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Autore: Lady I H V E Byron    04/08/2017    0 recensioni
"Ci sono cose, nella vita, cui non puoi fare niente. Come la morte di una persona cara. Lo so, per i primi tempi fa male, senti un enorme vuoto dentro e non vuoi più vedere nessuno. E' un dolore che a stento puoi sopportare, ti fa quasi impazzire. Sei consapevole che non torneranno più, che non puoi fare niente per riportarli in vita e questo ti fa soffrire sempre di più. Alla fine scopri... che tutto quello che puoi fare per loro... è vivere."
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Daniela Savoia è una ragazza in lutto per un ragazzo che lei amava; lo shock la porta al mutismo e alla depressione, tanto da rifiutare qualsiasi contatto con il mondo esterno. Nemmeno nell'ospedale psichiatrico dove è stata inviata riescono a trovare una soluzione: Daniela si chiude sempre più in se stessa, senza mangiare, continuamente tormentata da incubi sul ragazzo defunto. L'alternativa, seppur a prima vista assurda, si rivela una vacanza in una SPA, in cui, con sorpresa, incontra le ultime persone che si aspettava di incontrare...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bill Kaulitz, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Threesome, Triangolo
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Note dell'autrice: salve, Aliens! Se avete letto l'altra mia storia sui TH "Fell it all", ricorderete che avevo scritto che sarei andata avanti con la storia, di conseguenza scriverne delle altre su di loro, dopo aver concluso altre storie in sospeso. Però questa non me la sentivo di lasciarla da parte, quindi ecco un'altra storia da aggiungere all'elenco... che pacchia essere scrittori, neh? Ora vi dico cosa c'è da sapere su questa nuova storia: già vi dico che non sarà mai bella quanto "Atme die Liebe" di "unleashedliebe", ma diciamo che mi ha dato un pizzico di ispirazione; una piccola parta sarà composta di elementi autobiografici (grazie al cielo, non il ragazzo morto); per quanto riguarda i nomi di alcuni personaggi e la località, se un paio di mesi fa siete passati per la sezione "Linkin Park", avevo pubblicato i primi capitoli di una storia intitolata "Destinazione: Linkin Park", dove c'era un ragazzo di nome Gabriele come protagonista, residente a Bologna, che aveva scoperto che nel pacco che aveva vinto per un concorso c'erano due biglietti per assistere al concerto dei Linkin Park in Italia e la storia, tra le altre cose, trattava della sua ricerca di una persona che andasse con lui al concerto, venendo aiutato proprio da Chester Bennington e da Mike Shinoda (con la magia di Skype), che lo aiuteranno anche per altre questioni, soprattutto quelle di cuore. Fra alcuni personaggi ci sono Filippo, il suo migliore amico, Daniela, un'amica (e allieva del padre di Filippo, insegnante di storia medievale) che poi scopre essersi presa una cotta per lui (che, poi, ricambia, nonostante ella sia più grande di lui di quattro anni), e Elena, la ragazza cui Gabriele fa la corte dai tempi delle medie, senza risultati. Ecco, quei personaggi li ho messi qui; ma in questa storia è Daniela ad essere la protagonista.
Beh, sicuramente non piacerà e nessuno la leggerà, ma ho fatto del mio meglio.
Ah, il titolo non è stato messo a caso. Ecco il messaggio che voglio dare, sebbene sia scontato: quando siete tristi, o annoiati, l'unica cosa da fare è cercare qualcosa di nuovo.


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28 Marzo 2017.
Milano.
Doveva essere il giorno più bello della mia vita. O meglio, uno dei giorni più belli della mia vita.
Infatti lo era.
Ero andata a vedere i Tokio Hotel dal vivo. Finalmente. Dopo una decade di attesa.
Un’esperienza bellissima, che avrei tanto voluto ripetere all’infinito.
E Bill… oh, Dio… l’emblema della bellezza maschile. E poi non capivo perché alcuni sentissero nostalgia del loro vecchio stile: Bill, dieci anni prima, era TROPPO femminile, effettivamente.
Non mi erano mai piaciuti gli uomini con la barba, ma a Bill, precisamente, a entrambi i Kaulitz, non stava male. Dava loro un aspetto più adulto e maschile. Adulto… per modo di dire. Avevano ancora lo stesso volto da ragazzini. Il tempo sembrava non essere mai scorso per tutti i membri dei Tokio Hotel.
Ero uscita dal Fabrique, con il sorriso sulle labbra, insieme a due ragazze trentine che avevo conosciuto quel giorno, Lorenza e Giada; alloggiavano nello stesso hotel dove alloggiavo io, proprio nella stanza accanto alla mia, ecco come ci eravamo conosciute.
Il mio cellulare squillò.
Pensai fosse mia madre o mio padre, per sapere come stavo.
Quando vidi il nome, mi stupii: Filippo.
Era un mio amico, o meglio, il figlio del mio professore di storia medievale, all’università. Avevamo scoperto di avere molte passioni in comune, soprattutto quella per i videogiochi, e diventammo amici.
Confusa, accettai la chiamata.
-Pronto?-
-Ciao, Dani…-
Daniela. Così mi chiamo. Un nome stupido, vero?
La sua voce era triste.
Mi preoccupai anch’io.
-Cos’è successo?-
Quanto mi raccontò in seguito, fece scivolare il mio telefono dalle mie mani, che cadde per terra, procurandosi l’ennesima crepa sul vetro. Poi caddi io, perdendo i sensi, facendo spaventare Lorenza e Giada, che chiamarono subito l’ambulanza.
Avevo letto da qualche parte che il dolore era più forte se preceduto da un forte momento di felicità.
Sì, lo era.
Gabriele, il ragazzo di cui mi ero innamorata, era morto.
Un incidente in moto, mi aveva detto Filippo. Una macchina non gli aveva dato la precedenza e lo aveva investito, provocandogli la frattura delle ossa, soprattutto della colonna vertebrale, e diverse lesioni interne.
Non c’era stato niente da fare. Il colpo fu fatale.
Il funerale venne celebrato due giorni dopo.
C’era molta gente: parenti, amici, compagni di scuola…
Tra loro scorsi Elena, la ragazza a cui Gabriele faceva la corte dalla seconda o dalla terza media, una ragazza di origini russe, capelli neri, occhi glaciali, la perfezione in persona, insomma; ma lei non aveva mai ricambiato il suo amore. La odiai dal primo momento in cui lui me ne aveva parlato.
Infatti, non facevo altro che guardarla, piena di odio. Non c’era momento in cui non bramassi di darle fuoco ai capelli.
Come osava presentarsi al suo funerale? Lei, che praticamente ripugnava Gabriele! Usciva con lui solo quando più le aggradava! Lo trattava come fosse una riserva, se proprio non trovava nessuno con cui uscire la sera. E da come mi aveva detto Gabriele, capitava che disdicesse l’appuntamento all’ultimo minuto.
Persino Filippo aveva cercato di convincerlo di rinunciare a lei, ma invano.
Io comprendevo Gabriele. Prima di conoscerlo, ero anch’io in una situazione simile.
Mi ero presa una cotta, tra tante persone, per uno Youtuber, uno dei tanti che pubblicava video su videogiochi. Non so spiegarmi come sia arrivata ad innamorarmi di lui, ma dal 2014 avevo cominciato a fargli i complimenti per i video, per le sue idee, un po’ anche per il suo aspetto… tutte cose pur di farlo avvicinare a me. Beh, l’avevo anche incontrato di persona, proponendomi come sua accompagnatrice per il Rimini Comix; fu una giornata davvero gradevole. Conobbi persino altri youtuber, altrettanto gentili e simpatici. E lui si era mostrato sempre gentile con me, così cominciai ad illudermi.
Le mie illusioni, ovviamente, risultarono vane; tuttavia, non mi arresi. Questo mi rendeva simile a Gabriele, per la tenacia.
Ma entrambi ci rendemmo conto che i nostri tentativi erano vani, anzi, proprio inutili.
Non ricordo da quando cominciai a vedere Gabriele con occhi diversi, sotto un’altra luce. Diciamo che la prima, lieve, scintilla era partita quando mi aveva invitata al suo diciottesimo compleanno. Conobbi i suoi compagni di classe, la ragazza di cui si era preso una cotta… vidi come lo trattavano: come un idiota, un bullizzato, un capro espiatorio, come il ragioniere Fantozzi. Avevano messo a soqquadro lo spazio festa affittato da lui (e che doveva, poi, pulire lui stesso), versando di tutto sul pavimento, e gli avevano persino rovinato la torta, mettendoci le mani sopra.
C’era anche Filippo, ma lui non entrava in quella categoria.
Si potrebbe dire che… Gabriele e Filippo erano migliori amici.
La prima volta che conobbi Gabriele fu durante un torneo di videogiochi; successivamente, avevo scoperto che era amico del figlio del mio insegnante di storia medievale e da lì cominciammo a frequentarci.
Ero più grande di lui di quattro anni, ma lui era più maturo di me. Era sempre gentile e premuroso con me, su WhatsApp mi condivideva spesso dei video e io facevo lo stesso. Questo, ovviamente, quando lo vedevo solo come un amico. Le cose sono più semplici, quando siamo solo amici.
Poi, almeno in me, scoccò un’altra scintilla, non so dire precisamente quando. Da un po’ di tempo non ci parlavamo più, su WhatsApp ci scrivevamo sempre di meno e quando eravamo insieme non incrociava mai il mio sguardo.
Pensai, di punto in bianco, di stargli antipatica e che non voleva più vedermi.
Tuttavia, con la coda dell’occhio, mi sembrava di scorgerlo intento a guardarmi.
Rinunciai ad amare “Roito_X” per Gabriele. E lui aveva detto che con Elena era ormai ad un punto morto.
Mi illusi di nuovo, sperando mi andasse meglio di prima.
Passarono mesi e ancora niente. Eravamo troppo timidi per fare un passo in avanti. Entrambi coprivamo la nostra timidezza con qualcos’altro: lui trattandomi male (sapete, con le tipiche bottarelle tra amici…) e io comportandomi più da maschiaccio del solito.
Mi domandavo spesso: “Con Elena le cose erano più semplici?”
Quanto rimpiansi, di non averglielo mai chiesto…
Si era dichiarato due volte a lei. DUE volte.
E lei per due volte lo ha rifiutato.
“Perché con me non lo ha ancora fatto? Sono più brutta di lei? Non sono femminile come lei? Non ho gli occhi azzurri come i suoi?”
Questo ero solita chiedermi, cadendo in depressione.
Quando eravamo soli, però, se camminavamo, si avvicinava a me, la sua mano sfiorava la mia, o mi sfiorava il sedere. Se lo avessi visto ancora come un amico, mi sarei scansata, con aria offesa. Erano momenti in cui mi illudevo di interessargli, anche un pochino, non mi importava.
Ma poi, quando mi invitava casa sua, per vedere un film, invitando anche Filippo, lo vedevo, su WhatsApp, controllare Elena. E lì il mondo mi cadeva addosso.
Non potevo più vivere in quel modo.
Avevo tre strade di fronte a me: rinunciare a lui, dichiararmi, o trovare un modo per far dichiarare LUI.
Avevo anche trovato, forse, la strategia migliore: un CD pieno di canzoni d’amore, incartato con i cuori, con sopra un bigliettino con scritto non una dichiarazione, ma un passo di una poesia di Leopardi, “Consalvo”, una delle mie preferite.
 
Parto da te. Mi si divide il cor
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi
Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
Non vorrai tu donarmi? Un bacio solo
In tutto il viver mio?
 
Studiavo lettere, all’università, e ho avuto il modo di analizzare a fondo questa poesia. Piangevo spesso a leggere questo passo, perché immaginavo me, al posto di Consalvo, morente, e Gabriele, al posto di Elvira, chinarsi su di me, e darmi il primo e ultimo bacio; ma, nello stesso tempo, immaginavo lui al posto di Consalvo e Elena al posto di Elvira, e questo mi faceva soffrire ancora di più.
E la compilation di canzoni? Non canzoni qualsiasi, ma dei Tokio Hotel! Ovvio, no?
Avevo già in mente cosa mettere:
 
-In die Nacht
-Love Who Loves You Back
-Sacred
-Girl Got A Gun
-Alien
-Strange
-Zoom Into Me
-Not Over You
-Don’t Jump
-Phantomrider
-What if
-Louder Than Love
-By your side
-Love&Death
 
Ripensando all’ultima… “Amore e Morte” era anche il titolo di una poesia di Leopardi. Dopotutto… io, allora, consideravo Bill Kaulitz come una sorta di “moderno Leopardi”. Non dal punto di vista estetico, ovviamente.
Comunque, quelle canzoni, per me, erano adatte per Gabriele, in base alla sua personalità, alla sua esperienza amorosa. Magari, se lo avessero ispirato, avrebbe trovato la forza di dichiararsi a me.
Ma ormai era tardi.
Non avrebbe mai ascoltato quelle canzoni.
“That day never came.” tanto per citare i Tokio Hotel…
Gabriele era morto, e io non avevo ancora avuto il primo bacio da lui.
Mi resi conto di aver sprecato tutto il tempo che avevo avuto con lui.
Durante il funerale, sentii il mondo chiudersi intorno a me. Ogni tanto i miei occhi giravano per il vuoto, osservando i presenti. Tra di loro notai persino i suoi compagni di classe.
Ipocriti.
Tutta una vita a prenderlo in giro per quello che era e qualunque cosa facesse e poi vengono a piangere sul suo cadavere. Ovvio che piangessero: non avevano più nessuno da prendere in giro.
Quel giorno mi sentivo completamente priva di sentimenti e non avevo neppure la forza di muovermi: se così non fosse stato, avrei dato inizio ad un massacro, li avrei uccisi con le mie stesse mani.
Ma mi sentivo un guscio vuoto; no, peggio, una statua. Una statua con il cuore spezzato che non faceva altro che piangere.
Era il secondo lutto che mi capitava: cinque mesi prima, era morta mia zia, l’unica, nella mia famiglia, che mi ascoltasse. Il cancro all’intestino se l’era portata via, lo stesso che aveva portato via mio nonno, quando avevo cinque anni. Da quel momento odiai i medici con tutto il mio cuore.
Non mi ero ancora ripresa da quel lutto, anzi, penso che non me ne libererò mai. Quelli che cercano di consolarti dicendo: “Tutto passa.” sono quasi sempre persone che non hanno mai provato nulla del genere.
Ma quando celebrarono il funerale di mia zia, non sono stata nemmeno alla veglia, non ci ero andata proprio, sia per il dolore, sia per non ricevere condoglianze a destra e a manca. Anche per non vedere mia nonna piangere. Non lo avrei sopportato.
Ma con Gabriele partecipai a tutto. Presi parte persino al corteo, per portarlo al cimitero. Non smettevo un attimo di piangere. Filippo era accanto a me, che mi prendeva per mano. Anche lui stava piangendo.
Fra i tre, lui era il più stoico. Ma come si può trattenere le lacrime, sapendo che la persona che sta per essere sotterrata è il tuo migliore amico, o, quantomeno, una persona a cui tenevi molto?
Speravo di resistere, speravo di non crollare.
Ma quando vidi la bara sprofondare sotto terra e poi essere coperta dalla terra stessa, mi resi conto che non era solo Gabriele ad essere stato sotterrato, ma anche il mio cuore, i miei sentimenti, il mio senno.
Sentivo il mio cuore spezzarsi, frammentarsi, disperdersi nei meandri del mio corpo.
Riuscii solo a gettargli una rosa bianca che avevo preso dalla veglia. Ci versai persino una lacrima sopra, depositandovi tutti i miei sentimenti, pensando che sarebbe divenuta nera, come il buio che ormai albergava nel mio cuore. Non ero riuscita a dichiararmi a Gabriele, ma almeno avrebbe portato il mio amore con sé, nell’aldilà.
Quando morì mia zia, a stento trascinavo le mie gambe all’università, ma cercavo di comportarmi normalmente, per non essere compatita. Ma aggiungendoci il mio lutto per Gabriele… non parlavo più, non mangiavo più, mi rifiutavo persino di alzarmi dal letto. Restavo tutto il giorno a piangere, nel buio della mia stanza.
Era un dolore troppo forte da sopportare.
Dopo tre giorni, ero ancora nella mia stanza da letto. Mio padre non ne poteva più.
-Adesso basta, Daniela!- aveva tuonato, appena entrato nella mia stanza –Stai esagerando! Sono tre giorni che non esci da qui! Vogliamo superare questa situazione?!-
Non ebbi la forza di rispondergli. Non l’avevo mai avuta. Fin da piccola, mio padre mi aveva sempre fatto paura, con la sua imponenza, la sua voce grossa, lo sguardo che sembrava penetrarti nel cuore; dava l’impressione di poter manipolare le persone con quello sguardo.
Subivo, senza dire nulla.
Mia madre entrò in quel momento. Era la perfetta mediatrice in momenti simili, anche quando mio padre ed io avevamo le nostre “sfuriate”.
Per dirla alla Freud: io ero l’Es, mio padre il Super-Io e mia madre l’Io che faceva da mediatore fra le due parti.
-Flavio, calmati!- gli disse –Sii comprensivo. Ha perso un amico.-
Magari fosse stato solo un amico, mamma. MAGARI.
-Sì, ma bisogna superarle certe cose! Sennò non si vive più!-
La tipica mancanza di tatto e di sensibilità dei militari…
Scommetto che non ha versato neppure una lacrima per la sorella defunta…
-Domani tu torni all’università, altrimenti te la faccio pagare!-
Furono le sue ultime parole, prima di uscire, sbattendo la porta.
Già stavo soffrendo per Gabriele. Poi si erano aggiunte le grida di mio padre. Mi facevano male, avevano un effetto strano su di me, come un burattino che deve fare solo ciò che il suo burattinaio gli fa fare. Solo che, nel mio caso, i fili erano parole.
Mia madre Maia non era proprio brava a consolare.
-In effetti, tuo padre ha ragione…- mi aveva detto –Non puoi continuare a recluderti così…-
Anche lei non era dotata di sensibilità: mi domandavo spesso cosa le avesse fatto mia nonna per renderla così fredda.
E non capivo nemmeno da che parte stesse, se dalla sua o dalla mia.
Quando accadono momenti simili, la soluzione migliore è cercare un alleato, ma io sono sempre stata sola contro il mondo, fin da piccola. Questo mi aveva fatto intendere che avevo sempre torto e il mondo sempre ragione. Filippo e Gabriele erano gli unici a capirmi, poiché anche loro non andavano d’accordo con i propri genitori.
Il giorno seguente mi rifiutai di nuovo di andare all’università.
Mio padre non cercò nemmeno di farmi alzare con la forza: parlava tanto e si mostrava minaccioso, ma alla fine non faceva mai nulla di ciò che minacciava. Motivo di grande delusione, per me.
Forse aveva finalmente capito che parlandomi in quel modo non avrebbe risolto nulla, se non peggiorare la situazione. Non si scusò mai. Non con me.
Lo sentii quella notte parlare con mia madre, rivelandole quanto si fosse pentito di avermi parlato in quel modo.
Vigliacco.
Mio padre altro non era che un vigliacco.
Da piccola era il mio idolo, per la sua sicurezza, o meglio, per la sua tendenza a mostrarsi sicuro in tutto ciò che faceva o diceva, per la sua abilità nell’arte oratoria, per tutto. Ma, crescendo, mi resi conto che era una vera delusione, una persona che escludeva ogni tipo di conflitto, a parte con me, costante vittima dei suoi rimproveri e il capro espiatorio più vicino ogni volta che aveva le giornate storte.
Mi portò, inizialmente, dal dottore di famiglia; poi, da degli psicologi, sperando che trovassero un modo per “guarirmi”.
Niente. Non c’era verso di farmi parlare.
Non avevano trovato la cura per il mio lutto.
Un parente è un conto, ma la persona che ami è un altro. Dipende dai casi.
L’ultimo psicologo aveva proposto ai miei genitori una possibile soluzione: mandarmi in un ospedale psichiatrico.
Mio padre la prese subito male.
-Mia figlia in mezzo a degli psicopatici?! Non se ne parla! Lei resta a casa, punto e basta!- protestò, cercando di convincere lo psicologo, con la forza del suo sguardo minatorio.
Ma lui mantenne la calma e cercò di spiegare la situazione.
-Signori Savoia, vi prego, cercate di capire…- disse, con voce quasi rassicurante –Vostra figlia ha subito un grave lutto. Non parla, non mangia e non dorme da giorni e sembra che la situazione stia via via peggiorando. Se continua così, potrebbe avvicinarsi al suicidio.-
Per la prima volta, percepii i battiti accelerati del cuore di mio padre. Lo aveva messo con le spalle al muro, spingendolo ad abbandonare lo sguardo minatorio, sostituendolo con quello preoccupato.
Volle, però, ugualmente mascherare la sua preoccupazione.
-Sciocchezze. Daniela è una ragazza intelligente. Non oserebbe mai suicidarsi.-
Che affermazione sciocca.
Effettivamente, ero vicina a farlo. A suicidarmi. Non riuscivo più a sopportare quel dolore.
Gabriele non c’era più. Che senso aveva vivere?
-Sarà come dice lei…- proseguì lo psicologo –Ma Daniela ha bisogno di persone che la accudiscano, persone qualificate in grado di aiutarla.-
-Tutto ciò di cui nostra figlia ha bisogno è della sua famiglia!- si ostinò mio padre.
-Ne è sicuro, signor Savoia? Dalla postura che sta assumendo sua figlia, direi tutto il contrario…-
Mi ero stretta  nelle mie spalle, ogni tanto ne abbassavo una, ogni volta che mia madre voleva mettervi una mano sopra, nel tentativo di consolarmi.
Non avevo bisogno di loro. Volevo allontanarmi il più possibile da loro. Volevo vivere da sola nella mia disperazione.
-Daniela, vuoi tornare a casa tua?- mi domandò lo psicologo. Io feci “no” con la testa.
Erano così le mie sedute: mi facevano domande e io rispondevo con la testa.
-Daniela, solo i ciuchi rispondono con la testa!- puntualizzò mio padre, severo –Tu sei una persona! Parla!-
-Vede, signor Savoia?- fece notare lo psicologo, indicandomi; avevo inclinato la testa verso il basso, emettendo qualche lamento –Daniela, tuo padre ti parla spesso così?-
Annuii.
-Come?!- protestò mio padre, sorpreso e anche arrabbiato –E quando?-
-Adesso basta, signor Savoia! Così sta torturando sua figlia!-
Mi comprese.
Avevo trovato il mio alleato, anche se temporaneo.
A malincuore, i miei, alla fine, accettarono di inviarmi in un ospedale psichiatrico. Non era lontano da dove abitavo, per il sollievo dei miei genitori e familiari.
Un piccolo pullman mi venne a prendere il giorno dopo quella seduta. Non volevo farmi accompagnare dai miei, per non vedere i loro volti carichi di delusione nei miei confronti. Ammettere alle persone di avere una figlia in manicomio non era un argomento gradevole di cui parlare…
La mia famiglia era così, soprattutto nella parte paterna: dovevamo apparire al mondo come la famiglia perfetta, come fossimo ancora nell’epoca della monarchia e noi fossimo una famiglia nobile.
Non era per me che mio padre non voleva mandarmi in ospedale, ma per la “reputazione” che aveva creato con gli amici e il resto dei familiari, magari per vantarsi con i cugini di avere una “figlia modello”.
Mi avevano dato più volte l’impressione che non mi volessero bene. Il sentimento era ricambiato.
Odiavo la mia famiglia. Odiavo tutto.
E con la morte di Gabriele la situazione non era certo migliorata.
Per tutto il tempo, nel tragitto che separava casa mia dall’ospedale, ascoltai “Don’t Jump”, una delle mie canzoni preferite. Non avevo ascoltato altro da giorni. Mi teneva viva, mi aiutava a combattere la mia tentazione di togliermi la vita. I Tokio Hotel mi avevano salvata.
Andare nell’ospedale psichiatrico fu quasi una gioia, per me. Lontana dall’ambiente familiare, ormai soffocante. Mi sentivo libera dalle loro regole, dalla falsa tirannia di mio padre, da tutto quel mondo.
Non ero nemmeno obbligata a parlare. Ero persino disposta a restare muta per tutta la vita, se necessario.
Mi diedero una camera singola, con vista sull’esterno. La prima cosa che feci era attaccare la foto profilo di Facebook di Gabriele, che avevo stampato da una vita, ma rimasta sempre nei meandri del mio cassetto, sul muro, di fronte al letto, così, svegliandomi la mattina, lo vedevo di fronte a me.
Era seduto sull’erba, guardando in alto, mentre la luce del sole lo illuminava. Stava benissimo.
Da quel giorno, cominciò la mia nuova vita.
   
 
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