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Autore: shira21    23/07/2017    1 recensioni
Clay e Shelby si sono avvicinati e poi persi di nuovo. E anche se tutto sembra essere tornato al suo posto, Clay non riesce a dimenticarla. Perché nonostante tutto sa che ormai il suo cuore appartiene solo a lei.
[La storia si colloca alla fine dell'episodio 2x21]
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Caleb Haas, Shelby Wyatt
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Clay si passò nervosamente le dita tra i capelli ormai troppo lunghi. Non sapeva neanche lui perché aveva deciso di partecipare a quella cena di famiglia… anzi, no, lo sapeva. Non voleva deludere la madre che aveva già dovuto affrontare troppo negli ultimi mesi.
Questo però non significava che fosse felice di doversi sedere accanto a suo fratello, per qualche motivo gli veniva da stringere la mascella e digrignare i denti solo a guardarlo.
Dopo la morte di Henry Roarke le cose avevano lentamente iniziato a tornare alla normalità, per quanto si possa parlare di un simile concetto in politica. Non solo ma al suo fianco c’era di nuovo Maxine; quella santa ragazza l’aveva perdonato e accolto a braccia aperte ma qualcosa tra loro ormai si era rotto.
Si portò il suo drink alle labbra cercando di non berlo in un sorso solo come un alcolista mentre con l’altra mano continuava a torturarsi i capelli. La neve fuori aveva già iniziato a cadere ricomprendo le strade di New York ma Clay non riusciva a trovare pace. Avevano vinto la loro battaglia… perché allora si sentiva come se avesse perso?
Ecco qual era il suo problema degli ultimi mesi: poteva fingere che andasse tutto bene eppure si sentiva distrutto, un uomo a un passo dalla follia.
«Sai fratellone, se continui a guardarla così penso che anche la neve inizierà a prendere le distanze da te!»
Eccolo lì, Caleb, suo fratello. Clay strinse così forte il bicchiere che solo per miracolo riuscì a non mandarlo in frantumi. Non si girò nemmeno a guardarlo, il suo riflesso sulla finestra gli bastava. «Perché non vai ad infastidire qualcun altro?»
Caleb rise soltanto, la voce resa roca dai troppi vizi che aveva abbandonato di recente. Distrattamente Clay si chiese se avesse smesso per lei ma scaccio subito quel pensiero dalla testa come ogni volta che il suo nome s’infiltrava tra i suoi pensieri. Era stata abbastanza chiara che non volevano la stessa cosa. Lui voleva lei, lei voleva Caleb.
Sulla finestra le loro immagini erano più vicine di quanto non fossero mai stati loro e Clay, per la milionesima volta, si chiese cosa avesse in più suo fratello. Fisicamente erano simili: entrambi biondi, con gli occhi chiari e il fisico formato da duri allenamenti. Ma Caleb era quello spensierato, quello a cui riuscivi a fargli indossare abiti formali solo sotto tortura, quello con la battuta sempre pronta, gli occhi ardenti di una passione a volte un po’ troppo fanciullesca. Un moderno Peter Pan. Mentre lui cos’era, si chiese Clay? Cosa vedevano gli altri quando studiavano i suoi capelli pettinati perfettamente, i completi su misura e il portamento rigido?
Non era così sicuro di volerlo sapere. «Perché ho la sensazione che vorresti prendermi a pugni?»
Perché era vero, si disse Clay tra sé e sé ma al fratello non disse nulla. Si limitò a stringere la labbra fino a trasformale in una linea dura.
Ma Caleb non era mai riuscito a seguire i segnali, neanche quelli più evidenti. Motivo per cui invece di tornare da basso dove erano tutti riuniti, si buttò su una della alte poltrone.
«Spiegami perché la sera di Natale invece che stare con la tua splendida fidanzata sei qui a bere, al buio e tutto solo». La voce era canzonatoria come sempre ma Clay colse anche una punta di preoccupazione nella sua voce. Finalmente si girò a guardarlo. Raramente Caleb si preoccupava per la sua famiglia ma, quando lo faceva, diventava impossibile sfuggirgli.
«Non vedo perché dovrei darti spiegazioni» la sua voce bassa e rauca si perse nella stanza. «Piuttosto perché sei qui? La tua ragazza non ti voleva con intorno durante le feste?»
«La mia ragazza? Intendi Jessica?»
Clay a quelle parole quasi fece cadere il bicchiere per terra. «Jessica? Io parlavo di Shelby!» E quel nome aveva ancora la forza di fargli contrarre lo stomaco. Se chiudeva gli occhi poteva vederla: bella come un angelo, forte come un soldato, appassionata come un amante.
Qualcosa nel suo volto doveva averlo tradito perché per la prima volta in tutta la serata Caleb divenne serio mentre si raddrizzava e lo guardava negli occhi. «Io e Shelby non stiamo insieme da molto tempo» gli rispose quasi scandendo le parole, valutando la sua reazione. E la sua reazione fu, semplicemente, che di colpo non riusciva più a reggersi in piedi.
«Io vi ho visti insieme, ricordi? Quella famosa mattina quando eravamo ancora alla Tana» gli tremavano le mani talmente forte che dovette appoggiare il bicchiere. «E dopo mi ha detto che stavate facendo piani per il futuro e che eravate felici».
Caleb non parlava, si limitava a guardarlo. E probabilmente quello che vedeva rivelava la natura dei suoi sentimenti.
«Sei innamorato di lei». Non era un domanda, solo una brutale e schietta considerazione. «Non ci credo, un altro Haas è caduto nella sua rete», non aveva ancora finito di parlare che Clay si era alzato in piedi e l’aveva sollevato per il bavero della camicia. «Non parlare di lei in questo modo! Non è una seduttrice implacabile esattamente come tu e nostro padre non eravate delle vittime innocenti».
«Io, nostro padre… e tu, vorrai dire?»
In tutta la sua vita Clay non aveva mai desiderato uccidere nessuno quanto suo fratello in quel momento ma comunque lo lasciò andare perché in fondo non aveva torto, almeno l’ultima frase.
Caleb si massaggiò il collo esagerando il gesto, una smorfia sul suo bel volto da ragazzo. «Metteresti tutto in gioco per lei? Il tuo fidanzamento con Maxine, il rapporto con nostra madre, la reazione della stampa, lo scandalo, probabilmente anche la tua carriera… tutto?»
Ma Clay non aveva una risposta a quello. Sapeva solo che la donna di cui era innamorato aveva i capelli biondi e due grandi occhi verdi. E gli aveva mentito per tutto quel tempo!
Caleb scosse la testa e si diresse verso la porta ma prima di uscire si girò a guardarlo. Quello che Clay lesse nei suoi occhi era molto simile alla compassione. «Non so perché te lo sto dicendo ma quel giorno io e Shelby abbiamo solo fatto finta di essere andati a letto insieme. A parte pochi messaggi non ci siamo più sentiti e l’ultima volta che siamo stati insieme frequentavamo ancora Quantico.»
Fece per aggiungere altro ma poi ci ripensò ed uscì semplicemente dalla stanza.
A Clay girava la testa e non certo per l’alcool che aveva bevuto. Cosa diamine significava quello aveva appena sentito? Si sentiva stordito e allo stesso tempo pieno di energie.
Senza neanche fermarsi a pensare, scese da basso e prese il suo cappotto.
«Chissà perché ma mi aspettavo questa fuga già dopo la prima settimana». Sulla soglia c’era Maxine, i capelli scuri raccolti in uno chignon e indosso un semplice vestito bianco. Era bellissima, dovette ammettere Clay ma il suo cuore non prese a battere più veloce solo con la sua vicinanza, non gli venivano in mente decine di modi su come baciarla fino a toglierle il fiato.
«Io… non ho scuse, Maxine».
«No, è vero non ce le hai. So che non mi ami più. O comunque non come prima di lei», i suoi occhi si riempirono di lacrime e Clay si sentì uno stronzo. «Però almeno potevi dirmelo».
Clay aprì la bocca per dire qualcosa, neanche lui sapeva cosa, ma lei alzò la mano bloccandolo, le lacrime che già avevano iniziato a scendere. Si rigirò l’anello intorno al dito mentre parlava veloce «Sai era sconvolgente come gli unici ad non accorgersi di quello che stava succedendo foste voi. Quando venne a supplicarmi di crederti e perdonarti, dopo che tu avevi usato il nostro fidanzamento come scusa per il tuo lavoro, parlava come una donna innamorata che si stava strappando il cuore dal petto e tu… oh, Clay neanche ti rendi conto di come la guardavi, di come cambi voce quando parli di lei o, meglio, quando cerchi di non farlo…». La voce di Maxine era un tremito e alla fine si sfilò l’anello per porgerglielo, il dolore dipinto in volto. «Non avremmo neanche dovuto riprovarci una seconda volta… la minestra riscaldata non piace a nessuno, giusto?»
Clay non sapeva più che dire, si sentiva completamente diviso ma neanche questa volta lei lo fece parlare «Addio, Clay».
Lui allungò una mano e se la tirò contro il petto, in un ultimo abbraccio. Era sempre stato bravo con le parole ma, quella sera, quest’abilità sembrava averlo abbandonato. Appoggio la testa sulla cima dei sui capelli, il suo profumo che conosceva bene, prima di sussurrarle «Ti voglio bene, Maxine». Perché era vero, le voleva davvero bene. Ma non l’amava più.

Clay sentiva tutti i muscoli contratti. Aveva guidato per quasi sei ore e alla fine eccolo, in piena notte, davanti all’accademia del FBI. In quei mesi non aveva potuto fare a meno di cercare informazione su di lei e quando aveva saputo che era diventata un istruttrice a Quantico il suo primo istinto era stato andare da lei. E ora che l’aveva fatto non sapeva neanche cosa le avrebbe detto e come lei avrebbe reagito. In realtà non sapeva neanche se fosse ancora all’accademia.
Alla guardiola, l’agente di turno era non poco stupito che fosse lì ma quando gli disse che era lì per parlare con un istruttrice, grazie al cielo, non fece ulteriori domande. A quanto pare essere il figlio dell’ex Presidente aveva molti vantaggi come quello di essere riconosciuto come a capo di una task force di agenti della CIA e del FBI.
I corridoi erano vuoti e silenziosi e lui teneva tra le mani il foglietto su cui la guardia gli aveva scritto, forse con troppa facilità, il numero della stanza di Shelby.
Arrivato davanti alla porta bussò piano un paio di volte e dall’altra parte sentì, dopo mesi, la voce che popolava i suoi sogni e i suoi incubi. «Raina, entra pure», nonostante lui non fosse chi si aspettava non si mise a discutere ma aprì semplicemente la porta. Shelby era sdraiata a pancia in giù sul letto, con indosso nient’altro che una maglietta troppo larga mentre sfogliava distratta alcuni fascicoli «Raina, non ti aspettavo così presto…», alzò gli occhi e appena lo vide le parole gli morirono sulle labbra.
Vide il suo volto perdere tutto il colore mentre gli occhi parvero diventare ancora più grandi. Nel tempo di un battito di ciglia era in piedi, l’espressione sconvolta.
«Clay, cosa ci fai qui?»
«Mi hai mentito», non erano certo queste le prima parole che voleva dirle ma furono comunque quelle che gli vennero fuori. Lei si portò una mano al petto. «Mentito? Non capisco neanche a cosa ti riferisci… hai bevuto per caso?»
«In realtà, sì. Ma mi riferisco riguardo a te e Caleb.»
A quelle parole, se possibile, Shelby sembrò diventare ancora più pallida. Si mise a giocherellare con i lunghi capelli, di colpo incapace di sostenere ancora il suo sguardo «Te l’ha detto, quindi?» Se non ci fosse stato quel silenzio intorno loro, Clay non l’avrebbe neanche sentita talmente parlava piano.
«Perché?» Le chiese Clay passandosi la mano tra i capelli. Era quella la domanda che si era fatto in sei ore di macchina. Perché l’aveva ferito in quel modo? Perché l’aveva costretto a fingere di non provare nulla per lei? Solo, perché?
Ma Shelby scosse la testa, incapace di dire un'altra parola senza mettersi a piangere. Se n’era andata da New York perché vederlo con Maxine era come continuare a togliere la crosta a una ferita profonda e dolorosa. Anche il solo fatto di stargli di nuovo vicina e sentire tutta la sua attenzione su di sé bastava a farla innamorare di nuovo.
Clay però non accettava un no come risposta e, in pochi passi, fu davanti a lei «Shelby, guardami». Era il tono di un uomo abituato a farsi obbedire ma lei continuava a rifiutarsi di farlo; se avesse ceduto non avrebbe più potuto nascondere i suoi sentimenti. «Shelby!»
«No, Clay. Non ho nulla da dirti e ora per favore esci dalla mia stanza» anche se la voce tremava in una semplice mossa riuscì a sgusciare lontana fino alla porta che aprì come se da quel gesto dipendesse la sua vita o, più probabilmente, il suo cuore. Ascoltò i passi di lui avvicinarsi ma quando fu di nuovo a un soffio da lei, chiuse di botto la porta. Le prese i polsi con una mano mentre con l’altra le sollevava il mento, costringendola a guardare il mare blu dei suoi occhi, la perfezione che tanto amava del suo viso. Nonostante i suoi gesti fossero stati bruschi, la sua presa era gentile, delicata; grazie al suo addestramento si sarebbe potuta liberare facilmente, lo sapevano entrambi, ma non lo fece. Desiderava, anzi, bramava disperatamente sentire anche solo per un attimo ancora il calore della sue dita sulla sua pelle.
Un attimo e poi basta, pensò Shelby.
Ma l’attimo passò e lei era ancora tra le sue braccia, le mani dietro la schiena e il volto accanto a quello di lui.
«Perché?» Le chiese di nuovo lui, le labbra a pochi centimetri dalle sue; così vicine che lei poté sentire il gusto di tutto il dolore contenuto in quelle sei lettere; un dolore troppo simile a quello che la straziava da mesi. E quando rispose aveva gli occhi bagnati dalle prime lacrime, lacrime di pura frustrazione, e la voce che le graffiava la gola.
«Perché? Perché mi avevi chiesto di non prenderti se cadevi, di allontanarmi da te, di farmi odiare di nuovo. E io ho fatto tutto quello che mi hai chiesto. Perché ogni volta che parlavo di Caleb tu mi allontanavi un po’ di più… mi odiavi un po’ di più!»
Clay sgranò gli occhi. Come aveva potuto essere coì cieco?
Con le nocche le accarezzò delicatamente la pelle serica, asciugando quelle due lacrime solitarie che scendevano sulla sua guancia.
«Scusa» mormoro Clay. Aveva dato di nuovo la colpa a lei quando invece era soltanto sua.
Sentì le dita di lei sfiorare le sue, pur senza liberarsi ancora. «L’ho fatto perché era quello che volevi ma, Clay? Me ne sono andata perché era la cosa migliore per me».
«Davvero tu stai meglio lontana da me? Guardami e dimmi che tu non ti senti persa, a pezzi, quando siamo lontani e me ne andrò!» Quasi urlava Clay tanta era la sua urgenza di dire quelle parole.
Shelby rimase a fissarlo per quello che gli sembrarono ore e non pochi secondi. «Non voglio mentirti, quindi non posso dire quelle cose». Un pizzico di speranza si riaccese dentro di lui, subito spenta dalle sue parole successive «Ma non posso stare accanto a qualcuno a cui vado bene solo perché la mia reputazione è già stata infangata e non subirà danni. O solo perché vuole quello che non può avere. Per una volta nella mia vita, voglio un uomo che voglia solo me, Shelby Wyatt; non l’agente, non l’ereditiera, non l’eroina, non la sfasciafamiglie… solo io!»
Quando finì di parlare ansimava leggermente ma stavolta non distolse lo sguardo. Clay in quegli occhi dolci scorse la scintilla di una sfida, una sfida ad andarsene, a battere in ritirata.
Un lento sorriso si disegno sulle sue labbra cogliendo impreparata Shelby. Clay avanzò di qualche passo finché la schiena di Shelby andò a sbattere contro la porta e, poi, un altro passo ancora fino a quando tra i loro due corpi non sarebbe passata neanche una linea d’aria. «Non posso farlo» le disse lui. Shelby avrebbe voluto piangere, prenderlo a pugni e urlare ma era abituata a dissimulare e si accontentò di abbassare lo sguardo. Ma Clay ancora una volta non glielo permise; la costrinse ad osservare quel sorriso da perfetto politico, quell’aria perfetta con poche minuscole crepe… ogni lineamento di un volto che conosceva meglio del proprio.
«Non posso fare quello che mi chiedi» e lei si chiese perché inferisse in quel modo e fece per dimenarsi. Ma quando lui riprese a parlare ogni sua cellula sembrò immobilizzarsi. «Non posso perché voglio il pacchetto completo. Mi sono innamorato della donna, dello stratega, dell’agente… di ogni singola sfaccettatura della tua mente».
E dalle labbra di Shelby riuscì ad uscire soltanto un «Oh».
Poi Clay fece quello che sognava da troppo tempo e appoggiò le labbra sulle sue. Le liberò i polsi per stringerla ancora più vicina mentre sentiva la sua bocca cedere al suo assalto appassionato. Lei sposto le mani intorno al suo volto, accarezzandogli con i polpastrelli i capelli, sfiorando ogni centimetro di pelle. Il loro bacio diventata più profondo ad ogni secondo che passava, stingendosi l’uno all’altro come se non fossero mai abbastanza vicini.
Quando si separarono per prendere una boccata d’aria Clay aveva le mani infilate sotto alla sua maglia mentre Shelby si aggrappava alla sua camicia.
«Se è tutto un sogno non voglio più svegliarmi» sussurrò lei ridacchiando. Clay appoggiò la fonte alla sua. Erano alti quasi uguali, avevano meno di dieci centimetri di differenza, e ogni parte dei loro corpi s’incastravano come pezzi di un puzzle.
«Non è un sogno, Shelby. Appena mia madre saprà cos’ho fatto non potrai più dubitarne!» E stavolta le loro risate si fusero in una sola. Entrambi avrebbero avuto i loro drammi con quella storia. Probabilmente avevano più da perderci che da guadagnarci. Ma a tutto quello ci avrebbero pensato alla luce del sole.
In quel momento l’unica cosa che importava a Clay era che Shelby lo stava praticamente trascinando sul suo letto.
Con un sorriso malizioso lei gli si mise a cavalcioni e si tolse la maglia. Lui rimase incantato, le dita che gli fremevano dalla voglia di sfiorare la sua pelle morbida e profumata. Shelby gli prese il viso tra le mani e con assoluta semplicità gli disse «Clayton Hass Jr. ti amo».
E quando la strinse a sé, baciandola con tutto se stesso, finalmente Clay sentì di aver vinto.

   
 
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