare nello zainetto che portava sulle spalle, alla ricerca delle chiavi. La mano cominciò a vagare con la sicurezza di star cercando in un buco nero. Il fatto di non trovare le chiavi a prima botta – in quel groviglio di cartacce e biglietti da visita, portafoglio, block notes, assorbenti, medicine per malanni dell'ultimo minuto e dispense per studiare – era qualcosa di certo, di normale e conosciuto. Tuttavia, dopo un po', solitamente le pescava; si incastravano fra i fogli delle dispense o nelle borchie del portafoglio. Quando non usava gli auricolari, le trovava impigliate a quelli. Eppure... niente. Erano passati ben tre minuti e ancora niente.

Sgranò gli occhi. Stava per farsi prendere dal panico, ma non voleva darsi per vinta. Non poteva averle perse, non poteva. Suvvia, era una sbadata di prima categoria, e va bene, ma le chiavi! Le aveva sempre tenute come reliquie, come oro! Mai lasciate da nessuna parte, mai perse di vista.
Controllò le tasche dei jeans, sia le anteriori che le posteriori... niente. Solo carte di cioccolatini e qualche bottone che soltanto i Kami sapevano come fossero finiti lì.

«Accidenti, accidenti, accidenti...», sibilò mentre continuava a rovistare nelle tasche della giacca e poi ancora nello zaino, senza posa.

Cacchio, che tragedia! Perdere le chiavi significava non solo non poter entrare in casa nell'immediato – oltre la preoccupazione di eventuali ladri e malfattori – ma anche far rifare le serrature... roba da spendere un quantitativo di yen sicuramente superiore alle sue possibilità!
Kagome s'inginocchiò davanti il portone e svuotò lo zainetto in un gesto velocissimo e disperato. Prese a rimestare in maniera convulsa fra gli effetti personali sparsi sul pavimento e sentiva l'angoscia cominciare a divorarle la bocca dello stomaco.

«E no, e dai, e su...», cominciò a lagnarsi parlando con il contenuto dello zaino, mentre perdeva improvvisamente tutte le speranze. «Kami Celesti, non fatemi questo. Giuro che sarò più attenta, smetterò di odiare l'anziana del secondo piano e mangerò meno cioccolata.»

Mentre la ragazza continuava a perdersi in laute – ma inutili – preghiere, improvvisamente il portone si aprì con il suo solito rumoraccio sinistro e fastidioso. Kagome scattò in piedi, colta di sorpresa, le mani stupidamente davanti al petto; una stringeva un assorbente, l'altra il cellulare con tanto di auricolari ancora appesi e ciondolanti. Ai suoi piedi giaceva il contenuto rovesciato dello zainetto e nessuna traccia delle chiavi.

Ehi, ma... fantastico! Portone aperto! Avrebbe potuto quantomeno piazzarsi davanti la porta di casa e farsi venire un'idea per...

Oh.

Davanti ai suoi occhi non si snodava soltanto la magnificenza del portone finalmente schiuso e la mente di Kagome si distolse presto da quel dettaglio. Lì vi era un giovane. Un ragazzo un po' più alto di lei, dai lineamenti belli, mascolini e marcati; continuava a tenerle aperto con una mano mentre la osservava, con tanto di sopracciglio inarcato. I capelli erano color ebano, lunghi fino a poco sopra le spalle, e si presentavano della stessa sfumatura degli occhi che erano neri ma con un che di violaceo nel fondo, profondi e coinvolgenti, come quella notte senza Luna. Sembrava avesse il firmamento nello sguardo, nonostante la cupezza.

Rimasero lì, a fissarsi un po', a studiarsi e chiedersi entrambi cosa ci facesse l'altro lì. Il ragazzo abbassò il viso e notò la marmaglia di effetti personali ai loro piedi. Inclinò leggermente la testa di lato, probabilmente non capendo o capendo poco.

Kagome, però, era persa in ben altri pensieri. Chi era quel giovane? Giurava di non averlo mai visto. Cinque piani, due appartamenti per pianerottolo, si conoscevano tutti. E quel ragazzo, quel ragazzo non figurava fra gli inquilini, ne era sicura. Uno così se lo sarebbe ricordato. Come ci si può scordare di una persona con le stelle nelle iridi?

«Lascio aperto, magari?»

Fu il ragazzo a spezzare il silenzio. In quello stato di piacevole torpore in cui si trovava, non poteva sicuramente esser lei a parlare per prima. Si sentiva così strana. Colpita, sì, colpita. Non poteva definirsi in altro modo. Registrò immediatamente la sua voce come bella. Un tono caldo e sicuro, con un pizzico di scherno, ma tutto sommato fresco. E il suo parlare divenne ben presto cosa gradita.

«Hai perso la lingua?», chiese ancora lo sconosciuto. Un lieve incresparsi delle labbra da un lato; magia.

«Sì.», rispose Kagome di getto, senza pensarci. Il ragazzo aggrottò lievemente le sopracciglia scure e la ragazza si rizzò come un fuso. «Sì, nel senso che... sì, lascia aperto.», chiarì con un filo di voce e piazzò la sua pallida mano a reggere la maniglia lì dove prima vi era quella dello sconosciuto.

Nessun contatto, neanche per errore. Come se ogni movimento del ragazzo fosse compassato, per non sfiorare niente, nulla. Nessuno. Eppure, erano così vicini. Davvero molto.

La vita non è un film, Kagome.

«Ho perso le chiavi.», informò la ragazza, mentre lo sconosciuto era già di schiena, pronto ad andar via.

Non sapeva perché l'avesse fatto, perché aveva detto quella cosa. Forse per sentire ancora la sua voce, forse per vedere ancora quegli occhi fatti di buio e stelle. Forse perché sperava si ingaggiasse una conversazione sul perché e per come le era capitata quella sventura. E magari...

«Brutta storia.», fu il breve e rapido commento. Le colpì il petto come una freccia, ma non le fece male.

O meglio... non quanto le fece male accorgersi che gli aveva parlato tutto il tempo con un assorbente in mano.

*

«Sei una cretina.»

«Cortesemente, smetteresti di ripeterlo?»

«Mi piace terribilmente puntualizzare l'ovvio. Non vedo perché dovrei smettere.»

Kagome sbuffò sonoramente mentre Naraku** Ichinose, coinquilino del primo piano, porta di sinistra, le sventolava sotto il naso la copia delle chiavi del suo appartamento.

Dopo l'incontro con il ragazzo misterioso, le ci era voluto un po' per riprendersi. E mentre cercava di far l'equilibrista – per tenere aperto il portone e recuperare tutto il contenuto dello zainetto – aveva avuto la brillante idea di ricordare giusto in quel momento che Naraku possedeva la copia delle sue chiavi.

Naraku era una delle poche persone di cui Kagome sapeva di potersi ciecamente fidare, ecco perché l'aveva nominato custode delle sue chiavi di riserva. In realtà, l'aveva nominato un sacco di altre cose... era cavalier servente in caso di difficoltà, era accompagnatore a casa in caso di eccessivo sbevazzo... era, in pratica, il fratello maggiore che non aveva mai avuto. In parte, erano davvero parenti; Naraku figurava come suo cugino di secondo grado ed era stato lui a trovarle quella casa, permettendole finalmente di andare a vivere da sola. Certo, era un tipo particolare, leggermente fastidioso – a tratti davvero insopportabile – ma era davvero una brava persona. A suo modo.

Kagome afferrò l'oggetto che le veniva porto con un gesto parecchio veloce e stizzito e infilò la chiave giusta nella toppa con una precisione da manuale, cosa che non le era mai appartenuta.

«Lascia fare a me. Per come sei impedita, non vorrei rischiare la rottura della chiave nella serratura.», snocciolò Naraku con flemma e la scansò dalla sua postazione con una leggera spallata.

Kagome incrociò le braccia e prese a guardarlo in cagnesco. Sapeva ch'era il suo modo di tutelarla, ma era simpatico quanto due dita ficcate in gola.

«Smettila, brutto stronzetto. Non sono impedita.», borbottò la ragazza entrando finalmente dentro casa, mentre Naraku le teneva la porta aperta con un sorrisetto odioso. «Miei Dèi, ancora non capisco come cappero ho fatto a perdere quelle dannate chiavi.», continuò, lagnosa, buttandosi sul divano e prendendosi la testa fra le mani.

«Oh, vediamo... forse perché sei sbadata? E impedita? Forse perché la Terra potrebbe smettere di girare e tu non te ne accorgeresti neanche? O forse perché un asteroide potrebbe sfiorarti la testa e continueresti a fare “m'ama non m'ama” con una margherita. O forse perché-»

«Ehi! Ma hai finito? Mi fai apparire come un'idiota totale!», inveì Kagome sollevandosi di scatto, le guance rosse e l'espressione irata.

Naraku stava per aprire nuovamente bocca, un indice alzato e già pronto per esprimersi in una nuova saccente sentenza. Come biasimarlo? Gli veniva naturale. Tediare il prossimo in situazioni infelici – ricordando a ripetizione l'errore commesso – era uno dei suoi passatempi preferiti. E con quell'aria pallida ed emaciata che si ritrovava, sembrava un misto fra Mamma Chioccia e il Fantasma dell'Opera.

«No, zitto. Smettila. Hai parlato abbastanza.», lo bloccò Kagome guardandolo in tralice. Ne aveva già fin sopra i capelli di sentire i suoi rimbrotti acidi e v'era qualcosa di più importante a cui pensare. Tipo chi fosse il ragazzo sconosciuto di poc'anzi... oppure, le chiavi. Giusto, le chiavi. Ecco.

Agire per priorità, Kagome.

«Piuttosto, vediamo di ovviare il problema delle chiavi. Chiamo Jakotsu.», proclamò quindi dopo pochi secondi di silenzio, con aria convinta e risoluta. La disperazione era prontamente celata da qualche parte.

Naraku si poggiò contro la porta chiusa e sospirò rumorosamente mantenendo l'espressione del viso impassibile. Gli occhi neri erano insondabili e a Kagome tornarono in mente quelli dello sconosciuto, profondamente diversi da quelli del cugino; insondabili sì, ma brillanti di stelle nella loro ombrosità.

«Oh, elettrizzante.», soffiò Naraku con evidente sarcasmo e disappunto. Quel sibilo acido in voce vellutata la riportò alla realtà. «Quello lì non sa neanche dove ha messo la sua testa, figuriamoci le tue chiavi.»

Ad un tratto, un tramestio metallico e la porta di casa si spalancò di scatto, spingendo in avanti il ragazzo con uno scossone del tutto inaspettato.
Agli occhi sbigottiti di Kagome e di un dolorante Naraku si presentò un ragazzo alto e smilzo. I capelli neri raccolti in una strana acconciatura, grossi occhiali da vista poggiati sul capo, i pantaloncini azzurri – larghi e con delle piccole angurie stilizzate in rilievo – una casacca bianca, le converse nere sdrucite e l'eyeliner a contornargli gli occhi grandi e scuri.

Jakotsu Momozono era lì, in tutto il suo appariscente e bislacco splendore.

«Dinne un'altra, stronzo.», berciò in direzione di Naraku, la solita voce graffiante e stridula. Fece girare sul dito affusolato l'anello con le chiavi tintinnanti, proprio davanti ai suoi occhi, come a sbeffeggiarlo. «Guarda che ti ho sentito!»

*

Aveva lasciato il mazzo di chiavi lì, accanto alla cassa del Jidai, il bar dove lavorava. Jakotsu, amico e collega di lavoro, se n'era accorto poco dopo la dipartita della ragazza sulla sua fidata Suzuna. Così, aveva deciso di riportargliele una volta chiuso il locale – dato che quella sera toccava proprio a lui.

Kagome trasse un sospiro di sollievo mentre teneva quel santificato mazzo di chiavi fra le mani e lo stringeva al petto. L'intervento di Jakotsu doveva esser stata la benedizione dei Kami tanto agognata, non v'erano dubbi. Oppure, aveva soltanto avuto una fantasmagorica botta di culo.
Botta di culo che – tra l'altro – le aveva permesso di incrociare quel ragazzo davanti il portone. E la stessa domanda di mezz'ora fa, archiviata in seguito alla gioia delle ritrovate chiavi, riprese a tormentarla.

Chi era quel ragazzo?

«Dèi del Cielo, le mie gambe sono a pezzi. Ho fatto la strada di corsa, non è stata una buona idea.»

Kagome si volse verso il divano, sottratta ai suoi pensieri confusi per l'ennesima volta. Adesso Momozono stava lì, stravaccato sul suo divano a bere tè alle erbe, mentre Naraku lo guardava con disprezzo premendosi una tavoletta di ghiaccio sulla spalla dolorante, battuta malamente poco prima contro la porta.

«I miei nervi sono a pezzi, solo nell'udire quella tua stridula vocetta. Taci.», ingiunse Ichinose in tono piatto.

Jakotsu aprì bocca immediatamente per replicare e cominciò quel caratteristico scambio di battute e insulti sibilati e urlacchiati ch'erano alla base della conoscenza fra lui e Naraku. Che quei due non si sopportassero non era un mistero, entrambi palesavano tranquillamente il loro disappunto nei confronti dell'altro senza troppe cerimonie. Jakotsu credeva che Naraku fosse uno smunto e saccente stronzetto rompicoglioni; Naraku credeva che Jakotsu fosse un esaltato ed eccentrico stronzetto rompicoglioni.

Kagome riteneva che avessero ragione entrambi.

«Insomma, smettetela di battibeccare!», li bloccò alzando la voce, per sovrastarli in qualche modo e farsi dare retta. «È tardi, è stata una lunga giornata ed io voglio andare a dormire.»

I due smisero di parlare e si lanciarono un'ultima occhiataccia prima che Naraku si sollevasse dal divano. Il viso marmoreo tradì una lieve smorfia di dolore e la mano corse a tastare la spalla, lì dove prima vi premeva il ghiaccio.

«Quale garbo, Kagome, nei confronti di chi ti salva sempre il culo.», l'apostrofò con il solito tono vellutato farcito di parole taglienti. «Cosa devo fare con te?»

Kagome storse la bocca e Naraku le regalò uno dei suoi soliti sorrisi sghembi.

«Difficile dirlo, ma sono d'accordo.», s'intromise Jakotsu e mise un adorabile broncio. «Non ci si comporta così con chi si è fatto due isolati di corsa per riportarti le chiavi.»

«Che gesto nobile.», lo schernì subito Naraku. Non si volse neanche verso di lui.

«Sempre più di chi si è solo limitato a salire le scale.»

«Il mio aiuto è stato essenziale. Aspettare te sarebbe voluto dire morire davanti il porton-»

«Smettetela, Kami benedetti!», urlò Kagome all'improvviso, esasperata, la mano a sfregare la fronte, a torturare la frangia corvina. «Grazie. Avete fatto entrambi un lavoro meraviglioso. Vi sono grata. Per sempre. Adesso, portate il culo fuori da casa mia. Addio.»

Naraku si lasciò andare ad unico gesto che – nel suo caso – valeva più di mille parole: inarcò un sopracciglio scuro. Totale e assoluto biasimo. Recuperò la giacca dalla spalliera di una sedia e si avvicinò alla porta di casa.

Al contrario, Jakotsu si strinse semplicemente nelle spalle ma non si mosse.

«Vi lascio, allora. La copia delle chiavi, però, continuo a tenerla io.», specificò dandosi un colpetto alla tasca posteriore dei jeans neri. «Non si sa mai.»

Il mazzo tintinnò e Kagome sbuffò. Si preoccupava per lei ma glielo ricordava in un modo talmente odioso. Come se per lui fosse un gioco, una scommessa continua con il fato e la vita per vedere quale cazzata avrebbe combinato per prima. Una scommessa con se stesso, per capire a quale suo casino avrebbe dovuto far fronte, quale situazione avrebbe dovuto aggiustare.

«Fai poco il gradasso.», lo redarguì spalancandogli la porta di casa e quello sorrise ancora. Un sorriso davvero inquietante. «E grazie sempre.», sussurrò poi, non sapeva se per abitudine oltre che per vera gratitudine.

Quello annuì e basta.

«Stai attenta.»

E dopo le sue due ultime parole famose, di rito, sempre quelle, Naraku Ichinose fece per sparire nel buio del pianerottolo. Due passi e poi tornò indietro. La coda in cui aveva raccolto i capelli scuri, lunghi e ondulati, dondolò per quel movimento repentino.

Kagome rimase un attimo interdetta. Aggrottò le sopracciglia e rimase a fissarlo come un'ebete. E adesso che problema c'era?

«Quasi dimenticavo di ricordarti una cosa. Domani il nuovo inquilino si stabilirà qui definitivamente. L'appartamento accanto al tuo sarà occupato.», disse con fare professionale, come se stesse elencando il principio secondo il quale la Terra gira intorno al Sole. «Dunque, non è il caso che tu giri in pigiama sul pianerottolo armata di mazza da baseball, solo perché hai sentito un “rumore sospetto”. Ci siamo capiti?»

«Naraku, che palle! È successo solo una volta con lo scorso inquilino!», sbottò Kagome quasi chiudendogli la porta in faccia.

Solo dopo un minuto il suo cervello intorpidito assimilò l'informazione, mentre Jakotsu sghignazzava – ancora sdraiato sul divano. Nuovo inquilino? L'appartamento di destra sarebbe stato occupato in maniera conclusiva! Però... occupato da chi? Sussultò e spalancò gli occhi grigi, in un misto fra stupore e assoluta frenesia. Che fosse...

«Aspetta, torna qui!», urlò al cugino che già si trovava giù di una rampa di scale. «Chi è? Il nuovo inquilino, dico!»

«Vedrai domani. E non urlare! Diamine, sto urlando anch'io.»

Sempre gentilissimo.

Kagome chiuse la porta e vi si poggiò contro, lasciandosi andare ad un lauto sospiro. Sentiva già qualcosa che cominciava ad invaderla e, sì, era curiosità. Il suo cervello stava già scandagliando le possibilità e sapeva che ve n'era qualcuna che il nuovo inquilino – del cui avvento ovviamente non si ricordava – potesse essere il ragazzo misterioso incontrato quella notte. E la cosa – in un modo a lei sconosciuto – la rendeva elettrizzata. Curiosa ed elettrizzata. Annuì fra sé e sé, come a darsi atto di quella riflessione, e sollevò finalmente lo sguardo, allontanandosi dalla porta. Solo in quel momento si ricordò di Jakotsu. Era ancora lì, sul divano, e la osservava stranito con quei suoi occhi profondi, neri e contornati di eyeliner.

Si guardarono per un po', poi Kagome inclinò la testa di lato e Jakotsu sporse il labbro inferiore in fuori.

«Stanotte hai intenzione di non tornare a casa.», disse la ragazza a bruciapelo.

«...sssssì?», borbottò quello, esitante. Sembrava una domanda.

«Lo fai perché vuoi vedere anche tu il nuovo inquilino, vero?»

«Sì.»

Kagome fece spallucce.

«Ti prendo una coperta.»

*

 

«Quanti soldi mi dai se riesco a portare questi scatoloni solo con un dito?»

«Niente. Perché non ne sei in grado. E io posso portarmeli da solo, tsk!»

Inuyasha Taisho, solito grugno indispettito e umore non proprio alle stelle, sottrasse due grosse e pesanti scatole da sotto il naso di Miroku Houshi, amico di sempre e spesso – ma non proprio volentieri – spugna e consulente dei suoi malumori. Eppure, quella volta, Inuyasha era sicuro che il suo malumore fosse ampiamente giustificato. Era decisamente una brutta giornata, se non una delle peggiori di quella settimana. Non aveva sentito la sveglia, era arrivato tardi al lavoro e adesso si ritrovava lì, a dover terminare un trasloco alle sei e mezza del pomeriggio. Si complimentò con se stesso per aver portato la maggior parte degli oggetti la sera prima, quella sì ch'era stata un'ottima idea, probabilmente una delle poche avute in ventisette anni di vita. Quantomeno poteva aggiungerla alla lista; faceva progressi.

Miroku sbuffò e sollevò gli occhi blu al cielo mentre continuava a salire le scale, fiancheggiando l'amico. Era sempre così scorbutico, Kami santi! A volte stentava a capire se lo facesse per abitudine, per portare avanti un modello comportamentale che faceva ormai parte di lui, o se v'era davvero qualcosa ad indispettirlo continuamente.

«Dài, Inuyasha, sorridi un po'!», lo esortò picchiettandogli leggermente la spalla con un dito; quello, per tutta risposta, semplicemente sbuffò. «Sei così carino le poche volte che sorridi! Talmente carino che, se fossi una ragazza, ti chiederei di uscire con me!», scherzò, nella speranza di farlo ridere.

Inuyasha storse il naso ed arricciò il labbro superiore in disgusto. Ma che diamine blaterava, quel babbeo? Stava per replicare con una delle sue, quando si accorsero entrambi d'essere al quinto e ultimo piano, precisamente la loro destinazione. E il naso di Inuyasha si storse ancora di più quando vide una figura alta ed esile piantata davanti la porta spalancata del suo appartamento.

«E tu saresti...?», smozzicò dopo un breve attimo di stupore.

Che ci faceva quella tipa sconosciuta davanti la sua porta? Tuttavia, non poté impedirsi di ammettere ch'era carina; i capelli lunghi e corvini, la pelle nivea, il corpo asciutto. La ragazza, impalata davanti la porta, sentendosi chiamata, si volse immediatamente. Alla sua vista, la vide immediatamente sbarrare gli occhi nocciola; tuttavia, si ricompose in breve tempo, mostrandogli un educato sorriso di circostanza.

A Inuyasha però, non era sfuggita quell'occhiata. Istintivamente, dopo aver abbandonato gli scatoloni accanto alle scale, portò il cappuccio della felpa a coprire il capo – un meccanismo di difesa, un'abitudine tanto scomoda quanto salva vita. Rimase discosto e osservò la ragazza, aspettando che quella emettesse suono, dicesse qualcosa. Sembrava solo stupita.

Poteva essere altrimenti?

Miroku salì in fretta l'ultimo gradino e si accostò immediatamente alla sconosciuta, tendendole la mano e presentandosi, cogliendola alla sprovvista.

«Oh, Miroku.», irruppe una voce squillante ma incrinata. Celava un ringhio dietro una calma palesemente costruita. «Vedo che hai avuto già modo di presentarti alla signorina Noragami.»

Inuyasha si volse e – senza neanche accorgersene – curvò le labbra in un ghigno.
Sango, la fidanzata di Miroku, stava lì, sulla soglia; le mani sui fianchi e le labbra tese che già minacciavano tempesta. Era rimasta in casa per aiutarlo nelle ultime sistemazioni - “urge la mano di una donna, Inuyasha” - mentre lui e Miroku portavano su quei due benedetti scatoloni.
Ovviamente, il suo sesto senso le comunicava sempre quando Miroku – storico e innocuo ma ormai ingabbiato farfallone – cominciava a parlottare con una ragazza. Inuyasha trovava dannatamente divertenti le scenette alle quali quei due, litigando, davano vita. Sembrava d'essere dentro la puntata di un anime shojo; erano una delle poche cose a farlo ridere di gusto.

«Ma certo, mia dolce Sango.», acconsentì Miroku in un batter d'occhio, già sulla difensiva. «Sono educato e colloquiale, come puoi ben vedere. Nulla a che spartire con quell'antisociale di Inuyasha.»

«Dannato, non usarmi per giustificarti!», lo rimbrottò Inuyasha, sentendosi preso in causa.

«Miroku...», sibilò Sango socchiudendo gli occhi castani, ma non aggiunse altro.

Quello le sorrise soltanto, scostandosi un po'. Stava sicuramente per cominciare un'apologia, complice anche quella sua loquela inestinguibile, ma un leggero colpo di tosse richiamò l'attenzione di tutti.

La ragazza – Noragami? – continuava a stare lì, ferma e composta, probabilmente in attesa di poter prendere la parola. Sango sembrò intercettare il suo sguardo annoiato e le rivolse un sorriso, chinando leggermente il capo, come a scusarsi. Poi, indicò Inuyasha.

«Signorina Noragami, il nuovo inquilino è lui, non questo idiota qui.», puntualizzò Sango cercando d'essere cordiale e si portò una ciocca di capelli castani dietro l'orecchio mentre dava una gomitata dritta nel costato di Miroku. «È con lui che deve parlare. Noi entriamo dentro. È stato un piacere conoscerla.»

Si inchinarono entrambi velocemente e Noragami fece lo stesso, prima di voltarsi verso Inuyasha.

Quello si fece avanti, controvoglia, e fece un breve cenno col capo.

«Salve. Sono Inuyasha Taisho. Deve dirmi qualcosa?», chiese in tono asettico.

Odiava dover interagire con gli altri, non gli piaceva per niente. Stavano sempre lì, a fissarlo, a scrutare il suo aspetto in ogni minimo dettaglio, ricordandogli ogni minuto d'essere diverso.

Come se potessi dimenticarlo.

Noragami non si scompose o – comunque – dopo quella prima occhiata stupita, sembrava che non gliene importasse più nulla. Né del suo tono poco caloroso, né del suo aspetto, né di altro in generale. Sembrava soltanto inesorabilmente annoiata. E di fretta.

«Sono Kikyo Noragami, inquilina del terzo piano, porta di destra.», lo informò in tono neutro. «Le do il benvenuto a nome mio zio, Keiichi Noragami, amministratore del condominio. Residente sempre al terzo piano, porta di destra.», puntualizzò alla fine, ma il suo tono recava una nota di sarcasmo, come a sottolineare l'ovvietà che per lei possedeva quell'ultima affermazione.

«Bene, la ringraz-»

«Prego. Ma non ho terminato.», disse e sollevò leggermente il mento, con aria di sfida quasi, come se stesse rimarcando il suo diritto di parola. Come se avesse capito che stava per essere liquidata con una semplice frase di circostanza.

Inuyasha rimase un attimo interdetto, poi incrociò le braccia e non si premurò per niente di nascondere l'espressione stizzita che aveva preso possesso del suo viso. Se quello era l'inizio di convivenza col “vicinato”... si stava partendo proprio bene!

«Mio zio si è premurato di farle pervenire questi...», continuò la giovane e gli porse dei fogli che aveva precedentemente tirato fuori dalla borsa che si portava dietro. «Vi è una pianta dell'edificio, un elenco degli inquilini e delle loro mansioni.»

«M-mansioni?», chiese inarcando un sopracciglio, la parola che uscì fuori involutamente tartagliata.

Kami del Cielo, ma dove si trovava? Voleva solo traslocare, stare in pace in quella casa senza che nessuno gli rompesse le scatole. E invece, ecco che una tipa mai vista prima lo teneva lì, sulla porta, a riempirlo di scartoffie e insegnamenti, manco fosse appena arrivato in una nuova scuola.
Non sapeva ancora se esserle grato; in quel momento, non lo era.

Kikyo inarcò le sopracciglia, scure e curate, e inclinò leggermente la testa di lato. Successivamente arricciò le labbra e si abbandonò ad un lieve e delicato sospiro.

Sbaglio o questa qui mi sta dando del cretino solo avvalendosi della mimica facciale?

«Mansioni.», ripeté semplicemente. Un attimo di silenzio, ennesimo sospiro. «In questo condominio cerchiamo di organizzarci per bene. L'organizzazione fa in modo che ciascuno, volendo, possa fare la sua parte in un dare e ricevere benefici.», definì.

Un altro attimo di silenzio.

Ma parla a gettoni? Ha la carica a molla sulla schiena?

«Dalla sua espressione deduco che nessuno le abbia dato delucidazioni in merito, prima di trasferirsi qui.», notò allora Kikyo e sembrava che la cosa la indispettisse alquanto. Scostò la manica della giacca pastello che indossava, quel tanto per osservare l'orologio da polso. Sospirò ancora.

Inuyasha sbuffò forte dal naso e lo arricciò, una nuova ondata di irritazione che aveva iniziato a pervaderlo. Intanto, il ridacchiare di Sango e Miroku raggiunse le sue orecchie, coperte dal cappuccio della felpa.

Dài, Sango, vieni qui...”
Miroku, non mi sembra il caso, è il letto di Inuyasha...”
Preferisci il tavolo?”

Ma che schifo! Quei due stavano per fornicare sul suo letto! O sul tavolo... insomma, su una superficie piana appartenente alla sua casa! E intanto lui era bloccato lì, con quella. Dannato quell'udito sopraffino e fuori dalla norma che si ritrovava! Avrebbe preferito non sapere.

«Allora. Guardi qui.», irruppe Kikyo con tono sicuro, sottraendogli nuovamente le scartoffie dalle mani e risvegliandolo dai suoi pensieri. Aprì uno dei fogli e mostrò un elenco di nomi ordinato e preciso, a colonne. «Questi sono gli inquilini dell'intero palazzo, suddivisi per famiglie e nominativi.», cominciò con tono calmo ma vagamente sbrigativo.

Inuyasha fece correre gli occhi dorati sui nominativi e si prese qualche secondo di troppo per soppesarli.

Piano primo.
Hino Kagura – appartamento 1 (destra)
Ichinose Naraku – appartamento 2 (sinistra)

Piano secondo.
Washeda Tsubaki – appartamento 3 (destra)
Famiglia Yoro – Terashima – appartamento 4 (sinistra)
Yoro Koga
Yoro (T.) Ayame
Yoro Akemi

Piano terzo.
Famiglia Noragami – appartamento 5 (destra)
Noragami Keiichi
Noragami Kikyo
Noragami Kaede
Famiglia Kobayashi – appartamento 6 (sinistra)
Kobayashi Fumiyo
Kobayashi Shippo

Piano quarto.
Akitoki – Saito – appartamento 7 (destra)
Akitoki Hojo
Saito Midori
Yazawa Byakuya – appartamento 8 (sinistra)

Piano quinto.
Vuoto, Affittato – appartamento 9 (destra)
Higurashi Kagome – appartamento 10 (sinistra)

L'altro appartamento nel suo stesso pianerottolo era occupato, quindi? Non si era effettivamente informato al momento dell'affitto della casa. Dopo averla vista, aveva immediatamente accettato l'offerta e una settimana dopo – la sera prima – aveva trasportato la maggior parte dei suoi averi. Non aveva idea vi fosse qualcun altro lì, al quinto piano. Un vicino di casa. O meglio una vicina. Ancora peggio.

Dannazione.

«Questo qui, invece, è il foglio con le mansioni degli inquilini. Ve ne sono alcuni, fra loro, che dividono il lavoro con Keiichi, in qualità di... di vice, in qualche modo.», proseguì Kikyo e ancora una volta Inuyasha si vide sottrarre scartoffie e pensieri. «Per il pagamento dell'affitto, deve rivolgersi ogni mese a Keiichi. È lui raccoglie le quote per poi consegnarle al proprietario dello stabile, il signor Kinomoto. In alternativa, la signorina Hino le tiene in custodia al suo posto. Se l'impianto luce o quello gas le danno problemi, si rivolga agli Yoro. La quota per la manutenzione del giardino va consegnata alla signora Washeda. Invece, il custode delle quote per l'impresa di pulizie varia ogni mese... questo mese tocca a... Yazawa.»

Inuyasha rimase zitto, incapace di esprimere un pensiero coerente. Ma perché, quando aveva visitato la casa e deciso di affittarla, Kinomoto non gli aveva raccontato di tutte quelle trafile? Sospirò e si grattò la testa senza togliere il cappuccio della felpa. Come facevano a fidarsi gli uni degli altri in quel modo? Era vero che Kinomoto era scrupoloso nel controllo delle persone che finivano lì, ad abitare nel suo palazzo... però...
E poi, sarebbe toccato anche a lui tenere quelle stupide quote per l'impresa di pulizie?

«Senta. Si blocchi.», ingiunse ad un certo punto in tono burbero, stroncando Kikyo nel bel mezzo di un nuovo e composto flusso di parole. Quella si fermò ma lo freddò con un'occhiata esplicativa. «Devo dire una cosa.»

«Ma prego, dica pure.», esortò Kikyo, acida, e gli restituì i fogli prima di incrociare le braccia al petto.

«Togliendo il fatto che non comprendo tutta questa fiducia gratuita fra estranei... voglio esonerarmi dal turno di raccogliere le quote per le cose, lì... le pulizie. Però la mia quota la pagherò sempre, lo assicuro.», aggiunse immediatamente, senza esitazioni. Che non lo prendessero per un parassita! «Posso farlo o c'è qualche problema?», chiese poi, volendo mostrare un minimo di gentilezza. Cominciava a sentirsi vagamente in imbarazzo e non capiva bene perché.

Kikyo intrecciò le mani dietro la schiena e si limitò a guardarlo in tralice per un po'.

«No, nessun problema.», dichiarò la ragazza. «Però, non si stupisca troppo se, un giorno di questi, dovesse trovare l'appartamento in fiamme o qualcosa di simile.»

«Cosa?! È una minaccia?», berciò Inuyasha colto alla sprovvista e infervorato al contempo.

«No. È ironia.», rispose quella, lapidaria. «Può essere esonerato dalla raccolta delle quote per le pulizie, è già successo in passato con altri. Farà semplicemente la figura dell'orso poco collaborativo. Ma non sembra una definizione così poco adatta.», concluse con un'alzata di spalle e fece per avvicinarsi alla scalinata, pronta ad imboccarla e ad andar via.

«Ehi! Ma come ti permetti, eh?», inveì Inuyasha, abbandonando la formalità del “lei” e rasentando la maleducazione. Ma quella non gli rispose neanche, intenta com'era a scendere velocemente le scale.

Il ragazzo rimase lì, fermo per un po', lo sguardo ora fisso sugli scatoloni abbandonati ancora sul pavimento, lì dove li aveva lasciati. Si lasciò andare ad un lungo sospiro, prima di recuperarli e scuotere con biasimo la testa. Sentiva lo stomaco stranamente attorcigliato in una morsa. Si sarebbe mai sentito davvero a suo agio da qualche parte?

Oh, Miroku... aspetta... un crampo...”

«Volete smetterla, dannati pervertiti?! Vi sento! E sto per entrare!»

*


Distrutta. Ecco come si sentiva Kagome dopo tutte quelle ore al bar. Le dolevano le gambe e la schiena – passare tutto quel tempo in piedi non le faceva mai troppo bene. Tuttavia, mentre finalmente imboccava le scale per arrivare al suo famigerato quinto piano, sentiva una sorta di strana sensazione pervaderla, la stessa della sera precedente; sapeva che riguardava sempre il suo nuovo vicino di casa.

Contrariamente a quanto aveva pensato la sera precedente, non era ancora riuscita a scoprire chi fosse.

Quella mattina lei e Jakotsu erano usciti di casa molto presto – toccava a lei aprire l'attività ed entrambi avevano il turno mattutino – e il nuovo inquilino non era ancora arrivato. Kagome ritenne fosse molto strano; di solito, i traslochi avvenivano sempre nelle prime ore del mattino ma non fece troppo caso a quella diversità; ne colse solo la sbagliata tempistica. E quindi, ancora nulla.

Durante le ore di lavoro, il pensiero che l'inquilino potesse essere il ragazzo della sera precedente – e la conseguente volontà di scoprirlo – la tormentarono ancora di tanto in tanto; complice anche il fatto che Jakotsu – venuto a conoscenza delle idee di Kagome – fomentasse quell'immagine nella sua mente, continuando a menzionare l'argomento per tutta la mattina. Sulla scia di quegli eventi, Kagome aveva dunque acconsentito all'idea dell'amico di comprare un vassoio di daifuku e bussare alla porta del nuovo inquilino con la scusa di un “benvenuto” da brava vicina. Lo aveva trovato geniale e per nulla invasivo.

Ecco perché, adesso, Jakotsu si trovava ancora con lei, a salire le scale con quell'enorme vassoio in bilico fra le braccia, mentre Kagome saltellava sui gradini, salendoli a due a due e sorridendo come una ragazzina alla quale sta per esser svelato un ghiotto segreto. Pensandoci, anche lei si sentiva un po' stupida; ma badava a non pensarci troppo.

«Oh! Attenzione!»

Arrivata alla scalinata che portava al quarto piano, Kagome si bloccò di scatto ad un richiamo incalzante e abbastanza familiare. Kikyo Noragami – la ragazza del terzo piano, quella che abitava con lo zio – stava percorrendo la stessa scalinata in senso opposto, probabilmente diretta a casa o chissà dove. E si sarebbero di certo scontrate malamente, se la ragazza non avesse avuto la cura di fermarsi in tempo. Kagome, invece, goffa come suo solito, nel bloccarsi di scatto si sbilanciò leggermente in avanti, salvo poi appoggiarsi alla ringhiera prima di cadere. Si volse verso Jakotsu; lui era tre gradini più giù: i daifuku erano salvi.

«Ciao, Kikyo!», la salutò accorata Kagome con un gran sorriso. «Scusami, ero distratta!»

Kikyo le riservò un sorriso gentile mentre si portava elegantemente una ciocca di capelli neri dietro l'orecchio.

Kagome l'aveva sempre trovata molto bella e femminile oltre che estremamente gentile. Quando si era appena trasferita, era stata una delle prime persone dello stabile con cui aveva fatto amicizia. Era una ragazza un po' strana, timida e a tratti chiusa, ma toccando le corde giuste riusciva ad aprirsi, rivelando una persona piacevole oltre che spiritosa e sagace.

«Kagome! Ciao, Jakotsu.», proferì Kikyo salutando prima lei e poi il ragazzo che le aveva raggiunte. «Non preoccuparti, l'importante è che tu non ti sia fatta male. Anche io non guardavo dove andavo... sono di fretta, il nuovo inquilino mi ha trattenuta fin troppo e devo scappare a recuperare Kaede al corso di pittura!», si lamentò la giovane osservando l'orologio da polso e consumò altri gradini, arrivando alla fine della scalinata, pronta per la successiva. «Quello lì ha appena terminato il trasloco. Alle sette di sera. Ma si può? È un tale soggetto, poi... ah, scappo! Perdonatemi!», e sia la sua figura che la sua voce si dissolsero per i pianerottoli successivi.

Kagome stava per riflettere che la sorella di Kikyo aveva ormai dodici anni; non poteva tornare da sola dal corso di pittura? Tuttavia... un altro pensiero scalzò immediatamente quell'inutile elucubrazione; qualcosa di decisamente più interessante...

«Il nuovo inquilino ha appena terminato il trasloco. Dunque, è in casa!», osservò Kagome con rinnovato brio e si trasportò con energia alla nuova rampa di scale. «Che stiamo aspettando?!»

Jakotsu grugnì, il vassoio ancora fra le mani. Era dannatamente curioso di vedere dal vivo il nuovo ragazzo e impazziva nel voler vedere la reazione di Kagome casomai fosse stato quel suo “tipo misterioso”; ma cominciava giusto a chiedersi se il gioco valesse la candela. Stava per rimetterci un polmone.

«...che inseriscano l'ascensore in questo maledetto condominio. Ecco cosa stiamo aspettando!»

*

 

«Quindi, busso.»

«No. Se vuoi, rimaniamo qui fino a che non viene ad aprirci spontaneamente, dopo aver sviluppato delle doti telepatiche, magari.»

«Cretino! Intendevo dire tipo “okay, lo stiamo facendo”. Era una sorta di-»

«Bussa e basta, per la gloria di Amateras**-»

«Vi serve qualcosa?»

La porta dell'appartamento 9 – quello di destra – si spalancò di scatto, senza preavviso, cogliendo Kagome e Jakotsu nel bel mezzo di quello stupido dibattito senza significato. Come se l'inquilino avesse avuto davvero delle doti telepatiche. I due rimasero zitti, senza proferire parola, la bocca leggermente aperta.

Due perfetti idioti.

Entrambi avevano lo sguardo fisso sulla figura del ragazzo che avevano davanti; tuttavia, mentre Jakotsu era piacevolmente stupito, Kagome era tristemente stupita.

«Ma... e tu chi caspiarola sei?», sussurrò la ragazza ad occhi ancora sbarrati; non poté far a meno di chiederlo.

La figura che troneggiava lì, davanti la porta di casa, era decisamente affascinante, bella.

Tuttavia, possedeva particolarità che – decisamente – non potevano essere ricondotte allo sconosciuto misterioso. I capelli, lunghi fin sopra le spalle, erano argentei come raggi di Luna, non neri come il cielo in cui il satellite d'argento non aveva fatto la sua comparsa. Gli occhi erano di un intenso color oro – Sole che sostituiva le stelle di quello sguardo nero che ancora ricordava. Le labbra – arricciate in una smorfia di incomprensione – mostravano due canini leggermente più lunghi e appuntiti della norma, quasi fossero piccole zanne. Le mani, forti ma affusolate, recavano la presenza di artigli. E – dulcis in fundo – sul capo candido facevano capolino due orecchie canine che – Kagome era sicura – lo sconosciuto della sera prima non possedeva affatto.

Un demone. Cioè, un mezzo demone.

Non si sentiva stupita o amareggiata per quello; Koga, Ayame e la piccola Akemi, Kagura del primo piano, la signorina Fumiyo e il figlio Shippo, Byakuya... tutti erano demoni. Il loro condominio aveva una considerevole presenza demoniaca e la cosa non la disturbava, anzi. Aveva sempre trovato affascinante e interessante poter interagire con delle creature tanto belle e potenti.

Non aveva niente contro quel ragazzo. Ma il suo stupore era triste. Perché lo sconosciuto non era lui.

Non è lui.

«Tu sei davanti la mia porta e chiedi a me chi sono? Si può sapere che cosa volete, eh?», inveì Inuyasha Taisho, immediatamente sulla difensiva, irritato. Lo guardavano talmente fisso da procurargli il voltastomaco. «Ché state qui impalati?! Siete venditori ambulanti? Non compro niente! Ho già un'enciclopedia che mi fa da aspirapolvere!»

Kagome sussultò, ignorando completamente la battuta di scherno e le domande poste. Persino il tono di voce era diverso. Era basso, sì, ma roco, ringhiante quasi.

Jakotsu mutò la sua espressione da pesce lesso in un sorriso melenso e cominciò a sbattere gli occhi, ammaliato. Non aveva mai visto così tanta bellezza concentrata in un unico essere!

«Ciao, splendore!», urlò con vocetta squillante, non calcolando minimamente il tono minaccioso e le richieste del mezzo demone. Mollò letteralmente il vassoio di daifuku fra le braccia di un'ancora trasecolata Kagome e si fece avanti. «Io sono Jakotsu! È un piacere conoscerti! Awww, ma quelle orecchie sono stupende! Posso toccarle?!»

Inuyasha sbatté più volte le palpebre prima di capire le reali intenzioni di quel folle. Quel tipo con delle banane disegnate sui pantaloncini gli si stava per buttare addosso per toccargli le orecchie. Seriamente?!

«Jakotsu!», lo richiamò Kagome improvvisamente ridestata, quasi fosse un bambino. Quello si ricompose un po' e si volse mostrandole un sorriso smagliante, i grossi occhiali da vista – che non metteva quasi mai – leggermente storti sul capo.

Il pizzico di delusione nel non trovare ciò che aveva stupidamente sperato era ancora lì, da qualche parte; tuttavia, adesso riusciva perfettamente a rendersi conto che erano lì da neanche tre minuti e stavano già facendo una figura di merda colossale. Tutto perché lei era un'inesorabile cretina e Jakotsu un inquietante pervertito. Se Naraku li avesse visti in quel momento... Si schiarì la gola, cercando di darsi un tono, e porse il vassoio al ragazzo, come se nulla fosse successo.

«Sono Kagome Higurashi, inquilina dell'appartamento di sinistra.», snocciolò e sorrise, gentile, sperando di sembrare convincente. Voleva cominciare un buon rapporto di convivenza e – decisamente – indisporlo per poi scagliargli contro Jakotsu non era il modo migliore. «Ti ho portato dei daifuku per darti il benvenuto. Perdona il trambusto, non volevamo... spaventarti, ecco.»

Inuyasha storse il naso e non rispose. Non sapeva se essere più stranito, infastidito o confuso; nel dubbio, stava provando tutte quelle sensazioni contemporaneamente. Si trovava in quella casa solo da mezz'ora e già trovava le persone di quel posto fin troppo bislacche e invadenti. Si era insospettito già quando aveva udito quei due bisticciare a bassa voce, davanti la porta. L'espressione di quella ragazza quando aveva aperto la porta, poi... non gli era piaciuta per niente. Aveva un che di deluso e indispettito quasi, come se si aspettasse dell'altro, qualcosa di diverso.

Certo. Un mezzo demone non è il vicino ideale, quello che si vorrebbe.

E adesso, faceva la finta carina, cercando di riprendersi, di mostrarsi educata, con quei dolci che, sicuramente, non voleva dargli davvero – perché era solo lui, un mezzo demone, e non un umano. Umano ai quali, certamente, pensava di doverli destinare. Strinse le labbra, soffermandosi per altri secondi sul viso della ragazza, quella Higurashi. E ricordò. L'aveva già vista. La sera prima, dopo aver finito di lasciare le ultime cose all'appartamento. Stava uscendo per fare una passeggiata e godersi la sua notte di Luna nuova – l'unica notte in cui assumeva sembianze di completo essere umano – per poi tornare per l'ultima volta nella vecchia casa. E lei era lì, davanti il portone, con un mucchio di roba ai piedi e l'espressione stralunata.

Ho perso le chiavi, aveva detto.

E gli era sembrata buffa, divertente. Non si era fermato ad aiutarla, ma per un attimo aveva accarezzato l'idea di farlo. Tanto il suo aspetto umano l'avrebbe tutelato e reso stimabile ai suoi occhi. E poi, quello stesso pensiero che lo stava spronando, l'aveva fermato. Perché sarebbe stata l'ennesima ad apprezzarlo da umano e a disprezzarlo da demone. E allora, non valeva la pena fermarsi in nessun caso, nessuno meritava nulla in nessun caso. Eppure, voltato l'angolo, si era quasi pentito, quella notte. Quasi pentito di non essersi fermato, chissà perché.

Adesso, gli faceva quasi male pensare che aveva fatto bene a non fermarsi. Chissà perché.

«Non mangio dolci.», smozzicò dopo un minuto ch'era sembrato infinito. E la porta si chiuse di scatto.

«Inuyasha, chi era?», chiese Miroku facendo capolino dal salotto.

Brutto cafone, cafone, cafone! E io che volevo essere gentile!”
...è così tremendamente affascinante...”
Cretino! È anche colpa tua, chissà cos'ha pensato!”

«Venditori porta a porta.»

 

*

 

[Luna nuova numero 2 – “Sirio del Cane Maggiore.”. ]

 

Puoi essere luna ed essere ancora gelosa delle stelle.”
Gary Allan.

 

«Giuro, è scorbutico e antipatico come pochi. Kikyo aveva ragione.», borbottò Kagome mentre muoveva con energia il cucchiaino nel suo caffellatte, senza però mescolarlo davvero. «Ho cercato di dargli a parlare, ma mi saluta a stento! Mi sono anche scusata per la figuraccia del primo incontro...»

«Non fa grandissima simpatia neanche a me, in effetti.», acconsentì Naraku, mostrandosi per una volta d'accordo con le lamentele della cugina. «Neanch'io non sono un grande estimatore degli esseri viventi, potrei anche comprenderlo. Ma potrebbe almeno salutare. Le buone maniere non hanno a che fare con l'odio verso il prossimo. Posso nutrire odio ed essere educato.», continuò con ostentata saccenza, prima di accompagnare alle labbra la tazza di caffè.

«E dire che ci ho provato... sono stata gentile in tutti i modi, davvero...»

Kagome si abbandonò sulla sedia, sconsolata. Non capiva perché il suo vicino di casa fosse così schivo e spigoloso, non riusciva quasi a farsene una ragione. Non lo incrociava quasi mai – probabilmente avevano orari diversi – ma nei fine settimana, quando si ritrovavano in casa entrambi, scattavano i problemi. Problemi con il filo condiviso per stendere la biancheria, da balcone a balcone; problemi con il gatto di Kagome che a volte scappava da lui, da balcone a balcone. Problemi con le piante, il cui vento trasportava la terra, da balcone a balcone. Kagome avrebbe detto che, oltre al suo vicino, il problema reale fosse il balcone. Si scusava quando qualcosa non andava, cercava d'essere gentile e rispettosa, lo era sempre stata. Eppure, sembrava nulla fosse abbastanza per ottenere la cordialità di Inuyasha Taisho.

«Avete smesso di spettegolare come due comari?», li interruppe Jakotsu, l'immancabile té verde in una mano e l'altra a coprire la bocca a causa di uno sbadiglio nascente. «Non capisco cosa abbia che non va quel benedetto ragazzo. Si fa solo i fatti suoi.»

«Devo realmente star qui a sentire il giudizio di uno che viene qui e si apposta in balcone solo per vedere quel tipo stendere la biancheria in mutande?», chiese Naraku senza voltarsi neanche a guardarlo, un sopracciglio scuro leggermente inarcato.

Jakotsu sbarrò gli occhi e sputò il sorso di té che aveva appena bevuto, salvo poi cominciare a tossicchiare senza sosta.

«Quale maleducazione.», sibilò Naraku asciugandosi uno schizzo ch'era finito sulla sua camicia.

Kagome nascose un sorriso dietro la tazza di caffellatte; le frequenti colazioni con Naraku e Jakotsu stavano prendendo una piega sempre più strana, ma interessante. L'amico era ormai presenza sempre più statica in casa della ragazza e tutti sapevano che la causa – per quanto assurdo e folle fosse – era proprio Inuyasha. Tuttavia, a Kagome stava bene. Le piaceva la sua compagnia, nonostante la stranezza e i battibecchi inevitabili con il cugino.

«Nessuno ha chiesto il tuo parere, Edward Cullen delle mie braghe.», lo apostrofò Jakotsu con stizza e quello gli lanciò un'occhiataccia nell'udire quel soprannome odioso. «E poi, anche Kagome lo fa!»

Naraku si volse lentamente verso di lei, un'occhiata asettica con quegli occhi neri.

«Il tuo amichetto bislacco dice la verità?»

Quella volta fu Kagome a farsi andare la bevanda di traverso, senza però permettere che questa fuoriuscisse dalle sue labbra. Maledetto Jakotsu, che razza di spione! L'aveva fatto, va bene, ma soltanto una volta! O magari due. Tre. Va bene, quattro! Ma lo faceva solo per divertimento, per prenderlo in giro. Mica perché voleva vederlo o pensava che quello spettacolo fosse tremendamente sexy e accattivante. Figurarsi.

Naraku si alzò dalla sedia senza dire nulla, per poi accompagnarla al tavolo con un gesto aggraziato.

«È proprio vero che i parenti non te li scegli.», disse in un sospiro.

 

*

 

«Un'altra giornata come queste e mi impicco al lampadario di casa.», sibilò Jakotsu mentre assicurava la saracinesca del bar con il grosso catenaccio. «Ho la testa in fiamme.»

Kagome annuì, si strinse nella giacca scura e sospirò forte. Era notte fonda, le due passate, avevano probabilmente fatto più tardi delle altre volte. Sollevò gli occhi al cielo e si perse nella moltitudine di stelle che lo animavano, senza, però, scorgere la Luna; era assente. Si crucciò e chiuse gli occhi. Si sentiva stanca e spossata, forse più delle altre volte, e non vedeva l'ora di tornare a casa e affondare fra le lenzuola fresche.

«Ah, perché, tu possiedi ancora una casa?», la voce tagliente di Naraku fendette l'aria e fece voltare i due ragazzi di scatto.

Kagome sorrise mentre Jakotsu sollevava gli occhi scuri al cielo, per poi sospirare.

«Sei ovunque, per gli Dèi. Si può sapere che vuoi? La porto io a casa, Kagome.»

«Certo, tanto ormai sei praticamente lì in pianta stabile. Hai già messo il tuo spazzolino in bagno?»

Mentre i due cominciavano a punzecchiarsi, come loro solito, Kagome sistemò meglio lo zainetto sulle spalle e prese ad incamminarsi, senza dire nulla. Sapeva che il cugino – essendo fuori per la festa di un collega di lavoro – sarebbe sicuramente passato a prenderla, dunque aveva lasciato Suzuna a casa, legata al suo solito palo. Tuttavia, avrebbe pagato per poterla avere e scappare via dalle battutine velenose di quei due.
Era talmente stanca che non li avrebbe sopportati a lungo. E poi, le mancava andare in bici. Da quando Jakotsu bazzicava casa sua quasi con la stessa frequenza di Naraku, dopo i turni serali facevano sempre più spesso la strada insieme ed era un po' che Suzuna godeva di un'immeritata e ingiusta vita da pensionata.

«Kagome, aspetta! Ti sembra il caso d'andar via così?», si lagnò Jakotsu recuperando da terra la tracolla e calcandosela in spalla.

Il ragazzo vide che l'amica si era fermata di botto ma non accennava a voltarsi. Si volse verso Naraku, il quale, nel frattempo, si stava fumando bellamente una sigaretta. Si scambiarono una breve occhiata; nessuna ostilità quella volta, solo la medesima curiosità condivisa.

Entrambi si avvicinarono alla ragazza in poche falcate e l'affiancarono senza sforzo. Quella continuava a guardare dritto davanti a sé e sembrava profondamente stupita, un grandissimo sorriso le ornava le labbra. I due seguirono la traiettoria del suo sguardo, straniti e curiosi con intensità diverse, e intercettarono quello che – probabilmente – era l'oggetto d'interesse di Kagome.

Circa a quindici passi da loro, sullo stesso marciapiede dello Jidai, vi era uno di quei provvidenziali distributori automatici posti totalmente a caso in mezzo alle vie. Proprio davanti quel distributore era fermo un ragazzo intendo ad aspettare che la macchinetta restituisse ciò che aveva chiesto.

Naraku trovò immediatamente il soggetto poco interessante, Jakotsu lo classificò come decisamente carino.

«Kagome. Quale brutta influenza ha il tuo amichetto bislacco su di te? Adesso ti blocchi in mezzo alla strada a fissare i ragazzi?», l'apostrofò Naraku con un sorrisetto, la sigaretta elegantemente ferma fra le dita.

Jakotsu stava per replicare, ma il suo aspro dire fu bloccato da Kagome.

«Voi non capite.», sussurrò scuotendo appena la testa. Poi, si volse verso i due – prima l'uno e poi l'altro – e sorrise. «È lui

Era lui, era proprio lui. Era lo sconosciuto, quello che, più di un mese prima, aveva incontrato davanti il portone di casa. Quella notte, la notte in cui aveva perso le chiavi. Quella notte senza Luna.

Non poteva credere fosse proprio lì, era un'assurda e strana coincidenza. Nonostante avesse scoperto che l'inquilino della porta accanto non era il ragazzo misterioso, Kagome aveva continuato a pensare a quel tipo per un po'. Continuava ad essere immotivatamente curiosa, a voler capire che cosa ci facesse lì, chi fosse. Aveva chiesto con discrezione e fare distratto ad Ayame – di solito sapeva sempre troppe cose, anche se non lo faceva di proposito: merito di quei sensi sviluppati che si ritrovava. Tuttavia, nulla, neanche lei sapeva dirle niente. Aveva gettato domande casuali anche agli altri inquilini con i quali aveva un po' più di confidenza... nulla.

Ricordava ancora l'odiosa anziana del secondo piano, la signora Washeda, che dopo aver casualmente sentito i discorsi sul “misterioso ragazzo dallo sguardo di stelle”, aveva riso e le aveva detto sibillina e inquietante, con l'aria di chi sa tutto e niente:

Sai guardarti intorno, bambina?

Quella donna antipatica! Ci si era messa pure lei a prenderla in giro. E quindi, dopo un po', Kagome si era rassegnata. Pensava non avesse senso perseverare su una fantasia. Non aveva più chiesto a nessuno né tirato fuori l'argomento. E pian piano, come succede con i sogni fatti la sera prima, Kagome aveva accantonato il pensiero dello sconosciuto. Per rendersi meno amara la dipartita, si era addirittura detta che, probabilmente, con la fortuna che si ritrovava, doveva esser uno di quei tipi strani che passavano dall'appartamento di Byakuya Yazawa.

Ora, però, lo aveva davanti. Era lì, a pochi passi da lei. Stava recuperando la sua bevanda in lattina e si stava allontanando. E fu come se, aver davanti la sua figura, azzerasse tutto ciò che aveva fatto per scacciarla, per non darvi più peso, per non farsene più tormentare. La curiosità era prepotentemente tornata a galla insieme al ricordo dei suoi occhi e del suo tono di voce.

Occhi che voleva ben rivedere da vicino e tono di voce che avrebbe volentieri riascoltato.

E, intanto, lui si stava muovendo. Si stava allontanando.

«Lui?», chiese Naraku con un sopracciglio inarcato, senza capire subito, com'era invece abituato a fare.

«Lui?! Miei Dèi, è lui?!», sbottò Jakotsu allargando gli occhioni e si batté il palmo della mano sulla fronte. «È il ragazzo misterioso!»

«Oh. Il tipo delle sera delle chiavi? Coincidenza singolare.», osservò Naraku assottigliando gli occhi a due fessure. Portò la sigaretta alle labbra. «Quando l'hai incontrato la scorsa volta era una notte senza Luna come questa, se non ricordo mal-»

«Sì, sì, ma chi se ne frega di queste cagate?», lo interruppe bruscamente Jakotsu con tono annoiato. Si accostò a Kagome che sospirava, gli occhi ancora fissi sul ragazzo che si allontanava. Sempre più distante. «Tesoruccio, non dirmi che vuoi farlo andar via senza avergli riparlato neanche una volta! Il caso sembra essere dalla tua parte. Non vuoi toglierti questo capriccio?», le chiese con un sorriso allusivo e sghembo.

Kagome aggrottò le sopracciglia scure, il profumo alla fresia di Jakotsu che le pizzicava piacevolmente il naso. Voleva davvero perdere l'occasione di sentire la sua voce? Di soddisfare la sua curiosità, capire chi fosse? E soprattutto... comprendere che legame avesse con il suo condominio? Perché usciva proprio da lì? Risolse illogicamente di no. E quindi, perché limitarsi ad andare lì, come i normali esseri umani, e parlargli semplicemente?

«Voglio seguirlo!», proclamò a bassa voce, ma con decisione. E cominciò ad incamminarsi, senza pensare alle conseguenze, senza preoccuparsi di apparire una psicopatica con manie poco rassicuranti.

Jakotsu strabuzzò gli occhi e spalancò un po' la bocca mentre osservava l'amica che – con quello che doveva sicuramente essere la brutta versione di un accelerato passo felpato – cominciava a seguire la figura del ragazzo, ormai discosta.

«Vuoi pedinarlo?! Buon Shinigami**, coglimi adesso!», imprecò Jakotsu con fare teatrale, portandosi le mani ai capelli.

Kagome si era bevuta il cervello? Lui le aveva solo proposto di andargli a parlare! Come se fermare un perfetto sconosciuto – visto una volta – a notte fonda fosse una soluzione ben più ragionevole. Oh, dannazione, certo ch'era più ragionevole!

Si volse verso Naraku ma quello – ovviamente – era impassibile. Soffiò del fumo grigio, poi sospirò.

«Hai capito che vuole fare, Conte Dracula?!»

Naraku gli rivolse un'occhiata gelida e accusatrice. Se gli sguardi potessero uccidere...

«Sì. E disapprovo. E ritengo che sia colpa per un buon 85% della tua cattiva influenza. Il resto, è sua propria stupidità.», asserì, tranquillamente. «Adesso, muoviti e andiamo. O vattene a casa.»

«Cosa vuoi fare?»

«Mi sembra lapalissiano. Seguiamo lei che segue lui.»

Jakotsu rimase un attimo fermo, l'espressione da stupido, l'emicrania in atto e la confusione che gli facevano capire le cose con delineato ritardo. Strinse gli occhi, poi annuì.

«Ha senso.»

*

 

Parco cittadino, ore 02:51. Area destra, cerchio di cespugli laterale.

Lì, accovacciata dietro quegli ammassi di rametti e foglie, Kagome osservava l'oggetto della sua illecita e controversa curiosità. Lo sconosciuto stava lì, seduto su di una panchina poco distante da loro, ma a vista; beveva lentamente la sua bibita in lattina e guardava fisso il cielo. La ragazza sospirò. Il ragazzo misterioso aveva un'aria così... misteriosa. E poetica. Il solo fatto che osservasse il cielo con tanta insistenza la incuriosiva ancora di più, da brava studentessa di astronomia qual era.

Sai, bimba, se una persona guarda spesso il cielo, è possibile che sia un astronomo, un sognatore o una persona sola; tutti loro cercano qualcosa nella volta celeste. Una nozione, una fantasia, un posto nel mondo. E, a volte, le tre cose coincidono.

Kagome curvò un angolo della bocca in un sorriso mesto ricordando le parole che suo padre amava ripeterle spesso. Socchiuse gli occhi e si accostò ancora di più al cespuglio, ne sfiorò quasi le foglie con il naso. Cos'era lo sconosciuto? Un astronomo? Un sognatore, una persona sola? Tutte e tre le cose?

«Ahi, spostati, brutto stupido, mi stai pestando la mano!»

«Abbassa la voce, razza di idiota!», sibilò Kagome volgendosi verso Jakotsu e poi Naraku, giusto il tempo di incenerirli con lo sguardo.

«Kagome, hai intenzione di far qualcosa oltre che star qui ad osservarlo in modo inquietante?», chiese Naraku in tono piatto, il solito sopracciglio odiosamente inarcato. L'aggettivo “inquietante” rivolto da lui ad altro essere vivente aveva qualcosa di ironico. «Perché questa situazione ha del surreale e mi sento catapultato in un anime shojo di bassa categoria.»

Kagome si morse il labbro inferiore e sbuffò forte dal naso. Avrebbe voluto parlargli, certo, ma – in quel frangente – non le sembrava più una così buona idea. Avrebbe salvato quel po' di integrità morale che le rimaneva: per quella volta, l'avrebbe solo seguito.

«No. Oggi voglio seguirlo e basta.», assicurò in tono normale, come se stesse parlando del tempo e non di illeciti progetti di pedinamento. «Lui usciva fuori dal nostro portone, quella notte. Ed io voglio capire s-»

«Tesoruccio. Non sono accovacciato qui, in posizione ridicola, soltanto per osservare.», s'intromise Jakotsu in tono serio, interrompendola. «Potrebbe essere l'ultima volta che lo vedi. Hai voluto fare la folle, falla fino alla fine. E dammi qualcosa di gustoso da vedere e da ascoltare

Kagome aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra; non le piaceva il tono che Jakotsu stava utilizzando. E le piaceva ancora meno il fatto che Naraku non stesse ribattendo per niente o contestando l'amico.

«Cosa vu-»

«Scusa.», proclamò, inizialmente senza motivo.

Jakotsu diede una consistente spallata a Kagome. Quella perse l'equilibrio precario che già possedeva e cadde distesa, rivelando la sua figura al di fuori del cerchio protettivo dei cespugli. In pratica, non era più nascosta.

Le scuse di Jakotsu avevano acquisito un senso.

La ragazza avvertì un dolore al gomito ed emise un suono stridulo, totalmente colta di sorpresa. Tuttavia, non ebbe neanche il tempo di accoltellare con lo sguardo l'amico per la cazzata che aveva appena fatto; ben presto, il suo sguardo grigio si trovò incollato e incatenato a quello nero dello sconosciuto. La panchina dov'era seduto era ad una distanza tale da vederla, ma non da vedere gli altri due nascosti dietro i folti cespugli.

Lo sconosciuto continuava ad osservarla e, anche se non sapeva ben dirlo, credeva che nella sua espressione vi fosse stizza oltre che comprensibile smarrimento. Entrambi erano incerti sul da farsi, trasecolati. Kagome vide che il ragazzo si era alzato dalla panchina, ma non del tutto; rimaneva lì, le ginocchia leggermente piegate. Decise di alzarsi anche lei, di scatto, cercando di acquisire una parvenza di normalità che, sicuramente, non aveva. Prese a massaggiarsi il gomito mentre sentiva il cuore battere all'impazzata e rimbombarle nelle orecchie. E adesso?

Cosa dico? Cosa faccio?

«Qualche problema?»

E anche quella volta fu il ragazzo misterioso a rompere il silenzio; la sua voce era la stessa dell'ultimo incontro, Kagome la ricordava perfettamente. Deglutì e si impose la calma. Era solo una persona, una persona qualunque. Cos'era tutta quella ritrovata agitazione? Perché le faceva quell'effetto?

«Sono caduta.», esordì, scioccamente, esprimendo una mezza verità. Si sentì una bambina colta in flagrante, nel bel mezzo di qualcosa.

Quello si sedette nuovamente sulla panchina e volse il viso a guardare dritto di fronte a sé. Sembrava aver perso interesse per la faccenda. Kagome si fece coraggio – se di coraggio si può parlare – e si avvicinò di una decina di passi, colmando quasi l'intera distanza. Lei poteva fare anche la figura della cretina, ma che almeno non si accorgesse di Jakotsu e Naraku appostati dietro i cespugli. Sarebbe stato ancora peggio.

«Mi sono... persa.», abbozzò ormai lì, in piedi, accanto alla panchina.

Il ragazzo misterioso si volse verso di lei e la inchiodò con quegli occhi profondi; le sembrò che l'intera volta celeste vi fosse risucchiata e riflessa. Lo vide aggrottare le sopracciglia per poi inarcarle di scatto e si rammaricò profondamente del fatto che potesse crederla una stupida.

«Persa? Al parco pubblico?», chiese e v'era un'evidente nota d'ironica incredulità nella sua voce.

Kagome sospirò, lo stomaco stretto in una morsa. Che situazione assurda. Grazie, Jakotsu idiota. Beh, riflettendoci, era già assurda prima che lui vi mettesse lo zampino, ma...

«...sì?», disse. Ma si diede mentalmente dell'idiota mille volta quando quel sussurro uscì fuori come una domanda.

Se possibile, le sopracciglia del ragazzo s'inarcarono ancora di più.

«Lo chiedi a me?»

«No! Cioè, sì. Sì nel senso che... mi sono persa qui. Passeggiavo e...», annaspò. «Passeggiavo e ho perso la cognizione sia del tempo che del luogo. Questo parco è sempre stato troppo grande e labirintico per me.»

Oh, bene. Già va meglio, si complimentò con se stessa e la morsa allo stomaco si allentò un po'.

A non allentarsi, però, fu il nodo che – sempre allo stomaco – infastidiva Inuyasha Taisho in quel momento.
Si sentiva colto alla sprovvista, totalmente. Era lì, a godersi la sua notte umana, l'unica notte in cui – perdendo le fattezze da demone – poteva non essere guardato con disprezzo e sentirsi biasimato per il suo essere. Avrebbe potuto incontrare qualcuno, chiunque... e invece, lei. La ragazzina invadente e sbadata dell'appartamento di sinistra. Maledetto lui e la sua santissima passeggiata!
Era la seconda volta che gli capitava di incontrarla da umano. Tuttavia, adesso, aveva un po' di imbarazzo nel capire come approcciarsi a lei; non doveva svelare niente, non doveva capire niente. Non che fosse semplice. Il suo aspetto mutava totalmente, persino il tono di voce all'orecchio umano appariva talvolta diverso.

Non può capirlo, si convinse. Basterà comportarsi come la scorsa volta, basterà parlarle. Normalmente non lo faccio mai...

«E, magari, hai perso anche le chiavi?», le chiese allora, senza neanche guardarla. Riprese ad osservare il cielo ostentando una voluta noncuranza.

Kagome trasalì, poi un sorriso nacque spontaneo a dipingerle le labbra. Stava sorridendo, non poteva impedirselo. Il ragazzo aveva appena fatto riferimento all'episodio della notte passata. Dunque, si ricordava di lei! Non sapeva se se ne ricordasse per la sua perfetta stupidaggine o per motivi simili ai suoi. Tuttavia, la sua immagine era comunque nella memoria del ragazzo; era già un notevole progresso.

«Ah, ti ricordi di me...», fece presente allora, dando voce ad uno dei pensieri che le vorticavano in testa.

Inuyasha curvò un angolo della bocca in un ghigno e schioccò la lingua. Sembrava quasi contenta del fatto che si fosse ricordato di lei; chissà come l'avrebbe presa se a farle quella confessione fosse stato l'altro, il mezzo demone.

«In pochi dimenticherebbero qualcuno che, a notte fonda, fruga fra roba sparpagliata a terra.», snocciolò in tono piatto ma condito di ironia, per poi fare spallucce.

Kagome si mordicchiò un labbro e si grattò una guancia, arrossendo. Okay, la ricordava per la sua stupidaggine. Touché.

«Beh, era una situazione alquanto... stravagante, in effetti.», acconsentì e sorrise, vagamente in imbarazzo. E poi, inaspettatamente, si sedette. Leggermente discosta da lui, ma pur sempre sulla stessa panchina. «Ti piace guardare il cielo?», chiese all'improvviso, come se non bastasse.

Inuyasha fu investito da un profumo fruttato accattivante che – rifletté – se fosse stato in forma demoniaca avrebbe captato con più intensità e insistenza. Quasi gli mancava la sua forma di demone in quel momento; avrebbe scorto il suo odore – ormai quasi familiare – da tempo, da prima che si avvicinasse, da prima che entrasse nel parco. E l'avrebbe evitata, avrebbe fatto in modo di non incontrarla.
La osservò con la coda dell'occhio, per poi tornare a guardare il cielo quando si accorse che lei lo stava osservando. Si sentiva un ragazzino delle elementari costretto a condividere il banco con un nuovo compagno. Perché quell'immotivata sensazione di inquietudine? Pensava fosse paura d'essere scoperto, ma forse andava oltre quello.

«Sì. È interessante.», disse e le parole uscirono con un ché di incerto, nota della quale si pentì immediatamente. «Mi godo la notte.», aggiunse quindi, più sicuro.

Kagome sorrise e annuì. Era dannatamente ironico il fatto che nessuno dei due – momentaneamente – esprimesse ad alta voce le proprie perplessità riguardo il perché e le modalità della presenza dell'altro.

«Sembra una bella attività.», affermò la ragazza e si portò una ciocca di capelli corvini dietro l'orecchio. Si volse quel tanto per osservare il profilo del ragazzo. Quel naso dritto, un po' imponente, le riportò alla mente qualcuno, ma non sapeva ben dire chi. «Anche a me piace moltissimo la notte, si può spulciare per bene il firmamento. Posso rimanere anch'io ad osservare le stelle?»

Il giovane si volse verso di lei per quella che doveva essere la centesima volta in pochi minuti. Cosa avrebbe dovuto risponderle? Che no, non poteva fermarsi lì? Di girare al largo? Che voleva stare da solo? Ovviamente no, non poteva dire quelle cose, non poteva ringhiarle contro come avrebbe fatto l'altro. Ma a dargli fastidio non era tanto l'impossibilità di scacciarla quanto scoprire che, forse, non gli andava propriamente di farlo.

«Questo è un pubblico parco. Se vuoi rimanere, fa' pure.», risolse infine, scrollando le spalle.

Kagome si strinse nelle spalle, ma ne fu comunque contenta. Non era stato troppo amichevole, ma neanche eccessivamente scorbutico. Probabilmente era solo un po' timido, in imbarazzo. Certo, non doveva essergli capitato spesso che qualcuno – sbucato dal nulla – ingaggiasse una conversazione con lui, nel cuore della notte.

«Allora rimarrò.»

Rimasero un po' in silenzio ad osservare la volta celeste, ognuno perso nelle proprie elucubrazioni mentali.
Entrambi si sbirciavano di sottecchi, di tanto in tanto, con la curiosità di due bambini che non sanno da dove cominciare per poter giocare insieme.

Soltanto in quel frangente, Inuyasha si accorse che non aveva mai guardato bene la ragazza dell'appartamento di sinistra, pur avendola avuta sotto gli occhi un buon numero di volte. La trovò decisamente graziosa, aveva un bel profilo e degli occhi molto belli. E si rese conto che quell'odore non gli era mai sembrato così buono.

«Lo sai qual è la stella più luminosa del cielo?», chiese all'improvviso Kagome volgendosi verso di lui. Lo scoprì già ad osservarla e gli sorrise.

Inuyasha arrossì, come non gli era mai capitato. Distolse lo sguardo e prese a grattarsi la testa, confuso. Cosa gli prendeva?

«Beh...», cominciò, senza sapere come continuare. Non sapeva rispondere.

Kagome interpretò la reticenza del suo interlocutore e allargò il suo sorriso. Si avvicinò un po' sulla panchina, accorciando l'eccessiva distanza ma mantenendo comunque un giusto margine di spazio vitale. Una striscia di sicurezza, di confine.

«È Sirio.», rispose, sicura, e inclinò leggermente la testa di lato. «Sai, Sirio è una stella bianca ed è nove volte più luminosa delle altre stelle. È anche chiamata Stella del Cane, perché appartiene alla costellazione del Cane Maggiore – anche detto Cane di Orione.»

Il giovane si rizzò, improvvisamente interessato. Senza volerlo, il riferimento al “cane” aveva reso quella solfa sulle stelle stranamente interessante. Non che prima non lo fosse, a dire il vero. Erano cose che non sapeva e stava ascoltando con celato interesse...

«Cane Maggiore?», chiese aggrottando leggermente le sopracciglia. «Perché si chiama così?»

Kagome ridacchiò, contenta dell'interesse del ragazzo. La “roba sulle stelle”, come la chiamava sempre Jakotsu, era un buon metodo per incuriosire qualcuno e cominciare un discorso. Si sistemò meglio sulla panchina, sollevò le gambe e le incrociò, pronta a raccontare quella storia sentita a sua volta in innumerevoli occasioni.

«Perché... alcuni sostengono rappresenti il fedele cane di Orione, la cui costellazione sta accanto. Lo seguiva ritto sulle zampe posteriori e portava proprio la stella Sirio chiusa nel suo morso. Il Cane Maggiore insegue sempre la Lepre, costellazione che sta ai piedi di Orione.», spiegò con trasporto ed era fantastico scoprire d'essere ascoltata con altrettanto interesse. «Altri, invece, dicono che il Cane Maggiore rappresenti il cane Lelapo. Lelapo ebbe moltissimi padroni, fra cui un certo Cefalo. Egli lo portò a Tebe, in Grecia, dove una volpe cattiva stava distruggendo la campagna. Per volontà divina, la volpe era destinata a non essere mai presa ma, per la stessa volontà, Lelapo era destinato ad afferrare qualsiasi cosa volesse prendere. Sia la volpe che Lelapo iniziarono a correre ed erano invisibili a occhio nudo! Vi fu un attimo in cui sembrava che il cane avesse afferrato la volpe... ma, ben presto, quella scivolò via e Lelapo si trovò con niente.»

Kagome si zittì, facendo una pausa proprio nel momento più interessante, proprio dove si fermava sempre suo padre quando la raccontava a lei. E la reazione di Inuyasha fu la stessa, la stessa che lei ebbe la prima volta, molti anni addietro.

«E quindi che successe? Che fine aveva fatto la volpe?», chiese il ragazzo sporgendosi un tantino verso di lei. Doveva ammetterlo a se stesso, era dannatamente curioso. E quella ragazzina ci sapeva fare.

«Il dio Zeus capì che quella lotta era un paradosso irrisolvibile. Entrambi gli animali erano destinati a scontrarsi per sempre, senza arrivare mai ad una conclusione.», continuò portandosi le mani in grembo, con aria saccente. «Dunque, trasformò tutti e due in pietre e posizionò Lelapo in cielo, ma senza la volpe. Da qui, il Cane Maggiore.»

Inuyasha storse il naso. Quella storia gli aveva decisamente lasciato l'amaro in bocca!

«Tutto qui?», si lamentò, stizzito. «Pensavo che il cane fosse divenuto una costellazione per aver finalmente acciuffato la volpe! Invece, è stata solo la soluzione ad un problema. A che serve guadagnarsi un posto in cielo così?»

«Come sei disfattista! Ti sbagli, io non la vedrei in questo modo.», disse Kagome scuotendo la testa. «Lelapo è diventato una costellazione poiché, comunque, era un personaggio di grande rilevanza. Non ha ottenuto il posto in cielo per quella sola impresa mai completata, ma per una vita di imprese ben riuscite.»

Il ragazzo soppesò per un attimo le parole di Kagome. Il suo dire sembrava aver senso, ma il suo cinismo gli suggeriva fosse solo l'ennesima manovra d'una ragazzina che cercava di trovare il positivo ovunque.

«Rimango della mia opinione.», asserì con convinzione, se pur era conscio che v'era stata per una volta apertura ad un diverso punto di vista. «Alla fine, è soltanto una leggenda.»

Kagome fece spallucce, poi annuì.

«Sì, come ve ne sono tante. Le stelle sono legate alla mitologia, alle storie.», rivelò la ragazza con entusiasmo. «Sirio è una delle stelle intorno alle quali vi sono più leggende. Era davvero importante, lo è tutt'ora. Pensa che i Greci ritenevano che, quando Sirio spuntava in cielo poco prima del sorgere del Sole, erano previsti danni ai raccolti, gravi malattie e siccità. Le stelle hanno sempre svolto funzioni particolari nella vita degli uomini.»

Inuyasha schioccò la lingua in disapprovazione, poi, si trovò a ghignare. Quanto si facevano condizionare gli antichi da miti e leggende! Rivolse una nuova occhiata alla ragazza e si chiese come facesse lei a conoscere tutte quelle informazioni, le storie. Che fosse una fanatica credulona anche lei? Si scoprì curioso; questa volta, però, non curioso per il racconto storia. Curioso di una persona. Curioso di lei.

«E tu come fai a sapere tutte queste cose?», domandò Inuyasha con un sorrisetto, facendo finta di preoccuparsi poco di sapere quale sarebbe stata la risposta. «Credi anche tu nei poteri della Stella del Cane?»

Kagome incrociò le braccia, facendo una finta espressione seriosa per quella provocazione, poi scoppiò a ridere e scosse la testa velocemente. I capelli corvini ondeggiarono, per poi tornare ad accarezzare statici la curva dolce del seno. E Inuyasha si maledì per aver notato quel particolare.

«Mio padre studiava le stelle, era un astronomo. E, se conseguirò la laurea, lo diventerò anch'io. Spiegato perché so tutte queste cose.», spiegò Kagome, calcando con divertita ironia sulle ultime tre parole. Sorrise mestamente e abbassò lo sguardo mentre sentiva il solito pizzico di malinconia invaderla un po'.

Inuyasha notò il mutamento nel tono di voce di Kagome, il modo in cui aveva curvato le labbra in un sorriso che sembrava rivangare qualcosa di antico. Conosceva quella sequenza di gesti e movimenti che si riservavano solo al ricordo di qualcuno che non era più dove si sperava fosse: presente nel mondo.

«Mi dispiace.», disse, sinceramente, senza poterlo impedire. E non sapeva se si stava scusando per aver rievocato un ricordo doloroso o, semplicemente, per quell'assenza che doveva averla fatta soffrire.

Kagome sollevò il viso e si stupì per un attimo che il ragazzo misterioso avesse capito. Si riprese e scosse la testa, allontanando quelle parole con un gesto della mano. Il bel viso dello sconosciuto era assorto e la fronte aggrottata. Sembrava davvero dispiaciuto e la cosa le sembrò infinitamente carina.

«È successo molto tempo fa.», chiarì, come se il tempo bastasse a cancellare certi dolori.

Tornò a calare il silenzio, ma non fu cosa sgradita. Rimasero così per un po', continuando a contemplare il cielo.

Inuyasha si sentiva strano. Realizzò che la compagnia di quella ragazza non gli era dispiaciuta per nulla, anzi. Il tempo era passato abbastanza velocemente e non si era neanche accorto di aver passato insieme a lei più di mezz'ora. La notte incalzava, scorreva e le sue fattezze demoniache sarebbero presto tornate a fargli visita per prenderlo permanentemente. Fino alla prossima Luna nuova. Nonostante fosse ancora troppo presto, voleva evitare che la trasformazione si presentasse davanti quella ragazzina. Non avrebbe mai dovuto sapere la verità, probabilmente non le sarebbe piaciuta. E quel pensiero, in un modo ancora sconosciuto, lo intristì. Si alzò e vide lei voltarsi di scatto e inchiodarlo con quegli occhi grandi e trasparenti. Deglutì. Erano sempre stati così belli?

«Io devo andare.», annunciò e si passò una mano fra i capelli scuri.

La ragazza strabuzzò gli occhi, come colta di sorpresa, poi annuì e con fare sbrigativo si alzò anche lei.

«Certo, insomma, è tardi.», acconsentì. Sembrava vagamente delusa.

Il giovane temporeggiò. Avrebbe dovuto lasciarla tornare a casa da sola? Insomma, non poteva... era davvero tardi e non c'erano neanche quei due che si portava sempre dietro, il tipo truccato e l'inquilino del primo piano, quello troppo pallido. Doveva accompagnarla, non poteva mica averla sulla coscienza! Però... come avrebbe fatto a tornare a casa? Oh, dannazione, quante paranoie! Era più facile di quanto pensasse. Avrebbe accompagnato lei, fatto un altro giro dell'isolato e poi, come un idiota, si sarebbe ritirato a casa anche lui. Piano perfetto e niente povere fanciulle uccise o derubate sulla sua coscienza.

«Andiamo, ti accompagno a casa. Non è bene che torni da sola.», proclamò guardandola in viso e la vide inarcare le sopracciglia. «Beh, che c'è?»

Kagome sorrise, imbambolata. Non riusciva a crederci! Quella sì ch'era la benedizione dei Kami che tanto cercava. Avrebbe potuto passare un altro po' di tempo con lui e avrebbe anche potuto scoprire cosa legava quel ragazzo al suo condominio! Ad essere sincera, durante quella lunga e bella conversazione si era dimenticata di quel proposito. Ma la domanda del ragazzo gliel'aveva subito portata alla mente. Gettò una breve occhiata ai cespugli dietro ai quali – sicuramente – si trovavano ancora Jakotsu e Naraku. Le sembrava ingiusto lasciarli lì ma, in fondo, erano stati loro a metterla in quella situazione. Se la sarebbero cavata. Decise comunque che si sarebbe scusata; in qualche modo sapeva di dovergli essere grata.

«Oh, nulla... cioè, ti ringrazio!», disse, senza riuscire a celare la contentezza nella voce. «Tu sai già dove abito, no? Cioè, ti ho visto uscire da lì, la scorsa volta.», gettò l'argomento lì, casualmente, sperando di capirci di più. Cominciarono a incamminarsi.

Inuyasha si bloccò, come pietrificato. Dannazione! Si era dimenticato di quel piccolo particolare! E adesso, come avrebbe potuto dargliela a bere? Era il giardiniere? L'elettricista? A notte fonda? Cazzate! L'unica idea che si prospettava nella sua mente era... beh, coinvolgere l'altro. Non aveva scelta.

«Beh, sì. Ho lasciato delle scatole per conto di un inquilino del quinto piano.», spiegò, cominciando ad abbozzare quella ch'era una grossa e colossale balla. «Quel tipo ha traslocato da poco e mi ha incaricato di portare della roba per lui in casa.»

Kagome parve decisamente sorpresa.

«Ah. Quindi, conosci Inuyasha Taisho?», chiese assottigliando gli occhi grigi a due fessure. Quella sì ch'era bella! Taisho era l'unico inquilino al quale non aveva chiesto nulla del ragazzo misterioso; ma era alquanto normale dato che le rivolgeva a stento la parola!

Inuyasha tossicchiò, in difficoltà, per poi schiarirsi velocemente la voce.

«È così che si chiama quel tipo?», chiese distrattamente, con aria disinteressata. «No, non ho avuto contatti con lui. L'agenzia immobiliare mi ha rilasciato le chiavi e mi ha detto che potevo andarci quando finivo il resto degli altri... lavori. Insomma, non ho parlato con lui.»

Kagome si portò una mano al mento, perplessa. Non pensava che le agenzie immobiliari prestassero quel tipo di servizi, con dipendenti/fattorini mobili a quell'ora della notte poi... Scosse la testa e fece spallucce. Con gli anni molte cose si erano evolute e cambiate nel mondo degli affari, probabilmente anche quel genere di trattative e servizi. In fondo, cosa poteva saperne lei? Almeno aveva un altro tassello per il suo puzzle. Lo sconosciuto non abitava nel suo palazzo e non aveva avuto alcun contatto con nessuno. Soprattutto con Byakuya. Grazie al cielo. Ora, le mancava solo un'altra cosa, un qualcosa di semplice. Qualcosa che le sarebbe rimasto insieme al ricordo dello sconosciuto, casomai non l'avesse più rivisto.

«Comunque, non ci siamo presentati. Io sono Kagome.», annunciò. «E tu?»

Inuyasha strinse le labbra. Si abbandonò poi ad un mezzo sorriso e si volse leggermente verso di lei.

«Puoi chiamarmi Sirio.»

Kagome sorrise. Anche se non era vero, le sembrò comunque un bel nome per suggellare un ricordo.


*

[Luna nuova numero tre - “Lo stesso cielo.”]

 

È incredibile pensare che quando guardo la luna, è la stessa luna che Shakespeare e Maria Antonietta e George Washington e Cleopatra guardarono.”
Susan Beth Pfeffer

 

«Il cielo è bello perché tutti possono guardarlo, indipendentemente da dove si trovano. Siamo tutti sotto la stessa volta celeste e mi piace pensare che, ovunque io vada, posso tenere vicine le persone a me care anche solo guardando il cielo, se loro faranno lo stesso.»

Inuyasha ascoltava Kagome in silenzio mentre la riaccompagnava nuovamente verso casa. Era passato un altro mese, era un'altra notte di Luna nuova. L'aveva incontrata nuovamente nello stesso parco, a fare un'altra passeggiata. Anche quella volta forse s'era persa, forse no. Lui, sicuramente, era conscio di una cosa: quella notte si era seduto su quella panchina un po' con la speranza di incontrarla. Era stato accontentato. In quel mese, prese le sue demoniache sembianze, aveva fatto più caso a lei quando la incontrava per caso sul pianerottolo o sulle scale. Tuttavia, faceva in modo di tenere sempre lo stesso comportamento. A stento le parlava o si faceva sorprendere nel rivolgerle anche solo un'occhiata.

«Hai una sensibilità spiccata, per quanto la trovi a tratti inverosimile.», le rispose, le mani ben calcate in tasca e il solito tono fra l'interessato e il noncurante. «A volte, vorrei somigliarti. Poi mi passa.», confessò.

Kagome sollevò gli occhi al cielo. Se c'era una cosa che forse aveva imparato era quel ragazzo era disfattista e parecchio disilluso! Tuttavia, era così piacevole conversare con lui! Non poteva ancora credere d'essere lì, quella notte di Luna nuova, a parlare ancora con lui. Erano forse i Kami, le coincidenze, il destino. Non sapeva ben dirlo. Dopo quella notte passata ad osservare stelle sulla panchina, non l'aveva più visto. Jakotsu aveva continuato a riempirle la testa di chiacchiere sul destino e Naraku di avvertimenti e soluzioni razionali. Quella sera, uscita dal lavoro a tarda notte, Kagome non era né rassegnata, né illusa. Sperava ancora di incontrare Sirio – ormai così veniva davvero chiamato – ma non ne era mai troppo sicura. E invece, quella sera, eccolo lì, al solito distributore. Altro pedinamento, altra finta passeggiata. Altre storie di stelle. E adesso, eccoli lì, sulla strada di casa, eccola lì, col cuore e l'anima di nuovo in subbuglio. E Jakotsu e Naraku – ancora una volta – abbandonati dietro ai cespugli. Era comunque sicura che sarebbero riusciti a tornare indietro senza uccidersi, come la volta precedente.

«Ti passa o te la fai passare?», chiese a quel punto, curiosa.

Inuyasha si morse un labbro, poi scosse la testa. Certe volte, anche con piccole frasi o domande, gli sembrava che Kagome gli frugasse nella testa più di quanto nessuno mai era riuscito a fare. O, forse, era lui a permetterglielo, a scoprirsi, a sbottonarsi più del dovuto. Forse era la forma umana, la sicurezza - che pur faceva male – che non sarebbe mai stato scoperto. O forse, era semplicemente lei, la sicurezza che sembrava infondere. E, allora, perché riteneva difficile confessarle di vivere ogni giorno accanto a lei, ma in forma diversa?

«Me la faccio passare. Se sei sensibile, hai più possibilità d'essere ferito.», confessò in un sussurro stizzito.

Kagome lo osservò e storse un attimo le labbra, poi scosse la testa con disapprovazione. Avrebbe dato oro per capire davvero cosa si nascondeva nella testa di Sirio, cosa celavano davvero i suoi occhi di stelle e la sua mente. Aveva una strana sensazione quando era in sua presenza che non riusciva a frenare, a capire. Che non si sapeva spiegare.

«Sì, è vero.», acconsentì inizialmente. «Ma essere disillusi come te non permette di vedere la bellezza nel mondo. E l'uomo ne ha bisogno, ha bisogno di trovare la bellezza in quello che lo circonda. Così può trovare la pace.»

Inuyasha sorrise, un sorriso triste al quale non si era mai davvero abbandonato in presenza di qualcuno.

Troveresti bellezza anche in me, Kagome? Nella mia vera natura?

«Ti svelo un segreto.», le disse in un sussurro, ormai arrivati davanti il cancelletto del condominio. «Sei troppo idealista.»

Kagome sorrise, la sua eccessiva vicinanza che le faceva accelerare notevolmente il cuore, che la stordiva. Era così bello.

«Io, invece, ti dico un'ovvietà: non mi importa.», sussurrò a sua volta.

Si guardarono per un po', l'uno di fronte all'altra, impacciati e con l'aria di chi è in attesa, ma non sa mai bene di cosa. Si salutarono con uno “ciao” accennato, biascicato. Lei lo osservò andar via, di spalle, proprio come quella volta, la prima che l'aveva visto, davanti il portone.

«Sirio.», pronunciò ad un tratto Kagome, rompendo lei il silenzio, richiamandolo indietro ancora una volta. Inuyasha si volse, ormai quasi piacevolmente abituato a sentirsi chiamare in quel modo. «Tu... dove vai dopo avermi lasciata qui? Dov'è che abiti?»

Quello le rivolse un sorriso sghembo. Un sorriso ironico che nascondeva una punta di malinconia.

«Le stelle non hanno casa.», disse, sibillino, prima di incamminarsi nuovamente. L'ennesima bugia, l'ennesima protezione.

Kagome sospirò davanti quell'ennesima situazione. Si sentiva quasi dentro un film, ma non sapeva per quanto quell'assurda corrispondenza fatta di stelle, racconti e silenzi sarebbe potuta andare avanti. Quando l'avrebbe visto di nuovo? Alla prossima Luna nuova?

«Ti sbagli, Sirio.», disse con un fil di voce, rivolta alla figura ormai indistinta di Inuyasha. «Le stelle hanno casa negli occhi di chi le guarda.»

 

*

 

[Luna nuova numero quattro - “L'altro”]

 

 

Ognuno di noi è una Luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessun altro.”
Mark Twain

 

«Ecco qua la sua quota per il giardiniere.»

Inuyasha fece cadere gli yen nelle mani di Tsubaki Washeda e sospirò. Odiava quella tiritera di ogni mese, era quasi una tortura. L'anziana mise i soldi in una busta e la sigillò, infilandola poi nella tasca del suo lungo vestito floreale. Nello stesso momento, una trafelata Kagome saliva le scale di tutta fretta, trafelata e dannatamente in ritardo.

«Salve signora Washeda. Taisho.», salutò senza neanche fermarsi a guardarli, senza smettere di consumare i gradini, uno dopo l'altro.

Inuyasha la seguì con lo sguardo, avido, approfittando del fatto che lei non potesse accorgersene. Quella sera, quella sera l'avrebbe probabilmente incontrata di nuovo e avrebbe potuto incontrarla nelle vesti di Sirio, che – decisamente – le era più gradito.

«Quando hai intenzione di parlarle, ragazzo?», chiese ad un tratto la voce arrochita della donna, distogliendolo dai suoi pensieri.

Inuyasha la osservò, senza capire. Aggrottò le sopracciglia e mise su il suo solito grugno.

«Scusi?»

«Quando le dirai la verità?», rincarò l'anziana e fece un sorrisetto. «Quando le dirai che l'umano sei tu?»

Inuyasha strabuzzò gli occhi, stupito, punto, colto di sorpresa. Come faceva quell'anziana a sapere, come poteva quella vecchia essere a conoscenza di quel dettaglio? La maggior parte degli umani non sapevano che la Luna nuova provocava un cambiamento nella natura dei mezzo demoni.

«Tu, vecchia...»

«So abbastanza da sapere di dover stare zitta. Io non parlerò.», assicurò quella, il solito ghigno sulla faccia rugosa. «Ma ricorda che le verità taciute mangiano ogni cosa dall'interno. E tu non potrai andare avanti ancora per molto. Pensaci.»

Tsubaki chiuse la porta e Inuyasha vi rimase davanti, gli occhi spalancati, le parole ancora sulla lingua, i pugni serrati.

Non poteva andare avanti così.

 

*

Non si era fatto vedere. Quella notte, Sirio non aveva fatto la sua comparsa. Kagome aveva sperato di vederlo più delle altre sere. Aveva cominciato a pensare – per quell'assurda coincidenza – che essendo una notte di Luna nuova, aveva più ragioni di sperare di vederlo lì, al distributore. E invece, nulla. Si era persino fatta accompagnare da Jakotsu e Naraku al parco pubblico, sperando che avesse fatto una deviazione, sperando di poterlo trovare già lì. Nulla. Dopo varie insistenze di Naraku, Kagome aveva acconsentito a tornare a casa. E adesso era lì, sconsolata, la tazza di caffellatte fra le mani e il gatto sulle ginocchia.

«Tesoruccio, non disperare!», la incoraggiò Jakotsu. «Sono sicuro che lo incontrerai ancora. Magari domani o-»

«Smettiamola di alimentare queste false speranze.», lo interruppe di botto Naraku. «Kagome, era ora che la smettessimo con questo giochetto notturno. Quel ragazzo voleva semplicemente passare il suo tempo e tu gliene hai dato modo. Non pensarci più.»

Kagome sospirò prima di rivolgere al cugino un'occhiata di puro biasimo. Come se fosse facile non pensarci più! Era un pensiero altalenante, oscillava nel suo cervello con più o meno intensità, dipendeva dai momenti. Era sempre stato qualcosa di precario, lo sapeva, ma non vederlo – quella notte – l'aveva intristita più del dovuto. Era consapevole che fosse una cosa stupida, ma non poteva farci niente, non riusciva ad impedirsi di pensarci. Le mancava parlare con lui, anche s'era avvenuto soltanto due volte.

«Sei proprio un insensibile, ma sentiti!», lo apostrofò Jakotsu visibilmente indignato. «Non la vedi com'è triste?»

«E non deve esserlo. Non sapeva nulla di lui, neanche il nome. Era un qualcosa di insensato. Anzi, sono contento che fossimo sempre lì a controllarla.»

Jakotsu e Naraku sembravano rispettivamente cuore e cervello. Si facevano la guerra e ognuno reclamava le ragioni che riteneva più giuste, più adatte. Ma lei si era stancata di sentirli, di sentirli entrambi. Semplicemente voleva solo andare a dormire. Possibilmente, sapeva che, come al solito, era Naraku a detenere la ragione dalla sua parte. In fondo, era vero, non sapeva niente di lui, nulla. Avrebbe fatto in modo di dimenticarsene. Si sentiva tremendamente stupida.

Se sei sensibile, hai più possibilità d'essere ferito.

Ma questo cos'era? Essere sensibili o essere stupidi?

«Io me ne vado a letto.»

Forse, Sirio aveva ragione.

 

*

Inuyasha stava lì, davanti la porta dell'appartamento di sinistra. Le labbra serrate, le braccia lungo i fianchi e l'espressione crucciata. Aveva trascorso l'intera nottata in casa, la prima notte di Luna nuova in cui non metteva piede fuori. Aveva pensato, ripensato e rimuginato sulle parole di quella vecchia. Era rimasto da solo con i suoi dubbi, con le sue paure, con i suoi timori, compagni che si trascinava dietro da un po'. Per quanto ancora avrebbe dovuto tirarla per le lunghe? Per quanto avrebbe dovuto permettere che Kagome passasse del tempo in compagnia di Sirio senza darle neanche la possibilità di conoscere l'altro? Di conoscere Inuyasha?

Anni di prese in giro, di occhiate bieche e di biasimo, di parole sussurrate e di sguardi stupiti l'avevano sempre tenuto lontano dal voler approcciarsi alla gente, dal voler intrattenere qualsiasi rapporto con gli altri. Miroku era da sempre stato l'unica eccezione e, con lui, anche Sango. La notte di Luna nuova era sempre stata per lui una notte di rivalsa; ore nelle quali poteva per una volta assaporare la normalità e un apparente gradimento da parte di chi lo disprezzava. Un gradimento che – comunque – sapeva essere finto, falso. Dettato solo dalla sua forma. E provava una sorta di taciuta soddisfazione a rifiutare in forma umana coloro che da demone lo avevano denigrato. Quella politica di autodifesa era sempre stata attuata con tutti ma, adesso, si rendeva conto che a Kagome sentiva di voler dare quella possibilità.

C'era qualcosa in lei, qualcosa che lo portava a pensare di poter uscire allo scoperto, di potersi mostrare senza paura. Era stato lui a respingerla, ad impedirle di essere gentile con il mezzo demone. Lei non era mai stata indisponente nei suoi confronti, era stato lui ad essere prevenuto.

Aveva maturato l'idea di mostrarsi quasi inconsciamente, senza rendersene conto, ma l'aveva sempre spinta indietro, pensando che Inuyasha non sarebbe mai stato all'altezza di Sirio, che non sarebbe mai stato abbastanza per lei. Adesso, però, non poteva più continuare in quel modo, non poteva più tirarsi indietro.

Ecco perché era lì, davanti quella porta, quasi all'alba.

Il tempo sta per scadere, sbrigati.

Inuyasha avvicinò la mano al campanello. La ritirò, poi l'avvicinò nuovamente e premetté forte. Il suono stridulo rimbombò nel silenzio della prima mattinata. Una, due, tre volte.

«Ma si può sapere chi cazz-», il ragazzo alto e smilzo, gli occhi contornati di trucco sbavato, stava lì, le parole gli morirono in gola. «Tu sei Sirio.», realizzò, stupito.

Inuyasha si passò una mano fra i capelli neri. Sbuffò forte dal naso e si fece un po' più avanti, sbirciando all'interno della casa.

«Dov'è Kagome?», chiese a bruciapelo e in quella domanda v'era un che d'apprensivo.

Il ragazzo sbatté un attimo le palpebre confuso. Poi, sembrò capire.

«Ovviamente sta dormendo.», informò. «Ma-»

«Jakotsu, chi è?»

E Inuyasha la vide; era lì, in pigiama, oltre la spalla di Jakotsu. I capelli neri scarmigliati e il volto assonnato. E si ricordò d'averla vista molte volte in quello stato, mentre stendeva la biancheria o innaffiava le piante, di prima mattina, ma gli sembrò di vederla davvero solo in quel momento.

Kagome si bloccò e il cuore prese a batterle fortissimo. Era Sirio ed era lì. Non stava sognando, non stava sognando davvero. Ma... cosa ci faceva lui lì, davanti la sua porta? E lei era... era lì, così, in pigiama e...

«Kagome, i-io devo dirti una cosa.», annunciò. Scalzò Jakotsu – che si fece ben volentieri sorpassare – ed entrò dentro casa, senza un effettivo permesso. «Vedi... so che può sembrarti assurdo ma...»

«Cosa? Cos-»

Kagome non ebbe il tempo di completare la domanda. Le parole si incastrarono, non trovarono più via d'uscita. Si bloccarono di fronte allo spettacolo che si palesò davanti ai suoi occhi. Sirio stava mutando d'aspetto, Sirio aveva mutato aspetto. Sirio aveva cambiato forma, i capelli non riflettevano più il colore della notte ma l'argento lunare, gli occhi non possedevano più il firmamento bensì il Sole. I canini erano leggermente più lunghi e le orecchie... vi erano delle orecchie canine sul suo capo canuto.

Sirio era mutato al sorgere del Sole. Sirio era Inuyasha.

«Kagome...»

Rimase ferma, impietrita. Non sapeva spiegarselo, non sapeva cosa dire. Sapeva solo stare lì, bloccata, come una perfetta idiota, senza riuscire a proferire parola.

«Cosa cazzo ho appena visto?», sibilò Jakotsu, totalmente fuori luogo portandosi le mani alla testa. L'occhiata bieca che ricevette lo riscosse del tutto. «Va bene, magari io aspetto fuori, eh.», risolse e si rischiuse la porta alle spalle.

«Mi dispiace, Kagome.», furono le prime parole che Inuyasha pronunciò, di getto. «Non so neanche da dove iniziare a spiegarti-»

«Parti dall'inizio.», sussurrò lei, riuscendo finalmente a dire qualcosa. Non era più tanto sicura d'essere sveglia.

Inuyasha sospirò. Raccolse le idee, le riordinò, le analizzò. Qual era il modo migliore per dirle che le aveva mentito? Per farsi accettare, per dirle che non l'aveva fatto per cattiveria ma per protezione? Forse non vi era un modo migliore. Doveva dirlo e basta.

«So che può sembrare assurdo ma... Sirio sono sempre stato io.», cominciò e non era neanche sicuro che fosse il modo migliore di cominciare. Ma era pur sempre un inizio. «Vedi... i mezzo demoni, durante le notti di Luna nuova, perdono il loro potere demoniaco, assumendo soltanto forma umana. È per questo che hai incontrato Sirio solo durante quelle notti. E-»

«Mi hai mentito...»

Fu un sussurro flebile, ancora stupito, ma sicuramente triste. Kagome si sentiva presa in giro, non poteva farne a meno. Aveva avuto tante di quelle occasioni per dirglielo, per palesarlo. Avevano vissuto porta a porta per tutto quel tempo e non le aveva mai detto nulla. L'aveva sempre avuto alla porta accanto e non l'aveva mai saputo... Sirio era lo stesso che si lamentava per la terra delle piante, lo stesso che la salutava a stento...

«Perché non me l'hai detto?»

«Autodifesa.», disse immediatamente, quella parola che aveva ripetuto a se stesso così tante volte da perdere quasi significato. Lei sgranò gli occhi e lui sospirò forte. La verità. Doveva solo dire la verità. «Ho vissuto così tanto tempo non accettato e messo da parte per la mia situazione che mi sono abituato a vivere di conseguenza. Ho pensato che non potessi accettarmi, che non volessi accettare la mia natura. Quindi, mi sono nascosto e ti ho mostrato il lato di me che pensavo tu avresti accettato meglio... ho fatto... come la Luna. Ti ho mostrato un lato e ti ho nascosto l'altro.»

«Come la Luna?», ripeté Kagome, il tono leggermente incrinato. «Hai davvero pensato che potessi disprezzarti solo perché sei un mezzo demone? Hai davvero creduto che avrei potuto fare una cosa del genere?»

La ragazza chinò la testa. Sentiva le lacrime pungerle gli occhi, ma non aveva voglia di piangere. Lei non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Si era sempre mostrata cordiale, aveva sempre cercato di...

«Non avresti potuto, ma io non potevo saperlo. Sono stato prevenuto e mi dispiace. Tu volevi essere gentile anche con questa parte di me, Kagome, ma io non te ne ho dato la possibilità. Ti ho mentito e mi dispiace. Hai qualcosa di diverso e io sento di volermi fidare di te. Vorrei che tu, però, potessi farlo a tua volta.», e sperò che quelle parole, che normalmente avrebbe pronunciato con immensa fatica, potessero risultarle vere, potessero farle capire. «Ad un certo punto mi sono accorto di non poter più continuare così. Volevo darti l'opportunità di conoscere Inuyasha, questo Inuyasha. Perché è questo che sono. Quindi... ora chiedo io a te questa possibilità. Posso farti conoscere Inuyasha? Ti andrebbe?»

Kagome rimase zitta e stette a fissarlo. Si era sentita ferita però... in fondo, doveva esser stato difficile. Vivere continuamente sulla difensiva... era normale, probabilmente, attuare quel modo di pensare con qualsiasi persona gli ronzasse intorno. Aveva sbagliato, lo aveva appena ammesso. Era lì, all'alba, davanti ai suoi occhi. Le stava chiedendo scusa, nonostante, probabilmente, la difficoltà nel farlo. Le stava chiedendo la possibilità, voleva darle la sua fiducia. E lei? Lei voleva dargli la sua?

«Pensavo... pensavo che non sarebbe stato abbastanza.», aggiunse, vergognoso, l'aria terribilmente costernata. «Che questa parte di me non sarebbe stata abbastanza.»

La ragazza trasse un lungo respiro. Non le importava nulla dell'aspetto di Inuyasha. Del colore dei suoi capelli o degli occhi. Inizialmente, era vero, era stata colpita dal suo aspetto, in entrambe le sue forme. Ma – nelle poche volte in cui aveva avuto modo di conversare con lui – era stata poi la sua interiorità a colpirla, a interessarla. Era quella ch'era ancora da scoprire, da sondare, da conoscere.

«Inuyasha, non pensare più nulla del genere. Vai bene così come sei. Ciò che mi incuriosisce, mi affascina e voglio scoprire è il tuo modo d'essere e di pensare. Non importa che forma assumi, non hai bisogno di nasconderti. Sei bello per me, perché sei tu. Sei sempre tu. Oggi hai il Sole negli occhi, ieri notte il tuo sguardo possedeva il firmamento intero. Ma sono sempre stelle, è sempre lo stesso cielo, Inuyasha. Sempre lo stesso cielo.»

Inuyasha sorrise, un sorriso sincero, e arrossì. Si sentì improvvisamente sollevato, come se si fosse liberato di un grosso peso. Si sentiva meglio, si sentiva pienamente se stesso e capace di esserlo. Una sensazione che, fino ad allora, non aveva mai provato.

«Quindi tu...»

«Quindi, puoi smetterla di fare il vicino rompipalle. Voglio conoscere Inuyasha, quello vero.», rispose Kagome e sorrise avvicinandosi un po'. Si sollevò sulle punte dei piedi e gli lasciò un bacio sulla guancia. «Facciamo colazione insieme?», chiese poi, un sorriso spontaneo ad illuminarle il volto.

Inuyasha ghignò.

«Sì. Ma solo se prometti di tenere lontano il tuo gattaccio dal mio bucato.»

Sembrava un buon inizio.

 

*

«E quindi, adesso sono insieme?», chiese Naraku portandosi una ciocca di capelli neri dietro l'orecchio. «Che situazione intricata. Lo ripeto, proprio uno shojo di bassa categoria.»

Jakotsu annuì, la testa incassata tra le spalle, gli occhi stanchi.

«E ora io che faccio? Quei due cominceranno a fare i piccioncini. In un colpo solo ho perso ragazzone da osservare, passatempo notturno, pettegolezzi continui.»

«Che tragedia.», osservò Naraku in tono di scherno.

«Una catastrofe. Mi passi lo zucchero?»

«Non devi andare a lavorare?»

«No. Non posso rimanere qui? Mi annoio.»

Naraku gli passò lo zucchero. Non rispose. Era già un buon segno.

 

Note:
**Naraku qui non è un mezzo demone, ma, per esigenze di trama, un normalissimo essere umano.
** Amaterasu: dea del Sole.
**Shinigami: dio della morte.

 


Angolo Autrice.
Salve a tutti! È un po' di tempo che non mi faccio vedere su EFP e mi fa quasi strano pubblicare qualcosa dopo tutto questo tempo. Non sono soddisfatta a pieno di questo lavoro, vi trovo molti difetti, ma spero comunque possa piacere – soprattutto a Chiara alias LittleDreamer90 che mi ha fornito la bella traccia. Spero che abbia soddisfatto almeno un minimo le tue aspettative. In caso contrario, mi scuso se l'ho rovinata!
So che può sembrare affrettata e questo è un suo grande difetto, però c'è da dire che l'arco temporale della storia è di quattro mesi...
Approfitto anche per scusarmi con chi segue le mie storie; è stato un periodo decisamente brutto e questo è il primo lavoro che butto giù dopo molto tempo. Spero di tornare presto in carreggiata. :)
Grazie anche a Napee per aver affrontato una coraggiosa prima lettura ed essersi le mie lagne.
E un grazie a Miyu87 che ha indetto il contest; se ho scritto dopo tanto tempo devo solo esserti grata.
Vi mando un grosso bacio.
Alla prossima!

RJ

  
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