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Autore: Milla Chan    18/07/2017    2 recensioni
Aveva maturato uno strano sentimento nei confronti degli umani. Non c’era più paura, ma non c’era nessuna rabbia, solo un misto di disgusto e indifferenza. Quella situazione, però, non gli pesava quanto i suoi genitori pensavano che avrebbe dovuto; o almeno così sembrava. Kenma passava gran parte delle sue giornate a giocare ai videogiochi, e quando sua madre gli chiedeva se avesse qualcosa da raccontarle, passandogli la mano tra i capelli scuri, lui la guardava con una sorta di senso di colpa negli occhi.
[KuroKen + altre coppie secondarie] [Tokyo Ghoul!AU, ma non è necessario seguire l'opera]
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Koutaro Bokuto, Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Nuit de juin! Dix-sept ans! - On se laisse griser.
 
Kenma inspirò profondamente mentre indossava la sua maschera, sul tetto di quell’alto edificio, sotto il cielo nero e limpidissimo di una tiepida notte di fine giugno. Kuroo era in piedi poco più avanti di lui, e guardava la strada illuminata a giorno da mille colori vivaci e gremita di persone.
Era arrivato il giorno in cui la sopportazione aveva raggiunto il suo limite.
-Sono davvero alti i grattacieli di Akihabara.- commentò Kuroo, guardandosi attorno. La sua voce suonava strana, ovattata dalla maschera. -Dobbiamo spostarci saltando sui tetti. Qui in alto è buio, da terra non ci vedranno con tutte quelle luci.-
-Come facciamo a cacciare con così tanta gente e così tanta luce?- chiese Kenma, ora accanto a lui, coi piedi sul bordo del palazzo, i capelli chiari mossi da un leggero vento.
Kuroo scrollò le spalle. -Il territorio è grande, diamo un’occhiata.- disse impaziente, un attimo prima di saltare verso l’edificio accanto. Kenma lo seguì senza esitare.
A Kuroo era mancato spostarsi liberamente in quel modo: i suoi movimenti erano ampi e agili, liberatori, disinvolti, atterrava piegando le gambe fino ad accucciarsi a terra e godendosi la sensazione dei muscoli che si distendevano e si contraevano. Kenma, invece, aveva imparato a minimizzare i movimenti, ad evitare gesti superflui, e preferiva di gran lunga spostarsi in quel modo leggiadro e silenzioso, quasi invisibile, flettendo appena le ginocchia e sentendo le giunture formicolare appena nell’attutire gli impatti, ma sempre senza sbilanciarsi, con un equilibrio incredibile.
Fu lui a fermare Kuroo dopo circa una ventina di minuti, posandogli una mano sulla spalla quando furono abbastanza lontani dalle zone più trafficate e affollate. Kuroo lo guardò e Kenma non disse nulla: fece un paio di passi indietro, si voltò e saltò nel vuoto, giù dal palazzo.
Kuroo si sporse per osservare la scena: Kenma era arrivato a terra senza emettere il minimo rumore, perfettamente in piedi, nell’ombra del vicolo lungo il quale camminava una persona, solitaria e ignara.
Kuroo sentì un brivido attraversarlo, ed era abbastanza sicuro che la brezza notturna non ne fosse la responsabile.
-Buon appetito.- mormorò atono Kenma, rivelando così la sua presenza e facendo voltare l’uomo che stava qualche metro davanti a lui. Allungò una mano e gli afferrò la faccia, coprendogli la bocca, l’urlo che non poteva emettere stampato negli occhi.
Kenma si era sempre considerato, oggettivamente, una persona debole. In effetti, in confronto alla maggior parte dei ghoul lo era, ma quella fame crudele gli stava dimostrando tante cose.
Gli stava dimostrando che aveva molta più forza di quella che pensava di avere e, soprattutto, che non era vero che non sarebbe mai stato in grado di far del male ad un umano.
La fame gli aveva detto che non c’era nulla di cui aver paura, tranne che della fame stessa: la voglia di mangiare aveva spazzato via ogni incertezza come se fosse stata solo un leggero strato di polvere. Nessun dubbio era fondato, erano solo futili condizionamenti.
Sollevò appena la maschera per scoprire la bocca e affondò i denti tra la spalla e il collo, la mano libera che si conficcava e si faceva spazio nello stomaco e nel ventre di quell’umano senza identità che, a poco a poco, smetteva di dimenarsi.
Non si era mai reso conto di quanto la carne fosse facile da squarciare, quanto fosse morbida e tenera, quanto fosse semplice affondarci le unghie, le dita, le mani, lacerarla, farla a pezzi.
Sentiva il sangue caldo colargli lungo il mento e il morso che aveva preso improvvisamente sembrò il boccone più buono che avesse mai avuto il piacere di assaggiare. Quella carne viva e cruda era migliore di qualsiasi raffinato trancio avesse mai mangiato in un ristorante.
Il battito del proprio cuore stava accelerando.
Kuroo lo raggiunse con un paio di salti, aggrappandosi al cornicione di qualche finestra per attutire l’impatto col terreno.
Kenma era inginocchiato a terra davanti al cadavere smembrato. Notò la sua schiena che si alzava e si abbassava velocemente e capì che aveva il respiro affannato. Lo vide togliersi definitivamente la maschera con le mani insanguinate e voltare il viso verso di lui. Lo guardò con gli occhi spalancati, la piccola pupilla rossa che sembrava tremare, le labbra imbrattate di sangue.
-Kuro.- chiamò il suo nome con voce flebile, alzandosi in piedi sulle gambe malferme.
Kenma provava una sensazione di appagamento inspiegabile nel sentire i propri polmoni riempirsi completamente d’aria, l’adrenalina scorrergli nelle vene.
Anche Kuroo si tolse la maschera, guardandolo incantato e sorpreso mentre gli si avvicinava. Non lo aveva mai visto così, non aveva neanche mai avuto il coraggio di immaginarselo e, in tutta sincerità, in quel momento era grato di non averlo mai fatto, perché sapeva che non sarebbe mai stato in grado di aggiungere dettagli apparentemente insignificanti, ma che in realtà lo lasciavano incapace di commentare, come il sangue cremisi che gli gocciolava lungo le mani, tra le dita sottili, e picchiettava per terra.
Kenma aveva vissuto tutta la sua vita a mangiare regolarmente, senza attendere che l’appetito diventasse feroce, e Kuroo poteva solo fantasticare su come fosse provare per la prima volta quella sensazione a quasi diciassette anni. Sapeva solo che era affascinante e tremendo, vederlo così.
Allargò le braccia in modo istintivo per abbracciarlo mentre gli si avvicinava e non riuscì ad elaborare razionalmente cosa successe dopo.
La mano di Kenma gli accarezzò la guancia, sporcandogliela di sangue, e scivolò tra i capelli neri e scombinati per tirarlo piano verso di sé, tendendo il collo verso di lui.
Kuroo si chinò e fece scontrare le labbra con le sue, gli occhi chiusi, il respiro che improvvisamente veniva a mancare e il cuore che si riempiva. Si incastrò tutto come un meccanismo perfetto.
Sentì le braccia di Kenma stringersi attorno alle sue spalle con un verso soddisfatto, ma le sue mani non stavano ferme, si aggrappavano alla stoffa, scivolavano sul suo collo, sulle sue guance, di nuovo sulla sua nuca.
Kuroo lo avvicinò al muro del vicolo prendendogli il viso tra le mani, senza smettere di baciarlo, col fiato corto e un terribile e prepotente bisogno di stargli il più vicino possibile. Passò lentamente la lingua sulle sue labbra per assaporare il sangue fresco, e quel gusto intenso, assieme a quel gesto che tanto aveva desiderato, gli fece sentire un tuffo al cuore.
Kenma sospirò, le palpebre abbassate e tremanti, una mano che si era spostata sul polso di Kuroo, vicino alla propria mandibola. Sentiva ogni sua singola vena sotto i polpastrelli, ogni singola piega della sua pelle.
Aveva una gran confusione in testa, ma i suoi sensi sembravano essersi amplificati ed era assolutamente convinto di voler sentire quelle sensazioni altre mille volte. Aprì la bocca e lo cercò di nuovo, con più urgenza, più incredulo e sconvolto, forse, per quello che aveva fatto e stava facendo, ma anche spaventosamente soddisfatto e felice, in un modo che lo faceva sentire la persona più potente del mondo.
Non pensava che si sarebbe mai sentito trasportare da quella smania che proprio non sembrava appartenergli, che non sembrava essere reale, eppure esisteva, in quel momento, e lo smuoveva nel profondo.
Kuroo aprì gli occhi, di un rosso e un nero intensi e densi. Si allontanò solo quando, a causa dell’odore di tutto quel sangue e di quella carne, il bisogno di mangiare superò quello di continuare a sentire le labbra morbide di Kenma sulle sue. Ma si promise con un sorriso obliquo e pungente che sarebbe stata una lontananza solo temporanea.

Le stelle di quella notte rinfrescata da una piacevole brezza sfumarono in un’alba chiara e dai colori caldi.
Il sole era sorto da poco più di un’ora e Kageyama correva a ritmo sostenuto per la strada praticamente deserta. Aveva appena svoltato l’angolo quando sbatté contro qualcuno.
-Oi!- esclamò sul subito, chiudendo e riaprendo un paio di volte le palpebre per capire cosa stesse succedendo e mettere a fuoco chi gli era apparso davanti.
-Scusami, non ti ho visto!- disse con un sorriso risoluto quel ragazzo dai capelli corti e scuri, gli occhi verdi che lo colpirono come un pugno.
-N-no! Insomma, scusami tu.-  rispose subito Kageyama, con un veloce inchino.
-Nessun problema. Anche tu corri al mattino presto?-
Kageyama annuì velocemente, asciugandosi il sudore sulla fronte col dorso della mano, e iniziò a parlare, non proprio sicuro. -Lo faccio sempre prima delle lezioni…-
-Ah, ti tieni in forma? -
Kageyama avrebbe davvero voluto andarsene, ma per qualche motivo non riusciva a trovare il modo di congedarsi, e gli era impossibile smettere di parlare senza risultare troppo maleducato.
-…In realtà, a tutti i membri dell’Accademia è richiesta una forma fisica ottimale, quindi...- iniziò, cercando di restare vago.
Il ragazzo gli mostrò un’espressione sorpresa. -Accademia? Non dirmi che frequenti l’Accademia della CCG!-
-Già.- rispose subito, con un piccolo sorriso, intimamente orgoglioso di poterlo finalmente affermare.
-Wow! Anche io avrei voluto andarci, ma i miei genitori mi hanno sempre ripetuto che era troppo pericoloso.-
-È un peccato, avresti davvero il fisico adatto…-
Il ragazzo rise e incrociò le braccia muscolose al petto. -Ti ringrazio! Senti, non vedo molte persone andare a correre così presto in questa zona, che ne dici di fare un po’ di strada insieme? Non fa male stare in compagnia.-
Kageyama fu colto alla sprovvista. Normalmente, avrebbe trovato il modo di rifiutare, ma quel ragazzo sembrava una persona interessante e energica, e la sua espressione decisa, anche se un po’ burbera, gli dava sicurezza, e in qualche modo sentiva che non l’avrebbe rallentato, ma che anzi lo avrebbe spronato a dare il meglio di sé nella corsa.
-Io… credo vada bene?- borbottò con un velo di imbarazzo. -Piacere, io sono Kageyama Tobio.-
-Perfetto.- disse quello con un sorriso. Gli diede una pacca sulla spalla, gli occhi verdi improvvisamente più brillanti. -Piacere di conoscerti, io mi chiamo Iwaizumi.-

Da quel giorno di fine giugno, gli ingranaggi iniziarono a girare in modo diverso: i cambiamenti furono graduali e impercettibili, come piccoli passi silenziosi nel buio, ma inesorabili.

Un giorno di luglio, Kenma stava accarezzando uno dei gatti del Café quando entrò un ragazzo dai capelli neri e gli occhi di un colore indistinguibile: ad un primo colpo d’occhio gli erano sembrati scuri, ma più lo guardava, più notava che la sua iride era di un blu strano, tendente al grigio scuro, e non aveva mai visto una sfumatura del genere. Kuroo l’aveva salutato chiamandolo Akaashi, e Kenma pensò che fosse quel cliente dal viso perfetto che gli aveva accennato una volta e di cui, per qualche motivo, si ricordava bene.
Kenma aveva continuato a guardarlo e ad accarezzare il gatto finché l’animale, stufo, non aveva deciso di andarsene.
Kuroo aveva ragione. Akaashi era bello, e nell’ammetterlo sentì lo stomaco stringersi.

Nelle settimane successive Akaashi era tornato spesso al Nekoma, e ogni volta il cuore di Kenma si era affossato un po’ di più nel vedere Kuroo parlare con lui, non sapeva se per gelosia o invidia.
Uno dei primi pensieri di Kenma fu che assomigliasse ad un angelo, ma se lo fosse stato davvero allora non lo avrebbe fatto sentire così in soggezione solo rimanendo nella sua stessa stanza. Quindi Kenma giunse alla conclusione che fosse un’altra creatura sovrannaturale, un demone, magari, di quelli splendidi, che ti trascinano nel baratro più oscuro e, con la loro bellezza a fare da esca, ti risucchiano in una sorta di buco nero. Ogni volta che Kuroo gli si accostava, Kenma, nella sua mente, lo richiamava, intimandogli di non avvicinarsi troppo, di non muovere un altro passo.
Avrebbe voluto prendersi la testa tra le mani e dirsi chiaramente di smetterla quando si rese conto quanto fossero stupidi, imbarazzanti ed esagerati quei pensieri.

Verso la fine del mese, però, Nekomata fece chiamare Kenma per parlargli in privato. Da allora, non era più potuto stare nel Café a lungo come prima, e non aveva più avuto occasione di vedere il suo demone.
Non si conoscevano molti dettagli, ma a quanto pareva Nekomata lo aveva fatto avvicinare a delle questioni amministrative di cui pochissimi altri membri del Nekoma erano a conoscenza, e nessuno di loro era giovane quanto lui. Aveva riconosciuto in Kenma capacità notevoli per quanto riguardava l’osservazione e l’analisi di determinate situazioni.
Kuroo era felice di vedere quanta importanza gli stesse riservando Nekomata, e quanto gran parte del Nekoma stesse iniziando a riconoscere il valore di Kenma nonostante il suo carattere introspettivo e taciturno: tutti, chi più chi meno, sembravano esserglisi affezionati, e in questo modo si esaudiva uno dei più grandi desideri di Kuroo.

Kenma e Kuroo mangiarono altre due volte, tra l’estate e l’autunno: non era la stessa fame che li aveva mossi la prima volta e Kenma non era particolarmente entusiasta di cacciare, ma sapeva che evitare di scadere nella fame più profonda era senz’altro la soluzione migliore. Entrambe le volte era stato Kuroo a uccidere gli umani, ma semplicemente perché Kenma non ne aveva voglia.
Una delle due vittime era una ragazzina in divisa scolastica che avevano avvicinato senza indossare la maschera. Kenma si era sentito in imbarazzo ad usare quel metodo di approccio, ma doveva ammettere che avevano impiegato veramente poco tempo per portarla in un luogo isolato e concludere ciò che dovevano fare senza dare nell’occhio.
Fino a qualche mese prima, Kenma pensava che non avrebbe sopportato lo sguardo di terrore che sarebbe apparso sul volto degli umani nel rendersi conto che stavano per morire per mano sua, e scoprire che non era così l’aveva sorpreso, non era sicuro se in maniera positiva o meno. Semplicemente, in quei momenti non sentiva niente se non un viscerale appagamento. Oltre alla sensazione di pienezza, gli piaceva, in particolare, vedere i rivoli di sangue che scorrevano ai lati della bocca di Kuroo e che la tingevano.
Kenma non avrebbe mai voluto smettere di passare il pollice sulla sua pelle e la lingua sugli angoli delle sue labbra, gli occhi chiusi per non sprofondare nell’imbarazzo nel rendersi conto di essere osservato, a godersi i mugolii soffocati che Kuroo sembrava emettere solo per procurargli brividi intensi lungo la colonna vertebrale.
Non avevano finto che non fosse successo nulla, dopo il loro primo bacio. Entrambi sapevano che quello che era successo in quella notte di giugno era stato dettato dall’enfasi del momento, dall’adrenalina, che forse era stato un po’ frettoloso, ma che tutto era stato meno che un errore.
C’erano stati tanti altri baci, anche molto meno feroci, e Kenma si era sentito morire ogni volta, che fosse stato nel mezzo di una strada buia con un cadavere ai piedi e l’invitante odore di carne a riempirgli le narici, o con la schiena affondata nel materasso, sul lenzuolo stropicciato, e con il peso di Kuroo sul petto.
Era l’unica cosa che sembrava avere il potere di svuotargli completamente la mente.
Kuroo si sentiva leggero come una piuma ogni volta che Kenma entrava nella stanza e si dirigeva verso di lui con lo sguardo basso ma il passo svelto. Gli piaceva quell’affetto quotidiano e straordinariamente tenero, sbocciato da una situazione dalle sfumature cruente ma nato molto tempo prima.
Sorrideva quando Kenma si sedeva in braccio a lui senza dire una parola e appoggiava la fronte contro la sua spalla nel tentativo di nasconderci il viso, o quando tendeva il collo a reclamare baci nel modo più silenzioso possibile, l’espressione un po’ contrariata se ci impiegava più del previsto a raggiungerlo.
A Kuroo piaceva passare le mani sulla sua schiena, vederlo sciogliersi fino quasi ad addormentarsi, gli piaceva anche protestare quando si accorgeva che Kenma gli stava mordicchiando il collo della maglietta per dispetto.
Sarebbe stato ore ad ascoltare la sua voce calma, sentire le carezze di Kenma tra i capelli e le sue dita che vagavano delicate e senza meta sul suo viso, come a disegnarlo.
Spesso Kuroo si sdraiava e appoggiava la testa sulle sue cosce, e osservava Kenma col collo inclinato in avanti, i capelli chiari che ricadevano ai lati del viso e i grandi occhi d’ambra che parlavano molto più di quanto potesse sembrare.
C’era sempre un velo di malinconia a ricoprire le loro gioie e le risate leggere che appartenevano solamente a loro due, chiuse in quell’appartamento quando ormai la pioggia di metà novembre bagnava i vetri delle finestre.

Quell’estate, Iwaizumi aveva approcciato Kageyama senza dire nulla a Oikawa.
Quando era rientrato a casa aveva fatto solamente in tempo a togliersi le scarpe e a salire le scale prima che le mani di Oikawa gli afferrassero il colletto della maglia e lo sbattessero contro il muro. Oikawa gli aveva urlato in faccia, con gli occhi lucidi; gli aveva urlato che non sapeva dov’era andato e che si era preoccupato perché non avevano mai più riesumato quella questione di Tobio, dopo quel giorno in cui lo aveva baciato, e non aveva minimamente pensato che l’avrebbe fatto davvero. Gli aveva detto che era un’idiota e che avrebbe dovuto parlarne con lui, prima, perché era pericoloso e se gli fosse successo qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato.
Iwaizumi sapeva benissimo che avrebbe scoperto quello che aveva fatto in tempi più che rapidi, ma non si aspettava che avrebbe reagito in quel modo.
Lo aveva guardato con gli occhi sgranati mentre cercava di allontanare le sue mani da sé, ma Oikawa si era rifiutato di lasciarlo andare, stringendolo piuttosto contro il suo petto, le braccia attorno al suo busto e la testa appoggiata alla sua tempia.
Iwaizumi aveva ascoltato il battito accelerato del suo cuore e gli aveva detto che andava tutto bene, stava bene, non aveva corso alcun pericolo.
-Non è successo niente.- gli aveva detto, con una lieve confusione, mentre gli passava una mano sulla schiena. Quando Oikawa era tornato a guardarlo, aveva un broncio esilarante dipinto in volto.
L’aveva fatto per lui e non sapeva con esattezza cosa l’avesse spinto a farlo: ci aveva pensato a lungo, ed era giunto alla conclusione che, sì, era pericoloso, ma fattibile.
Se farlo poteva davvero aiutare Oikawa a diventare ciò che voleva, allora non c’era dubbio: lo avrebbe fatto.

Iwaizumi aveva continuato per mesi ad andare a correre con Kageyama, e ogni volta raccontava a Oikawa tutto quello che era successo.
Da parte sua, Iwaizumi, dopo i primi giorni di difficoltà, aveva iniziato a trovare stranamente interessante passare del tempo con Tobio. Sotto quell’apparenza seria e orgogliosa si nascondeva un ragazzino un po’ sempliciotto e con qualche difficoltà a socializzare ed era divertente studiare le sue reazioni.
Tooru aveva ragione: da un punto di vista caratteriale non era facile tener testa a Tobio. Era una di quelle persone che disdegnava facilmente chiunque reputasse un peso inutile o che non riuscisse a stare al suo passo. Ma, in presenza di una persona più grande e fisicamente più capace di lui, non poteva fare a meno di provare ammirazione e rispetto, come se nella sua testa costruisse una sorta di piramide gerarchica da rispettare in modo ferreo. Iwaizumi pensava che quella fosse proprio una mentalità militare, e gli aveva fatto capire molte cose sul tipo di ambiente in cui Kageyama doveva essere cresciuto.
Ad ogni modo, Iwaizumi soddisfaceva alla perfezione tutti i requisiti per occupare uno dei posti più alti nella piramide immaginaria di Tobio e, per di più, possedeva una particolare aura autoritaria, un carisma naturale profondamente diverso da quello di Oikawa, ma per molti versi altrettanto efficace e, nel caso di Tobio, anche di più.
Tobio gli aveva raccontato molte cose, in quei mesi. Anche Hajime l’aveva fatto, ma le sue erano tutte bugie. Non credeva davvero di poter essere un tale bugiardo.
Tobio si fidava di lui. Hajime lo sapeva e, anche se non avrebbe voluto ammetterlo, più il tempo passava più non riusciva a non sentirsi in colpa per questo, ma non lo avrebbe mai detto a Tooru. Doveva solo pensare che era a causa sua che i genitori di Tooru erano stati uccisi, e che nel giro di qualche anno sarebbe diventato a tutti gli effetti un membro della CCG -e quindi, un nemico giurato.

-Fa sempre più freddo.- si lamentò Kageyama, accanto ad Iwaizumi. -Ed è sempre più buio, al mattino.-
-Già. Vuoi fermarti? Possiamo andare a bere qualcosa di caldo.-
-No!- si affrettò a dire il più piccolo. -No, era solo un’affermazione.-
-Come preferisci.-
Kageyama guardò con la coda dell’occhio Iwaizumi correre al suo fianco, il respirò freddo che usciva dalle sue labbra sottili. Sembrava veramente instancabile, in ogni condizione meteorologica.
-Allora, come va in Accademia?- chiese, e Kageyama si riscosse dai suoi pensieri.
-Mmh…-
Iwaizumi rallentò il passo e si fermò per guardarlo interrogativo.
-Te ne ho già parlato. non sono poi molto bravo a…- iniziò Kageyama una volta fermatosi, l’espressione corrucciata. -…a studiare, ecco.-
Iwaizumi alzò gli occhi al cielo. -Tobio, hai davvero una testa dura.- lo riprese, premendogli una mano sui capelli neri e liscissimi. Era un discorso che avevano affrontato svariate volte in quei mesi, e Hajime era diventato sempre più bravo a immergersi in quella bugia, tanto che ormai temeva di starsi veramente preoccupando per lui.
-Devi impegnarti, o il tuo punteggio complessivo sarà basso per colpa della teoria e alla fine ti farà passare come un neo-investigatore di merda.-
-Ma io sono ottimo nello scontro fisico. I miei genitori mi hanno allenato fin da piccolo, sono il migliore della mia...-
-Ma mi ascolti?-
Tobio abbassò lo sguardo, imbronciato e leggermente rosso in faccia. Sperò che Iwaizumi pensasse che fosse colpa del freddo.
-Che poi cosa c’è da studiare, di teoria? A che ti serve?-
-Studiamo la struttura biologica dei ghoul, i vari tipi di kagune, come funzionano le quinque…-
Iwaizumi alzò le sopracciglia, colpito. -Woah, le quinque.-
-Già. Sembra interessante, ma ci chiedono veramente di ricordare dettagli tecnici impossibili, è davvero difficile.-
Iwaizumi era stupito di sentirlo parlare così, perché non era da lui aprirsi in quel modo e ammettere di non essere bravo in qualcosa.
-Parlate anche di attualità, vero? Tipo, gli incidenti che succedono, cose così…-
-Sì, parecchio, ma è più una cosa tra di noi, non è una materia del corso di studio.-
-No, certo.- annuì Iwaizumi, pensoso, tornando a correre a passo sostenuto. -Senti, ti ricordi qualche mese fa, quell’incendio in quell’appartamento da ricchi? In televisione non hanno mai detto granché e mi hanno lasciato, come dire, con una certa curiosità…-
-Toshima? Ah, lascia perdere.- lo interruppe Kageyama, accigliato. -È in assoluto una delle cose che mi fanno incavolare di più, nessuno è riuscito a sapere niente.-
Iwaizumi lo guardò in silenzio, gli occhi attenti e le labbra dischiuse.
-Niente?-
-Niente.-
Ormai era metà novembre e non sembrava che fosse riuscito a estrapolargli informazioni particolarmente utili, non perché non fosse in grado di toccare gli argomenti, ma perché tutto quello che Tobio diceva era già giunto, in qualche modo, alle orecchie di Tooru.
Oikawa pensava che ci fossero solo due possibilità: o Tobio era molto più prudente e intelligente di quello che pensavano, o non sapeva davvero nulla.
Iwaizumi temeva che, dopotutto, Kageyama non fosse altro che un ragazzino ignaro.

Hinata cadde a terra per l’ennesima volta sul pavimento leggermente imbottito. Kageyama lo guardava dall’alto, una mano stretta al colletto della sua maglietta e la fronte imperlata di sudore. Ricambiò lo sguardo con gli occhi sgranati e il respiro affannato.
-Ancora!- disse il ragazzino dai capelli rossi e scombinati con una nota arrabbiata, rialzandosi in piedi con un balzo e massaggiandosi appena il gomito dolorante.
Kageyama bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta appoggiata su un tavolino vicino al tappeto su cui stavano facendo allenamento.
-Un ghoul ti avrebbe già mangiato. Tre volte.-
Hinata emise un verso nervoso. -È per questo che ci stiamo allenando!-
-Hinata, non puoi buttarti su di lui senza pensare.- lo riprese uno dei ragazzi più grandi intenti a guardarli.
-Suga-san, so cosa devo fare ma è come se... Non lo so, come se il mio corpo si muovesse d'istinto!-
Sugawara sospirò pazientemente e gli si avvicinò per l'ennesima volta, prendendogli gli avambracci e spiegandogli in tono calmo ma deciso il movimento corretto da compiere, ripetendolo a rallentatore e invitandolo a fare lo stesso con un sorriso gentile.
Quell'ambiente era stato completamente adibito a palestra, con vari tappeti su cui gli studenti dell'Accademia potevano allenarsi tra di loro anche nei momenti liberi tra una lezione e l'altra, e non era raro che gli studenti più grandi tenessero d'occhio gli altri e che dessero loro consigli quando i professori non erano nei paraggi.
Kageyama era bravo. Moltissimo.
Solitamente non ci metteva più di trenta secondi ad atterrare Hinata: anche se quello era parecchio veloce e spesso riusciva a sfuggirgli, non appena veniva bloccato, sembrava andare in panico e si muoveva senza pensare.
Hinata dal canto suo non lo aveva mai visto combattere sul tappeto con qualcun'altro, non con i propri occhi, perlomeno. Tra quelli del primo anno aveva tuttavia sentito parecchie voci non esattamente benigne sul suo comportamento: qualcuno diceva che aveva rotto il naso a un paio di studenti, negli anni precedenti. Forse non accidentalmente, dicevano.
Hinata non credeva solo all'ultima parte. Kageyama era stupido, aveva un carattere insopportabile, arrogante, superbo, ed era bravo nello scontro corpo a corpo, ma fare realmente del male a qualcuno non rientrava certo nei suoi interessi.
Anche lui si era procurato per colpa sua qualche occhio nero, ma continuava ad essere fermamente convinto che Tobio fosse una persona buona. Non lo faceva apposta ed era normale ritrovarsi con svariati lividi dopo quel genere di allenamenti.
Le malelingue si erano scatenate solo perché Kageyama era un po' troppo introverso e decisamente pieno di sé: un connubio strano e, a tratti, inquietante. Si era isolato, richiudendosi in se stesso e pensando di non aver bisogno di nessuno, di essere il migliore, e per questo la sua bravura risultava essere del tutto inutile, perché in quell'ambiente la collaborazione era fondamentale.
La prima volta che aveva sfidato Kageyama, i suoi occhi si erano fatti grandi per la sorpresa e Hinata era rimasto inizialmente confuso da quella reazione, salvo poi aprirsi in un grande sorriso.
Hinata aveva conosciuto tante persone, in quella palestra. C'erano decine di studenti più grandi che aveva sempre e solo visto nei corridoi e con cui non aveva mai avuto modo di parlare, ma che si avvicinavano ad assistere ai combattimenti con quel famigerato ragazzino prodigio, anche se il vincitore era scontato.
Hinata e Kageyama presero un respiro profondo e tornarono sul tappeto. Il rosso schivò un paio di volte i suoi colpi e, poi, qualcosa successe. Hinata riuscì ad afferrargli il polso. Non avrebbe mai saputo spiegarlo, ma vide come a rallentatore Kageyama sgranare gli occhi, ruotare su se stesso per evitare un suo calcio e cadere rovinosamente ai suoi piedi. Attorno a loro calò il silenzio.
Guardò gli occhi blu del ragazzo sotto di sé, non appena si rese conto di cosa aveva fatto e riuscì a prendere fiato, buttò la testa indietro e alzò le mani al cielo con un urlo.
-Ti ho battuto!- gridò, mentre i primi curiosi iniziavano ad avvicinarsi.
-È stata solo fortuna!- ringhiò Kageyama, liberandosi dalla sua presa e mettendosi a sedere.
-Ma ti ho battuto comunque!-

Akaashi alzò la testa, attirato dal frastuono che proveniva dall'angolo opposto della palestra. Decise di avvicinarsi e quando vide un piccoletto dai capelli rossi saltare per aria con tanta gioia dipinta sul volto, aggrottò la fronte con confusione.
-Che succede?- chiese a Sugawara, accanto a lui. -Chi sono?-
-Due di cui sentirai parecchio parlare nei prossimi anni, temo.- Sugawara rise e si appoggiò le mani sui fianchi. -Shouyou, Tobio, venite un attimo!-
Quei due smisero di litigare e ubbidirono al ragazzo più grande.
-Voglio presentarvi un nuovo senpai! Si chiama Akaashi, è stato selezionato per la collaborazione al Progetto 150410 nonostante sia solo al secondo anno.-
La bocca di Shouyou si spalancò e i suoi occhi si fecero luminosi.
-Piacere di conoscerti!- esclamò a voce un po' troppo alta, facendo un inchino veloce ma energico, subito seguito da Kageyama, altrettanto agitato, ma molto meno espansivo.
-Il Progetto 150410!? È quello col ghoul? Cosa fate?- chiese Hinata con trasporto. Quasi tutti nell'Accademia avevano sentito parlare di quel progetto: sapevano che in una nelle sedi della CCG veniva tenuto e studiato un ghoul vivo, ma niente di più.
-Come hai fatto a essere selezionato?- aggiunse Kageyama, le guance un po' rosse per l'emozione.
-C'è stato un concorso per quelli dal secondo anno in poi, ma solo per l'indirizzo di Investigatori di Dipartimento.- rispose con calma, toccandosi distrattamente le dita. -Facciamo... esperimenti, per lo più.-
-E com'è?- commentò Kageyama, la bocca ridotta a una linea sottile e tremolante, invidioso e meravigliato.
Akaashi evitò di guardarlo negli occhi e cercò le parole giuste.
-È...- iniziò, con una nota di disappunto nella voce. -...Davvero, davvero impressionante.-


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Note e chiarimenti
Come posso farmi perdonare? Giuro che non sono sparita nel nulla, e chiedo scusa se pensavate che io avessi abbandonato questa fanfiction, che in realtà è il lavoro a cui sono più affezionata in assoluto! So che probabilmente avete dovuto rileggervi velocemente cosa è successo nei capitoli precedenti, perché purtroppo dimenticare, specialmente i dettagli, è fin troppo facile.
Il titolo del capitolo è un verso di "Roman", una poesia di Arthur Rimbaud, che spiega esattamente la situazione attuale: tutto inizia in una notte di giugno, i nostri protagonisti si aggirano attorno ai diciassette anni. E si lasciano inebriare. Da cibo, amore, speranze: è un'immersione totale. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi abbia lasciato qualcosa, spero di aggiornare con più frequenza!
Un bacio a tutte e grazie per la pazienza

 
   
 
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