«Drisk»
Il tono petulante di Lucian mi strappa dallo stato catatonico in cui
ero
immerso, costringendomi a riemergere dal terzo bicchiere di succo di
mirtillo,
di cui devo aver approfonditamente scrutato i recessi fino a questo
momento,
senza, per altro, trarne grande giovamento. Da quando mi sono ubriacato
con il
Venus offerto da quel decerebrato punk, mi tengo ben lontano da
qualsiasi cosa
contenga anche la minima traccia di etanolo.
Il mal di testa epocale che mi ha accolto la mattina successiva
sonnecchia ancora negli anfratti più remoti della mia
scatola cranica,
riaffiorando ogni qualvolta provo a cimentarmi in
un’equazione più intricata
del solito…e questo accade più spesso di quanto
non desideri. Non è
un’esperienza molto piacevole.
«Tutto bene?» mi domanda, scrutandomi con occhio
apprensivo.
Lucian è l’unico di cui riesca a sopportare il
fatto che respiri il mio
stesso ossigeno, sebbene, a volte, farei volentieri a meno della sua
onnipresenza.
A lungo ho provato ad allontanarlo, ma senza successo: questi
è rimasto
strenuamente abbarbicato alla mia persona, trovandovi non so che
fascino, e
nonostante i miei ripetuti tentativi di scollarmelo di dosso, me lo
sono sempre
trovato tra i piedi. Alla fine, gli ho concesso l’onore della
mia compagnia,
premiando la sua caparbietà e conquistandosi la mia
ammirazione. Anche perché,
in fondo, persino la più alta e fine delle menti ha bisogno,
ogni tanto, di
confrontarsi e condividere le proprie impressioni con il volgo;
quantomeno
costui comprende quando parlo di traiettorie paraboliche e calcoli
infinitesimali
e non mi fissa come un ebete, come, invece, la maggior parte della
plebe.
«Sei più dissociato del solito»
commenta. Come se per la maggior parte
del tempo non vivessi in un universo parallelo completamente avulso da
questa
realtà infima e chiusa, troppo stretta per una mente eccelsa
come la presente.
«Sssto bene» lo freno, prima che il suo spirito da
crocerossina
frustrata prenda il sopravvento e mi inchiodi con una sfilza di quesiti
a cui
non credo di voler dare risposta.
Invero, il mio sistema è completamente scombinato da una
serie di valori
che non so assolutamente come interpretare e assemblare. Dopo
l’ultima sortita
assieme ai folli fratelli Kaine sento il mio sistema dissestato, e non
riesco a
capirne la causa. La qual cosa mi infastidisce enormemente.
Per la verità, il moto turbolento di sensazioni e percezioni
inesplicabili si semplifica in una parola che la mia mente sopraffina
si
rifiuta di accettare in quanto è inconcepibile che Driskoll
Stewart sia stato
sconvolto da un sentimento alquanto inusuale per la sua persona, dedita
e
devota alle scienze e a tutto ciò che è logico e
matematico. Tale sentimento è
completamente escluso da qualsiasi logica e non può essere
imbrigliato in
calcoli o schemi o formule, è imprevedibile e inafferrabile,
pertanto viaggia
sua una retta parallela a ciò che costituisce
l’universo in cui milito. E come
tale mi sconvolge ancora di più, gettandomi in uno stato
confusionale che
rasenta il panico.
Per ridurre la questione ai minimi termini, mi duole profondamente
ammetterlo a me stesso, ma ci sono buone probabilità che mi
sia invaghito di un
altro essere respirante…e addirittura umano!
Non che sia la prima volta.
Non sono asessuato- nonostante lo pensi un’alta percentuale
di bifolchi-
e mi è capitato di provare un’attrazione
per
questo o quell’esemplare piacente, ma la mia mente brillante
e intuitiva non
poteva essere distolta dal suo lavoro di studio e indagine con simili
distrazioni perniciose, e ho sempre relegato codeste amenità
nella circonvoluzione del mio encefalo riservata alle
frivolezze
inutili e alle quisquiglie. Eppure l’equilibrio della
suddetta mente rischiava
di venire compromesso da quei sentimenti che avevo giurato di aborrire
ed
evitare accuratamente.
Questo cambiamento mi ha colto di sorpresa lasciandomi sorpreso e
indifeso di fronte alla sua manifestazione e al suo sviluppo. Ho
provato a
porvi un argine, a confinarlo assieme ai suoi simili, ma
quest’insolente ritorna
a importunarmi, molesto, facendomi trascorrere notti insonni e
logorando quel
poco di lucidità che mi resta.
Cerco di sbrogliare e analizzare questo sentimento -così
come indago i problemi
matematici e fisici- per poterlo risolvere e archiviare, ma esso
è mutevole e
cambia continuamente i propri dati e le proprie caratteristiche,
impedendomi di
circoscriverlo e identificarlo univocamente.
È frustrante per un uomo di scienza non riuscire a spiegarsi
un
fenomeno.
«Perché i sentimenti non potevano essere
ingabbiati in figure e formule?
Sarebbe più semplice comprenderli.»
«Come?» domanda Lucian, facendomi capire che devo
aver espresso ad alta
voce i miei ultimi pensieri.
«Cosa?»
«Cosa hai appena detto?»
«Nulla.»
Lo sguardo dell’altro trasuda scetticismo, ma decido di
ignorarlo. Non
ho intenzione di condividere con lui le mie elucubrazioni mentali.
Credo di
essermi già tradito abbastanza.
«Sei sicuro che quello sia solo succo di mirtillo?»
indaga.
Probabilmente pensa che abbia iniziato a vaneggiare.
«Sssicurissimo» replico, sebbene in
realtà si tratti di succo e una dose
massiccia di antidolorifici e calmanti.
Cercare di sviscerare questi sentimenti inusuali per la mia persona,
conduce ad uno sforzo sovraumano che sfocia in lancinanti emicranie
esacerbate
dai postumi dei postumi della sbornia. Un enorme spirale letale che mi
ha
imbrigliato nelle sue spire, succhiando le mie energie e tarlando, con
lavoro
certosino, la mia stabilità fisica e mentale…E in
tutto questo dovrei anche
racimolare il tempo per vivere…
«Sono arrivati!» annuncia improvvisamente,
raggiante. Questo suo
repentino cambiamento di umore mi coglie impreparato, facendomi
sussultare
sullo sgabello. Il suo grido mi trapassa le meningi facendomi stringere
i
denti: un principio di cefalgia si profila all’orizzonte, con
mia somma gioia.
Non mi arrischio nemmeno a indagare la causa di tale improvvisa
eccitazione, immagino già la risposta.
Come volevasi dimostrare, sul riquadro della porta del locale appare la
sagoma allampanata di quel Kaine.
Mi domando, ogni volta che i pianeti si allineano per concedermi la
fortuita coincidenza di incontrarlo, cosa ci trovi Lucian in
quell’avanzo
dell’evoluzione dallo sguardo poco sveglio. Probabilmente
è semplicemente attratto
dai casi disperati, basti vedere con chi trascorre i suoi sabati sera.
«Cosssa ci fa lui qui?» sibilo, incenerendo con lo
sguardo il nuovo
arrivato.
«Mi sono preso la libertà di invitarli. Dovresti
socializzare un po’ di
più, e poi dobbiamo organizzare la prossima
sortita.»
«Ti sssei pressso la libertà di decidere come
preferisssci morire» sbotto.
Le mie intenzioni di trascorrere la serata con quel surrogato di
intelligenza
primitiva sono al di sotto dello zero. Lo zero assoluto.
«Eddai! Non te la prendere! Si tratta solo di passare una
serata con gli
amici, l’ultima volta ti sei divertito.»
L’ultima volta mi sono lasciato sfuggire dettagli sulla
sortita
notturna, ritrovandomi, poi, nel bel mezzo di una riunione di famiglia
tra
tossici e psicopatici dotati di arti meccanici, a capo di un gruppo di
sbandati
completamente folli. E quello schizofrenico sarei io!
Non ho la minima intenzione di riportare nel mondo esterno quei due
scapestrati. Soprattutto Kaine.
«Mi sssfugge l’esatto momento in cui
l’imbecille e sua sorella siano
diventati miei amici» replico, ma ormai, il suddetto
imbecille ha gravitato la
completa attenzione di Lucian.
«Vi siamo mancati?» esordisce, dando sfoggio alla
sua usuale delicatezza
e galanteria, da perfetto macchinista ubriacone del Dodici. Non che mi
aspettassi qualcosa di diverso.
Si frappone fra me e Lucian, separandoci come due molecole durante
l’elettrolisi, e il volto sorridente del ragazzino viene
schermato dalla
schiena dell’altro, in uno sfoggio squisito e sublime di
educazione.
Uno spettacolo davvero appagante.
Subito dietro a Kaine, compare la sodale controparte femminile.
Abbigliata interamente di nero e con uno sguardo omicida che saetta da
una
parete all’altra del locale, alla Lisbeth Salander, sembra la
reincarnazione
del Tristo Mietitore. Ha l’espressione di chi preferirebbe
essere ovunque
-persino a pulire i macchinari del Tredicesimo- piuttosto che qui. E,
in
effetti, la capisco.
Non riesco proprio a comprendere la necessità di immergersi
nel vasto
squallore della demenza umana; ogni volta cerco di dare una
possibilità al
genere di riscattarsi, ma vengo perennemente deluso, notando come
nessun individuo
sia alla mia altezza, ma tutti striscino a livello
dell’indecenza. A parte
Lucian, che quantomeno fa buon uso degli impulsi elettrici inviati dal
suo
encefalo.
E lei.
Reka possiede la stessa visione edulcorata e cinica della
realtà e degli
uomini, fattore che le permette di elevarsi al di sopra dello scempio
che mi
circonda costantemente. Dalla prima volta che i miei recettori ottici
hanno
acquisito la sua immagine, e l’espressione di profondo
sconforto e disgusto che
aleggiava sul suo volto diafano, non ho potuto fare a meno di
ipotizzare che
fosse esacerbata quanto me riguardo la pochezza
dell’umanità.
«Come ce la passiamo, Stew?» Kaine si accorge,
malauguratamente, della
mia presenza e pensa bene di rompere la mia bolla di
tranquillità con il suo
starnazzare inutile e fastidioso, comprovando le mie tesi circa la
penuria di
menti brillanti con cui possa confrontarmi, «Quello
è succo di mirtillo? Non
vuoi un Venus?»
Perché sono costretto a interagire con questo microcefalo?
«Ssstavo magnificamente prima che la tua apparizione
sconvolgesse il mio
equilibrio emotivo e mentale» rispondo. L’altro mi
concede uno sguardo confuso
prima di decidere che non vale la pena sforzare i due neuroni residui
per
comprendere il significato della mia frase, preferendo utilizzarli per
ordinare
un paio di Venus.
Reka, dopo un breve cenno di saluto, è rimasta in piedi
accanto a noi, e
scruta con particolare interesse le nervature del pavimento di finto
legno del
locale.
Mi concedo un’occhiata di sbieco per carpire, in segreto, i
dettagli del
suo aspetto: i capelli rossi ricadono come fili di rame sulle spalle
sottili,
ingobbite sotto il cappotto di pelle nera. Sono una vampa di fiamma
immerso nel
mare scuro del suo abbigliamento. Altra scintilla di colore, che spicca
quasi
prepotentemente sull’incarnato pallido, reso spettrale dalle
luci al neon, sono
le labbra, simili a velluto. La curva morbida dell’arco di
Cupido mi cattura,
impedendomi di notare le schegge di smeraldo delle sue iridi che,
improvvisamente, si scontrano con le mie orbite.
Merda.
«C’è qualcosa che non va?»
domanda, brusca. E non posso darle torto:
anche io mi innervosirei se scoprissi qualcuno a fissarmi di sottecchi.
Ci sono
alte probabilità che mi abbia appena identificato come un
Troodonico trentenne,
erotomane, lascivo e disperato, perfettamente corrispondente alla prima
impressione che avevo intenzione di darle.
Naufrago disperatamente nel mare di pensieri, scuse e motivazioni che
galleggiano nella mia mente, ma nessuna mi pare abbastanza efficace.
Boccheggio
come un pesce fuor d’acqua, lo sguardo di lei che mi trapassa
e accende in me
un’ansia e un’apprensione di cui non riesco a
discernere la causa.
«Mi ssstavo domandando ssse non preferissssi sssederti,
piuttossto che
ssstare in piedi» rantolo con voce tremante nella speranza di
non fare la
figura da Kaspar Kaine, ovverosia da perfetto idiota. Un fiotto di
calore si è
arrampicato lungo la nuca, incendiandomi il volto, e la voce
è tremante e
spezzata dal fiato rotto e dal cuore incastrato nella trachea. Mi
sembra di
essere un quindicenne decerebrato. Non avrei pensato che una ragazza
potesse
farmi retrocedere a tal punto sulla scala evolutiva, annullandomi in
un’oloturia
parlante.
Reka solleva un sopracciglio: probabilmente sta valutando se ritenere
la
mia considerazione valida o un’emerita cazzata. Spero che
propenda per la prima
opzione, ne andrebbe della mia già provata
rispettabilità.
Mi alzo dallo sgabello e le cedo il posto, per sottolineare le mie
intenzioni, e salvare quel briciolo infinitesimale di
dignità che deve essere scampato
all’eccidio provocato dal suo sguardo, e non si è
ancora dissolto.
La ragazza esita e, infine, abbozza un sorriso che non saprei dire se
sardonico o amichevole.
«Andiamo a sederci da un’altra parte»
propone invece, «Lasciamo soli i
due piccioncini.»
E prima di avere la mia risposta, ordina un liquore e si avvia verso i
recessi del locale, schivando abilmente tavolini, sedie, braccia,
gambe, corpi
e imprecazioni.
Rimango fermo come una pala eolica nel mezzo del locale, il mio sguardo
a seguire i movimenti serpeggianti e ipnotici di lei, ben presto
inghiottiti
dalla folla.
Non so come comportarmi: non so se seguirla o tornarmene a casa a
occupare il mio tempo in maniera più intelligente e
costruttiva. Lucian mi ha
costretto a partecipare a questo rito depravato inculcato come una
necessità
indispensabile nelle menti suscettibili di queste scimmie antropomorfe,
ma ora
che il suo unico bene si è degnato di onorarci della sua
ingombrante presenza,
tutta la sua attenzione è calamitata da lui e non mi concede
nemmeno uno
sguardo di sfuggita, giusto per accertarsi che respiri ancora.
Alla fine, mi risolvo per l’opzione di raggiungerla:
quantomeno è un
miglioramento rispetto alla figura di baccalà congelato che
devo offrire
nell’attuale atteggiamento.
Cerco di seguirla, ma, oltre a me, riesce a raggiungerla solo
metà del
mio succo di mirtillo, dal momento che la restante parte decora il
pavimento
del locale. La qual cosa non fa grande differenza: lo strato di
sudiciume è
tale da poter essere suddiviso in strati archeologici. Mi chiedo quanti
nuovi
batteri possano essere scoperti prelevandone un campione.
Immerso nei miei pensieri, non mi accorgo della gamba del basso
tavolino
che si frappone fra me e il divanetto, e precipito su Reka, spargendo
ciò che
rimane del succo sulle pareti, in una fedele rappresentazione di un
quadro di
Pollock.
«M-mi dissspiace» balbetto, cercando di recuperare
la posizione consona
ad un bipede.
Oltre alla voce “maniaco”, posso anche spuntare
quella di “imbranato”
alla lista delle impressioni che non avrei voluto darle ma che, per una
qualche
legge a me sconosciuta, continuo irrimediabilmente a proporle.
La sfumatura del mio volto deve essersi sintonizzata su un appariscente
rosso tiziano, rendendo il tutto ancora più imbarazzante.
«Tranquillo» mi rassicura lei, «Sono cose
che capitano, e credo che la
macchia viola doni carattere al muro.»
Abbozzo un mezzo sorriso, apprezzando il suo tentativo di togliermi
dall’imbarazzo dilagante.
La ragazza si sposta leggermente, facendomi cenno di accomodarmi sul
metro quadro di stoffa lisa che hanno l’ardire di chiamare
divano. Mi lascio
cadere imbarazzato, e mi rendo conto di essere troppo vicino a lei, per
i miei ormoni:
i nostri bicipiti brachiali si sfiorano appena, ma basta questa
parvenza di
contatto per perturbarmi. Il mio cuore inizia ad aumentare la frequenza
e sento
le viscere torcersi e concatenarsi l’una all’altra.
Positroni! Mi sembra
di essere una scolaretta
alla sua prima cotta! Dovrei almeno cercare di darmi un contengo!
Un silenzio carico di tensione cala tra noi.
Solitamente, l’assenza di rumore non mi dispiace
perché mi permette di
immergermi completamente negli anfratti più profondi della
mia mente e di
perdermi nel mondo più interessante e sconvolgente dei
numeri. Ma questa volta,
grava come una cappa umida sulle nostre persone, e scavo negli abissi
del mio
encefalo per racimolare quel poco di socialità, che spero
sia rimasta, e far
emergere un argomento qualsiasi per rompere questo manto denso e
opprimente.
Reka centellina il suo liquore e sento, a volte, il suo sguardo posarsi
su di me. Mi sta studiando e valutando, per cercare di carpire le mie
intenzioni. È difficile che le sia sfuggito il mio sguardo
intenso e
insistente, e il mio vano tentativo di essere galante. Probabilmente si
sta
chiedendo quali siano le mie prossime mosse -come se stessimo giocando
una
partita a scacchi in cui lei ha la parte della temibile regina nera, io
del
pedone bianco.
Il problema è che non le conosco nemmeno io: sono sempre
stato un
imbattibile avversario a scacchi, questi puerili intrattenimenti ludici
sono fin
troppo semplici e noiose per me, ma la sola presenza di Reka non mi
permette di
assemblare alcuna strategia, come se il mio cervello fosse caduto in un
temporaneo blackout. E il mio cervello non si spegne mai.
Reka è un individuo interessante, ha uno sguardo acuto e
disincantato e
una mente svelta e brillante, non si lascia affascinare da inezie, e ha
compreso che sotto lo strato di zucchero a velo che decora la
realtà non ci sia
altro che merda, almeno per quanto riguarda questo buco sperduto di
città
semovente.
Mi piacerebbe approfondire la conoscenza e stimolare il suo pensiero e
la sua mente, sondarla e sconvolgerla, testarne i limiti e i confini;
ho come
l’impressione che potrebbe comprendermi, visceralmente,
e condividere le mie considerazioni, o metterle in discussione per il
semplice
gusto di farlo, spronandomi a trovarne l’antitesi e a
confutarla. È una persona
che sento intellettualmente adeguata al mio livello, con cui potrei
intrattenere conversazioni incomprensibili alla maggioranza.
Inoltre è un individuo estremamente affascinante, non solo
da un punto
di vista puramente accademico.
Ma l’incognita è rappresentata da Reka stessa e
dalla sua
accondiscendenza a questo mio progetto. Se lei non fosse
d’accordo non potrei
biasimarla, ma le mie aspirazioni verrebbero irrimediabilmente spezzate.
È la prima volta, credo, in tutta la mia vita, che dipendo
dalla volontà
di una persona. E la novità mi sconvolge e mi destabilizza.
Forse avrei dovuto fornirmi di qualcosa di un po’
più forte del succo di
mirtillo.
«Da quanto tempo fate queste fughe nel mondo
esterno?» chiede
improvvisamente.
La sua voce si sprigiona tanto inaspettata e improvvisa che sussulto,
strappandomi dal limbo tetro e contorto dei miei pensieri. Impiego
qualche
secondo per accertarmi che non sia un’illusione uditiva, come
mi accade a
volte.
«Non lo ssso» abbozzo. Ma è la
verità: a Eccelsia non siamo abituati a
misurare il tempo. Non attraverso un metodo convenzionale, almeno,
«Sssono un
uomo di ssscienza, mi piace esssplorare e indagare. E le cossse
interessanti in
quesssta città sssono finite presssto.»
Almeno fino a questo momento, ma evito di pronunciare
quest’ultima
frase. Credo di essere stato già abbastanza palese in merito.
«Eccelsia non ha molto da offrire» concorda la
ragazza, rigirando con
aria malinconica e vuota i resti di bevanda nel suo bicchiere.
Nuovamente il silenzio si impossessa della conversazione, lasciandomi a
fissarla come un troglodita.
Frugo disperatamente alla ricerca di un argomento, una frase, una
battuta qualsiasi che possano spezzare il silenzio. Ma tutto
ciò che
quest’ultima riesce a partorire è
un’equazione: è l’equazione di Dirac
sfruttata e abusata in una maniera raccapricciante, ma capace di
rappresentare in
maniera abbastanza esaustiva il mio stato. Secondo tale equazione, se
due
sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi
vengono
separati, non possono più essere descritti come due sistemi
distinti, ma in
qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che
accade a
uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se
distanti chilometri o
anni luce. E io mi sentivo influenzato da lei, dal suo umore e dalle
espressioni del suo volto.
Sono frastornato e confuso: mai era capitato un simile avvenimento,
avevo cercato di evitarlo, per non compromettere la mia carriera e i
miei
studi. E all’improvviso è arrivata lei, facendo
scoppiare una quotidiana guerra
con la razionalità che distrugge le fragili colonne su cui
si basa la mia
precaria sanità mentale.
Non avrei mai creduto che un essere mortale potesse farmi un tale
effetto: di solito mi emoziono per cose non comuni, come una nuova
stella, uno
studio sperimentale sulla telecinesi, i ponti di Einstein-Rosen e altre
meraviglie del genere; tutto ciò che concerne la fisica e la
matematica è per
me motivo di entusiasmo e meraviglia.
Reka provoca in me lo stesso effetto dell’esplosione di una
supernova, e
anche gli stessi contrastanti sentimenti: è uno spettacolo
magnifico e
indescrivibile, ma rimane inavvicinabile e potenzialmente distruttivo.
E lei
sta lentamente devastando il mio piccolo sistema solare.
«Vuoi che te ne prenda un altro?» mormoro alla
fine, accennando al
bicchiere vuoto. Sento il bisogno di allontanarmi da lei e recuperare
un minimo
di lucidità; quanto basta per non mandare a puttane tutto
quanto.
«Vuoi farmi ubriacare per poi approfittare di me?»
replica lei, il
fantasma di un sorriso ironico a disegnare il profilo delle labbra.
Affogo per
un momento nella piega creata dall’arco di Cupido e mi
accoccolo in quello
spazio di pelle morbida e chiara. Mi sorprendo a domandarmi che sapore
abbia.
Sto decisamente scivolando verso un punto di non ritorno.
Solo dopo svariati secondi di ritardo mi rendo conto dei sottintesi-
che
poi tanto sottintesi non sono- della domanda di lei, e nuovamente il
rossore detta
legge sul mio volto, «N-no» balbetto, sconvolto.
«Sto scherzando» cerca di rassicurarmi,
«So che non sei quel genere di
persona.»
Questo genere di persona, in effetti, non partorisce pensieri di
qualsiasi tipo riguardanti una donna dal giorno della sua prima
laurea…Forse
anche prima.
Per togliermi dall’imbarazzo le prendo il bicchiere dalle
mani. Le
nostre dita si sfiorano e sento come un brivido elettrico risalire dai
polpastrelli, lungo le braccia e scivolare attraverso la schiena,
facendomi
irrigidire.
Questa progressiva perdita di controllo sta iniziando a preoccuparmi.
Mi
allontano il più in fretta possibile.
Arranco fino al bancone e chiedo due altri bicchieri della stessa
bevanda. Mi sono reso conto che ho bisogno di qualcosa di forte per
ristabilire
le interconnessioni del mio sistema nervoso.
«Ehi!» la voce impastata di alcol di Kaine mi fa
salire l’istinto
omicida, che si concretizza in un’imprecazione soffiata tra i
denti poco prima
di rivolgermi a lui.
«Ho visto che ti sei appartato con mia sorella. Vedi di non
fare
scherzi!»
Come se a Reka potesse interessare uno scienziato schizofrenico di
ventotto anni con metà del volto ricoperto di scaglie viola.
Come se a me
dovrebbe importare che a Reka interessi di uno scienziato schizofrenico
di
ventotto anni!
La parte illogica di me- che sta cercando di spodestare quella
razionale- ci spera; quest’ultima spera solo di giungere a
fine serata non più
fuori di testa di quanto già non sia.
Ignoro la provocazione del sub-umano e claudico fino al divanetto dove
Reka siede con aria annoiata e scocciata.
«Credo che la forza di gravità in quesssto locale
abbia un valore
maggiore che nel resssto di Eccelsia» cerco di scusarmi
mentre le porgo il
bicchiere. Solamente tre quarti della bevanda sono giunti incolumi fino
a lei.
«Non fa nulla» risponde con un sorriso luminoso. Un
lieve sentore di
bruciato aleggia a livello delle sinapsi.
Rimango in piedi, troppo imbarazzato e sconvolto, per arrischiarmi a
prendere nuovamente posto accanto a lei. Ingurgito un sorso del
liquido, e il
suo sapore dolceamaro si trascina lungo la gola, facendovi scoppiare un
incendio. Ha un retrogusto disgustoso, che mi attorciglia le papille,
ma
quantomeno, mi permette di rilassare la tensione muscolare che mi
attanaglia.
Percepisco lo sguardo smeraldino di lei trafiggermi e mi ritrovo
costretto
a ricambiarlo, troppo insopportabilmente intenso per poterlo ignorare.
«Mi stavo domandando se non preferissi sederti piuttosto che
rimanere in
piedi» mi fa il verso, non appena stabiliamo un contatto
visivo.
«Potrei proporti di andare a sssederci da un’altra
parte, ma non vedo
alternative» rispondo. Ed immediatamente me ne pento: ho
aperto bocca prima che
i processi neuronali suggerissero cosa dire e dalle mie labbra sono
uscite
queste poche parole acide e squallide. Pure il tono sembrava stizzito,
quasi
che mi desse fastidio il suono della sua voce.
In effetti, qualsiasi essere-
che si reputa- umano osi rivolgermi la parola, provoca in me un senso
di nausea
e disgusto, dal momento che ogni volta che dà aria al
proprio apparato buccale,
conferma l’ipotesi secondo cui la demenza possa raggiungere
livelli incurabili.
Una risata disarmante, e del tutto inaspettata, sgorga dalle labbra di
lei, appesantite dal rossetto amaranto.
Ne rimango completamente spiazzato, quasi che quel riso mi abbia
colpito
sulla guancia come uno schiaffo.
Non capisco perché stia ridendo, se stia ridendo di me o se
ha
interpretato la mia frase cinica e acida- una mera considerazione
realistica,
come affermare che il protone ha carica positiva- come una battuta.
Accenno a mia volta una piega divertita- penso che nelle interazioni
sociali questo gesto indichi una sorta di complicità e mi fa
sentire un po’
meno fuori luogo e completamente rincitrullito- senza veramente
comprendere
tutta questa sua ilarità.
L’unica informazione che il mio cervello riesce a registrare
è che mi
piace sentire la sua risata.
Quest’ultima consapevolezza mi investe lasciandomi basito: da
quando mi
preoccupo di simili minuzie? Da quando il comportamento di una donna ha
effetti
su di me?
Sento progressivamente la presa sui miei pensieri e le mie azioni
allentarsi, come se non fossi più io a manovrarle ma un
qualche burattinaio che
si diverte a mettermi in ridicolo. Sento di star per impazzire: sto
cercando di
controllare con tutte le mie forze il rimescolio di emozioni e pensieri
sconnessi che sta ribollendo nella parte più remota del mio
animo,
risvegliandosi dal gelo siderale in cui l’avevo confinata.
Reka cattura le lacrime scaturite dai suoi occhi e si concede un sorso
di liquore.
«Su questo divanetto c’è posto per
entrambi. Il mio ego non è smisurato
tanto quello di Kas e non occupa troppo spazio.»
Abbozzo un sorriso e mi risiedo nuovamente accanto a lei. Racimolo gli
ultimi sorsi di bevanda mentre il silenzio stende nuovamente le sue
dita.
Vorrei dire qualcosa che possa risvegliare in lei quella risata
cristallina che mi frigge i circuiti cerebrali, ma le mie esigue doti
sociali
sono state definitivamente devastate dalla deficienza dilagante nella
società.
«Mi piacerebbe uscire ancora dai confini di
Eccelsia» sospira, dopo un
tempo che pare essersi dilatato in anni luce.
«Anche il mondo esssterno dopo un paio di volte perde la
sssua bellezza»
commento.
«Allora perché ci torni?» replica lei.
«Per fare un piacere a Hawkinsss, innanzitutto, e poi
perché ssspero
sssempre di trovare qualcosa di nuovo da ssstudiare e
indagare.»
«Non ti fermi mai.»
«La mia mente ha sssempre bisssogno di qualcosssa su cui
concentrarsssi
o rissschia di atrofizzarsssi.»
«Non ti stanchi di studiare, in continuazione, senza
sosta?» domanda
cautamente.
«Ti ssstanchi mai di sssuonare?» chiedo a mia volta.
«A volte» risponde la ragazza, lasciandomi
completamente spiazzato.
Senza accorgermene devo aver premuto uno di quei fantomatici tasti dolenti. «Quello della
musica è
più il sogno di Kas, io gli sono andata dietro per
sostenerlo. Il suo
entusiasmo è stato contagioso, ma mi sono accorta presto che
la mia eccitazione
era solo un pallido riflesso della sua.»
«E cosssa vorresssti fare?» domando. Non ho mai
condotto una
conversazione, e non ho mai fatto una domanda tanto personale. Me ne
importa
poco delle aspirazioni degli altri. Ma con Reka è diverso:
parlare con lei mi
riesce naturale e spontaneo, come risolvere un’equazione a
tre incognite di
quinto grado; infilo i calcoli uno di seguito all’altro,
senza nemmeno
pensarci. Forse, è anche merito dell’alcol che
scorre nei miei vasi sanguiferi.
«Esplorare, indagare, imparare. Come te.»
Questa dichiarazione mi lascia senza parole: mai avrei pensato a Reka
come una studiosa, o anche solo minimamente interessata alle scienze o
alla
matematica o all’astrofisica; non dà
l’impressione di essere attratta da queste
materie, non dà l’impressione di essere attratta
da qualcosa in generale, come
se tutto le scivolasse addosso senza tangerla, senza segnarla, senza
incuriosirla minimamente. Non dico che sia apatica, ma pare che nulla
sia
abbastanza interessante da poter suscitare in lei una qualche reazione.
Come
succede a me.
«È un’occupazione solitaria e alquanto
triste» rispondo, cercando di
farla desistere dal suo proposito.
Non voglio nasconderle la verità: ho dedicato tutta la mia
vita alla
scienza e al sapere, sacrificando amicizie, amori, salute fisica e
mentale e
non me ne pento. Ma per lei potrebbe essere una scelta più
difficile, lei è
abituata a vivere in mezzo alle persone, a contatto con loro; il
distacco
sarebbe più traumatico. Per quanto riguarda me, invece, ho
sempre pensato che
gli uomini siano estremamente interessanti, ma non vorrei mai averci
nulla a
che fare.
La risata- amata e agognata- di Reka torna a irrompere dalla sua bocca,
gettandomi in uno stato di confusione estatica.
«Non avrei saputo dirlo meglio» biascica, tra gli
ultimi stralci di risa.
Devo aver nuovamente espresso i miei pensieri ad alta voce. Sta
diventando
un’abitudine alquanto fastidiosa e pericolosa: potrei
compromettermi.
Serro le labbra e, non sapendo come comportarmi in alternativa, afferro
i bicchieri con la patetica scusa di andare a farli riempire
nuovamente. Mi
importa poco dell’impressione che potrei darle o dei
molteplici modi in cui
potrebbe interpretare il gesto, ma il mio sistema nervoso non riesce a
sopportare di stare accanto a Reka per più di un quarto
d’ora consecutivo.
«Stai cercando di farla ubriacare?»
La domanda del surrogato di intelligenza antropomorfa mi coglie
totalmente impreparato, e per poco non verso il liquore sul bancone.
Inghiotto
la risposta poco carina che è risalita fino alle mie labbra,
e ne cerco una che
possa metterlo a tacere definitivamente.
«Smettila di rompere le palle, Kas!»
Non sono esattamente le parole che avrei utilizzato, ma il concetto
è
quello. Reka si materializza dietro di me, le falde della giacca simili
ad ali
di corvo e lo sguardo smeraldino che getta saette letali ovunque si
posi.
«Io non vengo a dirti nulla quando pomici con Lucian, quindi
ti prego di
fare altrettanto.»
«State pomiciando?» chiedono Lucian e Kaine
all’unisono, entrambi con la
stessa irritante nota di sorpresa nella voce, il tono di Kaine ha anche
una
sfumatura di rabbia.
«E anche se fosse?» li provoca Reka, prendendo il
suo bicchiere.
«È difficile da credere» ridacchia il
sub umano, riservandomi
un’occhiata scettica che mi analizza dalla punta dei capelli
spettinati, si
sofferma sulle scaglie che decorano il mio volto e scende lungo il
pastrano di
feltro per giungere alle vecchie scarpe di cuoio consunte.
Le labbra di Reka si distorcono in un sorriso storto e pericoloso, la
categoria di sorrisi che non promette nulla di buono.
«Scommettiamo?» replica con una scintilla di sfida
che le accende le
iridi verdi.
«Un giro di Venus» accetta l’altro.
E prima che possa anche solo formulare mezzo pensiero, mi ritrovo
qualcosa di morbido e vagamente umido premuto sulle labbra. Sussulto e
il mio
primo impulso è fuggire e sottrarmi a quel contatto, ma
l’espressione totalmente
frastornata e confusa di Kaine è qualcosa di
indescrivibilmente appagante.
«Non è un vero bacio» ci tiene a
precisare, «Non c’è nemmeno la
lingua!»
Non so cosa voglia dimostrare a quella sottospecie di scimmia evoluta,
e
non so nemmeno perché ci tenga tanto a dimostrarglielo,
quello che sto per
commettere va contro qualsiasi principio morale ed etico, scritto e non
scritto, che mi sia prefissato nel corso degli anni, spezza ogni logica
ed è
talmente assurdo e sconvolgente che non può non essere
fatto.
In fondo, le più grandi scoperte non sono state svelate
attraverso
rivoluzioni traumatizzanti, andando contro ciò che era la
legge e il pensiero
comune?
Sto cercando di giustificare un comportamento totalmente avulso da
qualsiasi spiegazione razionale, che è esente da ogni schema
mentale, sociale,
fisico e psicologico. Non saprei nemmeno io come chiarificarlo.
In un impeto sconosciuto, avvolgo Reka tra le braccia e rispondo al
bacio. Sento la ragazza irrigidirsi al mio tocco, colta alla sprovvista
quanto
me da questo gesto repentino e inaspettato.
Non ho assolutamente idea di come procedere, ma lei mi guida e mi
induce
e schiudere le labbra, approfondendo il gesto sotto lo sguardo
sbalordito dei
due. Il sapore delle sue labbra detona in tutto il suo splendore: un
leggero
retrogusto di liquore lascia il posto a un aroma pieno e inebriante,
che non
riuscirei a paragonare a nulla che sia presente su questo pianeta o su
altri
conosciuti e non ancora scoperti. L’intero mistero e il
fascino dell’universo
sono racchiusi tra quegli scrigni amaranto.
Percepisco qualcosa di viscido e umido che pretende di procedere e
penetrare la barriera dei denti: la lingua di Reka si infila con
prepotenza
nella mia bocca, proiettandomi verso orbite sconosciute che non credevo
nemmeno
potessero esistere o essere concepite dalla mente umana. Stelle e
pianeti
esplodono davanti ai miei occhi serrati, senza lasciar trapelare
all’esterno
nemmeno una goccia del caleidoscopio folle di sensazioni e sentimenti
che sto
sperimentando.
Il mio cuore batte all’impazzata contro le coste, quasi
volesse sfondare
la gabbia ossea e raggiungere le amene azzurrità infinite in
cui la mia
coscienza sta folleggiando, ubriaca e paga.
La realtà intorno a me si nullifica completamente, come
quando entro negli
abissi del mio pensiero e rifletto profondamente e intensamente. In
questi casi
ci siamo solo io e gli stimoli inviati dal mio corpo a cui rispondono
gli
impulsi inviati dal mio sistema nervoso. Nient’altro che io e
me medesimo.
In questa particolare occasione, oltre alla mia figura, compare anche
quella di Reka causa ed effetto di ogni fenomeno. I movimenti della sua
lingua
sono misurati e pensati per eccitare, sondano la mia cavità
orale e stuzzicandone
ogni recesso. Ogni volta che si scontra con la mia, un sussulto scuote
entrambi
e un brivido corre lungo la mia schiena. Mi domando quali sensazioni le
provochi sfiorare una lingua biforcuta.
Non avevo mai baciato nessuno prima d’ora e non avevo mai
dato importanza
a questo genere di gesti; nella maggior parte dei casi sono
sopravvalutati,
fraintesi o abusati, quasi sempre privi di qualsiasi attrattiva. Le
dinamiche
relazionali e sociali non sono il mio campo di studio. Ma ora, mi
domando come
sia stato capace di non provare nemmeno una curiosità anche
solo scientifica
nei suoi confronti. Forse perché il bacio stesso, il suo
significato e le
sensazioni che esso provoca sono distanti anni luce da ciò
che ho sempre
indagato ed esperito. Nulla di ciò che sto provando in
questo momento può
essere descritto con le parole, sarebbe riduttivo; e non può
nemmeno essere
esplicitato con immagini o espressioni di uso comune: la spiegazione
chimica e
fisica del fenomeno ne annullerebbe la carica sentimentale che gli
conferisce
quell’alone di mistero e fascino.
Ho rifuggito tutto quello che poteva essere collegato con i sentimenti
ed escluso dalla logica, e ironicamente, ne sono diventato il
protagonista.
Sento Reka abbandonarsi contro il mio corpo, mentre la mia lingua imita
timidamente la sua in una lotta impari per la conquista, ciascuna, del
territorio in possesso dell’altra.
Qualcosa negli emisferi inferiori della mia persona si irrigidisce e
anche
Reka sembra accorgersene. Si allontana, abbandonando le mie labbra
martoriate e
fredde. L’usuale colorito imporpora il mio incarnato; sono
ben consapevole che
sia una reazione del tutto naturale e spontanea, ma rimane imbarazzante.
Ho il respiro accelerato e la tengo ancora stretta tra le braccia, il
calore del suo corpo attraversa la stoffa della sua giacca e del mio
pastrano,
irradiando un tepore piacevole e rassicurante. Kaine e Lucian sono
diventate
figure inconsistenti di cui percepisco appena l’esistenza,
come l’universo
coglie la presenza di una pulsar.
«È vero ciò che si dice sui
Trooodonici?» domanda Reka, sussurrando
appena al mio orecchio. La sua mano scorre lungo la coscia e si arresta
a
qualche centimetro dall’inguine, indugiando indecisa.
«C-cosssa si dice sui Troodonici?» replico
sussultando per un brivido, che
dalla gamba si ripercuote sull’intero sistema nervoso e mi fa
contrarre ogni
muscolo.
La mano di lei giocherella, accarezzando maliziosa la coscia, senza
mai,
però, giungere nella direzione designata.
Il suo volto brucia ancora qualche centimetro di distanza e posso
annegare nelle galassie che si rincorrono nelle sue iridi. Le sue
labbra sono
ad un soffio dalle mie e sento ogni refolo di respiro fluire dalla
bocca
dischiusa.
«Che siano piuttosto dotati» sussurra,
«Ma è solo un’ipotesi. E tu, in
quanto uomo di scienza, dovresti approvare e incoraggiare esperimenti
che
comprovino tale ipotesi. Non credi?»
E prima che possa rispondere, le sue dita superano la barriera di
cotone
e affondano nei miei recessi più intimi
«Drisk!»
una voce familiare eppure sconosciuta giunge da qualche luogo
lontano, come appartenente ad un’altra dimensione. Cerco di
ignorarla e
concentrarmi su Reka, ma la figura di lei si scompone e si sbriciola
davanti ai
miei occhi, dissolvendosi senza che io riesca ad afferrarne le ultime
propaggini.
Lentamente
riemergo dalla dimensione onirica, di cui, mi accorgo solo
ora, di essere stato prigioniero.
Con
straziante lentezza e angoscia i contorni della realtà
circostante
si fanno più nitidi e odiati, confermandomi che si
è trattato solo di un sogno,
o di un’allucinazione. In entrambi i casi, ciò che
era stato è ormai scomparso
e perso per sempre.
«Drisk
svegliati!» mi richiama, e la sua voce straccia anche
l’ultima
traccia di visione onirica. Reka viene irrimediabilmente inghiottita da
quella
dimensione in cui i sogni riposano quando siamo svegli.
Me
lo sarei dovuto aspettare in realtà: pensandoci bene,
è troppo
inverosimile che una qualsiasi ragazzi possa anche solo interessarsi a
me,
figurarsi una come lei! Eppure, pur nella sua assurdità,
è stato un sogno che
non mi spiacerebbe vedere tramutato in realtà.
Reka
è davvero interessante e sarebbe appagante poter trascorrere
qualche momento con lei, anche solo in amicizia…
Grande
Giove! Ma che diamine sto blaterando? Io che ricerco
l’amicizia e
la compagnia di un’altra persona? Sopporto a malapena la
compagnia di me
stesso!
La
scorsa notte devo essermi pesantemente ubriacato, nonostante i miei
precedenti infelici e le mie promesse.
Mi
passo una mano sul volto, per cancellare ogni rimasuglio di sonno,
speranze perdute, sogni infantili e inutili.
«Si
può sapere cosa hai combinato?» domanda Lucian.
Restituisco
il suo sguardo incredulo e sconvolto. Di cosa diamine sta
parlando?
Pian
piano i contorni della stanza acquisiscono una nitidezza tale da
poter riconoscere gli oggetti che vi sono: mi trovo nel mio
laboratorio, ne
riconosco le pareti coperte di lavagne che rigurgitano calcoli e
formule, gli
scaffali stipati di volumi e quaderni di appunti, le mappe stellari e
le teche
contenenti ogni ben di dio chimico; il tavolo, però, non
è ingombro delle
solite preziosissime e costosissime attrezzature che lo dominano di
solito, ma
la superficie bianca e asettica si riflette sotto le luci al neon,
ostentando
la propria completa nudità. Al contrario, il pavimento
è cosparso di indumenti,
e solo in quel momento mi accorgo di essere in mutande.
Perché sono in mutande?
E perché quelli che, con molta probabilità, sono
i miei vestiti si trovano sul
pavimento?
«Cosa
è successo?» domando.
«Mi
stai prendendo in giro?» replica Lucian,
«È quello che ti ho appena
chiesto!»
Non
so cosa rispondere. Sono sconcertato: non ho assolutamente idea di
quali
fenomeni possano essersi susseguiti la notte passata e non riesco a
trovare una
spiegazione logica. Devo essermi davvero sfondato di etanolo.
Ma
questo non spiega perché io mi ritrovi senza abiti.
«Ieri
sera sei sparito improvvisamente. Ti ho cercato per buona parte
della notte, poi ho pensato fossi tornato al cubo e sono tornato a
casa.
Stamattina sono arrivato al laboratorio come al solito, ed eri qui, che
dormivi
beatamente mezzo nudo!»
Nemmeno
io riesco a trovare una sequenza di causa-effetto che spieghi
questo avvenimento. E ne dovrei essere l’artefice!
In
quel momento il mio occhio cade su un foglio di carta ripiegato, che
spunta dalla tasca dei pantaloni. Sono certo che quel biglietto abbia
un
collegamento con i fatti inspiegabili in cui mi trovo invischiato.
Lucian
segue il mio sguardo e si accorge anch’egli
dell’oggetto. Mostra
l’intenzione di avvicinarsi ad esso ma lo precedo, e non
appena entro in
possesso del pezzo di carta, lo spingo fuori dal laboratorio
«Ma…!»
prova a protestare, ma ogni altra lamentela viene troncata dalla
porta che gli chiudo in faccia. A chiave.
Non
penso che si offenderà: è abituato ai miei sbalzi
di umore e,
comunque, non è affar mio.
Apro
quasi febbrilmente il biglietto con le dita tremanti. Vi sono
vergate poche frasi, in una grafia pessima, scritte con il rossetto di
un
colore familiare, rosso amaranto:
“L’ipotesi
riguardo i Troodonici è
stata scientificamente comprovata e approvata. Dovremmo fare
esperimenti
assieme più spesso. R.”