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Autore: hey_youngblood    27/07/2017    0 recensioni
• Seconda classificata e vincitrice del PremioAria, del Premio Author in disguise, per il miglior IC, e il Premio Tipografo provetto, per la miglior impaginazione nel contest Memorie impresse su specchi rotti indetto da AriaBlack & Marina Swift sul forum di EFP.
Come si (soprav)vive dopo la morte di Alaska Young?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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I

Rimpianto
 
“Rimpianto s.m. ricordo  nostalgico o dolente di
 persone e cose perdute, o di occasioni mancate”
(Treccani)

Miles “Ciccio” Halter
 
Non dicemmo: “Non guidare. Hai bevuto”
Non dicemmo: “Guai a te se provi a metterti in macchina in questo stato.”
Non dicemmo: “Veniamo con te e poche storie.”
Non dicemmo: “Questa cosa può aspettare fino a domani. Non c’è niente che non possa aspettare fino a domani.”*
Non dicemmo niente di tutto ciò, non dicemmo niente e basta. Del resto, Alaska non ci stava chiedendo il consenso, ma aiuto.
Né a me né al Colonnello, quindi, venne la minima idea di fermarla nel caos che era quel momento, con lei che si agitava per la stanza gridando e piangendo, generando l’ansia più atroce. Ci limitammo a fare come ci aveva chiesto, ossia distrarre l’Aquila in modo che lei riuscisse ad evadere dall’istituto. E Dio solo sa se avremmo fatto meglio a non aiutarla, quella notte.
Si, solo Dio lo sa, perché conoscevo Alaska Young e, se si era veramente messa in testa di uscire, quella notte, non ci sarebbe stato niente e nessuno in grado di fermarla. L’universo avrebbe potuto vorticare su se stesso tre volte e nulla sarebbe cambiato; il Sole avrebbe potuto spegnersi per sempre, e la luna smettere di brillare, e nulla sarebbe cambiato; la Terra avrebbe potuto smettere di girare, come un uragano avrebbe potuto abbattersi sulla scuola e nulla sarebbe cambiato. Niente avrebbe mai potuto far cambiare idea ad Alaska se si era ficcata in testa di dover uscire dal campus, figuriamoci trattenerla dal fare quella che si è poi rivelata, a mente lucida, la più grande idiozia di sempre.
Ero disteso al buio, a mio avviso, da molto tempo e non potevo fare a meno di rigirarmi ogni due minuti in cerca di una posizione in cui non avrei sofferto il grande caldo che, da pochi giorni a quella parte, si era abbattuto sul luogo.
Io e il Colonnello eravamo andati a letto presto, perché in quei giorni eravamo impegnati a studiare per i nostri esami. Dopo la commemorazione dovevamo trovare un modo per impiegare il tempo, finendo per constatare –tristemente- che lo studio era il metodo più proficuo.
Quella notte, non appena ci fummo coricati nei nostri letti, una miriade di pensieri si formarono nella mia mente. Era consuetudine, ormai, che, prima che Morfeo mi accogliesse tra le sue braccia, dovessi riportare alla mente qualcosa di Alaska, qualcosa a cui aggrapparmi nei sogni per non permettere alla mia mente di ricordare una persona diversa da quella che era.
C’erano state notti in cui l’avevo raffigurata accanto a me, su quel materasso scomodo e troppo piccolo, mentre si rannicchiava al mio fianco, troppo vicina perché potessi mantenere un ritmo cardiaco normale. Avevo immaginato di racchiuderla nel mio abbraccio un po’ imbranato e di sfiorarle i capelli, cosicché il suo odore –vaniglia e sigarette –, che ormai mi era così familiare, potesse inebriarmi e diventare l’unica aria di cui avessi bisogno. 
Altre volte, invece, ci concepivo nel granaio con qualche bottiglia di Strawberry Hill vuota e qualcun’altra ancora piena, mentre fumavamo una sigaretta dopo l’altra seduti scomodi su dei mucchietti di paglia. In questi sogni ridevamo e scherzavamo fino a piangere dalle risate e lasciarci cadere sulla paglia, incuranti dei fili che si incastravano tra i capelli. Ed io, gentilmente, glieli toglievo uno per uno da quei capelli rossi, fermandomi ad osservare la linea dolce delle labbra e del naso. Lei voltava leggermente il viso verso la mia parte, incastonava quegli occhi smeraldini nei miei e accennava quel suo sorriso, magari un po’ meno triste del solito –C’è una cosa che devi sapere di me. Ed è che sono una persona profondamente infelice** –, mentre con un sussurro mi domandava: mi ami?
Mi mancava così tanto!
Sospirai. Quella sera ci dev’essere stato un componente diverso nell’aria, perché i pensieri sulla ragazza dagli occhi verdi mi tennero sveglio più del solito.
Alaska Young era per me, già prima della sua prematura morte, il mistero più grande che si fosse presentato sulla mia strada. Ne ero così affascinato che, nelle settimane dopo la sua morte, ne ero diventato ossessionato. Non riuscivo a concepire la mia esistenza con quel punto interrogativo che era Alaska Young, perché Alaska non poteva essere un punto interrogativo per me. Lo era stato per tutta la sua esistenza, quel poco che avevamo passato insieme, e mi ero stancato di non poter mettere un punto alla sua vita, com’era già riuscita a fare lei stessa, prima di tutti noi, morendo.
Ero consapevole di non poter riuscire a vivere la mia vita, se prima non dimostravo la fine della sua, perché dentro di me ero cosciente che sarei sempre stato innamorato di Alaska Young, e questo mio desiderio di averla ancora tra le braccia, di poterla toccare e baciare di nuovo, come era successo quell’ultima sera che avevamo passato insieme –Ciccio, dire, fare o baciare? Fare. Fammi l’amore*** –, non mi permetteva a tratti di respirare, di dormire, di andare avanti. Per me Alaska era ancora viva, perché il suo ricordo continuava a vivere dentro di me.
Da quando avevo conosciuto quella ragazza dai folti capelli ricci, la passione per il verde e gli scaffali pieni di libri che ancora non aveva letto o che aveva solamente iniziato, qualcosa era concretamente accaduto.
Ammetto che dalla sua entrata sul palcoscenico della mia vita, l’intero copione era cambiato ed ora mi ritrovavo senza niente: gli attori che non sapevano più le battute, gli addetti alle luci che rischiaravano la scena di fredda luce bianca –non sapendo più su chi puntare il riflettore-, il fondale che era diventato una macchia indistinta di colori. Tutto aveva parvenza di vita, ma la vera vita se l’era portata con sé Alaska, quando aveva deciso di salire su quell’auto.
E adesso dovevo trovare un modo per ridare senso all’intera opera, trovando come unica soluzione quella di dare un senso alla morte di chi me l’aveva portato via, prima.   La morte di Alaska era il mio punto d’inizio, l’inizio della mia vita senza di lei, e, si sa, non si è capaci di sapere dove si vuole andare se non si sa da dove si è venuti.
Erano passati ormai centoquattordici giorni da quando Alaska se n’era andata, ed io e il Colonnello arrivammo, dopo ricerche e studi approfonditi, ad un paio di conclusioni: un’ipotesi di suicidio e un errore di calcoli della mente umana.
La prima ipotesi, quella del suicidio, era quella che più mi faceva male, perché avrebbe significato che io, come il Colonnello, Takumi e Lara, non significavamo niente per Alaska ed il mio cuore, così instabilmente incrinato, non avrebbe retto a quella consapevolezza. Mi rifiutavo di comprendere come si possa tanto amare qualcuno senza che l’altro provi il minimo affetto nei nostri confronti. Semplicemente non sarei riuscito a sopravvivere ad una constatazione del genere.
Optai, quindi, di credere alla seconda ipotesi, la quale considerava la morte di Alaska un semplice incidente dettato da un errore di calcoli, prodotto da una mente poco lucida. Logicamente parlando, la possibilità di poter superare il camion sarebbe potuta venire in mente a chiunque, nelle condizioni in cui era Alaska quella sera. Insomma, era di fretta, ubriaca, emotivamente instabile e impaurita dall’ipotesi di poter essere fermata dalla polizia. Come tutti noi avremmo fatto, aveva optato per l’opzione che riteneva più sicura ed efficace, capace di portarla da sua mamma il prima possibile. Tale scelta si era rivelata, purtroppo, fatale per lei.
Credere a tale ipotesi  significava credere che, se non fosse morta, Alaska sarebbe tornata da noi il giorno seguente e che, magari, teneva realmente alla nostra amicizia. D’altra parte, non conosco le ultime parole che Alaska Young aveva pronunciato prima di morire, ma so quelle che aveva rivolto a me prima che impazzisse completamente: E’ veramente una favola, ma ho tanto sonno. Alla prossima puntata****? No, Alaska Young sarebbe tornata da noi, lo sapevo con certezza. Non avrebbe lasciato qualcosa di così grande a metà. Non avrebbe lasciato me a metà.
Il reale problema sovvenne quando il mio cervello, non riuscendo a mettere la parola fine alla storia di Alaska, tornò in quella fase ossessiva che mi aveva preso nelle settimane seguenti la morte della ragazza che amavo.
La mia mente aveva, dopo poco tempo, alienato l’ipotesi che Alaska fosse morta a causa di un banale incidente. Non riuscivo a credere che un’esistenza come la sua –tormentata, allegra, poliedrica – potesse essere finita in un modo così elementare. Alaska si meritava una morte migliore di quella, qualcosa di sensato e incredibile, magari grandioso o affascinante, come era stata lei durante tutto il corso della sua vita.
Non era stato un incidente. Era l’unica consapevolezza che avevo.
Accesi la lampada che stava sul comodino accanto al letto e dovetti socchiudere gli occhi per abituarmi al fascio di luce che emanava. L’intera stanza era rischiarata, permettendomi di scorgere perfettamente l’ubicazione e i contorni degli oggetti presenti nell’abitacolo. Aspettai immobile per qualche secondo, constatando che, nonostante la forte luce, il Colonnello dormiva ancora come un sasso. Mi sfregai le mani sul viso, cercando di svegliarmi un po’, mentre scansavo le lenzuola e mi tiravo a sedere sul materasso.
Cominciai a fare una revisione mentale dettagliata degli eventi avvenuti dopo la morte di Alaska: la polizia che non ci aveva permesso di vedere il cadavere, il padre che aveva rifiutato un funerale a bara aperta. Pezzo dopo pezzo, il puzzle si completò davanti a me.
Come avevo fatto a non pensarci prima?
Dovevo dirlo agli altri. Dovevo avvertirli che, magari, non c’era soluzione all’interrogativo sulla morte di Alaska perché probabilmente non c’era stata nessuna morte.
Era stata tutta una farsa: la polizia e il padre si erano messi d’accordo per convincere tutti, in modo da poter mandare Alaska in una comunità per riabilitarsi e cominciare una nuova vita lontano da tutti quelli che le ricordavano il proprio dolore, da tutte le persone a cui voleva bene, da sua madre. Magari sotto al telo vi era un’altra persona, oppure un manichino, tutti, ma non lei. Per non parlare del padre, che aveva sepolto una bara vuota mentre osservava tutti piangere su una menzogna.  E Alaska? Come faceva ad essere d’accordo con tutto questo, quando lei stessa aveva deciso di venire al Culver Creek solo per stare lontana da casa e da chi l’abitava? Oppure, per una volta, Alaska Young era stata solo una vittima degli eventi?
Non mi soffermai nemmeno troppo su quanto fosse crudele un piano del genere, soprattutto nei confronti di tutte quelle persone che  avevano voluto davvero bene ad Alaska, perché ero distratto dalla stessa ipotesi che avrebbe reso tutte queste mie considerazioni e questi miei interrogativi reali: magari Alaska Young era ancora viva.
 


*citazione dall’originale di John Green, pag. 194, ed. Rizzoli, Maggio 2014
** citazione, pag. 182
*** altra citazione, pag. 191
**** altra citazione dal libro, pag. 192 
___________________________________________________________________
Ehilà! 
Premettendo che sono di fretta perchè sono già venti minuti che sono seduta in questo ristorante solo per scroccargli la wi-fi, volevo farvi questo saluto lampo prima di rivederci effettivamente a Settembre. 
Partecipante al contest "Memorie impresse su specchi rotti" indetto sul forum di EFP da AriaBlack e Marina Swift, la storia vuole mettere a confronto le definizioni di rimpianto e di rimorso per far decidere al lettore quale "sia meglio avere", diciamo così.
Spero in tante opinioni e commenti e di rivedere tutti presto.
Un bacio,

Carlotta.
  
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