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Autore: Manto    13/07/2017    3 recensioni
◆ La storia ha partecipato al contest “Don’t Look Back” indetto da Angie96 sul forum di Efp.
{A ogni passo è sempre più lontano da casa; e anche se non è così, lui si sente tale. È una sorta di esilio, il suo: ma perenne, perché una terra e una famiglia che attendano impazientemente il suo ritorno non le ha più, se non nelle poche foto che è riuscito a salvare.
Come i sogni spesso prendono forma, così possono farlo i nostri terrori.}
Un piccolo omaggio a Genos: il ragazzo e il cyborg, diviso tra i ricordi e la realtà del dolore.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Genos
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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I personaggi qui presentati non mi appartengono; questa storia è stata scritta senza alcun scopo di lucro.



Nickname su EFP: Manto
Nickname sul forum: Laodamia94
Fandom scelto: One Punch Man
Titolo della storia: Silent Cry
Rating: Arancione
Generi: Angst, Introspettivo
Eventuali note e avvertimenti: Tematiche Delicate, Missing Moments 

Introduzione:
{A ogni passo è sempre più lontano da casa; e anche se non è così, lui si sente tale. È una sorta di esilio, il suo: ma perenne, perché una terra e una famiglia che attendano impazientemente il suo ritorno non le ha più, se non nelle poche foto che è riuscito a salvare. Come i sogni spesso prendono forma, così possono farlo i nostri terrori.}

Un piccolo omaggio a Genos: il ragazzo e il cyborg, diviso tra i ricordi e la realtà del dolore.
Note dell
autore: ♥ Cu ♥
E alla fine, grazie a Angie96 e al suo splendido contest, sono ritornata sul mio adorato fandom di Opm, con una storia che ho amato dal primissimo istante.
Era da tempo che mi frullava nella mente l’idea di scrivere qualcosa su Genos e il suo passato, e mi sono emozionata più volte *si soffia il naso* mentre ideavo questo piccolo esperimento. Spero di poter emozionare allo stesso modo anche voi, per me sarebbe già una vittoria.
La frase finale l’ho ripresa e rimaneggiata da un’immagine trovata su Pinterest, dove c’è Genos che guarda una foto della sua famiglia.
Grazie a coloro che leggeranno, e a chi vorrà lasciare un segno del proprio passaggio.

Alla prossima!




Silent Cry






I ♦ Empatia





{Quattordici anni prima}




Incalzata dalla pioggia scrosciante di quel pomeriggio autunnale e da una profonda ferita al muso – regalo di un violento incidente, la cucciola dal pelo dorato si era trascinata per metri, fino alla porta di quella piccola casa; e in questo stato, spaventata e già divorata dalla febbre, il bimbo l’aveva trovata. «Mamma! Vieni a vedere!», aveva gridato, prendendo con delicatezza la cagnolina tra le braccia e portandola dentro l’abitazione.
«Santo cielo, Genos!», aveva gridato la madre quando lo aveva raggiunto, guardando con orrore il maglioncino già intriso di vermiglio, «dove l’hai trovato?»
«È lui – o lei? – che ha trovato noi», aveva risposto il piccolo, appoggiando la cucciola sul pavimento e iniziando a spogliarsi degli abiti per avvolgerla in qualcosa di caldo, «è un dono della Pioggia.»
Gli occhi sofferenti dell’animale si erano alzati sul volto del bambino, lo avevano fissato; e immediatamente lui si era sentito
partecipe del dolore che l’altra stava patendo. Era ancora troppo piccolo per aver già provato la sensazione calda che aveva legato il suo cuore a quello della nuova arrivata, senza trovare alcuna resistenza; come se davvero si fossero chiamati e poi trovati a vicenda.
«Genos», aveva mormorato la madre, senza notare la particolare atmosfera che si era creata, «non credo che resisterà ancora per molto.»

Lui aveva alzato lo sguardo sulla donna ma aveva taciuto, abbracciando la cucciola come a dirle di non temere: non l’avrebbe lasciata sola.
«Tesoro…»
«Gli amici non si abbandonano mai», era stata la risposta, detta con la sicurezza e la rabbia tipiche di chi non vuole arrendersi facilmente; e replicare non era servito più a niente.



La macchina aveva sfidato il traffico e la tempesta, lottato contro il Tempo stesso; ma non era stata veloce quanto i pensieri e le speranze.
Le luci bianche della clinica veterinaria lo avevano quasi stordito con la loro intensità, e la lacrima che aveva trattenuto fino a quell’istante gli era sfuggita per la sorpresa; ma aveva stretto i denti e chinato il capo, riuscendo a non mostrarla.

La madre lo aveva tenuto stretto a sé per tutto il tempo della visita, ma ciò non era bastato a calmarlo: a ogni guaito filtrato dalla porta chiusa il cuore aveva accelerato i battiti, e lo sforzo di carpire ogni sussurro era stato così intenso da farlo quasi tremare. «Mamma…», aveva mormorato quando non era più riuscito a trattenersi, «papà dice sempre che le cose capitano per un motivo, che non è mai un caso. Perché lui avrebbe dovuto trovarci per poi andarsene subito?»
«Se è venuto da noi, è per restare.»
«Lo credi davvero? Sarà così?»

Ogni possibile risposta era stata tacitata quando la porta dellambulatorio era stata spalancata e il veterinario era apparso.
Il piccolo aveva puntato gli occhi sul fagotto stretto tra le braccia e aveva atteso con un singhiozzo incastrato nella gola.

«Il colpo è stato violento, e forse zoppicherà per tutta la vita… e siccome ha perso parecchio sangue è molto debole: per qualche giorno la dovremo tenere qui, per controllarne la ripresa.» L’aveva posata tra le braccia di Genos. «Potete stare un po’ con lei, intanto che prepariamo il tutto.»
Il bimbo aveva annuito, abbassando appena l’orlo della coperta per guardare il muso della nuova amica, finalmente ripulito dal sangue.
I loro occhi si erano incontrati ancora una volta, ed era stato allora che questa aveva estratto una zampina dal panno e l’aveva protesa verso di lui, come per volerlo sfiorare. Genos aveva allungato la mano e l’aveva accarezzata piano. «Allora sei una principessa! Piacere… Hoshi. Sei arrivata in un giorno buio, ma l’hai illuminato, quindi perché non chiamarti
stella? Spero che ti piaccia come nome… e io sono Genos!», aveva esclamato, chinando il capo sul suo e strusciando la punta del naso nel suo pelo. «Avevi ragione: è venuta per restare. L’hanno salvata», aveva sussurrato infine alla madre.
Lei aveva sorriso, abbracciandolo. «In verità l’hai salvata tu: sei stato il primo a credere in lei.»





II ♦ Perdono





{Dieci anni prima}




Uno schiaffo, e il labbro superiore era stato spezzato. Mi sono graffiato con un ramo.
Un pugno e poi un altro, un altro ancora; e il sangue aveva imbrattato la divisa nuova. Sono caduto con la bici.
Una risata maligna, seguita da un affondo nello stomaco. Le flessioni che ci fanno fare a ginnastica sono faticose.
Genos aveva chiuso gli occhi, cercando di non sentire lorrendo suono di tela strappata e l’odore della carta bruciata. Aveva stretto le mani sull’erba del prato su cui era finito, fissato il cielo terso con l’unico occhio che poteva tenere ancora aperto; e quando aveva sentito il passo pesante di Akira allontanarsi si era alzato lentamente a sedere, in preda alla nausea per il dolore e l’impotenza. Per l’ennesima volta non era nemmeno riuscito a tentare di difendersi; e tutti avevano evitato persino di accorgersi delle sue urla. D’altronde, non c’è mai gusto a prendere le parti dei deboli, si rischia sempre troppo.
«La prossima volta ti rompo entrambe le gambe! È una promessa, biondino!», era stata l’ultima minaccia che aveva udito, ma che non lo aveva scosso poi così tanto: escogitare una scusa plausibile per spiegare il pestaggio aveva subito avuto la priorità.
È la terza volta, Genos.
Mamma e papà non sono stupidi, ormai avranno compreso quello che sta accadendo. Potrebbero aiutarti se tu raccontassi tutto.

«No!», aveva esclamato, gattonando fino ai libri sparsi, dalle pagine completamente annerite, per poi dedicarsi alla cartella, piena di tagli e strappi, «è una faccenda solo mia.»
Era tornato a casa con quasi mezz’ora di ritardo, si era presentato con le nuove e vecchie ferite davanti allo sguardo preoccupato e insieme severo dei genitori, che appena avevano visto lo stato in cui era, avevano dimenticato la paternale da rifilargli.
«Scusatemi. È stata una lunga litigata», aveva detto il bimbo, sorridendo con più enfasi del necessario, cercando di non sentire la sferza della menzogna peggiorare il dolore. Un giorno tutto questo finirà.



E quel giorno è giunto, alla fine; ma non come credevo.
Da quell’angolo del parco, nascosto a ogni sguardo, Genos aveva osservato il corpo esanime di Akira al suolo. Il terrore di tutta la scuola aveva trovato il suo incubo personale, più forte e spietato di lui; e nemmeno uno fra coloro che lo avevano sempre sostenuto, sicuri della forza dei suoi pugni e protetti così dal subdolo fantasma della solitudine, era rimasto al suo fianco. No, non era rimasto nessuno a fissare la caduta del gigante, ad avere il coraggio di sentire sul palato il sapore dell’umiliazione… solamente lui, con un’inspiegabile sensazione a piegargli lo stomaco, un garbuglio di pensieri a confonderlo e l’incapacità di provare piacere per la sorte del suo aguzzino.
Il bimbo aveva riconosciuto subito le lacrime che avevano solcato il volto di Akira, il rifiuto di aprire gli occhi per impedire alla realtà di realizzarsi; e aveva voltato il capo, per non vedere più il riflesso di sé stesso nei lamenti di dolore dell’altro. Ora siamo simili, aveva pensato, ora sai cosa ho provato io. E dovrei odiarti… e invece sono qui a vegliarti.
I loro sguardi si erano poi incontrati per giorni e giorni, tra quegli alberi e all’ingresso della scuola; e ogni volta Genos aveva sentito accrescere il senso di tristezza, come il sentore di qualcosa di profondo celato sotto i comportamenti della nuova vittima. Aveva indagato, aveva domandato e ascoltato; fino a trovare una risposta capace di spiegare le sue sensazioni.
Akira lo aveva fissato con astio quando gli si era avvicinato, quel pomeriggio, e aveva voltato il capo altrove, sdegnoso.
Genos non aveva tremato neppure un istante, né aveva esitato un secondo di più. «Volevi molto bene a tuo fratello, vero? E non riesci ad accettare il fatto di non averlo più.»
L’altro si era girato lentamente, gli occhi sbarrati per la sorpresa.
Il bimbo era rimasto in silenzio, guardandolo arrossire e mordersi le labbra; anche quella volta, nessun piacere nel vedere il suo turbamento.

«Non sono affari tuoi.»
«Invece lo sono; perché sono stato picchiato a causa della tua tristezza.»
«Quindi sei venuto qui per rendermi il favore, ora che non ho più le forze di toccarti? Prego, fatti avanti: non sei il primo, e non sarai l’ultimo.»
Genos aveva scosso la testa. «Sono arrabbiato con te, ma non lo farò.
Ora so che, tra noi due, a perdere davvero sei sempre stato tu.»

Akira gli aveva sferrato un pugno pieno d’ira, ma lui gli aveva bloccato la mano; e senza dare all’altro il tempo di capire, lo aveva abbracciato. «Mi dispiace per tuo fratello. Volevo che tu lo sapessi.»
Inizialmente il bullo era rimasto immobile; poi la sua parte più fragile e vera si era liberata e aveva ricambiato la stretta.
Non erano mai diventati grandi amici; ma in quegli istanti di comprensione e rispetto, uno si era sentito più libero, e l’altro meno solo.





III ♦ Paura





{Otto anni prima}




«NO!»
C’erano già state notti come quella, in cui l’urlo spaventato aveva risuonato con forza, rivelando troppi demoni e i terrori che il giorno avrebbe dovuto allontanare. I bambini della città – e non solamente della sua; da quel punto di vista, erano tutte uguali – avevano imparato in fretta che i mostri non esistevano solo nelle favole, e spesso i più pericolosi e crudeli erano in mezzo a loro; e alcuni avevano anche volto umano.
Non sempre,
non per tutti, c’era salvezza e aiuto; e così era maledettamente facile divenire mostri a propria volta.
Le strade erano sempre arrossate di ricordi, desideri, esistenze infrante dalla follia di uno o di molti; e se il sangue veniva lavato via, quelli rimanevano comunque tra gli uomini tramite racconti e lacrime, e rancore – il peggiore tra i marchi che quegli
Esseri Misteriosi avrebbero potuto imprimere sulla pelle dei sopravvissuti.
«No, no… no», aveva ripetuto nel buio della camera Genos, lasciando il letto grondante sudore e terrore con una mano premuta sul cuore, «è stato solo un incubo. Un incubo… non è successo davvero.»
Ma quella volta, lasciar naufragare nel profondo della mente le immagini di rovina e solitudine era stato difficile; e ancora di più relegare solo alla realtà del sogno la paura e la confusione, che si erano placate solo quando le aveva descritte minuziosamente su un foglio di carta.
Quelle parole non le avrebbe mai rilette una seconda volta, ma per il momento avrebbero potuto bastargli per esorcizzare i suoi demoni.
Il vento del mattino nascente lo aveva infine avvolto nel suo sospiro quando aveva aperto le finestre e i consueti rumori della città lo avevano raggiunto, spingendolo in parte a calmarsi. «Se dovesse succedere qualcosa…», aveva infine mormorato, esitando un poco, «non voglio saperlo. Voglio andarmene senza accorgermene, senza sentire nulla.»

Che cosa temi veramente?, aveva sentito sussurrare; un’impressione, o una voce portata da lontano, capace di vedere dentro le sue paure?
Lui non aveva risposto subito; infine, aveva preso un grosso respiro. «Di perdere tutto ciò che ho, ed essere condannato a ricordarlo ogni giorno… ricordare tutto, sì, tranne ciò che sono stato.»





◊◊◊





{Ora}




«Incenerimento.»
Ogni volta che il fuoco annulla, distrugge e confonde, lui
vede. È un nastro della stessa sfumatura delle fiamme, che circonda le tenebre e le risucchia, e con la loro forza assume la forma del passato; è uno specchio incrinato in più punti, su cui i suoi occhi d’oro e ossidiana si posano e subito si ritraggono, tale è la vertigine che lo prende. Altre fiamme ruggiscono e salgono fino a divenire cenere, dissolvendo le immagini di una vita che non gli appartiene più; ma il suo sguardo è già altrove, ai frammenti di cielo terso che il fumo lascia intravedere.
Degli Esseri Misteriosi che ha appena affrontato non rimangono che corpi immobili; lui riserva loro solo un’occhiata, per accertarsi che siano davvero privi di vita e non possano più fare del male, e la maggior parte delle volte scompare così com’è venuto. Non cerca approvazione né fama; non sorride mai. Non ha quasi più nulla di Genos, lui, il ragazzo divenuto un cyborg; è solo metallo e fuoco, calore… e Morte.



A ogni passo è sempre più lontano da casa; e anche se non è così, lui si sente tale. È una sorta di esilio, il suo: ma perenne, perché una terra e una famiglia che attendano impazientemente il suo ritorno non le ha più, se non nelle poche foto che è riuscito a salvare.
Come i sogni spesso prendono forma, così possono farlo i nostri terrori.
È l’ultima cosa che ha pensato quando il distruttore della sua città – un cyborg… come luiha raggiunto la sua dimora; e nonostante siano passati anni, ancora la sente vibrare intorno a sé, non lasciarlo mai in pace.
Ora non ha più paura: questa è svanita quando il mondo è esploso, ed è rimasto il solo a continuare a respirare.
Il modo in cui quel mostro impazzito lo aveva guardato, quando lo aveva implorato di prendere lui e lasciare stare la sua famiglia; come anche le nubi parevano essersi fermate, mentre la furia si scatenava e confondeva cielo e terra.
Le sue mani si erano aperte una via tra pietre e corpi abbandonati al silenzio, la sua voce aveva gridato senza ricevere risposta; la città si era addormentata per sempre, e gli abitanti con lei.
Ma lui no;
lui ora cammina tra gli incubi, senza esserne più toccato.
Ora non perdona più: ha provato fin nella carne cosa voglia dire soffrire, soffrire veramente, e non è più intenzionato a comprendere, a cercare una motivazione dietro un comportamento che diverga dal Bene. Ogni mostro ucciso è un tassello che lo rende più forte, una pietra sulla strada che lo porterà dal suo personale nemico e gli consentirà di batterlo; e forse, di dare pace ai suoi fantasmi. A volte rivede gli occhi di Akira negli Esseri che combatte; e allora chiude i suoi, ritorna a riaprirli solo quando il fuoco ha già compiuto il suo compito; quando Giustizia e Vendetta portano lo stesso nome, e non si può, non si vuole più tornare indietro.
Ora raramente prova qualcosa che non sia desiderio di annientamento e la puntura della tristezza; si preoccupa della vita di coloro a cui reca aiuto – nessuno deve subire la sua stessa sorte, ma il suo animo risuona sempre di un silenzio che gli impedisce di connettere davvero il cuore a quello degli altri. Forse perché è privo di un cuore vero, e così i sentimenti più sottili si scontrano contro il suo corpo senza penetrarvi; e allora vengono dimenticate la sensazione della pioggia sul volto, la malinconia del tramonto e la speranza che il Sole ritorni a portare un nuovo mattino, la profondità che il Tempo porta con sé, la sua preziosa irripetibilità. Molti, grazie al suo coraggio, potranno conoscere e affrontare il futuro; ma il prezzo da pagare per giungere a questo fonda nella sua felicità, in tutto ciò che chiama umanità.
Eppure
eppure a volte accade qualcosa che lo sorprende ancora, lo spinge a provare e sentire qualcosa; ma questo è solo un attimo.
È un attimo, sì, perché è solamente quando scende la notte che una parte dell
animo allenta la guardia, e i pensieri possono scorrere liberi fino al limite tra la coscienza e tutto ciò che crede perduto; è solamente allora che si rivela ciò che è stato solo dimenticato, ed è lì che, invisibile ma presente, la verità che non conosce o non crede sua si nutre delle piccole stille di luce e resiste, in attesa di una mano amica che la possa realizzare: si combatte proprio perché, nonostante tutto, si è ancora umani.

   
 
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