IL GRIDO DEGLI AGNELLI
“Allora, Clarice,
gli agnelli hanno
smesso di gridare?”
Hannibal, Thomas Harris.
Era quasi l’alba, quando la piccola Clarice si svegliò di
soprassalto.
Per qualche istante, non riuscì a rendersi conto del motivo
che aveva provocato quel suo brusco risveglio, ancora immersa nel buio
voluttuoso ma pronto a sparire da un momento all’altro, come per magia.
Aveva il viso tutto imperlato da minuscole goccioline di
sudore, come se avesse avuto tormento per un po’ di tempo prima di riuscire ad aprire
gli occhi, e l’odore dei primi fiori sbocciati in quell’anno entrava dalla
finestra socchiusa della sua cameretta.
La primavera ormai aveva conquistato il Montana, e le sue
mille fragranze stuzzicavano costantemente il naso della bambina, che, ancora
turbata, scostò le coperte e mise i piedini giù dal letto, a contatto con il
tappeto indiano che tanto amava.
Ancora doveva farci l’abitudine, a quella realtà così vasta e
accogliente; per la piccola, avere una stanza da letto tutta sua era qualcosa
che ancora, a distanza di mesi, la emozionava.
Erano in quei momenti che le tornava in mente la morte
tragica del padre, e poi la separazione dai suoi fratelli, e, in modo
particolare, da sua madre, che si era spaccata la schiena trovandosi
addirittura due lavori per riuscire a mantenere i suoi figli, ma ciò non era
bastato.
Clarice, alla fine, era stata data in affidamento, dalla
madre stessa, ad una sua cugina e a suo marito, due persone ormai di mezza età che
non avevano figli loro, e che si erano dimostrati molto amorevoli con lei.
Questo non aveva addolcito la realtà; le tornavano spesso in
mente i ricordi della sua famiglia riunita, la famiglia Starling, quei miseri
discendenti di scozzesi emigrati negli Stati Uniti per cercare un po’ di
rivalsa e una terra che si potesse finalmente chiamare casa.
Si sentiva un nodo alla gola, quando rimembrava la voce del
padre, morto in un incidente mentre svolgeva il suo lavoro di poliziotto
notturno. Le sembrava di udire lo scoppio fragoroso della pallottola del suo
fucile, che esplodeva sonoramente per poi lasciarlo morto, freddato in modo
spietato da uno degli oggetti che più aveva stretto tra le mani durante la sua
vita.
Non voleva pensarci più.
Si mise in piedi sul tappeto, e recuperò la bottiglietta che
teneva sempre con sé, a fianco del comodino, pronta a bere qualche sorso
d’acqua, in modo da provare a calmarsi. Non voleva svegliare i padroni di casa,
altrimenti si sarebbe sentita ancora quella bambina fragile che, nelle ultime
settimane, stava cercando disperatamente di nascondere alla vista di chi la
circondava.
Ma poi, quando meno se l’aspettava, udì distintamente le
grida di paura e di dolore degli agnellini, e comprese cosa l’aveva svegliata.
Lo shock la pervase di nuovo, e lasciò cadere a terra la
bottiglia di vetro, mandandola in frantumi.
Totalmente vittima della sua paura, e senza accendere la
luce, infilò in un attimo le ciabatte e si diresse con prontezza verso la
stanza dei cugini, trovando la porta aperta e il letto sfatto, ma vuoto. Come
ormai aveva capito, moglie e marito erano scesi prima dell’alba per cominciare
la mattanza degli agnelli di primavera, uccidendo spietatamente quelle
creaturine che aveva visto nascere solo qualche mese prima, e che si era
divertita a guardare mentre venivano allattate dalle rispettive madri.
Ma sapeva, ormai, che l’essere umano era cattivo per natura,
particolarmente spietato quando c’era in ballo un possibile guadagno, e la
Pasqua imminente portava con sé una grandissima richiesta di carne ovina.
Alla piccola Clarice non avevano spiegato che quel grande
paradiso avvolto dal verde e in piena campagna altro non era che un
allevamento, in cui, a scaglioni, venivano uccisi e macellati numerosi di
quegli animali con i quali aveva avuto contatto quasi tutti i giorni della sua
permanenza in quel luogo dalla parvenza amena. E, proprio in quel momento, i
belati pieni di panico degli agnellini che stavano venendo massacrati nel
capannone poco distante erano assordanti.
Clarice si tappò le orecchie con le mani, e si appoggiò
contro il muro che aveva dietro le sue spalle, avendo capito ciò che accadeva
attorno a lei e il motivo dell’esistenza di quegli animali che la circondavano,
e s’immaginò coloro che le stavano offrendo ospitalità tutti ricoperti del
sangue di quei piccoli esseri innocenti.
In un certo senso, si sentiva come quegli agnelli, lei che
era stata sacrificata da bambina e che aveva perso tutto, anche l’affetto dei
suoi genitori.
Cacciò un piccolo e soffocato strido atterrito quando le
grida dei poveri animali si fecero ancora più elevate e potenti, spinte dal
panico della morte, e dall’odore di sangue che ormai doveva aver preso possesso
dell’intero capannone in cui si stava svolgendo la mattanza.
All’improvviso, le tornò alla mente una sola immagine; quella
di Hanna, la sua unica amica.
Hanna, quella cavalla cieca che le era sempre stata vicina, e
che le aveva voluto bene fin dal primo giorno in cui si erano incontrate, nello
spazioso recinto limitrofo alla casa.
Come tutti i cavalli presenti nell’allevamento, l’equino in
questione aveva un difetto, e nonostante fosse molto buono con i bambini, e
mansueto, i cugini si stavano prodigando per farlo ingrassare.
Clarice, nelle scorse settimane, aveva notato la scomparsa di
alcuni altri cavalli, di quelli che ormai erano diventati grassi; una decina
erano stati fatti salire, la mattina presto, su un camion bianco, anonimo, da
persone che li avevano picchiati per riuscire a stiparli in uno spazio angusto,
troppo piccolo per loro.
Quando aveva chiesto cosa stava accadendo, ed aveva cercato
di intervenire, stringendo i suoi piccoli pugni contro uno di quegli uomini
violenti, uno degli stallieri le aveva rivolto un sorriso amaro e l’aveva
letteralmente portata via di peso, dicendole che ben presto quegli animali
sarebbero finiti in un posto dove avrebbero avuto tutto lo spazio che avrebbero
desiderato, e dove non sarebbero più stati costretti, a suon di frustate, a
restare concentrati quasi l’uno sull’altro, tutti sporchi delle loro stesse feci,
e dell’urina che quelle povere creature terrorizzate si lasciavano sfuggire, in
preda al panico.
Quel posto era l’Aldilà.
Ma la piccola non voleva che tutto ciò accadesse, in una
macabra routine che stava imparando a conoscere molto in fretta.
I cavalli presenti alla fattoria, perlopiù con problemi
fisici e senza un valore di mercato, erano suoi amici, gli unici che potesse
avere una bambina timida come lei, senza casa né famiglia, e neppure amici
coetanei umani.
Quella situazione le generava dolore, e quando, nei giorni
scorsi, altri di quei cavalli erano stati portati all’interno di uno dei grandi
capannoni circostanti, dai quali non erano usciti più, se non morti e ricoperti
del loro stesso sangue raggrumato, ciò che aveva compreso l’aveva sconcertata.
Ed in quel momento, gli agnelli strillavano ancora,
disperati, prima della loro fine.
Sapeva che si trattava di pochi esemplari, circa una dozzina,
o poco più; la sera prima aveva osservato distrattamente il marito della cugina
mentre li separava dalle madri, mettendoli in un recinto dove sarebbero stati
facilmente recuperabili.
Eppure, il pensiero che, dopo quella decina abbondante di
agnellini, ci fosse spazio anche per qualche altro animale di quella che non
era in realtà una fattoria, bensì uno spietato allevamento, la rendeva ancora
più confusa. Una terribile realtà in cui gli animali venivano uccisi, e lei
stessa aveva visto coi suoi occhi gli strumenti di morte che venivano
utilizzati dai macellai, e a volte aveva scorto anche le carcasse dei cavalli
appena abbattuti, anch’essi destinati alle fabbriche di colla o di
fertilizzanti, pronte ad essere caricate con dei muletti sui camion che le
avrebbero portati via.
Hanna, la sua amica a quattro zampe che ogni giorno
accompagnava a fare una piccola passeggiata, tenendola per le briglie, in modo
che non si perdesse, ultimamente era ingrassata di molto, e il suo scarno
addome non mostrava più le costole e i segni dei maltrattamenti che aveva
ricevuto dai precedenti proprietari; il suo pelo era diventato gradualmente
splendente, e il suo ventre florido e rotondeggiante.
La bambina aveva imparato a riconoscere che quello era il
segnale che ben presto l’animale sarebbe sparito. Magari sarebbe accaduto
proprio quella notte, pochi istanti prima che l’alba avesse fatto capolino per
dare il via ad un nuovo giorno, in modo che la piccola non si accorgesse di
nulla.
I cugini le avevano detto di non darle un nome, ma lei lo
aveva fatto ugualmente. E capiva, ormai, perché gli avessero consigliato di non
chiamarla Hanna e di non affezionarsi troppo a quella gentile e docile
creatura.
In meno di un attimo, Clarice decise con risolutezza quel che
doveva fare; durante la sua breve vita, non aveva mai deciso nulla, e gli altri
l’avevano sempre fatto al posto suo. Era stata sbatacchiata da un posto all’altro
senza poter dire la sua opinione, e tutto quello che le era stato a cuore le
era poi stato strappato senza pietà.
Quella volta, era decisa a non perdere Hanna.
Si vestì pesantemente e in fretta, e in un batter d’occhio
scese le scale ed uscì in giardino.
La porta d’ingresso era aperta. Gli agnelli non gridavano più
il loro dolore; i canaletti di scolo che uscivano da quel grande capannone illuminato
a giorno dalle lampade senza paralume, che servivano per portare via gli
scarichi, erano a cielo aperto, e un’inondazione di fluido vermiglio li
riempiva. La bambina poteva osservare il possente rivolo di sangue scorrere in
uno di essi, velocemente, anche se fuori era ancora piuttosto buio.
L’odore di carne appena macellata, di urina e feci era
insostenibile, ed inondava il grande cortile dell’allevamento, cancellando il
profumo dei fiori che la primavera faceva sbocciare senza sosta.
Doveva fare in fretta.
Clarice non entrò nella stalla, dove le luci erano accese; si
diresse verso il recinto all’aperto, dove buona parte dei cavalli venivano
lasciati anche di notte. Non voleva che i poveri animali si accorgessero troppo
in fretta di lei, e cominciassero a nitrire, come facevano spesso.
Trovò comunque i quadrupedi già agitati, avendo avvertito
anche loro l’odore pungente della morte. Avrebbe voluto salvarli tutti, ma non
poteva, purtroppo.
Clarice si avvicinò mestamente alla sagoma scura di Hanna,
che era una delle prime a fianco della staccionata, e le si avvicinò piano,
dopo aver superato tranquillamente la barriera che le separava. La cavalla era
distesa al suolo, ma non appena percepì i suoi movimenti, si alzò con forza, e
non potendola vedere, scalciò, cominciando ad agitare ancora di più gli altri
animali.
“Hanna! Hanna, sono io!”, sussurrò la bambina, e la giovane
cavalla si calmò improvvisamente. Poi, mosse un paio di passi verso di lei, e
quando Clarice le lasciò annusare una mano dal palmo aperto, si quietò.
“Ora ce ne andiamo per sempre da questo posto”, sussurrò di
nuovo all’amica quadrupede, e senza perdere altro tempo, cercò di pensare a
come andarsene di lì. Aveva pochissimo tempo a disposizione per mettere in atto
il suo piano, lo sapeva, e la luminosità di un’alba sempre più imminente da una
parte l’aiutava, dall’altra l’atterriva.
Si chiedeva cosa le avrebbero fatto se l’avessero scoperta. I
cugini non le avevano mai fatto del male; erano due adulti qualsiasi, molto
spossati dal lavoro, come lo erano tutte le persone che dovevano rimboccarsi le
maniche per poter continuare a vivere dignitosamente.
Sapeva che in fondo era un peso per quella coppia, e che
l’avevano accolta solo per carità cristiana, ed ogni giorno fingevano di
rivolgerle qualche attenzione vuota, arida, che nella bambina non lasciava
alcun segno, solo ed esclusivamente per seguire le parole del Vangelo.
Non era stata malaccio in quei mesi trascorsi da loro, ma non
poteva permettersi più di perdere un altro legame. Per quello, in quei
concitati istanti, esistevano solo lei e Hanna, e la follia che, nel suo
egoismo colmo di favole da bambina, aveva dei tratti sempre più delineati nella
sua mente infantile.
Non tentò neppure, alla fine, di imbrigliare l’animale,
poiché non ci sarebbe mai riuscita a farlo correttamente. Hanna era troppo grande
per lei, e d’altro canto non ce l’avrebbe mai fatta con così poco tempo a
disposizione.
Allora prese una corda con un nodo già pronto, che aveva
lasciato il giorno prima, casualmente, sulla staccionata, e la sistemò attorno
al collo dell’amica a quattro zampe.
Hanna era cieca, non riusciva a vedere nulla, e per quello
era stata destinata a finire al macello, e alla produzione di colle e
fertilizzanti. Clarice sapeva che avrebbe fatto affidamento solo su di lei, e
che quindi doveva stare attenta a non spaventarla e a non farsela sfuggire.
Nel frattempo, sulla fattoria regnava un pesante silenzio, e
gli altri cavalli erano sempre più inquieti e irritati.
Portò Hanna al di fuori del recinto, e senza pensarci sopra
un’altra volta, la loro avventura dal sapore di fuga ebbe inizio.
La bambina e la giovane cavalla camminarono a lungo, senza
tenere conto del tempo. Finalmente erano sole, e Clarice, in un certo senso, si
sentiva al sicuro con l’amica. Sapeva che era l’unico essere vivente che non
avrebbe mai potuto nuocerle.
La notte dormivano all’aperto; la bimba fuggitiva per fortuna
si era coperta per bene, e comunque si sdraiava contro il ventre caldo di
Hanna, che mansueta come sempre, le stava a fianco e la vegliava per tutta la
durata del buio.
Di giorno, camminavano e camminavano, senza sosta, andando
sempre più lontano.
All’inizio, Clarice aveva paura di percorrere le strade, o di
attraversare i piccoli centri abitati della zona; non sapeva se i cugini di sua
madre avevano denunciato alle autorità la sua scomparsa, o se la stavano cercando.
In fondo, non le importava, ma non voleva che la
ritrovassero, poiché era certa che se ciò fosse accaduto, avrebbe perso Hanna. Non
lasciava mai la corda che la teneva legata, e l’animale, docilissimo, si
lasciava portare ovunque la bimba volesse, senza mai fare le bizze o stancarsi.
Ma ben presto fu chiaro che, se per Hanna era facile trovare
qualcosa da mangiare, e bere nelle larghe pozzanghere che dominavano il
territorio di aperta campagna che stavano affrontando, per Clarice era molto
più difficile riuscire a tirare avanti. Di cibo commestibile per lei non ce
n’era affatto in quella stagione così prematura, e ugualmente le faceva schifo
bere dalle pozzanghere, cosa che comunque fu costretta a fare, qualche volta.
Proseguirono nella fuga fin quando, dopo aver percorso una
salita che le aveva condotte sulla cima di una tozza collina, apparve di fronte
a loro una cittadina, che Clarice riconobbe prontamente; si trattava di
Bozeman, il cugino di sua madre l’aveva portata alcune volte lì.
Si trattava di una realtà immersa nel verde, e dove, per
fortuna, esisteva una grande scuderia con noleggio di cavalli, una sorta di
grande ranch messo su per i turisti temerari che volevano affrontare la
splendida campagna a tratti selvaggia del Montana.
Lei e colui che la sfamava erano passati più volte di fronte
al ranch, ma l’uomo le aveva sempre impedito ogni genere di visite a quel
luogo, sostenendo che fosse una realtà fittizia messa su solo per stranieri ed
abitanti di altri Stati.
Ebbene, Clarice si decise a recarsi proprio lì.
Non ne poteva più di camminare, aveva fame, sete e freddo, e
il cielo plumbeo prometteva un diluvio gelido da lì a momenti. Si diresse
quindi con prontezza verso la sua ultima meta designata, consapevole del fatto
che non avrebbe potuto fuggire per sempre, e che non avrebbe potuto resistere
per molto altro tempo, in quella situazione di totale indigenza. E poi, era
rimasta folgorata da un piano che, secondo lei, era facilmente realizzabile.
Clarice, assieme alla cavalla, si recarono al maneggio, senza
più stare attenta a nulla, sapendo che la sua fuga era ormai giunta al termine.
La loro meta era piena di persone, nonostante fosse solo
mattina, e dappertutto c’erano cavalli impegnati con bambini e adulti, e
sembrava che gli animali fossero trattati benissimo. Già ad una prima occhiata sembravano
molto amati dalle persone, e ben curati e custoditi.
“Questo è il posto per te, Hanna. E anche per me. Abbiamo
trovato una casa”, disse la bambina alla sua amica quadrupede, e sempre
conducendola con la corda, si diresse verso la casupola dalla porta spalancata,
dove il proprietario del ranch accoglieva i turisti e parlava con la clientela,
e con le persone interessate ai servigi suoi e dei suoi animali.
Entrò senza bussare, legando Hanna ad un paletto lì fuori.
“Salve”, disse la bambina, tentennante, entrando nella
casupola al cui interno la penombra la faceva da padrona.
Mentre entrava, fuori cominciava a cadere quella fitta
pioggerellina gelida che aveva tanto temuto fin dal principio, e così la
piccola seppe che non doveva aver paura, siccome quella era la chance migliore
che il destino avesse potuto offrire a lei e all’amica.
Si sentiva in un qualche modo protetta da suo padre, che da
lassù, in Cielo, dopo aver notato le sue sofferenze e i suoi timori, doveva
aver favorito il suo provvidenziale arrivo in quel posto.
“Buongiorno, piccola. Come posso esserti d’aiuto?”, l’accolse
un omaccione di mezza età, dai lunghi baffi come quelli dei primi pionieri che
avevano colonizzato quelle terre, durante i secoli precedenti.
“Sono qui… con Hanna, la mia cavalla. Ecco, io volevo
chiedervi se… se potreste tenerla. Sapete, è tanto buona. È abituata ad essere
cavalcata dai bambini, non ha problemi di alcun genere ed è molto tranquilla”,
disse la bambina, ancora tentennante.
L’uomo la guardò, ancora seduto alla sua scrivania ricoperta
di fogli in disordine, e le dedicò un’occhiata profonda e attenta. Poi si alzò.
“Fammi vedere la cavalla”.
Clarice lo portò fuori, sotto la pioggerellina gelida che già
si accingeva a diminuire d’intensità, e gli mostrò Hanna.
“E’ cieca”, notò subito, dopo avergli puntualmente controllato
il muso.
“Sì”, fu costretta ad ammettere la bambina.
“Uhm”.
“Vi prego, ditemi che la terrete! Vi prego, altrimenti la
uccideranno!”, cominciò a supplicare la bambina, subito disperata.
“Beh, prima di tutto, noi qui abbiamo solo animali sani e
tranquilli; vengono molte famiglie, e abbiamo bisogno di una cavalla come
questa, che di sicuro è molto mansueta! L’unico problema è che è cieca…”.
“La terrò io per le briglie, non c’è problema. La farò
passeggiare io, magari per le prime cavalcate di qualche persona inesperta va
bene”, lo interruppe Clarice, sempre più supplicante.
L’uomo baffuto la guardò di nuovo, distogliendo gli occhi
dalla cavalla.
“Tu? E come farai? Tu starai a casa tua, e ai miei stallieri
toccherà questo fardello. Hanno molta pazienza, ma non così tanta. E poi, è
vero che qui nessun animale è destinato al macello, ma, nel caso di cavalli
portati qui da privati, vogliamo essere pagati. Venti dollari a settimana se
vuoi lasciare il tuo amico equino in uno dei recinti all’aperto, sessanta se vuoi
fargli avere un box tutto suo”, disse l’uomo, mentre continuava di tanto in
tanto a guardare la piccola interlocutrice con curiosità.
“Li hai quei soldi, bambina? Come hai detto che ti chiami?”,
la interrogò improvvisamente, prima che potesse dire altro.
“Non li ho quei soldi, ma vi prometto che se terrete Hanna,
ci penserò io ad accudirla! Ve ne prego. La porterò a spasso tenendola per le
briglie, lentamente, mentre i bambini e i più inesperti la cavalcano, mentre
quelli più bravi e gli adulti faranno equitazione seriamente. E poi, potrei
pulire le stalle. Starò qui giorno e notte”, proruppe Clarice, senza smettere
un attimo di parlare.
Sapeva che si stava giocando le ultime carte, e non voleva
dire il suo nome. Era una bambina sveglia, il Signore le aveva dotato già una
discreta maturità a soli dieci anni, e ciò per lei era tutto quello a cui si
poteva aggrappare per salvarsi da una vita di frustrazioni e dall’addio che
sarebbe stata costretta a dare ad Hanna.
“Dimmi il tuo nome, prima di tutto, piccola. Poi ti farò
sapere se potrai restare qui assieme alla tua amica”, tornò a dire l’uomo,
restando sul punto nevralgico della discussione.
Messa all’angolo, la bambina fu scossa da un brivido freddo.
“Mi chiamo Clarice”, rispose, alla fine, senza mentire.
Una donna in quel momento raggiunse l’uomo con i baffi, e lui
le fece cenno di avvicinarsi, per poi suggerirle qualcosa all’orecchio. Fu
questione di un attimo; la signora rivolse uno sguardo indagatore a Clarice, e
poi si allontanò, svelta.
A quel punto, la bambina sapeva che era stata ufficialmente
scoperta, e doveva fare in fretta. Se ne sarebbe voluta andare.
Prese la corda che aiutava Hanna con entrambe le mani, ma
quelle più grosse e callose dell’uomo gliele strinsero tra le sue.
“Non hai detto tutta la verità, piccola. Tu sei Clarice
Starling, la ragazzina che è scappata un paio di giorni fa con la sua cavalla
preferita, e cieca, da uno degli allevamenti a diversi chilometri più a sud. La
tua foto è sui giornali locali e ti stanno cercando tutti, ed ora attenderai
che arrivi lo sceriffo, dato che mia moglie è andata a fargli uno squillo”,
disse, tranquillamente, per poi strapparle la corda dalle mani e spingendola
dentro la casupola di legno, richiudendo a chiave la porta dietro di loro.
Clarice cominciò a piangere, in modo disperato; i suoi sogni
erano andati in frantumi, e Hanna sarebbe morta.
Quando arrivò lo sceriffo, di lì a poco, Clarice ancora piangeva.
Era un omone grosso e dal volto piuttosto arrossato, quasi da
alcolizzato. Alcune evidenti venuzze gli solcavano le guance.
La piccola si spaventò, non voleva che finisse così.
“Vieni, Clarice. Ti riporto immediatamente a casa”, disse
l’autorità, con tono scontroso.
“Non voglio”, ribadì la bambina, scostante.
“Oh, senti, non ho tutto il giorno per seguire i capricci di
una mocciosa! Sali in auto con me, e facciamola finita con questa messinscena”,
tuonò l’uomo, risoluto, mentre i padroni del maneggio li lasciavano soli.
Lo sceriffo la agguantò per un braccio senza tanti scrupoli e
la piccola si gettò a terra, strillando e lasciandosi andare di nuovo alle
lacrime.
“Perché fai così? A casa ti maltrattano?”, domandò allora
l’uomo, colto da un po’ di umanità, lasciandola andare.
“No. Ecco, è per Hanna, la cavalla cieca che ho condotto fin
qui… io sono scappata… sono scappata per lei… per portarla in un luogo sicuro…
la uccideranno, altrimenti”, cominciò a farfugliare Clarice, la voce
continuamente interrotta dai singhiozzi disperati e dal pianto, e il volto reso
violaceo dalla disperazione estrema.
Lo sceriffo sbuffò, poi le passò gentilmente una mano sulla
testa.
“E va bene. Facciamo così; mi accollo io la spesa di Hanna,
per un paio di settimane, va bene? Poi ci penseremo su. Basta che la smetti di
piangere”, disse, e la piccola improvvisamente gli sorrise. Il suo visino si
rischiarò in un attimo.
“Dite davvero?”.
“Assolutamente sì. Non scherzo mai”.
Fu così che Hanna fu salvata, e fu lasciata in buone mani, in
un recinto.
Lo sceriffo disse ai proprietari del ranch che non serviva
tenere il cavallo in un box durante la stagione primaverile, poiché non faceva troppo
freddo, e pagò di sua tasca la retta di una settimana di permanenza in uno dei
recinti.
I giornali vennero a sapere tutta la storia, e la vicenda di
Clarice e Hanna, la sua amica equina, fece scalpore e divenne ben nota in tutto
il Montana.
Riconsegnata ai cugini della madre, questi si mostrarono
reticenti a tenerla di nuovo con loro, dopo l’accaduto, e la bambina piangeva
continuamente, lontana da Hanna.
Fu così che pochi giorni dopo la fine della sua fuga, la
cugina della madre, la quale l’aveva in affidamento, la fece andare via, e la
consegnò al Lutheran Home di Bozeman, un orfanatrofio che accoglieva bambini
soli o abbandonati dalla famiglia d’origine.
Lì, grazie alla bontà di un allevatore luterano, che si offrì
di portare gratuitamente della biada all’animale, Hanna poté ricongiungersi con
la sua amica umana, e fu sistemata nella stalla fatiscente dell’edificio.
Alcuni mesi dopo….
“Fermati, Hanna. Da brava, su”.
La piccola Clarice, ormai abituata alla nuova routine, che
non era poi così male, si divertiva, nei pomeriggi liberi dopo la scuola, ad
andare ad aiutare gli agricoltori della fervida comunità luterana a condurre la
sua cavalla per le briglie, mentre arava il piccolo appezzamento di terreno che
era stato concesso dal sindaco di Bozeman al sostentamento degli orfani.
E così, circondata dalle immense alture che troneggiavano
sulla cittadina, immersa in un paesaggio mozzafiato, la bambina aveva ritrovato
sé stessa e un suo scopo nella vita.
L’orto che stava venendo arato grazie alla forza lavoro di
Hanna avrebbe offerto ottimi ortaggi ai bambini senza più una famiglia, e la
cavalla, assieme alla sua storia, era ormai famosissima in tutto il territorio
dello Stato del Montana.
Restava la sua cecità, ma quella non era un problema; la
piccola Clarice si divertiva un mondo ad aiutare i volontari e gli agricoltori
a condurre l’animale, in modo che non deviasse e che non finisse a pestare o a
danneggiare i limitrofi appezzamenti coltivati a fagioli e a pomodori.
Anche in quel momento la bambina lo stava facendo, e Hanna
era docile come sempre. L’aveva fatta fermare appositamente per accarezzarle il
muso, con dolcezza.
L’amica umana poi le si avvicinò in un attimo all’orecchio
sinistro, e sapendo che la cavalla ci sentiva benissimo, si apprestò a
sussurrarle qualcosa che doveva restare tra loro due.
“Hanna, sai, ho deciso. Voglio ripercorrere le orme di mio
padre”, le disse.
L’animale sbuffò sonoramente ed allargò le froge, tutte
inumidite, con un atteggiamento che sembrava di stizza.
“Oh, non devi preoccuparti. Imparerò ad usare le armi e starò
molto attenta, e non commetterò errori. E poi, fuori dall’orfanatrofio, chissà
quante altre bambine e cavalle in difficoltà che ci sono! Io voglio aiutarle.
Non voglio che debbano affrontare le nostre peripezie”.
Clarice era cresciuta in fretta, avendo sempre vissuto un po’
allo sbando e alla giornata. Per quello era già mentalmente un’adolescente,
anche se il suo corpicino fragile e poco sviluppato le ricordava che era poco
più che una bambina, quando la sera si guardava allo specchio. Ma non le
importava affatto, in fondo; tutto ciò che desiderava era di diventare una
persona in grado di difendere i deboli dalle brutalità degli esseri umani più
sadici.
“Clarice! Dai, ricomincia a muoverti!”, la spronò uno degli
agricoltori, un anziano burbero e tutto raggrinzito che aveva ancora le forze
necessarie per poter offrire i suoi servigi all’orfanatrofio.
La bambina allora ricominciò a camminare, e Hanna riprese a
seguirla e a trainare l’aratro.
“Io penso che noi due faremo grandi cose, nella nostra vita”,
tornò a dire alla cavalla, e poi l’accarezzò nuovamente sul muso.
L’animale apprezzò di nuovo quel gesto colmo di dolcezza.
E così, bambina e cavalla, unite da un’amicizia destinata a
non finire mai, e a non avere limiti temporali, continuarono il loro lavoretto,
mentre le loro menti si spingevano chissà dove, probabilmente verso un mondo
dove non esistevano soprusi e violenze, ma solo amore, fratellanza e rispetto.
Clarice, in cuor suo, aveva già deciso in quei giorni;
avrebbe donato la sua esistenza, non appena le sarebbe stato concesso, al
combattere la criminalità e il male che rovinavano la realtà e rendevano il
mondo un posto infame.
NOTA DELL’AUTORE
Salve a tutti, e grazie per aver letto questo piccolo
raccontino.
Sono molto emozionato! Clarice è un personaggio che adoro, ed
ho cercato di ricostruire parte del suo passato, grazie a ciò che lei stessa
narra a Hannibal, nel libro Il silenzio
degli innocenti. Ho ricostruito questi fatti con attenzione e restando
fedele ai pochi particolari che la ragazza ricorda lungo il corso della
narrazione.
Per chi non lo sapesse, questa è una vicenda che finirà bene;
Clarice realizzerà il suo sogno, e Hanna vivrà tra i bambini fino all’età di
vent’anni, circa, quando verrà a mancare.
Ho scelto di narrare questa vicenda perché mi sembrava giusto
valorizzare il passato della protagonista, e soprattutto mostrarla prima che
incontrasse, lungo il suo cammino, un mostro come Buffalo Bill(Jame Gump)…
Naturalmente, i personaggi di questo racconto appartengono a
Thomas Harris, autore di thriller fantastici, e il racconto in questione è
stato scritto senza alcuno scopo di lucro.
Grazie di cuore per aver letto ^^