Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Amatus    23/07/2017    3 recensioni
Mastro Titta fu il boia di Roma, fu così famoso da divenire simbolo di tutti i boia che operarono in città nei secoli. Mastro Titta nacque Giovanni Battista Bugatti e questa è la sua storia, la storia di Vanni e di come conquistò il suo titolo sanguinario.
[...] C'è stato un tempo in cui le rivoluzioni sembravano lontane e i cuori battevano lenti per adattarsi al ritmo delle stagioni che si avvicendavano pazienti, in un susseguirsi rassicurante e infinito. La vita di mio padre sembrerebbe ad un uomo di questi giorni lunga un secolo e anche più. Altri nomi sarebbero venuti in seguito reclamando il proprio tributo, ma al tempo ero solo Vanni e la vita mi bruciava in petto come la giovinezza
Questa storia partecipa al conteste Stelle D'oriente indetto da Dollarbaby sul forum di efp
Genere: Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore, L'Ottocento
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 4

 

Tornai a Roma dopo aver portato a termine il lavoro e dopo aver giurato di non mettere mai più piede nel territorio di Ancona. I tempi stavano cambiando velocemente e tra venti di rivolta e restaurazioni il mio lavoro divenne sempre più richiesto, non erano certo diversi i miei servigi se a finire al patibolo era un nemico del popolo o un carbonaro e la mia opinione in merito non fu mai richiesta.
A Roma lcome in molti altri posti le esecuzioni sono uno spettacolo pubblico, ma c'è da dire che solo in questa città ho trovato la morbosa abitudine di portare i bambini ad assistere alle esecuzioni pubbliche, quando il condannato passa oltre, i bambini vengono colpiti da uno scapaccione sgraziato e questo è ciò che i genitori della città santa ritengono il punto più alto dell'educazione impartita, nessuno stupore quindi che questa città pulluli di disgraziati, malfattori e preti. Essendo un momento di grande partecipazione popolare, più i miei servizi venivano richiesti, più sguardi attiravo su di me e ben presto il mio operato mi rese famoso.
La curia fu costretta ad emettere un'ordinanza che mi proibiva di entrare in città, se non per lavoro. Fui confinato al di là del fiume come i carcerati e proprio accanto a Castel Sant'Angelo mi costrinsero a vivere. Non pagavo pigione per la mia stanza ed era piuttosto confortevole, era fuori dal centro in una zona che puzzava certo meno rispetto a campo de' Fiori, ma i suoni che a volte raggiungevano le mie finestre erano terribili e spesso mi tenevano sveglio. Sentivo i pianti di neonati abbandonati al Santo Spirito e le grida di carcerati torturati dai gendarmi, quando riuscivo a prendere sonno quei lamenti mi tormentavano nei sogni. Negli incubi peggiori ero in ginocchio sul patibolo e una moltitudine di uomini sanguinolenti si accalcava per essere testimone dell'ultimo respiro del boia.
Ma anche gli incubi non ebbero la forza di fermarmi, serrai in profondità dubbi e timori, e mi trincerai dietro la certezza di essere nella grazia di Dio.
Con l'arrivo del cardinale Consalvi poi, dopo l'arrivo dei francesi, tutto divenne ben ordinato, pulito e funzionante, la giustizia divenne una macchina pressoché perfetta e persino il mio lavoro acquistò un'aria pulita e ordinata. Fecero arrivare dalla Francia uno di quegli strumenti con cui a Parigi avevano fatto la rivoluzione, la decapitazione non fu mai di moda come in quel momento. Una folla sempre maggiore si radunava attorno al patibolo per vedere quel pregiato pezzo di modernità. La lama cadeva dall'alto, la testa finiva in un cesto e non fosse stato per il sangue spruzzato fuori dal collo mozzato, il patibolo sarebbe stato ben più lindo del resto della piazza.
Fu in quel periodo che mi guadagnai il nome che mi accompagnerà, suppongo, fin nella fossa. Quando lasciai Senigallia la prima volta smisi di essere Vanni e divenni Bugatti come mio padre, a Roma guadagnai l'articolo come il padre di Tessa e divenni Il Bugatti o mastro Bugatti, ma i romani non dimostrano rispetto per niente e nessuno, soprattutto per ciò che temono e c'è da dire che temono tutto. Presto il loro timore divenne scherno e io divenni per tutti Mastro Titta, con quel modo tipico degli abitanti di Roma di troncare e storpiare parole note per trasformarle in parole nuove che solo chi è romano può interpretare. Non ho mai compreso questo modo di fare, conobbi dei veneziani a Senigallia ed ebbi difficoltà a comprenderli, non perché facessero un vezzo del parlar male, ma perché la lingua è diversa come poteva esserlo la bella lingua melodiosa di Iara. Ma i romani no, i romani non hanno un loro linguaggio e forse orgogliosi come sono invidiano ad altri questa peculiarità. Io credo che l'appropriarsi del toscano storpiandolo dia ai poveracci l'idea di essere colti e ai signori l'illusione di appartenere ad un' élite e non ad una popolazione meticcia e imbastardita nei secoli dai processi della storia.
Il timore e l'orgoglio ferito di questa gente che pretende di essere ancora caput mundi, mi segnò per sempre, non fui più semplicemente Vanni per nessuno, per tutti fui solo Mastro Titta, il boia di Roma. E allora giocai con loro, mostrai loro un personaggio che potessero riconoscere e disprezzare, forse sperando di difendere il vero Vanni dal loro scherno. Iniziai a vestirmi come un signore ogni volta che passavo ponte4 e a coprire i miei abiti buoni, che nascondevano le origini contadine, con una lunga e pesante cappa rossa. Il rosso scarlatto che mi ammantava indicava a tutti che Mastro Titta veniva in città per compiere il suo dovere, frotte di ragazzini mi seguivano come in processione lungo le strette vie del centro ma anziché salmodie sacre canticchiavano filastrocche oltraggiose esorcizzando in questo modo la paura. Nessun bambino si avvicinava mai troppo, sebbene seppi in seguito che molti vantavano, mentendo di avermi tirato il mantello.
Divenni il mostro sotto il letto per tanti ragazzini, genitori impazienti usavano spesso il mio nome come minaccia e a quel nome anche i bambini più indisciplinati immagino cedessero: “Se non smetti di piangere chiamo Mastro Titta!”

Nei lunghi giorni in cui invece non mi era consentito passare il ponte, vestivo di scuro in modo ordinario sperando di passare inosservato il più a lungo possibile, ma concedendomi sempre il vezzo di portare con me un oggetto o un capo raffinato, un orologio da taschino o una camicia di seta, quel tanto che bastava per ricordare a me stesso la strada percorsa, quel tanto necessario per dimostrare di essere uscito dal fango ed essere infine divenuto migliore di mio padre.
Fu difficile trovare un orecchio amico e per lungo tempo l'unico a prestarmi ascolto fu il mio confessore, ma la mia vita era vuota e monotona quali peccati avrei mai avuto occasione di commettere? Fui tentato a volte dalle case di piacere ma fermo sull'uscio non fui mai capace di convincermi ad entrare. Sulla soglia il puzzo vizioso di quei posti mi dava la nausea, ricordavo il profumo speziato della pelle di Iara e un senso di malessere s'impossessava di me trascinandomi ogni volta verso casa, sempre più solo.
Conobbi dopo qualche anno un uomo di Napoli, anche lui costretto a Roma per lavoro. L'uomo si chiamava Francesco e io lo conobbi perché teneva una botteguccia di ombrellaio proprio difronte al palazzo in cui vivevo.
Passai molti pomeriggi alla finestra a osservare il suo lavoro minuzioso e paziente, mi sedevo con un libro aperto davanti e lo sguardo concentrato sulle dita agili dell'artigiano. L'uomo cortese iniziò a salutarmi ogni volta che mi vedeva alla finestra o in strada e un giorno mi invitò a bere un bicchiere di vino. E' così che scoprii che non era il riparare ombrelli il suo ufficio principale, bensì quello di seppellir cadaveri. Mi raccontò dei suoi primi anni a Roma, e mi ritrovai nelle sue parole come stesse raccontando la mai storia.
“La solitudine mi avrebbe fatto impazzire, avevo bisogno di ricordare a me stesso di essere un essere umano e non solo il becchino, volevo tornare ad essere qualcuno con cui parlare non solo quello da guardare con compassione e non prima di aver fatto un qualunque gesto scaramantico. Quindi aprii la bottega, quando la gente ha bisogno di riparare un ombrello fa finta di dimenticare che sono un becchino, viene da me ed è cortese perché spera di strappare un prezzo migliore.”
Mi offrii come aiutante per la bottega e lui accettò di buon grado, scherzammo spesso sulla nostra strana associazione, un boia e un beccamorto che riparano ombrelli per poter vivere. Ma non era denaro che cercavamo, il nostro poter vivere era legato ad altre necessità e riuscimmo a sostenerci vicendevolmente per lunghissimo tempo.
La mia routine si fece più piacevole, iniziai a inventare piccoli rituali che mi rendessero agli occhi del popolo più gradevole, iniziai a riservare ai condannati dei piccoli gesti gentili, offrire una presa di tabacco o un bicchiere di vino divenne la mia firma, ma mi piaceva sorprendere, lasciai a volte il condannato parlare con i cari per un'ultima volta, altre volte ascoltai un ultimo desiderio o concessi loro di dire qualche parola. Scoppiò qualche tafferuglio a volte poiché i condannati sono spesso pieni di rabbia e non accettano la gentilezza di buon grado, ma questo mi lasciava indifferente, avevo un'idea di me ben precisa e a quella volevo tenere fede, non importava davvero la risposta degli altri. Infondo se avessi temuto il giudizio del popolo avrei indossato un cappuccio in testa, come erano soliti fare i miei predecessori in giorni lontani, non certo uno sgargiante mantello scarlatto. Io non avevo nulla di cui vergognarmi.
Mi tornavano alla mente ogni tanto le parole di Tessa e pensieri inaciditi mettevano allora in subbuglio lo stomaco, ma tutto intorno a me concorreva nel farmi tornare presto sereno e rassicurato.
Divenni un vorace lettore del Don Pirlone, un giornale satirico che i miei superiori non avrebbero visto di buon occhio ma che io amavo irrazionalmente. Mi piaceva la franchezza e il coraggio di quei giornalisti, ridevo dell'irriverenza dei disegnatori e amavo poterne parlare con Francesco che condivideva la mia inclinazione. La cosa che più amavo del giornale era la propensione nel dipingere il diavolo come un giustiziere, la logica del contrappasso faceva del demonio un giudice imparziale che condannava ciascuno in modo appropriato, che fosse cardinale o re, imperatore o Papa. Mi piaceva immaginarmi un po' come il demonio dipinto dal Don Pirlone, quand'anche il mio operato non risultasse giusto agli occhi degli uomini, come Tessa sosteneva, sarei comunque stato strumento per una giustizia più alta che agli uomini non era dato di comprendere.
Nonostante fossi certo che non l'avrei mai più rivista Tessa giunse di nuovo a sconvolgere la mia vita. La trovai un giorno ai piedi del patibolo con il volto sbiancato dopo aver assistito all'esecuzione e con uno sguardo insondabile. L'emozione mi tolse la voce e come qualche anno prima a Senigallia ci guardammo a lungo senza dire una parola. Non ci furono abbracci però questa volta solo poche parole pronunciate a bassa voce.
Era giunta a Roma da una settimana e immaginava di rimanervi ancora per il mese successivo, mi chiese di vederci l'indomani, voleva cancellare dagli occhi la scena appena vista prima di potermi parlare. Le spiegai che non mi era consentito entrare in città e nel suo sguardo lessi compassione e tenerezza, non so se fu speranza o orgoglio quello che mi scaldò il cuore, in ogni caso le diedi il mio indirizzo e me ne andai lasciandola lì, come lei aveva fatto con me in passato.
Il giorno dopo mi svegliai ben prima dell'alba e mi preparai con cura, non aveva senso tutta quell'emozione non ero più un bambino, erano passati poco più di 10 anni dall'ultima volta che l'avevo vista. Il mio cuore era ormai indurito e sordo all'amore, o così credevo, eppure il palpitare e la speranza dell'attesa mi fecero dimenticare presto le rughe sul viso e i primi capelli bianchi. Tornai ragazzo, tornai alle notti della Fiera come sempre, tornai a desideri carnali che credevo non mi appartenessero più. Attesi a lungo con ansia crescente, scesi in bottega e rimasi sulla soglia incapace di lavorare e incapace di distogliere lo sguardo dalla via, tanto che Francesco iniziò ad insospettirsi e predisse facilmente il coinvolgimento di una donna in quel mio strano atteggiarmi.
Quando la vidi avanzare tra quelle case ormai familiari per me, tutto assunse un'aria incantata. Lei non apparteneva a quelle strade acciottolate, a quelle vie strette, a quelle case alte, doveva essere un sogno. Eppure si diresse verso di me. Mi salutò senza sorridere e mi seguì in casa dopo aver salutato gentilmente Francesco.
Sapevo che se ci fosse stato qualcuno interessato alla nostra moralità, quel nostro nasconderci dietro porte chiuse sarebbe stato condannato senza appello, ma nessuno conosceva Tessa e nessuno avrebbe avuto il coraggio di obiettare sulla mia condotta, salii quindi le scale a cuor leggero, almeno questo riguardo.
Una volta entrati in casa Tessa iniziò a guardarsi attorno stupita, la casa era grande, pulita e ordinata, sapevo che potesse non sembrare la casa di un uomo solo.
Si affacciò ad una delle finestre e ammirò con gli occhi sgranati la maestosità di Castel Sant'Angelo. Fui grato al chiasso di Roma che copriva i suoni angoscianti che raggiungevano invece la casa con il silenzio della notte, io ero ormai accostumato a tale orrore ma la presenza di Tessa mi rendeva di nuovo tristemente consapevole delle brutture che mi circondavano, sperai che lei riuscisse invece ad ignorarle.
La feci accomodare e le offrii da bere. Il suo silenzio mi rendeva nervoso e iniziai a porre le solite domande i soliti convenevoli, che stonavano tanto tra noi due da darmi il mal di testa.
Ad un tratto chiese: “Come stai?” E fu una domanda vera, una domanda che pretendeva una risposta. Fui sincero, non nascosi niente, mio padre avrebbe riso della mia debolezza ne sarebbe rimasto disgustato. Un uomo non deve essere fragile e se lo è deve nasconderlo, altrimenti che razza di uomo può mai essere? Ma mio padre era ormai lontano, stava morendo, mia sorella Clara me ne aveva scritto tempo addietro e io ero in ogni caso divenuto migliore di lui, finalmente libero di essere ciò che volevo.
Mentre parlavo Tessa si era fatta più vicina fino ad arrivare ad essere in ginocchio davanti alla poltrona in cui ero sprofondato. Alzò una mano e mi accarezzò il viso dicendo: “Non sei più un bambino.”
Tremavo, e sapevo che anche lei poteva sentirlo ma non c'era niente che potessi fare per impedirlo,quindi dissi solo con voce altrettanto tremante: “Neanche tu lo sei. Sei sempre più bella.”
La vidi irrigidirsi e farsi indietro, tornò a sedersi sulla poltrona davanti alla mia e iniziò finalmente a parlare.
Mi disse che suo padre era morto e che Raniero aveva preso il suo posto, il controllo del fratello era divenuto opprimente così aveva preso denaro e gioielli ed era fuggita. Sperava di raggiungere Venezia e d'imbarcarsi per una terra lontana, non lo disse ma io sapevo che Madeira, il paradiso, era senza dubbio la sua meta segreta. Invece a Ferrara si era imbattuta in una allegra comitiva di Inglesi giunti in Italia per il Grand Tour, si era unita a loro ed era giunta a Roma, con una donna di nome Isabelle, aggiunse e fui io ad irrigidirmi allora. Mi alzai dalla poltrona sbraitando.
“E hai pensato bene di venire a Roma! Nella città del Papa! Credevo fossi cresciuta, credevo avessi messo un poco di giudizio, invece niente è cambiato, viziata e irriverente come sempre.”
Anche Tessa si alzò di scatto pronta a lasciare la casa ma non volevo vederla andare via di nuovo, sarebbe stato per sempre quella volta, ne ero certo. Le afferrai un braccio e ripresi a parlare con tono conciliante. “E' pericoloso, rischiate la tortura e chissà cos'altro. Non troppo tempo fa un uomo è stato condannato per sodomia, non oso immaginare cosa farebbero ad una donna.”
Tessa sembrava essersi calmata, si era voltata verso di me e nei suoi occhi potei leggere un'infinita tristezza. “Devi proteggerti, la strada che hai intrapreso è pericolosa, se questo è ciò che vuoi devi essere molto attenta.”
A quel punto appoggiò la testa contro la mia spalla e sospirò: “Non credo di avere scelta, ho sperato di averne, ma non è così. Sono un abominio, lo hai detto anche tu, ma non posso essere niente di diverso.”
Sentii la vergogna strapparmi la pelle dal viso, come avevo potuto essere tanto meschino?
Cedetti alla tenerezza e l'abbracciai, le accarezzai la testa e la schiena, la seta dei capelli e del vestito si confondeva tra le mie dita risvegliando la sensazione di essere immerso in un sogno. All'improvviso seppi cosa fare.
“Sposami.” Dissi all'improvviso e il suo viso, ad un tempo scioccato e divertito, divenne tanto simile a quello della bambina che conoscevo da fare male.
“Dico davvero, se mi sposassi saresti al sicuro dalle malelingue, sarei io il guardiano della tua condotta morale e sai che non ti farei mai del male.”
Tessa soppesò le mie parole senza allontanarsi da me, stringerla tra le braccia tanto a lungo è quanto di più eccitante sia accaduto negli ultimi 60 anni della mia vita.
“Ma tu verresti eventualmente coinvolto in uno scandalo.” L'obiezione esitante mi disse che la proposta aveva qualcosa di accettabile e sentii il corpo attraversato da una scossa.
“Finché rimarrò Mastro Titta, nessuno oserà procedere contro di me.”
Si allontanò a quel punto lasciando le mie braccia cingere l'aria deluse. Temetti di nuovo la sua condanna ma non fu disgusto quello che lessi quella volta nei suoi occhi bensì pietà e mi ferì altrettanto.
“Non posso farlo, tu mi ami.” Quella spiegazione era tanto semplice che colpì anche me. Non avevo mai parlato dei miei sentimenti ma non era stato necessario, lei aveva sempre saputo e allora perché non essere ancora una volta una delusione per mio padre ed essere completamente onesto?
“Certo, ma ti amerei comunque, preferisco non essere corrisposto e saperti al sicuro che non esserlo e temere per la tua vita.”
Un sorriso esplose sul tuo viso illuminando l'intera stanza. “Ne parlerò con Isabelle. La incontrerai? Ti piacerà, è una donna colta e intelligente.”
Rividi nelle sue parole l'entusiasmo delle nostre avventure estive e sentii il dolore depositarsi lento sul cuore, come un masso che affonda nell'acqua.
Prima di lasciarmi mi abbracciò ancora e mi posò un leggero bacio sulle labbra. Per lei fu un gesto leggero dettato dall'euforia di una nuova speranza, ma io sentii il cuore pronto ad uscire dalle labbra appena dischiuse.
L'intero incontro durò forse poco meno di un'ora ma come nei sogni il tempo era trascorso in modo bizzarro e aveva lasciato la sensazione di qualcosa di bello ma indefinito. Nel voler dare sostanza alla sensazione rischiavo di distruggere tutto e vederla svanire, ma non sapevo come mettere a tacere la speranza di vedere di nuovo Tessa far parte della mia vita, la speranza di allontanare per sempre la solitudine e nel modo migliore possibile.
Le incontrai qualche giorno dopo in una casa sul Gianicolo, una villa di gran lusso immersa nel verde e piena di ospiti provenienti da ognidove.
Nonostante i molti ospiti la casa era immersa nella quiete. Non seppi mai chi fossero i padroni di casa, nessuno mi accolse se non Tessa, inquieta e impaziente quanto me. La donna che rispondeva al nome di Isabelle, parlava una lingua rotonda e indecifrabile e quand'anche le parole usate erano a me note il suo modo di pronunciarle ne rendeva difficile la comprensione. Tessa sembrava abituata a quel modo di parlare insolito e sembrava aver appreso anche la lingua dell'isola di Albione, non dimostrava quindi le mie stesse difficoltà nel dialogare con la nostra ospite.
Anche i suoi modi sostenuti erano una barriera per me, non ero abituato ad una cortesia tanto artefatta e mi sentii presto a disagio e inadeguato. L'incontro fu fortunatamente breve e quando Tessa mi riaccompagnò al cancello sentii le mie speranze prendere corpo nelle speranze di lei.
Ricevetti alcuni biglietti da lei nei giorni successivi, il matrimonio sembrava sempre più una prospettiva reale, il pensiero era sopraffacente per me. Non solo il cuore traboccava di aspettative nonostante la natura poco romantica dell'accordo, ma da qualche parte il contadino che era in me esultava per essere riuscito a ribaltare le convenzioni e il proprio stato accingendosi a sposare la figlia del padrone.
Tutto in me concorreva a far crescere una felicità pura e perfetta sorda ai richiami della ragione e del buon senso, per non dire ai precetti di Dio. Tacqui a Francesco i miei propositi e questo fu l'unico gesto assennato che feci in quei giorni folli, lui attribuì comunque la mia allegria alla visita della bella signora ma non fece domande e gliene fui grato. Non era passato un mese quando giunse un altro biglietto da parte di Tessa, fu forse per la grafia insolitamente spezzata con cui il mio nome e indirizzo erano vergati che aprii la lettera con timore. Il presagio si dimostrò corretto, nella lettera vi era solo il ritaglio di un gazzettino e poche parole.
Il gazzettino riportava l'illustrazione di un'esecuzione che avevo portato a termine qualche giorno prima, nel disegno c'ero io e tenevo per i capelli e mostravo alla folla la testa mozzata di una donna.
Sul bigliettino vi era scritto solo: Non posso, mi dispiace.

Non ebbi mai più altre notizie da Tessa finché visse.
Ripresi la mia routine con più meticolosità che in precedenza, abbandonai ogni stravaganza nello svolgimento del mio ufficio, eccezion fatta per il mantello rosso con il quale continuai a sfilare per le strade di Roma. Divenni metodico e ordinato, quando dopo qualche anno il cardinale Consalvi tornò in carica fu orgoglioso di me e, come scoprii qualche anno più avanti, mi destinò una pensione che avrebbe dovuto sostenermi negli anni della vecchiaia o in ogni caso quando il lavoro sarebbe diventato troppo duro per me.
Accettai tutti gli incarichi che mi venivano proposti richiedendone anzi sempre di nuovi, viaggiai molto e portai a termine numerose esecuzioni, sono stato il più prolifico boia dello stato pontificio, dicono di me in questi giorni e non so ancora se l'intento sia celebrare o additare. Fui bravo nel mio lavoro come pochi, anzi, come nessuno.
Trascorsi la mia vita tra la forca, la mia stanza e la bottega dell'ombrellaio. Quando Francesco lasciò Roma per far ritorno a Napoli non provai nulla, ero già assuefatto a tutto, ma presi un aiutante perché il lavoro iniziava a farsi pesante e le giornate troppo lunghe. Nello scrivere queste memorie c'è forse un solo altro fatto da annotare, l'unica cosa che risalti in una vita sempre identica a se stessa, ma c'è da dire che in pianura un covone di fieno sembra una collina.
Circa dopo 15 anni dall'ultimo fatto narrato ricevetti una lettera da Senigallia, non era di Clara, sebbene dalla morte di nostro padre fosse diventata una corrispondente piuttosto costante, ma di Raniero. Dopo la notte in cui mi aveva consegnato a mio padre infiniti anni prima non avevo più avuto sue notizie, leggere il suo nome mi sorprese quindi e con ogni ragione.
Scorsi velocemente la lettera e scoprii che Tessa era tornata a casa 15 anni prima, aveva chiesto scusa e aveva finalmente acconsentito a sposarsi. La ricca dote le procurò presto diversi pretendenti, nonostante l'età avanzata e la vita non irreprensibile. Sposò un mercante, ricco ma non propriamente signorile e si trasferì a Camerino. Raniero scriveva perché quel lestofante aveva ucciso Tessa ed era in attesa di essere giustiziato.
La lettera non lo diceva ma io potei intuire che il delitto aveva preso le mosse dalla particolare inclinazione di Tessa di cui il marito doveva essere venuto a conoscenza, forse nel modo peggiore. Ciò che non capivo era perché Raniero avesse deciso di farmi avere la notizia. Pensare Tessa morta mi lasciò indifferente come era stato per la partenza di Francesco, unico amico della mia lunga vita a Roma. Leggendo la lettera e comprendendone il significato iniziai a credere che il mio cuore fosse già morto, ma anche questo pensiero mi lasciò indifferente.
Richiesi l'incarico e mi recai a Camerino. Il viaggio era ormai parte della routine della mia vita, ma questa volta non chiesi a Vincenzo, il mio giovane aiutante, di accompagnarmi.
Raggiunsi Camerino il giorno stesso dell'esecuzione, come era divenuta mia abitudine. Il patibolo era allestito ed era stata preparata una ghigliottina piuttosto rudimentale rispetto a quella che ero solito usare a Roma. Chiesi di poter usare l'ascia anziché quell'attrezzo mal funzionante e ovviamente venni accontentato. Avevo ormai ben più di cinquanta anni allora e avevo già giustiziato più di duecento persone, sapevo perfettamente come rendere un'esecuzione rapida e indolore. O come non farlo.
Sollevai l'ascia sopra la testa e vibrai un colpo potente, appena prima di affondare nel collo il braccio si fermò come se agisse di volontà propria, sentii le ossa spezzarsi e l'uomo gridare. Il sangue iniziò a zampillare allegro come una fontana in un giardino d'estate. Eppure il colpo non era stato decisivo, la testa era ancora attaccata al collo e l'uomo era ancora vivo, dai suoni che produceva sembrava stesse annegando nel suo stesso sangue. Occorsero altri due colpi come quello per staccare la testa dell'uxoricida dal suo stesso collo. Poi presi la testa e la mostrai alla folla tra il raccapriccio generale. Vidi Raniero ai piedi del patibolo lo sguardo limpido, non sembrava disgustato ma soddisfatto, avevo portato a termine la sua vendetta. Scesi dal patibolo e mi diressi verso di lui, non dissi una parola posai solo una mano sulla sua bella camicia bianca, imbrattandola con il sangue dell'assassino di sua sorella, poi mi allontanai senza dire una sola parola.
Tornai a Roma e ripresi la mia vita. Officiai ai miei doveri fino ai miei ottant'anni quando mi ritirai nella mia casetta e lasciai anche la bottega di ombrellaio. Lasciai tutto al mio aiutante. Vincenzo è un giovane semplice, non sa leggere e non si fa molte domande, vivrà probabilmente una vita felice, ho sentito che chiamano anche lui Mastro Titta, deve essere l'abitudine oramai dopo tanti anni, forse così anche il suo nome sarà salvo.
Passa da me ogni giorno, è un bravo figliolo, mi porta notizie dalle strade e il cibo che la governante dello stabile cucina per me da sempre. Non esco più di casa volentieri, preferisco rimanere alla finestra e aspettare. Non so cosa aspetto ma mentre lo faccio scrivo, nessuno leggerà mai volentieri le memorie di un boia, qualcuno magari le inventerà per dare di me un'immagine accettabile, l'immagine del boia senza cuore in cui mi hanno trasformato.
Non chiedo niente di diverso, se anzi potessi uscire dalla memoria di tutti sarei felice, scrivo queste pagine per me, perché la durezza del mio cuore di vecchio possa sciogliersi un po' ripensando a quando questa pietra che ho in petto era carne e sangue e palpitava e fremeva e voleva. Ripenso alla mia vita passata, alle occasioni sprecate e quelle colte al volo, ripenso a Tessa, a Iara e alla rigida Isabelle, ma soprattutto ripenso a mio padre.
C'è stato un tempo anni fa, in cui guardandomi di sfuggita allo specchio mi è sembrato di vedere lui, sono tornato indietro di scatto come se invece di essere allo specchio fossi in finestra e potessi, parlando in fretta, fermarlo ed invitarlo ad entrare. Quel misero fatto mi torna in mente spesso ora. Non somiglio più a mio padre, sono ben più vecchio del ricordo che ho di lui, ma ho l'impressione di condividerne il cuore di pietra. Ho iniziato a pensare che forse il disprezzo che mi ha riservato non fosse frutto della distanza che vedeva tra noi, ma della somiglianza. Ho iniziato a credere che mi abbia allontanato perché in me vedeva se stesso, la miseria che lo aveva consumato. Ciò che mio padre non poteva sapere è che agendo così mi avrebbe reso sempre più simile a lui, condannandomi ad un identica miseria.
E' notte ormai, i miei occhi sono ancora buoni ma alla luce mobile della candela fatico a distinguere le lettere su questo foglio. Lascio asciugare l'inchiostro e impilo i fogli che ho riempito oggi. Sullo scrittoio cerco altri fogli, piccoli vecchi e ingialliti. Li stringo in mano senza guardarli lascio invece lo sguardo vagare fuori dalla finestra, verso il cielo. So che ci sono delle stelle in alto ma non posso vederle da qui, Roma è un fiume di luci oramai e nascondono il cielo. Mi piacerebbe tornare a Senigallia e affogare nella luce di miriadi di stelle, mi piacerebbe sentire l'odore del mare impregnare la notte, desidero ardentemente una vita da contadino o almeno vorrei poter morire come tale. Ma questa è la mia casa ora, avrei dovuto fare scelte diverse, vivere una vita diversa per poter sognare una morte diversa. Abbasso gli occhi sulle mani che stringono due foglietti, una miniatura sgualcita e un foglio ingiallito con caratteri sbiaditi scritti sopra.
Non posso, mi dispiace.

 

 

E..caro Mastro Titta, dopo la Rivoluzione francese e l'Impero de Napoleone, che fecero i sovrani tornati a Vienna.?

Dissero: Giovanotti dalla Bastiglia a oggi non è successo niente, se ritorna a Luigi XI. E se rimisero le parucche.

Per cui annullarono tutto, la scienza, le scoperte, le invenzioni, tutto… meno che na cosa: la ghigliottina.

E' l'unica cosa al mondo oggi che non puzza de vecchio, de decrepito, è la ghigliottina.

Voi siete l'omo più moderno de Roma. A mastro Ti, l'avvenire è vostro
Bonanotte popolo.



4: boia nun passa ponte è un modo di dire romano che sta a significare che ciascuno deve rimanere al posto che gli è consono e prende le mosse dall'ordinanza che proibì per primo a Mastro Titta di attraversare il ponte e recarsi in centro città. Di contro “Mastro Titta passa ponte” è divenuto un modo di dire che indica che qualcosa di brutto sta per accadere.


Le citazioni che aprono e chiudono questa storia sono tratte dai dialoghi del film "Nell'anno del Signore"



E' sempre bello pubblicare la fine di una storia e in questo caso sono particolarmente soddisfatta. Questo raccontino è ben lungi dall'essere perfetto, ma scriverlo mi ha divertito ed appassionato e posso dire di apprezzare il risultato, per quanto senza dubbio migliorabile.

Grazie a Dollarbaby, per il contest che mi ha dato modo di dare sostanza a un'idea che mi tormenta da un tempo indefinito. Grazie soprattutto a quanti hanno letto fin qui.

A.

 

   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Amatus