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Autore: Chelinde    25/07/2017    1 recensioni
Una piccola raccolta dei momenti che hanno creato la routine all'interno del 221b di Baker Street.
Ho cercato di ricreare nei piccoli spezzati quotidiani di questa raccolta l'ambiguità che caratterizza l'intera serie sulla relazione tra Sherlock e John.
Capitoli:
1-Di strane sorprese e di gusti assurdi
2-Di incubi e musica
Genere: Comico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Prompt suggerito da scorpio 17 (https://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=502925) che mi ha contribuito alla creazione di un mio nuovo headcanon
Ambientazione: Tra il secondo ed il terzo episodio della seconda serie (2x02 e 2x03), solo perchè c'è una citazione dal Mastino di Bakesville
Personaggi: John Watson & Sherlock Holmes


2-Di incubi e musica
 
John aprì gli occhi, davanti a lui vi era uno spettacolo a dir poco agghiacciante. Si trovava in mezzo ad una distesa brulla, una delle tante che aveva visto durante la guerra in Afganistan. Si guardò intorno, il cuore che gli martellava nel petto, lo stomaco che gli si contorceva dall'odore della morte, anche volendo non sarebbe mai riuscito a capire quanti morti c'erano in quella singola distesa.
Troppi si disse, perché sì, anche uno solo era sempre troppo.
Fece qualche passo titubante, le gambe che tremavano. Si inginocchiò accanto ad uno di quegli uomini, era disteso prono, le mani del dottore si mossero verso il corpo girandolo permettendogli così di scoprirne il volto. Squittì a tale vista.
Si trattava di un vecchio amico che aveva proprio conosciuto durante la guerra, si chiamava Allan e sul suo volto da giovane uomo sempre allegro ed alla ricerca di cose belle si era ora disegnata un'espressione di puro terrore. La bocca era rimasta spalancata, come a voler fare un'ultimo grido verso quella guerra inutile ed insensata, gli occhi, un tempo così pieni di vita e generosi, erano divenuti vacui e sembravano osservare la volta del cielo azzurro in un'ultima preghiera.
John si osservò le mani che si erano tinte di rosso. Si alzò in piedi inorridito osservandole, spostando lo sguardo da quelle al cadavere, gli occhi che lentamente si riempivano di lacrime davanti alla vista del soldato aperto da più di un colpo d'arma da fuoco e del sangue che lo circondava come un lenzuolo.
Si pulì le mani alla camicia con gesti veloci e rabbiosi, le labbra che si stringevano tra di loro disegnando un'unica linea sottile, quindi tornò a guardare quel campo dove, da non molto, doveva essere finita una sanguinosa battaglia.
Quante persone conosceva su quel campo?
Quante erano morte?
Quante avevano quell'espressione di terrore come Allan?
Quante avrebbero voluto dire qualche ultima parola diretta magari ai propri cari e non ne hanno avuto l'occasione?
Si portò le mani al volto sopprimendo un singhiozzo.
Tutto questo era finito, lui era tornato a Londra, non era più in guerra, non doveva più lottare contro ferite d'armi da fuoco con pochi medicinali e pochissime garze. Era tutto finito. Era tornato a casa ed ora viveva bene, sempre in mezzo ai morti, ma morti ai quali cercava di dare una pace trovando chi li aveva uccisi.
Che pace potevano trovare quei corpi distesi?
Nessuna, era l'unica risposta possibile.
Si asciugò le lacrime che gli avevano bagnato il volto e tornò a guardare quello spettacolo raccapricciante, respirò a pieni polmoni quell'aria che parlava di morte e di dolore, ascoltò con attenzione i gemiti, i lamenti di chi stava morendo agonizzante. Doveva imprimerselo nella testa, doveva ricordare ogni volto, ogni lamento, ogni ferita che non era riuscito a curare, non doveva dimenticare, non poteva farlo per chi era morto lanciando un'ultima preghiera al cielo o per chi era morto con l'orrore negli occhi, per chi, in generale, era morto in quella guerra sciocca ed inutile.
"John?"
A quella voce il cuore gli perse un battito. Si girò lentamente, sentendosi come uno dei personaggi di un film horror pregando di essere in errore, ma era impossibile sbagliarsi sentendo quella voce baritonale.
"Sherlock..."
Sussurrò appena quel nome, la voce che gli tremava, gli occhi che volevano sbagliarsi, desideravano aver confuso l'immagine dell'investigatore con qualcun'altro ed invece era proprio lui.
Lui era lì davanti a John e lo guardava con quegli occhi azzurri-grigi così belli, così diversi, così profondi; indossava il suo solito cappotto lungo, il colletto alzato che ne metteva in risalto gli zigomi.
"Per favore puoi evitare di farlo sta volta?"
"Fare cosa?"
"Questa tua mania di alzare il bavero e mettere in evidenza gli zigomi per fare il misterioso"
"E- N-non faccio così"
"Sì che lo fai"   (*)
Il ricordo di quella volta a Baskerville gli riempì il cuore di un sentimento piacevole, che sapeva di caldo e di dolce in mezzo a tutto quell'orrore.
"Cosa ci fai qui?"
Balbettava il dottore, non voleva che lui vedesse tutto quello. Sapeva che Sherlock lavorava con i cadaveri, ma quello era diverso.
Una cosa era andare a caccia di criminali ed assassini, usando l'intelletto e la furbizia che il giovane Holmes aveva in sovrabbondanza, una cosa era vedere tutti quei morti essendo consapevoli di non potere fare niente per loro.
No, non poteva permettere che Sherlock vedesse tutto ciò. Era troppo, ne avrebbe portato i segni per sempre, un po' come faceva lui. Non poteva accettarlo, voleva vedere il suo coinquilino andare avanti nella sua vita come sempre, senza dover portare sul petto quelle ferite che mai si sarebbero potute richiudere.
"Devi andartene da qui. Via! Veloce!"
John riuscì a captare da solo il terrore nella sua voce, le labbra del corvino davanti a lui si schiusero un istante, gli occhi di quel colore così strano e meraviglioso allo stesso tempo si addolcirono appena e gli dedicò un lieve sorriso.
"John, non posso andarmene. Io appartengo a questo luogo"
Quella risposta lo colpì in pieno petto come una freccia. "No!" sembrava un disperato, colui che vuole cercare di mettere in salvo una cosa ancora bella e pura in mezzo ad un mondo nero e marcio. "No, tu non appartieni a questo posto. Tu no, ma io sì!".
Sherlock gli si fece avanti, il sorriso e lo sguardo ancora gentile, il suo braccio desto si alzò lentamente andando ad indicare un corpo poco più in là.
"Sì invece John, io appartengo a questo luogo, va a guardare tu stesso".
Le gambe del dottore si mossero verso la figura che gli era stata indicata, le ginocchia gli tremavano, il cuore sembrava volergli uscire dal petto, per un attimo temette seriamente di crollare a terra prima di aver visto ciò che l'investigatore desiderava mostrargli.
Le parole gli morirono in gola ed il respiro si interruppe per qualche istante mentre osservava la sagoma riversa su un lato davanti a lui. Si chinò lentamente, con terrore, a terra, le mani che si spostavano verso quel lungo cappotto che conosceva fin troppo bene, lo accarezzò leggermente, togliendogli la sporcizia che aveva raccolto cadendo a terra, quindi si mosse verso il volto di chi indossava quel capo.
Il corpo gli dava le spalle ma riuscì chiaramente ad intravedere una montagna di ricci neri ricoperti di sangue rappreso.
Si voltò a guardare indietro. Sherlock era sempre lì che lo osservava con sguardo attento invitandolo a girare il corpo. John si ritrovò a fare una violenza su se stesso per tornare a guardare quella figura voltandola verso di lui e per un attimo il mondo sembrò finire lì.
Non c'era più nessun rumore di gemiti, più nessun odore di morte e non c'era più nessun altro se non lui ed il cadavere di Sherlock Holmes, morto per un colpo sul petto che gli aveva provocato una ferita larga e sicuramente mortale.
Il biondo lo osservò, un dolore atroce che gli dilaniava nel petto.
L'investigatore aveva gli occhi chiusi ed i lineamenti era distesi, non contratti come quelli degli altri morti, sembrava quasi che lui fosse morto in pace.
"Ora hai capito perché ti ho detto che appartengo a questo posto?" gli domandò una voce baritonale all'orecchio.
"No... tu non..." non riusciva a parlare, le lacrime ormai gli rigavano le guance e la voce era spezzata da numerosi singhiozzi. Non era certo una scena virile, ma in quel momento non gli importava. Sentiva come se gli avessero strappato la cosa più importante del mondo con una forza inaudita. "Tu non dovresti essere morto... non qui... io sì... io appartengo a questo posto, a questo orrore, a questa guerra. L'odore dei morti in battaglia è il mio odore, non il tuo".
Probabilmente il dottore avrebbe voluto aggiungere altro ma il rumore di spari lo bloccò mentre si alzava con uno scatto e si voltava verso la fonte del rumore, era iniziata un'altra battaglia e quelli non erano spari amici.
Una pallottola gli entrò nella spalla, un dolore acuto strappò via dalla sua mente ogni altro pensiero, ogni altro dolore e cadde a terra.
 
John aprì di scatto gli occhi saltando a sedere.
Si ritrovò nel buio più completo e ci mise qualche istante prima di rendersi conto che non provava alcun dolore alla spalla. Era nella sua camera al 221b di Baker Street e quello era solo stato un'incubo.
Cercò a tentoni il suo telefono poggiato sul comodino e ne osservò l'ora, erano le quattro del mattino.
Da quant'era che non si faceva una notte intera? Una settimana?
Un mugolio frustrato gli sfuggì dalle labbra mentre si lasciava ricadere indietro sul materasso, una mano prese a carezzarsi il volto trovandolo bagnato di lacrime.
Le prime luci dell'alba trovano l'ex militare con gli occhi aperti a fissare il vuoto disteso sul suo letto. Non era riuscito a chiudere occhio per tutto il testo della notte.
 
Quando Sherlock si alzò erano le otto di mattina, lui aveva dormito così bene da sentirsi fresco e riposato, aveva un umore ottimo e già iniziava a pensare a come passare quella mattinata in attesa dell'arrivo di un caso tanto interessante da tenere occupata la sua frenetica mente.
Entrò nel salottino dell'appartamento trovandovi già John che, seduto al tavolo, leggeva il giornale.
"Buongiorno"
Lo salutò cordiale il corvino. Al suono della sua voce il cuore di John perse un battito, le parole che l'investigatore aveva pronunciato nel suo sogno tornarono nella sua mente impossessandosene con violenza: "Sì invece John, io appartengo a questo luogo, va a guardare tu stesso".
Scacciò via quel pensiero scuotendo appena il capo ed abbassò il giornale rispondendo al saluto del suo coinquilino.
L'investigatore osservò il volto dell'ex militare con grande attenzione: le occhiaie del dottore si erano fatte ancora più scure ed il suo colorito sempre più pallido, ovviamente non dormiva bene da una settimana circa. Inoltre dietro a quegli occhi riusciva leggeva un muto terrore che il biondo cercava di nascondere dietro un sorriso palesemente tirato.
"Sono tornati gli incubi?"
Domandò dunque in maniera fredda e diretta Sherlock. Aveva aspettato ed atteso che il coinquilino glielo dicesse da solo, magari bevendoci su qualcosa, ed invece lo aveva tenuto per sé senza confidarsi con l'amico, probabilmente con l'intento di non farlo preoccupare.
John si ritrovò a sgranare appena gli occhi, lo stupore si dipinse sul suo volto solo per pochi nanosecondi prima che riuscisse magistralmente a nasconderlo, ma quel brevissimo tempo fu sufficiente perché l'investigatore comprendesse di aver fatto centro. Non che ne dubitasse comunque.
"Ma no, ho solo difficoltà a dormire, fa troppo caldo".
A Londra in primavera. Si era inventato una scusa stupida e poco credibile.
I due uomini si guardarono negli occhi un'istante e decisero di passare oltre.
"Pensavo di andare da Molly oggi per vedere se ha qualche cadavere che posso usare per i miei esperimenti, vuoi venire?"
Il dottore si ritrovò ad annuire leggendo negli occhi del coinquilino l'eccitazione di un bambino che progetta di andare in un negozio di giocattoli.
 
La sera era arrivata presto e nessun cliente aveva bussato alla loro porta. Sherlock si era comunque comportato bene, aveva trovato un nuovo esperimento da poter fare con degli alluci che aveva messo a mollo nell'aceto in bagno. In condizioni normali John si sarebbe opposto, arrabbiato ed i due avrebbero avuto una lunga discussione sul perché non si potevano portare pezzi di gente morta in casa, sopratutto se questi pezzi dovevano essere messi nell'aceto come normali piccole verdure, ma era davvero troppo stanco e vedere quell'aria contenta nel corvino gli aveva permesso di dimenticare per un attimo il volto che lo stesso aveva nel suo sogno da morto.
Erano le otto di sera ed il dottore se ne stava seduto sulla poltrona nel salotto del loro appartamento leggendo ancora il giornale quando l'investigatore prese in mano il proprio violino ed iniziò a suonare.
John abbassò immediatamente il quotidiano fissando il suo coinquilino che gli dava la schiena puntando lo sguardo fuori dalla grande finestra, l'arco del violino che si muoveva lento ma sicuro producendo della musica dolce che presto si diffuse per tutto l'appartamento.
Il giornale fu accuratamente ripiegato e posto da una parte, mentre l'ex militare si metteva più comodo sulla poltrona ascoltando quella musica; inutile dire che ogni volta che Sherlock suonava lui si stupiva della sua bravura e si incantava nel guardare tutti i movimenti che compiva, compreso quel leggero movimento delle spalle o della testa che seguiva il ritmo della musica.
Lentamente sentì tutti i muscoli del suo corpo che si rilassavano per la prima volta in quella settimana che era stata caratterizzata da incubi continui ed un lieve ma spontaneo sorriso fece capolino sul suo volto.
Rimase lì ad ascoltarlo per un tempo che non seppe quantificare, forse pochi minuti, forse qualche ora, non gli importava, si sentiva bene e lentamente le palpebre si chiusero mentre la sua coscienza veniva portata via pezzo dopo pezzo dalle dolci mani di Morfeo che parevano proprio muoversi al ritmo della musica.
Prima però che anche l'ultimo pezzo della sua coscienza fosse portato via donando finalmente l'uomo all'oblio del sonno, egli riuscì a formulare un'ultimo pensiero fondamentale; lui non apparteneva a quel mondo orribile che aveva sognato, l'odore dei morti non era il suo, i gemiti dei disperati non erano l'unico suono che le sue orecchie avrebbero dovuto udire, così come i suoi occhi avevano il diritto di vedere altre cose oltre ai paesaggi brulli pieni di morti.
Lui non apparteneva alla guerra ed ai suoi orrori, lui apparteneva a quell'appartamento, al 221b di Baker Street.
Così, per la prima volta dopo tanti incubi, i sogni di John furono animati dal dolce suono del violino, dall'odore dei libri, da qualche sporadico alluce lasciato nell'aceto e da mani dolci e gentili che gli carezzavano i capelli augurandogli la buona notte dopo averlo avvolto in una coperta.



(*) la citazione viene dal secondo episodio dela seconda serie

N.D.A.:
Che dire, questo prompt mi è piaciuto sin dall'inizio, tanto che questo capitolo era pronto già dal 22, ma ho deciso di pubblicarlo solo ora per coccolare me e tormentare voi, sopratutto per fes
teggiare l'essere passata alla teoria della patente *W*
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi invito a lasciarmi delle recensioni e, se vi sentite ispirati, prompt che vorreste vedere in questa serie; per questo capitolo tutti i grazie vanno rivolti a scorpio 17 (link all'inizio della pagina) che ha lasciato il prompt "pensavo a John che si addormenta ascoltando Sherlock che suona il violino perché così non ha incubi", spero di averti accontentato! ^_^
Le risposte alle recensioni potrebbero essere lente perché domani parto e tornerò per i primi d'agosto, detto ciò,
a presto,
un bacio, Chelinde
<3
  
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