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Autore: Emily Kingston    14/07/2017    1 recensioni
Dovrebbero vendere viaggi per dimenticare le persone.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Epicuro
 

Dovrebbero vendere viaggi per dimenticare le persone.
Potrebbe rivelarsi un servizio molto utile e penso proprio che un sacco di gente ne usufruirebbe.
Siccome a quanto pare ci sono più possibilità che si riesca a trovare una formula per la clonazione che una soluzione efficace al problema delle cose da dimenticare, ho deciso di fare a modo mio e sparire per una settimana.
È una cosa che ho sempre fatto – sparire, intendo – ma non lo faccio mai così in grande stile. Le mie sparizioni sono solitamente giornaliere e non vanno mai oltre il non rispondere al telefono per un paio d’ore o il non uscire per qualche serata. In questo caso, però, non sarebbe stato sufficiente.
Ha dei begli occhi grandi e scuri.
Nella sua scontatezza più sconcertante, il mio problema è una lei.
Una lei con dei begli occhi grandi e scuri che non pensavo sarebbero mai potuti piacermi, perché ho sempre avuto un debole per quelli chiari, eppure eccomi qua, in isolamento per un paio di occhi marroni.
Ho scelto la montagna perché in città di questi giorni fa un caldo allucinante e avevo bisogno, oltre che di scappare un po’ dai miei problemi, anche di scappare un po’ dall’afa. In più non sono troppo lontano da casa e questo gioca a favore delle mie disponibilità economiche quasi nulle.
Oltre agli occhi scuri ha anche un bel sorriso, che a lei non piace ma a me sì.
Per dimenticarla nel più banale dei modi, durante il mio eremitaggio, ho scelto una ragazza che è esattamente il suo opposto. Capelli chiari, occhi blu e con un carattere e degli interessi che non potrebbero essere più agli antipodi rispetto a quelli del mio problema.
È una ragazza interessante, anche se in modo diverso, e un po’ mi spiace ridurla a un viaggio per dimenticare. Ma anche io sono il suo viaggio per dimenticare, quindi è okay.
Si chiama Claudia, l’ho incontrata dopo un paio di giorni dal mio arrivo, leggeva un libro di quelli che lei avrebbe odiato sicuramente. Era seduta all’ombra di un albero, una coperta a righe tra lei e l’erba fresca. Siccome il libro aveva un pretenzioso titolo che si proponeva filosofico ho colto la palla al balzo e ho sfoderato le conoscenze accumulate grazie al mio corso di laurea in Storia e Filosofia. Non ero del tutto certo che avrebbe funzionato, ma lei ha riso alla mia battuta senza giudicarmi un filosofo da strapazzo (o se l’ha fatto, l’ha tenuto per sé).
Le due sere successive siamo usciti per bere qualcosa, niente di particolare, giusto un paio di birre al bancone dell’unico bar decente nella zona. E penso che per un momento abbia funzionato.
Parlava, rideva, faceva commenti arguti e interessanti e io non pensavo a lei. Non pensavo a come lei avrebbe risposto alle mie domande e a se e quanto avrebbe potuto prendersela per le mie battute. Avevo di fronte a me una bella ragazza bionda dagli occhi chiari e vedevo una bella ragazza bionda con gli occhi chiari.
L’incantesimo però, come tutte le magie, è durato solo un giorno, facendomi illudere che avesse funzionato per sempre.
Ieri, dopo averla riaccompagnata all’hotel dove alloggia e averle strappato un bacio con una battuta discutibile, sono tornato al mio piccolo bungalow, mi sono messo a letto e, una volta spenta la luce, mi sono girato sulla schiena per guardare il soffitto, un braccio dietro la testa e l’altro lungo il fianco. E ho sorriso nel vuoto, guardando il buio sopra di me, rischiarato appena dalla luce flebile che entrava dalla serranda chiusa male, pensando che l’agonia fosse finita. Il viaggio aveva funzionato.
Stamattina, appena ho aperto gli occhi, ho sentito lo stomaco stretto in una morsa e il naso pizzicare e ho capito che era stata tutta una bella illusione. Una di quelle solite balle che mi racconto per evitare di ammettere situazioni delle quali non sono pronto ad affrontare le conseguenze.
Me ne sono raccontate tante di balle prima di ammettere quel che provo per lei e probabilmente continuerò a raccontarmene altrettante su come sia passato tutto e invece no.  
Nonostante la verità mi sia piombata addosso come sempre – inaspettata, in un certo senso, anche se non so quanto sia inaspettata una cosa che fingi di non vedere arrivare – stasera voglio vederla di nuovo, magari stamattina avevo solo mal di pancia.
Ci troviamo al solito bar dopo cena e lei è più carina dei giorni precedenti.
Ha i capelli raccolti in quel modo un po’ disordinato che a certe ragazze non so come faccia a stare bene, un bel vestito estivo e un rossetto scuro sulle labbra.
Fa un gran sorriso appena mi vede e mi saluta con un cenno della mano.
“Pensavo non saresti mai più arrivato!” commenta ridendo appena sono abbastanza vicino.
Io ridacchio, passandomi una mano tra i capelli.
“Sono un ritardatario cronico, perdonami.”
Lei scuote leggermente il capo e poi mi fa cenno di entrare.
Non andiamo a sederci al solito posto stavolta, ma ci sistemiamo in uno dei tavoli liberi in fondo al locale. Stasera c’è un po’ più di gente, quasi tutti turisti.
“Vuoi una birra?” le domando e lei scuote il capo, spiegandomi che preferisce qualcosa di più forte. Poco dopo torno al tavolo con il suo drink e una mezza pinta.
Le ore successive scorrono con una velocità disarmante e non so bene come ci ritroviamo con diversi (troppi) bicchieri vuoti sul tavolo e a parlare delle nostre disastrate vite amorose. Vengo così a scoprire che lei si trova in vacanza da sola in una zona di montagna abbastanza sperduta perché qualche mese fa è stata lasciata dopo una storia piuttosto lunga e il cui finale è decisamente da dimenticare.
“La cosa buffa,” conclude, “è che non capisco perché ho aspettato così tanto tempo e ho lasciato che fosse lui a lasciare me, quando erano mesi che mi ero resa conto di quanto le cose non andassero. Ah! Quanto siamo idioti quando siamo innamorati.”
Io sorrido, annuendo, e ricaccio indietro il viso che sono venuto a dimenticare.
“Tu invece perché sei qui?” riprende. “Non te l’ho ancora chiesto.”
In un’altra circostanza avrei tenuto la bocca cucita e mi sarei inventato di essere venuto a trovare mia nonna, essendo della zona ma vivendo in pianura, ma l’alcool mi fa sempre straparlare e oggi non sono da meno.
“Sono venuto a dimenticare una persona.”
Il discorso prosegue con il patetico racconto di come, nella banalità più totale, io mi sia accorto di provare qualcosa per la mia migliore amica, mi sia guardato bene dal dirglielo e, dopo mesi di vani tentativi, abbia deciso di tagliare la corda nella speranza che cambiare aria mi aiuti a togliermela dalla testa.
Lei mi ascolta attentamente per tutto il tempo, gli occhi leggermente velati e le guance arrossate. Alla fine mi chiede se stia funzionando e, a malincuore, le rispondo di no.
“Sai,” si avvicina, appoggiando la mano sulla mia e guardandola con un mezzo sorriso, “una volta un tizio di cui non mi ricordo il nome ha detto che il dolore è superabile.”
Porta lo sguardo su di me, alza un sopracciglio e io rido pensando a quel tizio di cui non ricorda il nome e alla sua filosofia che ho sempre condiviso troppo poco.
È difficile dire come finiamo nel mio bungalow troppo stretto per ospitare la nostra furia. È facile invece spiegare come ci ritroviamo sul mio letto un po’ polveroso, i vestiti dimenticati a terra e i corpi velati dal sudore.
Lei è bella sotto di me, ha i capelli in disordine, le guance arrossate non più solo per l’alcool che ha in corpo, e un fisico di quelli difficili da dimenticare. E io la sento. È ovunque. Sotto le mie mani, tra le mie gambe, sulla mia schiena. È ovunque, ma non è lei.
Le unghie che mi segnano la pelle sono un po’ più lunghe, quel tanto che basta a lasciare un segno senza fare male.
I capelli sono scuri, più disordinati perché lei non li pettina mai.
Le labbra più piene, gli occhi più grandi, i fianchi più larghi.
È come un déjà vu. Il déjà vu di un sogno.
Cerco di ignorarla. La caccio via come un ospite indesiderato che si presenta alla mia porta a orari improponibili, in momenti in cui non ho voglia di alzarmi, ma il maledetto campanello mi costringe. La tratto male, mi arrabbio, perché è venuta a rovinare un bel momento. Perché è venuta a rovinare tutto. A rovinare me.
Perché se non mi vuoi non te ne devi andare? Vai via e basta.
Avventurati nel mondo con i tuoi occhi anonimi e vai a cogliere di sorpresa qualcun altro, un altro stolto che si fiderà di loro, ritenendoli innocui, per poi ritrovarsi fregato tutto insieme.
Mi faccio distrarre dalla voce di Claudia, lascio che i suoni che emette mi confondano le idee e mi imprigionino. Le stringo i fianchi e mi muovo d’istinto, senza pensare, lasciandomi completamente guidare da ciò che il mio corpo vuole.
Ma lei è ancora lì, in un angolo della mia testa, a sorridere e a guardarmi con aria di sfida o di rimprovero e non importa quanto strizzo gli occhi per annebbiare la mente, si annebbia tutto tranne lei.
Una volta mia ha detto che, secondo lei, un ragazzo innamorato ama più di una ragazza innamorata e che un ragazzo innamorato soffre più di una ragazza innamorata. Per la prima volta sto prendendo sul serio le sue parole, perché forse è vero, e la cosa mi fa desiderare ardentemente di non essere nato uomo.
E la cosa più ridicola di tutto ciò è che pensare alle sue idee mi ricorda che di lei mi piace anche il modo in cui sa mettersi in discussione, la sua retorica sempre calcolata che tiene conto di ciò che pensano gli altri ma sa far valere le sue argomentazioni.
Quando Claudia mi saluta con un bacio e mi lascia il suo numero di telefono, non mi fa sentire meglio. Pensavo che lo avrebbe fatto, ma non è così.
C’è un motivo se è più facile trovare una formula per la clonazione che una soluzione efficace al problema delle cose da dimenticare.
Accetto il numero, ma non penso che le scriverò mai, perché un tizio di cui Claudia non ricorda il  nome una volta ha detto che il dolore è superabile, ma i ricordi no.

 
   
 
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