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Autore: Ayr    04/08/2017    5 recensioni
[K-Trilogy- La città d\'oro]
Tutto ciò che la mia mente riesce a partorire è l’equazione di Dirac, sfruttata e abusata in una maniera raccapricciante, ma capace di rappresentare in maniera abbastanza esaustiva il mio stato. Secondo tale equazione, se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce. E io mi sentivo influenzato da lei, dal suo umore e dalle espressioni del suo volto.
Sono frastornato e confuso: mai era capitato un simile avvenimento, avevo cercato di evitarlo, per non compromettere la mia carriera e i miei studi. E all’improvviso è arrivata lei. Non avrei mai creduto che un essere mortale potesse farmi un tale effetto: Reka provoca in me lo stesso effetto dell’esplosione di una supernova, e anche gli stessi contrastanti sentimenti: è uno spettacolo magnifico e indescrivibile, ma rimane inavvicinabile e potenzialmente distruttivo. E lei sta lentamente devastando il mio piccolo sistema solare.
[Personaggi tratti da "K-Trilogy- la città d'oro" di Trix]
Genere: Romantico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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«Drisk»
Il tono petulante di Lucian mi strappa dallo stato catatonico in cui ero immerso, costringendomi a riemergere dal terzo bicchiere di succo di mirtillo, di cui devo aver approfonditamente scrutato i recessi fino a questo momento, senza, per altro, trarne grande giovamento. Da quando mi sono ubriacato con il Venus offerto da quel decerebrato punk, mi tengo ben lontano da qualsiasi cosa contenga anche la minima traccia di etanolo.
Il mal di testa epocale che mi ha accolto la mattina successiva sonnecchia ancora negli anfratti più remoti della mia scatola cranica, riaffiorando ogni qualvolta provo a cimentarmi in un’equazione più intricata del solito…e questo accade più spesso di quanto non desideri. Non è un’esperienza molto piacevole.
«Tutto bene?» mi domanda, scrutandomi con occhio apprensivo.
Lucian è l’unico di cui riesca a sopportare il fatto che respiri il mio stesso ossigeno, sebbene, a volte, farei volentieri a meno della sua onnipresenza.
A lungo ho provato ad allontanarlo, ma senza successo: questi è rimasto strenuamente abbarbicato alla mia persona, trovandovi non so che fascino, e nonostante i miei ripetuti tentativi di scollarmelo di dosso, me lo sono sempre trovato tra i piedi. Alla fine, gli ho concesso l’onore della mia compagnia, premiando la sua caparbietà e conquistandosi la mia ammirazione. Anche perché, in fondo, persino la più alta e fine delle menti ha bisogno, ogni tanto, di confrontarsi e condividere le proprie impressioni con il volgo; quantomeno costui comprende quando parlo di traiettorie paraboliche e calcoli infinitesimali e non mi fissa come un ebete, come, invece, la maggior parte della plebe.
«Sei più dissociato del solito» commenta. Come se per la maggior parte del tempo non vivessi in un universo parallelo completamente avulso da questa realtà infima e chiusa, troppo stretta per una mente eccelsa come la presente.
«Sssto bene» lo freno, prima che il suo spirito da crocerossina frustrata prenda il sopravvento e mi inchiodi con una sfilza di quesiti a cui non credo di voler dare risposta.
Invero, il mio sistema è completamente scombinato da una serie di valori che non so assolutamente come interpretare e assemblare. Dopo l’ultima sortita assieme ai folli fratelli Kaine sento il mio sistema dissestato, e non riesco a capirne la causa. La qual cosa mi infastidisce enormemente.
Per la verità, il moto turbolento di sensazioni e percezioni inesplicabili si semplifica in una parola che la mia mente sopraffina si rifiuta di accettare in quanto è inconcepibile che Driskoll Stewart sia stato sconvolto da un sentimento alquanto inusuale per la sua persona, dedita e devota alle scienze e a tutto ciò che è logico e matematico. Tale sentimento è completamente escluso da qualsiasi logica e non può essere imbrigliato in calcoli o schemi o formule, è imprevedibile e inafferrabile, pertanto viaggia sua una retta parallela a ciò che costituisce l’universo in cui milito. E come tale mi sconvolge ancora di più, gettandomi in uno stato confusionale che rasenta il panico.
Per ridurre la questione ai minimi termini, mi duole profondamente ammetterlo a me stesso, ma ci sono buone probabilità che mi sia invaghito di un altro essere respirante…e addirittura umano!
Non che sia la prima volta.
Non sono asessuato- nonostante lo pensi un’alta percentuale di bifolchi- e mi è capitato di provare un’attrazione per questo o quell’esemplare piacente, ma la mia mente brillante e intuitiva non poteva essere distolta dal suo lavoro di studio e indagine con simili distrazioni perniciose, e ho sempre relegato codeste amenità nella circonvoluzione del mio encefalo riservata alle frivolezze inutili e alle quisquiglie. Eppure l’equilibrio della suddetta mente rischiava di venire compromesso da quei sentimenti che avevo giurato di aborrire ed evitare accuratamente.
Questo cambiamento mi ha colto di sorpresa lasciandomi sorpreso e indifeso di fronte alla sua manifestazione e al suo sviluppo. Ho provato a porvi un argine, a confinarlo assieme ai suoi simili, ma quest’insolente ritorna a importunarmi, molesto, facendomi trascorrere notti insonni e logorando quel poco di lucidità che mi resta.
Cerco di sbrogliare e analizzare questo sentimento -così come indago i problemi matematici e fisici- per poterlo risolvere e archiviare, ma esso è mutevole e cambia continuamente i propri dati e le proprie caratteristiche, impedendomi di circoscriverlo e identificarlo univocamente.
È frustrante per un uomo di scienza non riuscire a spiegarsi un fenomeno.
«Perché i sentimenti non potevano essere ingabbiati in figure e formule? Sarebbe più semplice comprenderli.»
«Come?» domanda Lucian, facendomi capire che devo aver espresso ad alta voce i miei ultimi pensieri.
«Cosa?»
«Cosa hai appena detto?»
«Nulla.»
Lo sguardo dell’altro trasuda scetticismo, ma decido di ignorarlo. Non ho intenzione di condividere con lui le mie elucubrazioni mentali. Credo di essermi già tradito abbastanza.
«Sei sicuro che quello sia solo succo di mirtillo?» indaga. Probabilmente pensa che abbia iniziato a vaneggiare.
«Sssicurissimo» replico, sebbene in realtà si tratti di succo e una dose massiccia di antidolorifici e calmanti.
Cercare di sviscerare questi sentimenti inusuali per la mia persona, conduce ad uno sforzo sovraumano che sfocia in lancinanti emicranie esacerbate dai postumi dei postumi della sbornia. Un enorme spirale letale che mi ha imbrigliato nelle sue spire, succhiando le mie energie e tarlando, con lavoro certosino, la mia stabilità fisica e mentale…E in tutto questo dovrei anche racimolare il tempo per vivere…
«Sono arrivati!» annuncia improvvisamente, raggiante. Questo suo repentino cambiamento di umore mi coglie impreparato, facendomi sussultare sullo sgabello. Il suo grido mi trapassa le meningi facendomi stringere i denti: un principio di cefalgia si profila all’orizzonte, con mia somma gioia.
Non mi arrischio nemmeno a indagare la causa di tale improvvisa eccitazione, immagino già la risposta.
Come volevasi dimostrare, sul riquadro della porta del locale appare la sagoma allampanata di quel Kaine.
Mi domando, ogni volta che i pianeti si allineano per concedermi la fortuita coincidenza di incontrarlo, cosa ci trovi Lucian in quell’avanzo dell’evoluzione dallo sguardo poco sveglio. Probabilmente è semplicemente attratto dai casi disperati, basti vedere con chi trascorre i suoi sabati sera.
«Cosssa ci fa lui qui?» sibilo, incenerendo con lo sguardo il nuovo arrivato.
«Mi sono preso la libertà di invitarli. Dovresti socializzare un po’ di più, e poi dobbiamo organizzare la prossima sortita.»
«Ti sssei pressso la libertà di decidere come preferisssci morire» sbotto. Le mie intenzioni di trascorrere la serata con quel surrogato di intelligenza primitiva sono al di sotto dello zero. Lo zero assoluto.
«Eddai! Non te la prendere! Si tratta solo di passare una serata con gli amici, l’ultima volta ti sei divertito.»
L’ultima volta mi sono lasciato sfuggire dettagli sulla sortita notturna, ritrovandomi, poi, nel bel mezzo di una riunione di famiglia tra tossici e psicopatici dotati di arti meccanici, a capo di un gruppo di sbandati completamente folli. E quello schizofrenico sarei io!
Non ho la minima intenzione di riportare nel mondo esterno quei due scapestrati. Soprattutto Kaine.
«Mi sssfugge l’esatto momento in cui l’imbecille e sua sorella siano diventati miei amici» replico, ma ormai, il suddetto imbecille ha gravitato la completa attenzione di Lucian.
«Vi siamo mancati?» esordisce, dando sfoggio alla sua usuale delicatezza e galanteria, da perfetto macchinista ubriacone del Dodici. Non che mi aspettassi qualcosa di diverso.
Si frappone fra me e Lucian, separandoci come due molecole durante l’elettrolisi, e il volto sorridente del ragazzino viene schermato dalla schiena dell’altro, in uno sfoggio squisito e sublime di educazione.
Uno spettacolo davvero appagante.
Subito dietro a Kaine, compare la sodale controparte femminile. Abbigliata interamente di nero e con uno sguardo omicida che saetta da una parete all’altra del locale, alla Lisbeth Salander, sembra la reincarnazione del Tristo Mietitore. Ha l’espressione di chi preferirebbe essere ovunque -persino a pulire i macchinari del Tredicesimo- piuttosto che qui. E, in effetti, la capisco.
Non riesco proprio a comprendere la necessità di immergersi nel vasto squallore della demenza umana; ogni volta cerco di dare una possibilità al genere di riscattarsi, ma vengo perennemente deluso, notando come nessun individuo sia alla mia altezza, ma tutti striscino a livello dell’indecenza. A parte Lucian, che quantomeno fa buon uso degli impulsi elettrici inviati dal suo encefalo.
E lei.
Reka possiede la stessa visione edulcorata e cinica della realtà e degli uomini, fattore che le permette di elevarsi al di sopra dello scempio che mi circonda costantemente. Dalla prima volta che i miei recettori ottici hanno acquisito la sua immagine, e l’espressione di profondo sconforto e disgusto che aleggiava sul suo volto diafano, non ho potuto fare a meno di ipotizzare che fosse esacerbata quanto me riguardo la pochezza dell’umanità. 
«Come ce la passiamo, Stew?» Kaine si accorge, malauguratamente, della mia presenza e pensa bene di rompere la mia bolla di tranquillità con il suo starnazzare inutile e fastidioso, comprovando le mie tesi circa la penuria di menti brillanti con cui possa confrontarmi, «Quello è succo di mirtillo? Non vuoi un Venus?»
Perché sono costretto a interagire con questo microcefalo?
«Ssstavo magnificamente prima che la tua apparizione sconvolgesse il mio equilibrio emotivo e mentale» rispondo. L’altro mi concede uno sguardo confuso prima di decidere che non vale la pena sforzare i due neuroni residui per comprendere il significato della mia frase, preferendo utilizzarli per ordinare un paio di Venus.
Reka, dopo un breve cenno di saluto, è rimasta in piedi accanto a noi, e scruta con particolare interesse le nervature del pavimento di finto legno del locale.
Mi concedo un’occhiata di sbieco per carpire, in segreto, i dettagli del suo aspetto: i capelli rossi ricadono come fili di rame sulle spalle sottili, ingobbite sotto il cappotto di pelle nera. Sono una vampa di fiamma immerso nel mare scuro del suo abbigliamento. Altra scintilla di colore, che spicca quasi prepotentemente sull’incarnato pallido, reso spettrale dalle luci al neon, sono le labbra, simili a velluto. La curva morbida dell’arco di Cupido mi cattura, impedendomi di notare le schegge di smeraldo delle sue iridi che, improvvisamente, si scontrano con le mie orbite.
Merda.
«C’è qualcosa che non va?» domanda, brusca. E non posso darle torto: anche io mi innervosirei se scoprissi qualcuno a fissarmi di sottecchi. Ci sono alte probabilità che mi abbia appena identificato come un Troodonico trentenne, erotomane, lascivo e disperato, perfettamente corrispondente alla prima impressione che avevo intenzione di darle.
Naufrago disperatamente nel mare di pensieri, scuse e motivazioni che galleggiano nella mia mente, ma nessuna mi pare abbastanza efficace. Boccheggio come un pesce fuor d’acqua, lo sguardo di lei che mi trapassa e accende in me un’ansia e un’apprensione di cui non riesco a discernere la causa.
«Mi ssstavo domandando ssse non preferissssi sssederti, piuttossto che ssstare in piedi» rantolo con voce tremante nella speranza di non fare la figura da Kaspar Kaine, ovverosia da perfetto idiota. Un fiotto di calore si è arrampicato lungo la nuca, incendiandomi il volto, e la voce è tremante e spezzata dal fiato rotto e dal cuore incastrato nella trachea. Mi sembra di essere un quindicenne decerebrato. Non avrei pensato che una ragazza potesse farmi retrocedere a tal punto sulla scala evolutiva, annullandomi in un’oloturia parlante.
Reka solleva un sopracciglio: probabilmente sta valutando se ritenere la mia considerazione valida o un’emerita cazzata. Spero che propenda per la prima opzione, ne andrebbe della mia già provata rispettabilità.
Mi alzo dallo sgabello e le cedo il posto, per sottolineare le mie intenzioni, e salvare quel briciolo infinitesimale di dignità che deve essere scampato all’eccidio provocato dal suo sguardo, e non si è ancora dissolto.
La ragazza esita e, infine, abbozza un sorriso che non saprei dire se sardonico o amichevole.
«Andiamo a sederci da un’altra parte» propone invece, «Lasciamo soli i due piccioncini.»
E prima di avere la mia risposta, ordina un liquore e si avvia verso i recessi del locale, schivando abilmente tavolini, sedie, braccia, gambe, corpi e imprecazioni.
Rimango fermo come una pala eolica nel mezzo del locale, il mio sguardo a seguire i movimenti serpeggianti e ipnotici di lei, ben presto inghiottiti dalla folla.
Non so come comportarmi: non so se seguirla o tornarmene a casa a occupare il mio tempo in maniera più intelligente e costruttiva. Lucian mi ha costretto a partecipare a questo rito depravato inculcato come una necessità indispensabile nelle menti suscettibili di queste scimmie antropomorfe, ma ora che il suo unico bene si è degnato di onorarci della sua ingombrante presenza, tutta la sua attenzione è calamitata da lui e non mi concede nemmeno uno sguardo di sfuggita, giusto per accertarsi che respiri ancora.
Alla fine, mi risolvo per l’opzione di raggiungerla: quantomeno è un miglioramento rispetto alla figura di baccalà congelato che devo offrire nell’attuale atteggiamento.
Cerco di seguirla, ma, oltre a me, riesce a raggiungerla solo metà del mio succo di mirtillo, dal momento che la restante parte decora il pavimento del locale. La qual cosa non fa grande differenza: lo strato di sudiciume è tale da poter essere suddiviso in strati archeologici. Mi chiedo quanti nuovi batteri possano essere scoperti prelevandone un campione. 
Immerso nei miei pensieri, non mi accorgo della gamba del basso tavolino che si frappone fra me e il divanetto, e precipito su Reka, spargendo ciò che rimane del succo sulle pareti, in una fedele rappresentazione di un quadro di Pollock.
«M-mi dissspiace» balbetto, cercando di recuperare la posizione consona ad un bipede.
Oltre alla voce “maniaco”, posso anche spuntare quella di “imbranato” alla lista delle impressioni che non avrei voluto darle ma che, per una qualche legge a me sconosciuta, continuo irrimediabilmente a proporle.
La sfumatura del mio volto deve essersi sintonizzata su un appariscente rosso tiziano, rendendo il tutto ancora più imbarazzante.
«Tranquillo» mi rassicura lei, «Sono cose che capitano, e credo che la macchia viola doni carattere al muro.»
Abbozzo un mezzo sorriso, apprezzando il suo tentativo di togliermi dall’imbarazzo dilagante.
La ragazza si sposta leggermente, facendomi cenno di accomodarmi sul metro quadro di stoffa lisa che hanno l’ardire di chiamare divano. Mi lascio cadere imbarazzato, e mi rendo conto di essere troppo vicino a lei, per i miei ormoni: i nostri bicipiti brachiali si sfiorano appena, ma basta questa parvenza di contatto per perturbarmi. Il mio cuore inizia ad aumentare la frequenza e sento le viscere torcersi e concatenarsi l’una all’altra.  Positroni! Mi sembra di essere una scolaretta alla sua prima cotta! Dovrei almeno cercare di darmi un contengo!
Un silenzio carico di tensione cala tra noi.
Solitamente, l’assenza di rumore non mi dispiace perché mi permette di immergermi completamente negli anfratti più profondi della mia mente e di perdermi nel mondo più interessante e sconvolgente dei numeri. Ma questa volta, grava come una cappa umida sulle nostre persone, e scavo negli abissi del mio encefalo per racimolare quel poco di socialità, che spero sia rimasta, e far emergere un argomento qualsiasi per rompere questo manto denso e opprimente.
Reka centellina il suo liquore e sento, a volte, il suo sguardo posarsi su di me. Mi sta studiando e valutando, per cercare di carpire le mie intenzioni. È difficile che le sia sfuggito il mio sguardo intenso e insistente, e il mio vano tentativo di essere galante. Probabilmente si sta chiedendo quali siano le mie prossime mosse -come se stessimo giocando una partita a scacchi in cui lei ha la parte della temibile regina nera, io del pedone bianco.
Il problema è che non le conosco nemmeno io: sono sempre stato un imbattibile avversario a scacchi, questi puerili intrattenimenti ludici sono fin troppo semplici e noiose per me, ma la sola presenza di Reka non mi permette di assemblare alcuna strategia, come se il mio cervello fosse caduto in un temporaneo blackout. E il mio cervello non si spegne mai.
Reka è un individuo interessante, ha uno sguardo acuto e disincantato e una mente svelta e brillante, non si lascia affascinare da inezie, e ha compreso che sotto lo strato di zucchero a velo che decora la realtà non ci sia altro che merda, almeno per quanto riguarda questo buco sperduto di città semovente.
Mi piacerebbe approfondire la conoscenza e stimolare il suo pensiero e la sua mente, sondarla e sconvolgerla, testarne i limiti e i confini; ho come l’impressione che potrebbe comprendermi, visceralmente, e condividere le mie considerazioni, o metterle in discussione per il semplice gusto di farlo, spronandomi a trovarne l’antitesi e a confutarla. È una persona che sento intellettualmente adeguata al mio livello, con cui potrei intrattenere conversazioni incomprensibili alla maggioranza.
Inoltre è un individuo estremamente affascinante, non solo da un punto di vista puramente accademico.
Ma l’incognita è rappresentata da Reka stessa e dalla sua accondiscendenza a questo mio progetto. Se lei non fosse d’accordo non potrei biasimarla, ma le mie aspirazioni verrebbero irrimediabilmente spezzate.
È la prima volta, credo, in tutta la mia vita, che dipendo dalla volontà di una persona. E la novità mi sconvolge e mi destabilizza.
Forse avrei dovuto fornirmi di qualcosa di un po’ più forte del succo di mirtillo.
«Da quanto tempo fate queste fughe nel mondo esterno?» chiede improvvisamente.
La sua voce si sprigiona tanto inaspettata e improvvisa che sussulto, strappandomi dal limbo tetro e contorto dei miei pensieri. Impiego qualche secondo per accertarmi che non sia un’illusione uditiva, come mi accade a volte.
«Non lo ssso» abbozzo. Ma è la verità: a Eccelsia non siamo abituati a misurare il tempo. Non attraverso un metodo convenzionale, almeno, «Sssono un uomo di ssscienza, mi piace esssplorare e indagare. E le cossse interessanti in quesssta città sssono finite presssto.»
Almeno fino a questo momento, ma evito di pronunciare quest’ultima frase. Credo di essere stato già abbastanza palese in merito.
«Eccelsia non ha molto da offrire» concorda la ragazza, rigirando con aria malinconica e vuota i resti di bevanda nel suo bicchiere.
Nuovamente il silenzio si impossessa della conversazione, lasciandomi a fissarla come un troglodita.
Frugo disperatamente alla ricerca di un argomento, una frase, una battuta qualsiasi che possano spezzare il silenzio. Ma tutto ciò che quest’ultima riesce a partorire è un’equazione: è l’equazione di Dirac sfruttata e abusata in una maniera raccapricciante, ma capace di rappresentare in maniera abbastanza esaustiva il mio stato. Secondo tale equazione, se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce. E io mi sentivo influenzato da lei, dal suo umore e dalle espressioni del suo volto.
Sono frastornato e confuso: mai era capitato un simile avvenimento, avevo cercato di evitarlo, per non compromettere la mia carriera e i miei studi. E all’improvviso è arrivata lei, facendo scoppiare una quotidiana guerra con la razionalità che distrugge le fragili colonne su cui si basa la mia precaria sanità mentale.
Non avrei mai creduto che un essere mortale potesse farmi un tale effetto: di solito mi emoziono per cose non comuni, come una nuova stella, uno studio sperimentale sulla telecinesi, i ponti di Einstein-Rosen e altre meraviglie del genere; tutto ciò che concerne la fisica e la matematica è per me motivo di entusiasmo e meraviglia.
Reka provoca in me lo stesso effetto dell’esplosione di una supernova, e anche gli stessi contrastanti sentimenti: è uno spettacolo magnifico e indescrivibile, ma rimane inavvicinabile e potenzialmente distruttivo. E lei sta lentamente devastando il mio piccolo sistema solare.
«Vuoi che te ne prenda un altro?» mormoro alla fine, accennando al bicchiere vuoto. Sento il bisogno di allontanarmi da lei e recuperare un minimo di lucidità; quanto basta per non mandare a puttane tutto quanto.
«Vuoi farmi ubriacare per poi approfittare di me?» replica lei, il fantasma di un sorriso ironico a disegnare il profilo delle labbra. Affogo per un momento nella piega creata dall’arco di Cupido e mi accoccolo in quello spazio di pelle morbida e chiara. Mi sorprendo a domandarmi che sapore abbia.
Sto decisamente scivolando verso un punto di non ritorno.
Solo dopo svariati secondi di ritardo mi rendo conto dei sottintesi- che poi tanto sottintesi non sono- della domanda di lei, e nuovamente il rossore detta legge sul mio volto, «N-no» balbetto, sconvolto.
«Sto scherzando» cerca di rassicurarmi, «So che non sei quel genere di persona.»
Questo genere di persona, in effetti, non partorisce pensieri di qualsiasi tipo riguardanti una donna dal giorno della sua prima laurea…Forse anche prima.
Per togliermi dall’imbarazzo le prendo il bicchiere dalle mani. Le nostre dita si sfiorano e sento come un brivido elettrico risalire dai polpastrelli, lungo le braccia e scivolare attraverso la schiena, facendomi irrigidire.
Questa progressiva perdita di controllo sta iniziando a preoccuparmi. Mi allontano il più in fretta possibile.
Arranco fino al bancone e chiedo due altri bicchieri della stessa bevanda. Mi sono reso conto che ho bisogno di qualcosa di forte per ristabilire le interconnessioni del mio sistema nervoso.
«Ehi!» la voce impastata di alcol di Kaine mi fa salire l’istinto omicida, che si concretizza in un’imprecazione soffiata tra i denti poco prima di rivolgermi a lui.
«Ho visto che ti sei appartato con mia sorella. Vedi di non fare scherzi!»
Come se a Reka potesse interessare uno scienziato schizofrenico di ventotto anni con metà del volto ricoperto di scaglie viola. Come se a me dovrebbe importare che a Reka interessi di uno scienziato schizofrenico di ventotto anni!
La parte illogica di me- che sta cercando di spodestare quella razionale- ci spera; quest’ultima spera solo di giungere a fine serata non più fuori di testa di quanto già non sia.
Ignoro la provocazione del sub-umano e claudico fino al divanetto dove Reka siede con aria annoiata e scocciata.
«Credo che la forza di gravità in quesssto locale abbia un valore maggiore che nel resssto di Eccelsia» cerco di scusarmi mentre le porgo il bicchiere. Solamente tre quarti della bevanda sono giunti incolumi fino a lei.
«Non fa nulla» risponde con un sorriso luminoso. Un lieve sentore di bruciato aleggia a livello delle sinapsi.
Rimango in piedi, troppo imbarazzato e sconvolto, per arrischiarmi a prendere nuovamente posto accanto a lei. Ingurgito un sorso del liquido, e il suo sapore dolceamaro si trascina lungo la gola, facendovi scoppiare un incendio. Ha un retrogusto disgustoso, che mi attorciglia le papille, ma quantomeno, mi permette di rilassare la tensione muscolare che mi attanaglia.
Percepisco lo sguardo smeraldino di lei trafiggermi e mi ritrovo costretto a ricambiarlo, troppo insopportabilmente intenso per poterlo ignorare.
«Mi stavo domandando se non preferissi sederti piuttosto che rimanere in piedi» mi fa il verso, non appena stabiliamo un contatto visivo.
«Potrei proporti di andare a sssederci da un’altra parte, ma non vedo alternative» rispondo. Ed immediatamente me ne pento: ho aperto bocca prima che i processi neuronali suggerissero cosa dire e dalle mie labbra sono uscite queste poche parole acide e squallide. Pure il tono sembrava stizzito, quasi che mi desse fastidio il suono della sua voce.
In effetti, qualsiasi essere- che si reputa- umano osi rivolgermi la parola, provoca in me un senso di nausea e disgusto, dal momento che ogni volta che dà aria al proprio apparato buccale, conferma l’ipotesi secondo cui la demenza possa raggiungere livelli incurabili.
Una risata disarmante, e del tutto inaspettata, sgorga dalle labbra di lei, appesantite dal rossetto amaranto.
Ne rimango completamente spiazzato, quasi che quel riso mi abbia colpito sulla guancia come uno schiaffo.
Non capisco perché stia ridendo, se stia ridendo di me o se ha interpretato la mia frase cinica e acida- una mera considerazione realistica, come affermare che il protone ha carica positiva- come una battuta.
Accenno a mia volta una piega divertita- penso che nelle interazioni sociali questo gesto indichi una sorta di complicità e mi fa sentire un po’ meno fuori luogo e completamente rincitrullito- senza veramente comprendere tutta questa sua ilarità.
L’unica informazione che il mio cervello riesce a registrare è che mi piace sentire la sua risata.
Quest’ultima consapevolezza mi investe lasciandomi basito: da quando mi preoccupo di simili minuzie? Da quando il comportamento di una donna ha effetti su di me?
Sento progressivamente la presa sui miei pensieri e le mie azioni allentarsi, come se non fossi più io a manovrarle ma un qualche burattinaio che si diverte a mettermi in ridicolo. Sento di star per impazzire: sto cercando di controllare con tutte le mie forze il rimescolio di emozioni e pensieri sconnessi che sta ribollendo nella parte più remota del mio animo, risvegliandosi dal gelo siderale in cui l’avevo confinata.
Reka cattura le lacrime scaturite dai suoi occhi e si concede un sorso di liquore.
«Su questo divanetto c’è posto per entrambi. Il mio ego non è smisurato tanto quello di Kas e non occupa troppo spazio.»
Abbozzo un sorriso e mi risiedo nuovamente accanto a lei. Racimolo gli ultimi sorsi di bevanda mentre il silenzio stende nuovamente le sue dita.
Vorrei dire qualcosa che possa risvegliare in lei quella risata cristallina che mi frigge i circuiti cerebrali, ma le mie esigue doti sociali sono state definitivamente devastate dalla deficienza dilagante nella società.
«Mi piacerebbe uscire ancora dai confini di Eccelsia» sospira, dopo un tempo che pare essersi dilatato in anni luce.
«Anche il mondo esssterno dopo un paio di volte perde la sssua bellezza» commento.
«Allora perché ci torni?» replica lei.
«Per fare un piacere a Hawkinsss, innanzitutto, e poi perché ssspero sssempre di trovare qualcosa di nuovo da ssstudiare e indagare.»
«Non ti fermi mai.»
«La mia mente ha sssempre bisssogno di qualcosssa su cui concentrarsssi o rissschia di atrofizzarsssi.»
«Non ti stanchi di studiare, in continuazione, senza sosta?» domanda cautamente.
«Ti ssstanchi mai di sssuonare?» chiedo a mia volta.
«A volte» risponde la ragazza, lasciandomi completamente spiazzato. Senza accorgermene devo aver premuto uno di quei fantomatici tasti dolenti. «Quello della musica è più il sogno di Kas, io gli sono andata dietro per sostenerlo. Il suo entusiasmo è stato contagioso, ma mi sono accorta presto che la mia eccitazione era solo un pallido riflesso della sua.»
«E cosssa vorresssti fare?» domando. Non ho mai condotto una conversazione, e non ho mai fatto una domanda tanto personale. Me ne importa poco delle aspirazioni degli altri. Ma con Reka è diverso: parlare con lei mi riesce naturale e spontaneo, come risolvere un’equazione a tre incognite di quinto grado; infilo i calcoli uno di seguito all’altro, senza nemmeno pensarci. Forse, è anche merito dell’alcol che scorre nei miei vasi sanguiferi.
«Esplorare, indagare, imparare. Come te.»
Questa dichiarazione mi lascia senza parole: mai avrei pensato a Reka come una studiosa, o anche solo minimamente interessata alle scienze o alla matematica o all’astrofisica; non dà l’impressione di essere attratta da queste materie, non dà l’impressione di essere attratta da qualcosa in generale, come se tutto le scivolasse addosso senza tangerla, senza segnarla, senza incuriosirla minimamente. Non dico che sia apatica, ma pare che nulla sia abbastanza interessante da poter suscitare in lei una qualche reazione. Come succede a me.
«È un’occupazione solitaria e alquanto triste» rispondo, cercando di farla desistere dal suo proposito.
Non voglio nasconderle la verità: ho dedicato tutta la mia vita alla scienza e al sapere, sacrificando amicizie, amori, salute fisica e mentale e non me ne pento. Ma per lei potrebbe essere una scelta più difficile, lei è abituata a vivere in mezzo alle persone, a contatto con loro; il distacco sarebbe più traumatico. Per quanto riguarda me, invece, ho sempre pensato che gli uomini siano estremamente interessanti, ma non vorrei mai averci nulla a che fare.
La risata- amata e agognata- di Reka torna a irrompere dalla sua bocca, gettandomi in uno stato di confusione estatica.
«Non avrei saputo dirlo meglio» biascica, tra gli ultimi stralci di risa. Devo aver nuovamente espresso i miei pensieri ad alta voce. Sta diventando un’abitudine alquanto fastidiosa e pericolosa: potrei compromettermi.
Serro le labbra e, non sapendo come comportarmi in alternativa, afferro i bicchieri con la patetica scusa di andare a farli riempire nuovamente. Mi importa poco dell’impressione che potrei darle o dei molteplici modi in cui potrebbe interpretare il gesto, ma il mio sistema nervoso non riesce a sopportare di stare accanto a Reka per più di un quarto d’ora consecutivo.
«Stai cercando di farla ubriacare?»
La domanda del surrogato di intelligenza antropomorfa mi coglie totalmente impreparato, e per poco non verso il liquore sul bancone. Inghiotto la risposta poco carina che è risalita fino alle mie labbra, e ne cerco una che possa metterlo a tacere definitivamente.
«Smettila di rompere le palle, Kas!»
Non sono esattamente le parole che avrei utilizzato, ma il concetto è quello. Reka si materializza dietro di me, le falde della giacca simili ad ali di corvo e lo sguardo smeraldino che getta saette letali ovunque si posi.
«Io non vengo a dirti nulla quando pomici con Lucian, quindi ti prego di fare altrettanto.»
«State pomiciando?» chiedono Lucian e Kaine all’unisono, entrambi con la stessa irritante nota di sorpresa nella voce, il tono di Kaine ha anche una sfumatura di rabbia.
«E anche se fosse?» li provoca Reka, prendendo il suo bicchiere.
«È difficile da credere» ridacchia il sub umano, riservandomi un’occhiata scettica che mi analizza dalla punta dei capelli spettinati, si sofferma sulle scaglie che decorano il mio volto e scende lungo il pastrano di feltro per giungere alle vecchie scarpe di cuoio consunte.
Le labbra di Reka si distorcono in un sorriso storto e pericoloso, la categoria di sorrisi che non promette nulla di buono.
«Scommettiamo?» replica con una scintilla di sfida che le accende le iridi verdi.
«Un giro di Venus» accetta l’altro.
E prima che possa anche solo formulare mezzo pensiero, mi ritrovo qualcosa di morbido e vagamente umido premuto sulle labbra. Sussulto e il mio primo impulso è fuggire e sottrarmi a quel contatto, ma l’espressione totalmente frastornata e confusa di Kaine è qualcosa di indescrivibilmente appagante.
«Non è un vero bacio» ci tiene a precisare, «Non c’è nemmeno la lingua!»
Non so cosa voglia dimostrare a quella sottospecie di scimmia evoluta, e non so nemmeno perché ci tenga tanto a dimostrarglielo, quello che sto per commettere va contro qualsiasi principio morale ed etico, scritto e non scritto, che mi sia prefissato nel corso degli anni, spezza ogni logica ed è talmente assurdo e sconvolgente che non può non essere fatto.
In fondo, le più grandi scoperte non sono state svelate attraverso rivoluzioni traumatizzanti, andando contro ciò che era la legge e il pensiero comune?
Sto cercando di giustificare un comportamento totalmente avulso da qualsiasi spiegazione razionale, che è esente da ogni schema mentale, sociale, fisico e psicologico. Non saprei nemmeno io come chiarificarlo.
In un impeto sconosciuto, avvolgo Reka tra le braccia e rispondo al bacio. Sento la ragazza irrigidirsi al mio tocco, colta alla sprovvista quanto me da questo gesto repentino e inaspettato.
Non ho assolutamente idea di come procedere, ma lei mi guida e mi induce e schiudere le labbra, approfondendo il gesto sotto lo sguardo sbalordito dei due. Il sapore delle sue labbra detona in tutto il suo splendore: un leggero retrogusto di liquore lascia il posto a un aroma pieno e inebriante, che non riuscirei a paragonare a nulla che sia presente su questo pianeta o su altri conosciuti e non ancora scoperti. L’intero mistero e il fascino dell’universo sono racchiusi tra quegli scrigni amaranto.
Percepisco qualcosa di viscido e umido che pretende di procedere e penetrare la barriera dei denti: la lingua di Reka si infila con prepotenza nella mia bocca, proiettandomi verso orbite sconosciute che non credevo nemmeno potessero esistere o essere concepite dalla mente umana. Stelle e pianeti esplodono davanti ai miei occhi serrati, senza lasciar trapelare all’esterno nemmeno una goccia del caleidoscopio folle di sensazioni e sentimenti che sto sperimentando.
Il mio cuore batte all’impazzata contro le coste, quasi volesse sfondare la gabbia ossea e raggiungere le amene azzurrità infinite in cui la mia coscienza sta folleggiando, ubriaca e paga.
La realtà intorno a me si nullifica completamente, come quando entro negli abissi del mio pensiero e rifletto profondamente e intensamente. In questi casi ci siamo solo io e gli stimoli inviati dal mio corpo a cui rispondono gli impulsi inviati dal mio sistema nervoso. Nient’altro che io e me medesimo.
In questa particolare occasione, oltre alla mia figura, compare anche quella di Reka causa ed effetto di ogni fenomeno. I movimenti della sua lingua sono misurati e pensati per eccitare, sondano la mia cavità orale e stuzzicandone ogni recesso. Ogni volta che si scontra con la mia, un sussulto scuote entrambi e un brivido corre lungo la mia schiena. Mi domando quali sensazioni le provochi sfiorare una lingua biforcuta.
Non avevo mai baciato nessuno prima d’ora e non avevo mai dato importanza a questo genere di gesti; nella maggior parte dei casi sono sopravvalutati, fraintesi o abusati, quasi sempre privi di qualsiasi attrattiva. Le dinamiche relazionali e sociali non sono il mio campo di studio. Ma ora, mi domando come sia stato capace di non provare nemmeno una curiosità anche solo scientifica nei suoi confronti. Forse perché il bacio stesso, il suo significato e le sensazioni che esso provoca sono distanti anni luce da ciò che ho sempre indagato ed esperito. Nulla di ciò che sto provando in questo momento può essere descritto con le parole, sarebbe riduttivo; e non può nemmeno essere esplicitato con immagini o espressioni di uso comune: la spiegazione chimica e fisica del fenomeno ne annullerebbe la carica sentimentale che gli conferisce quell’alone di mistero e fascino.
Ho rifuggito tutto quello che poteva essere collegato con i sentimenti ed escluso dalla logica, e ironicamente, ne sono diventato il protagonista.
Sento Reka abbandonarsi contro il mio corpo, mentre la mia lingua imita timidamente la sua in una lotta impari per la conquista, ciascuna, del territorio in possesso dell’altra.
Qualcosa negli emisferi inferiori della mia persona si irrigidisce e anche Reka sembra accorgersene. Si allontana, abbandonando le mie labbra martoriate e fredde. L’usuale colorito imporpora il mio incarnato; sono ben consapevole che sia una reazione del tutto naturale e spontanea, ma rimane imbarazzante.
Ho il respiro accelerato e la tengo ancora stretta tra le braccia, il calore del suo corpo attraversa la stoffa della sua giacca e del mio pastrano, irradiando un tepore piacevole e rassicurante. Kaine e Lucian sono diventate figure inconsistenti di cui percepisco appena l’esistenza, come l’universo coglie la presenza di una pulsar.
«È vero ciò che si dice sui Trooodonici?» domanda Reka, sussurrando appena al mio orecchio. La sua mano scorre lungo la coscia e si arresta a qualche centimetro dall’inguine, indugiando indecisa.
«C-cosssa si dice sui Troodonici?» replico sussultando per un brivido, che dalla gamba si ripercuote sull’intero sistema nervoso e mi fa contrarre ogni muscolo.
La mano di lei giocherella, accarezzando maliziosa la coscia, senza mai, però, giungere nella direzione designata.
Il suo volto brucia ancora qualche centimetro di distanza e posso annegare nelle galassie che si rincorrono nelle sue iridi. Le sue labbra sono ad un soffio dalle mie e sento ogni refolo di respiro fluire dalla bocca dischiusa.
«Che siano piuttosto dotati» sussurra, «Ma è solo un’ipotesi. E tu, in quanto uomo di scienza, dovresti approvare e incoraggiare esperimenti che comprovino tale ipotesi. Non credi?»
E prima che possa rispondere, le sue dita superano la barriera di cotone e affondano nei miei recessi più intimi.

«Drisk!» una voce familiare eppure sconosciuta giunge da qualche luogo lontano, come appartenente ad un’altra dimensione. Cerco di ignorarla e concentrarmi su Reka, ma la figura di lei si scompone e si sbriciola davanti ai miei occhi, dissolvendosi senza che io riesca ad afferrarne le ultime propaggini.
Lentamente riemergo dalla dimensione onirica, di cui, mi accorgo solo ora, di essere stato prigioniero.
Con straziante lentezza e angoscia i contorni della realtà circostante si fanno più nitidi e odiati, confermandomi che si è trattato solo di un sogno, o di un’allucinazione. In entrambi i casi, ciò che era stato è ormai scomparso e perso per sempre.Al posto di Reka, mi ritrovo davanti il volto stralunato e imberbe di Lucian. Mi sta scuotendo per un braccio, contravvenendo al mio divieto categorico di essere toccato da parte sua, e ripete il mio nome.
«Drisk svegliati!» mi richiama, e la sua voce straccia anche l’ultima traccia di visione onirica. Reka viene irrimediabilmente inghiottita da quella dimensione in cui i sogni riposano quando siamo svegli.
Me lo sarei dovuto aspettare in realtà: pensandoci bene, è troppo inverosimile che una qualsiasi ragazzi possa anche solo interessarsi a me, figurarsi una come lei! Eppure, pur nella sua assurdità, è stato un sogno che non mi spiacerebbe vedere tramutato in realtà.
Reka è davvero interessante e sarebbe appagante poter trascorrere qualche momento con lei, anche solo in amicizia…
Grande Giove! Ma che diamine sto blaterando? Io che ricerco l’amicizia e la compagnia di un’altra persona? Sopporto a malapena la compagnia di me stesso!
La scorsa notte devo essermi pesantemente ubriacato, nonostante i miei precedenti infelici e le mie promesse.
Mi passo una mano sul volto, per cancellare ogni rimasuglio di sonno, speranze perdute, sogni infantili e inutili.
«Si può sapere cosa hai combinato?» domanda Lucian.
Restituisco il suo sguardo incredulo e sconvolto. Di cosa diamine sta parlando?
Pian piano i contorni della stanza acquisiscono una nitidezza tale da poter riconoscere gli oggetti che vi sono: mi trovo nel mio laboratorio, ne riconosco le pareti coperte di lavagne che rigurgitano calcoli e formule, gli scaffali stipati di volumi e quaderni di appunti, le mappe stellari e le teche contenenti ogni ben di dio chimico; il tavolo, però, non è ingombro delle solite preziosissime e costosissime attrezzature che lo dominano di solito, ma la superficie bianca e asettica si riflette sotto le luci al neon, ostentando la propria completa nudità. Al contrario, il pavimento è cosparso di indumenti, e solo in quel momento mi accorgo di essere in mutande. Perché sono in mutande? E perché quelli che, con molta probabilità, sono i miei vestiti si trovano sul pavimento?
«Cosa è successo?» domando.
«Mi stai prendendo in giro?» replica Lucian, «È quello che ti ho appena chiesto!»
Non so cosa rispondere. Sono sconcertato: non ho assolutamente idea di quali fenomeni possano essersi susseguiti la notte passata e non riesco a trovare una spiegazione logica. Devo essermi davvero sfondato di etanolo.
Ma questo non spiega perché io mi ritrovi senza abiti.
«Ieri sera sei sparito improvvisamente. Ti ho cercato per buona parte della notte, poi ho pensato fossi tornato al cubo e sono tornato a casa. Stamattina sono arrivato al laboratorio come al solito, ed eri qui, che dormivi beatamente mezzo nudo!»
Nemmeno io riesco a trovare una sequenza di causa-effetto che spieghi questo avvenimento. E ne dovrei essere l’artefice!
In quel momento il mio occhio cade su un foglio di carta ripiegato, che spunta dalla tasca dei pantaloni. Sono certo che quel biglietto abbia un collegamento con i fatti inspiegabili in cui mi trovo invischiato.
Lucian segue il mio sguardo e si accorge anch’egli dell’oggetto. Mostra l’intenzione di avvicinarsi ad esso ma lo precedo, e non appena entro in possesso del pezzo di carta, lo spingo fuori dal laboratorio
«Ma…!» prova a protestare, ma ogni altra lamentela viene troncata dalla porta che gli chiudo in faccia. A chiave.
Non penso che si offenderà: è abituato ai miei sbalzi di umore e, comunque, non è affar mio.
Apro quasi febbrilmente il biglietto con le dita tremanti. Vi sono vergate poche frasi, in una grafia pessima, scritte con il rossetto di un colore familiare, rosso amaranto:
L’ipotesi riguardo i Troodonici è stata scientificamente comprovata e approvata. Dovremmo fare esperimenti assieme più spesso. R.”

   
 
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