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Autore: Witchlight    29/07/2017    1 recensioni
Negli ultimi dieci anni, Lina non ha mai lasciato i confini sicuri della Congrega in cui vive. Quando una sua compagna scompare in circostanze misteriose, però, la ragazza non si tira indietro e parte alla sua ricerca, rimettendo piede in un mondo che non è più quello della sua infanzia.
Il viaggio, iniziato un po' per caso, le farà scoprire vecchie storie dimenticate, creature misteriose e, forse, anche la cura per la terribile malattia che sta devastando il regno.
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La finestra chiusa tremò sotto la forza del vento. Fuori pioveva ormai da ore e quella che era iniziata come una pioggerellina di poco conto si era rapidamente trasformata in un temporale in piena regola. La pioggia scrosciava con forza, riempiendo con il suo rombo la piccola stanza bianca di calce: se anche qualcuno avesse voluto parlare, sarebbe stato impossibile portare avanti una conversazione.

Lina lanciò un’occhiata alle ombre distorte che la luce delle candele proiettava sui muri e si strinse le braccia attorno al petto, tremando. La sedia sulla quale era seduta tradì uno scricchiolio discreto, ma nessuno se ne accorse a eccezione di Talya, la consorella che sedeva al suo fianco. La donna le rivolse un sorriso mesto e la giovane deglutì, riportando lo sguardo sul pagliericcio sul quale giaceva Issa. La ragazza, vent’anni appena compiuti, aveva iniziato a mostrare i primi segni della malattia soltanto una settimana prima, ma erano bastati pochi giorni perché la sua salute peggiorasse drasticamente. Le macchie rosate che le erano comparse su mani e piedi si erano presto trasformate in ulcere che le avevano divorato gambe e braccia, il lieve mal di testa che la tormentava da qualche giorno si era aggravato e tramutato in una paralisi che le impediva di piegare il collo e aprire la bocca, il suo cuore aveva lentamente abbandonato il suo battito regolare per assumere un ritmo erratico e imprevedibile. Quello che la stava uccidendo, però, era il liquido che le si era raccolto nei polmoni e che le impediva di ottenere l’ossigeno necessario per vivere. A ogni respiro stentato, dal torace della poveretta giungeva un gorgoglio umido che faceva accapponare la pelle a chi lo udiva. Lina rabbrividì nuovamente, grata per il rumore della pioggia che le impediva di udire quel sibilo sinistro.

Anche se lei e Issa non erano mai state in rapporti particolarmente stretti, Lina provava pena per quella ragazza timida e laboriosa che, per sua sfortuna, avrebbe lasciato la vita terrena decisamente troppo presto. Mentre studiava di soppiatto le sue braccia pallide avvolte dalle bende, la giovane si chiese, non per la prima volta, se ci fosse una vita, dopo la morte. Sebbene fosse nell’Ordine da ormai dieci anni, Lina non si era ancora fatta un’idea precisa su quel particolare argomento: i suoi studi non erano ancora riusciti a far chiarezza su ciò che accadeva all’essenza di una persona una volta che il cuore smetteva di battere e la coscienza svaniva.

Accanto a lei, le sue consorelle tenevano per lo più il capo chino. Alcune stavano pregando, comprese Lina, altre erano probabilmente assorte in pensieri più complessi. Riflessioni filosofiche sul senso della vita, forse, oppure formule sperimentali che potessero guarire quel morbo comparso dal nulla che aveva già mietuto molte vittime.

La giovane si guardò le mani, flettendo le dita e fissando distrattamente l’ombra azzurrognola dell’inchiostro che mille lavaggi non erano riusciti a eliminare. La malattia non era contagiosa, si disse, leggermente rassicurata. Se lo fosse stata, i morti sarebbero stati molti di più: anche all’interno della loro confraternita, dove il caso di Issa era già il terzo dall’inizio dell’anno. La sua origine rimaneva però ancora avvolta nel mistero, il che rendeva impossibile prevenirla. C’era chi sosteneva che fosse provocata da una qualche sostanza disciolta nell’acqua, chi da un’esalazione nell’aria, chi dal consumo di carne proveniente da bestie malate e chi, ancora, credeva che il morbo fosse da attribuire a un qualche maleficio o incantesimo. Non vi era alcuna prova o indizio che facesse pendere l’ago della bilancia verso l’una o l’altra ipotesi e i Sapienti del regno brancolavano nel buio.

A volte, nelle sue riflessioni notturne, Lina immaginava di essere lei la persona che avrebbe finalmente trovato la cura per sconfiggere quel male crudele e salvare la vita a centinaia di innocenti. Ogni volta, però, la luce dell’alba portava immancabilmente con sé la consapevolezza che quei vaghi desideri non erano altro che fantasie: i suoi talenti erano altri. La botanica, per esempio, o, curiosamente, l’innata capacità di orientarsi in un luogo mai visto prima.

Il suono nitido e penetrante di una campanella d’argento la riscosse da quei pensieri e, guidata da un riflesso spontaneo, Lina si alzò di scatto dalla sedia. Le altre persone che, fino a quel momento, avevano vegliato sull’inferma fecero lo stesso e, come un sol uomo, dieci donne – giovani e anziane allo stesso modo – si diressero con passi rapidi e silenziosi verso la porta, evidentemente desiderose di lasciarsi alle spalle quella piccola stanza umida dove già si intravvedeva l’ombra della morte.

Non appena furono uscite, altre dieci consorelle scivolarono nella stanza e presero posto attorno alla malata: quel rituale si sarebbe ripetuto fino a quando la Vecchia, o chi per essa, fosse venuta e avrebbe portato via con sé la sfortunata fanciulla.

Uscendo dall’infermeria, Lina ebbe l’impressione di entrare in un altro mondo, un mondo più leggero e quasi privo di ombre. Malgrado quel mese di maggio si fosse rivelato più piovoso del consueto, i grandi camini presenti in ogni stanza erano accesi e il calore delle fiamme scacciava l’umidità, esaltando il profumo delle grandi travi in legno d’abete lasciate a vista sul soffitto. La giovane chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni quell’odore famigliare e gradito, lasciando che il tepore del fuoco allontanasse anche la sensazione di disagio che aveva provato nell’infermeria. Subito si sentì meglio e, dopo qualche istante, riaprì gli occhi, facendo mente locale per cercare di ricordare quali fossero i suoi impegni per la giornata.

Quando era entrata in infermeria era appena suonata la seconda ora del pomeriggio. Ogni turno di assistenza alla malata durava un’ora e questo significava dunque che, prima di poter tornare in biblioteca e dedicarsi allo studio, Lina avrebbe dovuto dare il suo contributo per la sopravvivenza della Congrega. Quella settimana era di turno in lavanderia.

Con una smorfia di disappunto al pensiero di dover trascorrere un’ora con le mani immerse nell’acqua fredda del lavatoio, la giovane si incamminò verso le scale che conducevano nel seminterrato, dove si trovava il locale adibito a lavanderia. Il lungo corridoio che conduceva alle scale era decorato da innumerevoli arazzi e dipinti, ma Lina vi sfilò davanti senza degnarli di uno sguardo: li conosceva come le sue tasche, ormai, ed era convinta che essi non potessero riservarle più alcuna sorpresa.

Giunta circa a metà corridoio, però, la ragazza si fermò e, com’era sua abitudine, volse lo sguardo al terzo pannello del ciclo del “Mondo Antico”, una serie di dipinti che rappresentavano il Continente Occidentale come esso era prima della venuta dei Primi Re. Il quadro in questione era piccolo e buio, dipinto con pennellate decise, quasi rabbiose, e rappresentava una foresta cupa, piena di muschi ed alberi dai rami contorti. Lina lo aveva notato subito quando, a quindici anni, era entrata a far parte dell’Ordine. Quando una consorella anziana le aveva mostrato quella che, da allora in poi, sarebbe stata la sua casa, l’attenzione della ragazzina ne era stata subito attratta. A colpirla non era stata la vegetazione scura e selvaggia, ma piuttosto la moltitudine di minuscoli particolari che l’artista vi aveva inserito. Nel dipinto era infatti presente una fauna variegata i cui rappresentanti più numerosi erano senza alcun dubbio gli uccelli: corvi, gazze, picchi, merli, pettirossi, persino gli occhi di brace di un gufo acquattato nei recessi di un vecchio tronco e la sagoma di uno sparviero che si stagliava nel fazzoletto di cielo che si intravvedeva tra le fronde nere.

Dopo aver lanciato un rapido sguardo al corridoio deserto, Lina si avvicinò al dipinto fino a sfiorarne la superficie con il naso, socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco i dettagli. Ogni volta che lo guardava, aveva l’impressione di scoprire un particolare nuovo – o forse di ritrovarne uno notato tempo addietro e poi dimenticato. In un certo senso, era come se il quadro fosse vivo, una finestra su un altro tempo e un altro luogo. Anche in quell’occasione, Lina sorrise notando una minuscola cincia il cui brillante piumaggio giallo e celeste illuminava un angolo particolarmente buio. Che carina, pensò, provando un moto di tenerezza per quella bestiolina fatta di tela e colore a olio che la osservava con microscopici occhi neri.

Subito dopo, il suo senso del dovere tornò a farsi sentire e la giovane si allontanò dal dipinto, raggiungendo le scale e percorrendole a piccoli passi rapidi. Quando giunse al locale adibito a lavanderia, Lina arricciò il naso, resistendo alla tentazione di strofinarlo per proteggerlo dal sentore pungente del sapone grezzo. Le due donne che erano già al lavoro accanto al lavatoio le fecero un cenno di saluto, mentre la terza, accucciata accanto a una cesta piena di panni sporchi, le rivolse un ampio sorriso. «Eccoti qui!» le disse, a mo’ di saluto. «Come sta Issa?»

«Sempre uguale» replicò laconica Lina.

Subito, il bel volto della ragazza che le aveva posto quella domanda si rabbuiò e Lina si sentì in dovere di consolarla. Anche se non poteva essere molto più giovane di lei – la sua effettiva data di nascita era sconosciuta – Ibbi era ancora una novizia. Dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorse in schiavitù, era stata affrancata dal suo padrone morente, guadagnando la libertà, ma ritrovandosi sola al mondo, senza un posto da chiamare casa. La sua naturale curiosità – unitamente a una certa dose di disperazione – l’avevano fatta avvicinare all’Ordine sino a spingerla a entrare a far parte di una Congrega.

Era già da qualche mese che lei e Lina condividevano la stanza e, fino a quel momento, nessuna delle due aveva mai avuto motivo di lamentarsi dell’altra.

Chinandosi per raccogliere una federa che era sfuggita dal cesto che Ibbi teneva tra le ginocchia, Lina si voltò verso la compagna con un sorriso di circostanza. «Il primo medico le ha dato delle droghe molto forti» sospirò. «Se non altro, in questo momento non soffre più.»

Ibbi annuì, appena rinfrancata, e allungò alla ragazza di fronte a lei un grosso pezzo di sapone giallastro, rivolgendole uno sguardo di scusa. Solitamente, la giovane non sarebbe stata esonerata dal servizio di lavanderia, ma, qualche giorno prima, le sue mani avevano iniziato a screpolarsi. Quella che nelle prime, terribili ore era stata interpretata come la prima manifestazione della malattia che stava uccidendo Issa si era poi rivelata una banale dermatite da contatto, un malanno passeggero che aveva però lasciato le mani della ragazza piene di bolle dolorose che mal sopportavano il contatto con il sapone grezzo utilizzato in lavanderia. Ibbi era stata così incaricata di portare su e giù dalle scale le pesanti ceste contenenti il bucato e i panni da lavare, un compito che svolgeva con lo stesso entusiasmo con cui affrontava qualsiasi mansione le fosse affidata.

Con un sorriso tirato, Lina prese il sapone e la federa che aveva appena raccolto da terra e si voltò verso il vecchio lavatoio di pietra, cercando un punto in cui l’asse di legno su cui avrebbe insaponato i panni non fosse troppo scheggiata. Poi immerse la federa nell’acqua, cercando di non pensare a quanto il gorgoglio dell’aria che fuggiva verso la superficie le ricordasse quello prodotto dai polmoni di Issa.

  
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