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Autore: SuperTeleGattone    08/08/2017    1 recensioni
Due bambini – il somaro e il botolo, più Akamaru – parlano di altri bambini: del manjū, di quello che se la batte quotidianamente, di quella che starnazza, di quello che è strambo, della cottarella di quello che è tutto scemo, e di quell'altra che – uh, ma quell'altra chi? E poi, di quello sempre solo, là sul pontile…
Indietro di dieci anni o anche più, a bighellonare con signora nostalgia.
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Akamaru, Kiba Inuzuka, Naruto Uzumaki
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
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 L  e g n o











 
Glielo ricordava il legno. Odore o non odore, aveva qualcosa che glielo ricordava. Naruto, a otto anni, così la vedeva.

Konoha era piena di legno, di legno e di verde: il legno delle case e delle botteghe, dei muri di cinta e dei banchi dell'accademia; il verde tenero dell'erba e quello allegro delle nuvole di clorofilla. La Foglia non a caso, straordinariamente.

Può darsi fosse il sangue del Primo Hokage, o forse era il sangue di quella terra a fare la sua – Paese del Fuoco un accidenti, eh.

Certo: Paese del Fuoco riscuoteva più timore di Paese del Verde, faceva più scena; Erba e Terra erano già presi tra l'altro, perciò Fuoco andava bene. Inoltre c'era quella: la Volontà Ardente… e allora, be', allora doveva andare bene, bene per forza.

Il Villaggio della Foglia aveva un suo senso, lo riconosceva; il senso di un Villaggio della Foglia entro un Paese del Fuoco, viceversa, non gli era esattamente chiaro.

Mai messo naso oltre le mura, riconosceva anche quello, quindi era ammissibile fosse tutto un gorgogliare di fuoco e lava, di vulcani e rocce roventi là fuori. Poteva benissimo esserlo: non avrebbero avuto comunque molto senso, tanto verde e un simile cielo azzurro al centro di un braciere per colossi, ma poteva benissimo essere così. Di cose strane e senza senso, dopotutto, ce n'erano a bizzeffe ovunque; lo blateravano sempre gli shinobi rossi di sakè alla tavola dell'Ichiraku. Anche lì al villaggio ce n'erano, conveniva lui, sissignore: quello spilungone verde-vestito, ad esempio, o tutti i grandi arrabbiati per nulla, sempre sempre.

Il villaggio era imbottito di cose senza senso, e il suo villaggio, lui lo conosceva piuttosto bene.

Konoha odorava di due cose; due cose di cui era piena, straordinariamente. Non tutti a Konoha, però, odoravano in quello stesso modo. Questo non era lui a pensarlo: questo era Inuzuka a dirlo. Più precisamente: questo era Inuzuka Akamaru, il cane, a constatarlo. Inuzuka Kiba, il bambino, lo aveva annunciato, sorvolando sul merito canino.

Kiba e Akamaru Inuzuka del clan Inuzuka – straordinariamente.

Il loro doveva essere un gran bel clan, rifletteva Naruto, con tutti quei segni sulle guance – non uguali ma comunque sulle guance, come i suoi – e i cani, sacchi di pelo grossi e rumorosi – come lui e come Inuzuka; e come il povero Akimichi, quando gli imboscavano il cestino del pranzo. Da quel che raccontavano i maestri, la squadriglia Inuzuka sapeva tracciare l'odore di ogni persona o cosa, perfino a distanza; dote spettacolare agli occhi di chi si orientava giusto tra il banco del buon Teuchi e il latte redivivo dentro il frigorifero. Inuzuka, il bambino, confermava – si capisce, sicuro che confermava: ciascuno aveva un odore, un odore suo e solo suo, come la risata grassa o da merlo, o il pestare dei piedi sui ciottoli.

Quella faccenda dell'olfatto – portentosa! – piaceva un sacco a Naruto; Inuzuka Kiba, il botolo, invece gli piaceva un po' meno, perché lo prendeva in giro durante la tecnica di trasformazione e gli mordeva le mani durante le zuffe. Lui soprassedeva di quando in quando, dato che pur prendendolo in giro, non ne faceva un mistero: era linguacciuto, Inuzuka, non maligno; glielo diceva a muso duro il perché di quel non mi vai a genio proprio per niente. Inoltre, gli piaceva quella cosa dei segni sulle guance e gli piaceva Akamaru, perciò, di quando in quando, magnanimo, soprassedeva.

A Kiba, Uzumaki Naruto, il somaro, non piaceva poi così tanto: non piaceva perché gli rispondeva a tono quando lo prendeva in giro e, ancora di più, gli rispondeva sempre e con un pugno, quando gli mordeva le mani. C'era qualcosa, poi, che non riusciva davvero a capire: i grandi diventavano tutti strani e tesi nei pressi del somaro, come quando si alzano indice e medio prima di un duello. Capitava un sacco, anche se non si era intavolato un duello e si era fuori dall'accademia. Parevano avercela anche loro con lui, avercela sempre sempre, perfino coi testoni dei vecchi boss lindi e puliti. Erano i grandi tuttavia a essere strani, ragionava, e benché non capisse e la miccia fosse fuor di dubbio Uzumaki, Kiba non riusciva a dargliene interamente la colpa.

Altra cosa strana, poi: ad Akamaru, il somaro piaceva.

Non che fosse una rarità: la sua belva aveva in simpatia chiunque, compresi quei gradassi di tengu – e quelli avevano i gatti, gatti e corvi! Lascialo in pace, che è un pezzo di pane, ghignava spesso sua sorella, lo sa lui che i denti vanno sguainati come i kunai: quando servono. E giorni dopo, li aveva snudati incrociando quella cariatide di Shimura. Poteva rimuginarci ancora e ancora, ma c'era poco da fare: Uzumaki – Uzumaki l'appestato, quello che aveva qualcosa attorno e che rendeva i grandi strani e tesi, come con indice e medio alzati – grattava sulla pancia Akamaru, e il traditore mugugnava lieto. Piacere al proprio cane, però, era un po' il banco di prova per ogni buon Inuzuka: superato quello, tanto bastava.

Uzumaki Naruto sapeva come di sale, di sale e di brodo: questo aveva risposto Inuzuka Kiba alla domanda e di cosa so io?

Ma non odorava solo di sale o brodo: Uzumaki odorava anche di zenzero e spezie. Aveva un bell'odore forte lui, forte e acre, spesso; e spesso poteva offrire fastidio. Sgomitava e copriva altri odori, ma solo per essere riconosciuto; affinché si capisse che, ehi, c'era altro oltre il sale e il brodo.

Naruto, naso alla manica e alle macchie di olio, aveva annusato – come Akamaru nelle esercitazioni – e sollevato le sopracciglia – come Inuzuka nelle interrogazioni –, constatando drammaticamente sorpreso che, sì, lui sapeva di sale e brodo per davvero! Esclamando quindi che, sì, gli Inuzuka – Kiba, Akamaru e tutta la squadriglia – erano forti per davvero!

Kiba aveva gongolato, con l'orgoglio a luccicare sui canini, e Akamaru aveva scodinzolato, riconoscente, per quell'Inuzuka regalato.

E gli altri? Gli altri, di che sanno?

Questo era Naruto: curioso, braccia alle toppe sulle ginocchia e occhio galvanizzato – perché lui, il villaggio lo conosceva piuttosto bene, ma non conosceva altrettanto bene i suoi bambini. Inuzuka bambino aveva spalancato gli occhi, preso in contropiede; Inuzuka cane aveva prima guaito e poi abbaiato, forte, due volte, all'indirizzo dell'altro. Quello lo aveva guardato male, perché sapeva essere il fiuto di Akamaru migliore del suo, diamine, ma non era piacevole sentirselo berciare così, in pubblico.

Be', gli altri, dici… Tipo, i nostri compagni?

Uzumaki aveva annuito, forte, due volte, come Inuzuka cane. Proprio una scimmia, Uzumaki. Sarumaki.

Era emerso che Akimichi Chōji, il manjū, sapeva di salsa di soia e frittura; salato anche lui come il somaro, ma meno irruento, più morbido, ed era mescolato ad altri aromi. Era anche dolce, e agre, buono tutto sommato; un po' pasticciato, ma davvero buono. Nara, sveglia Nara, invece, sapeva di tè e di erbe secche, stivate. Era un odore basso, discreto: dava filo da torcere e non intendeva farsi beccare. Akamaru aveva guaito ancora, perché Nara era una scia sottile, ardua da scovare – quanto Aburame. Ecco: Aburame Shino pareva non avercelo proprio un odore, uno che fosse suo. C'era sempre la nebbia dei suoi insetti a nasconderlo più di quel carapace di giacca. Era fumoso e da crampi alle tempie, come guardare Umino sensei o la mamma in controluce e non vederne l'espressione; non capire se l'hai o non l'hai fatta grossa, caro Kiba. Non ne catturava l'odore, e questo era quanto di più minaccioso per un Inuzuka. Era pericoloso, da chi va là?! Era strano; era Aburame senza volto Shino, non a caso.

E senti, senti, Sakura-chan?

Kiba aveva assottigliato gli occhi e grugnito: causa persa, Uzumaki. Bakamaki.

Femmine, bleah! Brutto affare…

Ma no, non tutte le femmine! Solo Sakura-chan, eh!

Allora solo
fronte alta è un brutto affare.

Akamaru aveva guaito, perché il suo fiuto non si limitava all'olfatto, e perché il piede di Uzumaki gli aveva quasi amputato il tartufo. Kiba si era ripetuto una volta di più che, no, il somaro non gli piaceva poi molto, perché gli rispondeva sempre, con i pugni ma anche con i calci. Pure Naruto si era ripetuto che, no, a lui il botolo piaceva proprio poco, nonostante i segni sulle guance e i cani grossi e rumorosi.

Kiba lo aveva comunque ignorato e cercato di fare mente locale, perché l'odore delle femmine non era, come dire, cattivo… Le bambine erano spesso sì cattive – malvagie! Smorfiose! Delle arpie! –, ma il loro odore, be', era un altro paio di maniche. Più invitante e gradevole di tanti maschi, quello di molte, in alcune si avvicinava persino alla caramella; ma – ed era un ma bello grosso per un maschio di otto anni –, alla lunga, dava la nausea. Le femmine avevano per lo più odori fastidiosi: troppo pesanti o troppo pungenti, troppo stucchevoli o troppo mescolati; troppo sofisticati per uno che, di sera, squadrava la vasca con idrofobia. Con le debite eccezioni, comunque.

Yamanaka Ino, ad esempio, aveva un buon odore, uno dei più buoni che avesse mai incontrato: sapeva di fiori, di gigli e petali bagnati, e di acqua. Sapeva di fiori, e forse non solo a ragione del negozio; ma – eccolo, quel ma bello grosso – pareva urlare. Aveva una voce squillante, tale e quale alla padrona, e le arrivava fin sopra la zucca chiara. Strillava l'odore della graziosa Yamanaka, come le oche nel recinto della sua vecchia zia; strillava e strillava a un tono troppo, troppo alto, come le mamme coi papà. Una rogna, aveva esalato un giorno l'oracolo Nara Shikaku, appoggiato ai cancelli dell'accademia.

L'odore di Yamanaka era simile a quello di, sì, sì, va bene, ora te lo dico, Haruno Sakura. Simile ma distinto.

Sapeva di prati Haruno, e di carta; cosa strana, poiché la carta ricordava le biblioteche, e i prati, i giochi; e Kiba n'era certo: biblioteche e giochi non andavano d'accordo. C'erano voci diverse, come di cose lontane che, per caso – per forza –, si trovano insieme. Ma sapeva anche lei di fiori: di tanti fiori, fiori non dentro i vasi ma dentro la terra, di campi; ed era un odore chiaro, come Yamanaka, pulito nel suo essere strano e di cose lontane poi avvicinate. Anche l'odore di Haruno parlava: non alto quanto la rogna bionda; il cucuzzolo dei capelli non l'oltrepassava; sembrava meno sfrontato. Non era ancora deciso, ecco. Doveva solo capire quale delle due cose essere, forse; se scegliere o mischiarsi. Doveva crescere, però: l'odore di Haruno doveva crescere, come le piante che al sole, sotto la pioggia, col freddo mutano, sbocciano o sfioriscono. Era un odore garbato, pastello su carta: da bambina nel migliore e più sincero dei sensi.

Ecco, vedi?

Sebbene…

Brutto affare, le femmine.

Non tutte.

Lo dicevo io.

Con le debite eccezioni.

Perché c'era lo zashiki-warashi, ma sì, quella bimba bassa bassa, con la frangia; quella che non parlava mai: Hyūga, gli pareva. Ecco, quella lì era strana, strana come tutte le femmine, ma anche di più perché aveva un odore sottile come Nara, ed evanescente come Aburame; ma anche zuccherino come il manjū, e pulito e confuso come Yamanaka e come Haruno. La cosa più strana, però, era che non riusciva a dargli un nome. La frase Hyūga sa di… lui non la sapeva continuare; e non sapere identificare un odore, per Kiba prima che per un Inuzuka, non era irritante o minaccioso: era nuovo. Non gli era mai capitato.

Naruto si era riempito la bocca di silenzio, perché interessato e perché, in effetti, non sapeva davvero dare un volto alla bambina cui Inuzuka non riusciva ad assegnare un odore. Aveva semplicemente annuito, come in classe, quando il maestro Iruka discorreva di tecniche e sigilli e lui, dispiaciuto, proprio non lo seguiva.

Strano affare davvero, le femmine…

Però c'era un odore, a difesa di Kiba, che aveva acchiappato tutto da solo, senza l'ausilio di Akamaru.

Naruto aveva corrugato le sopracciglia, esplicativo, perché aveva l'aria di un annuncio importante.

Uchiha Sasuke, aveva dichiarato, il solitario.

Il bambino curvo del pontile: carbone e cotone oltre il blu scuro della maglia, e rosso sopra quello stesso blu scuro, scurissimo. A Naruto ricordava i papaveri, quel rosso sulla schiena; ricordava i papaveri e non i ventagli; i papaveri e i pontili, cose tipo…

Sa di legno.

Eh, tipo il legno.

Uchiha ha l'odore più simile a quello del villaggio, proprio di tutto il villaggio.

Naruto avrebbe detto carbone, tuttavia; polvere che brucia dentro le narici.

Ed è stranissimo: perché gli Uchiha, secondo tutti, sono bravissimi col fuoco.

Metallo e ruggine; kunai distrutti nel ninjutsu.

Sì, sono…

Invece era legno.

… erano.

Legno nel Paese del Fuoco.

Qualche anno prima, vi si sarebbe potuta scorgere la carezza sinistra di un presagio; un'unghiata nel futuro… Ma può darsi fosse solo questione di sangue: del sangue del Primo Hokage che scorreva sottoterra; del sangue di una terra verde eppure di fuoco; del sangue che, a terra, versato, faceva fiorire i ciliegi, come raccontava nonna Inuzuka. E Sasuke, che era un Uchiha, era anche legno: legno che brucia col fuoco.

Si era rabbuiato Naruto, triste per del legno che brucia col fuoco e per un bambino sopra un pontile; un bambino che sembrava un papavero.

Kiba aveva smesso di parlare, scavando nella terra col sandalo: non gli piaceva più quell'argomento; non gli piaceva ricordare la schiena curva del solitario e la luce morente nel nido dei tengu. Era un bambino Kiba, ma anche Uchiha lo era, come lui; e Kiba aveva paura: avrebbe potuto esserci lui dove c'era Uchiha, e avrebbe potuto esserci lui dove c'era Uzumaki.

Avrebbe potuto esserlo lui.

I piedi erano grigi di terra e lui era un bambino e non voleva – mai, mai, mai avrebbe voluto essere lui il somaro, il solitario; l'orfano, l'ultimo.

Akamaru aveva uggiolato per Inuzuka bambino, che tirava su col naso, per Uzumaki il somaro, che sedeva quieto e, forse, anche per Uchiha il solitario, perso sull'acqua trasparente del fiume Naka, naufrago.

Naruto aveva sospirato forte: nella sua testa c'era ancora quel papavero, e quel legno, e quella terra di fuoco tutto attorno; ma poi, dal basso e da fuori, fuori dal fuoco e dal fumo, qualcosa aveva cigolato, e c'era un naso umidiccio, del fiato e del pelo. Aveva sorriso, perché a lui piaceva Akamaru, e avvicinato il piede alla sua zampa, appendice contro appendice, riflettendo che sarebbe stato bello avere anche lui una zampa da avvicinare a qualcuno che è triste; un'appendice da tamponare contro un gorgo che proprio non si può fermare.

Anche Kiba – le cui gambe e braccia, ogni tanto, mutavano per davvero in zampe – aveva sorriso: aveva paura, perché era un bambino; ma Akamaru si era messo a scodinzolare e a mordere il bordo dei sandali del somaro, e il somaro lo aveva accarezzato piano, dietro le orecchie, come sua sorella Hana; e proprio perché bambino, Kiba aveva sorriso. Piacere al proprio cane era un po' il banco di prova per ogni buon Inuzuka: superato quello, tanto bastava.

In ciò che avanzava della pausa, non si era più parlato: Kiba aveva terminato di spazzolare il pranzo; Naruto, raccolto il barattolo di rāmen vuoto; e Akamaru, inzuppato di saliva i pantaloni dell'uno e dell'altro. Parlare, dopotutto, non era nei piani fin da principio: Kiba era corso sul retro dell'accademia, appresso Akamaru; Naruto andava sempre sul retro dell'accademia per il pranzo. Era stato un caso. Se mai fosse capitato ancora, non lo sarebbe più stato.

Era stato un caso anche quello: la storia degli odori.

Con il somaro a ingollare gli ultimi rotoli di pasta, Kiba aveva commentato che finalmente capiva un sacco di cose. E per caso, tra uno sei scemo? e uno sarai scemo tu!, avevano anche parlato. E per caso, era emerso, be', quello che era emerso: che il somaro sapeva di brodo; il manjū, di salsa di soia e tanto altro; sveglia Nara, di erbe… e il solitario, di legno.

Uchiha odorava di legno, anche se Naruto avrebbe detto carbone – qualcosa che brucia dentro le narici – e polvere – un tuffo nella terra, senza capire con chi accidenti ce l'avesse –, metallo – kunai distrutti nel ninjutsu – e ruggine – chi, chi stava guardando? Chi stava cercando?

Eppure, sì, glielo ricordava il legno. Il legno delle case e delle botteghe, dei muri di cinta e dei banchi dell'accademia: il legno di Konoha.

Sasuke, che era un Uchiha e che doveva essere bravissimo col fuoco, gli ricordava il legno: il legno degli alberi, che stanno e dormono, crescono all'aperto, all'aria e non in casa – benché poi lo diventino per davvero, case. Il legno che sa essere ruvido, e duro, e scomodo, e pieno di schegge se tagliato male; ma che sostiene, resiste e se ne sta lì, fuori, all'aria e al vento; che è un gran mulo, sapete, e non crepa neanche se sradicato. Il legno che scaccia e che isola, e che può scacciare e isolare dal brutto e dal freddo: che protegge. Il legno che sa e può essere caldo; caldo anche se non bruciato dal fuoco. Il legno del Villaggio della Foglia e del Paese del Fuoco. Il legno di un albero al centro di un incendio rossissimo.

Sasuke, che era un Uchiha e che doveva essere bravissimo col fuoco, gli ricordava il legno.

Naruto, a otto anni, così la vedeva; lo vedeva. Odore o non odore, glielo ricordava.

Gli ricordava cose tipo il legno, i pontili e i papaveri.










 
Cose, casi, a caso
 
Naruto, Kiba e Akamaru: personaggi. Mai avrei detto fosse tra le opzioni, e invece, to': avete vinto tutto. Una cosa, pourparler… Quando l'occasione si accompagna alla dote: il naso c'è, tutto fuorché piccolo, ma l'olfatto s'è dato dai tempi del Dolce Forno. Se lo chiedete a me, siam lì lì dall'anosmia; se lo chiedete a Focus, vivrò pure meno (party hard). Non ne avrò inforcato mezzo, quindi (sbatte la testa contro il muro). Cose, nel caso: tengu, manjū, zashiki-warashi. Cose a caso: baka, saru, giappofesserie varie; secondo me voi, popolo dell'internet, le sapete di default. Ma pure viceversa, succede mica niente; sùmànài altrimenti (evoca Sigfrido). Caso di questa cosa: grazie, sempre e un treno-mercì, e niente, procediamo con la strategia di sopravvivenza? (Ikuharaaa~!)

Disclaimer: tutta farina 00 del sior Masashi. Io sono nullatenente e nullafacente, splendido splendente (parappa pappara~).






 
  
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