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Autore: Tide    15/08/2017    5 recensioni
Giusto perché sono l'unica persona al mondo che alla scena del bacio tra il Cavaliere e Lady Van Tassel si metterebbe a lanciare il riso ... Sono una coppia perfetta, catastrofica, ma perfetta!
Perché:
“Di qualunque cosa siano fatte le Anime, la sua e la mia sono la stessa cosa.”
(Emily Bronte; Cime Tempestose)
Scritta per il contest "The Het & Slash Dream Contest!" di S.Elric & Stesy.
... e ora anche al contest "Keep calm e... fatemi amare la vostra OTP" indetto da Elettra.C.
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nome:  Tide-EFP  (forum);  Tide  (EFP)
Lista:  Het
Fandom: Il Mistero di Sleepy Hollow
Coppia: Lady Mary Van Tassel/Cavaliere dell’Assia
Pacchetto: Rocky & Adriana
                   -Cit.: Di qualsiasi cosa siano fatte le Anime, la sua e la mia sono la stessa cosa.
                             (Emily Bronte; Cime Tempestose)
                   -Canzone: I hate everything about you – Three Days Grace
Note: della canzone ho considerato il tema di fondo di odio/amore.


 


BALLATA DI MORTE E D’AMORE


“Di qualunque cosa siano fatte le Anime,
  la sua e la mia sono la stessa cosa.”
(Emily Bronte; Cime Tempestose)


Non s’era mai chiesto come fosse morire, come fosse dopo, se davvero ci fosse l’Inferno. Non aveva avuto il tempo di pensarvi mentre combatteva per la vita. Non se lo chiedeva neanche ora che il suo corpo giaceva sotto due metri di terra, la testa solamente appoggiata, lasciata cadere sul collo, la fedele spada dall’elsa serpentina come sua unica croce.
Lui era e non era, sentiva e non sentiva. Non riposava, né soffriva propriamente. Era il senso d’attesa a tormentarlo, ma non avrebbe saputo se gli dispiacesse del tutto.
Poi c’era quella bambina. Aveva l’impressione d’essersela portata nella tomba, in qualche modo. Non si trattava di un’immagine, né di un suono, non propriamente, almeno. Semplicemente lei era con lui, sempre. C’era il suo sguardo serio, senza paura, quasi insolente; c’erano le sue manine serrate sul bastoncino; c’erano i suoi occhi pieni di intenzione e privi di qualunque esitazione o scrupolo nel decidere la sua morte; e c’era lei, che non fuggiva e voleva vederlo combattere e morire.
Odiava anche questo, ma anche questo non poteva dire se gli dispiacesse del tutto.

Il tempo scorreva a modo suo, senza bisogno di alcuna logica. Non serviva chiedersi quanto fosse passato, quando i piccoli piedi della bambina si avvicinarono senza fretta, senza timore.
Lei girava intorno al tumulo come volesse accertarsi che fosse ancora lì.
Non c’era altro che quei passi leggeri. Poi la bambina rise, un trillo gaio e beffardo, e corse via.
Eppure qualcosa di lei non si muoveva mai da lì. Quella risata bruciava sull’anima del Cavaliere come alcool su una ferita, mordeva con l’orgoglio del vincitore e non lo abbandonava mai.

Per qualche tempo- inutile quantificare- poco cambiò; sapeva solo che lei cresceva, diventava una piccola donna ed era sempre una piccola serpe dai pensieri e i gesti velenosi. Una piccola anima che bruciava di sé stessa. Era così anche per lui, lo era sempre stato da che aveva memoria.
E ora capitava che si sentisse bruciare insieme a quella piccola anima che era sempre lì, da qualche parte con lui, a volte in lui.
Era meravigliosamente doloroso, lo riempiva di rancore e di piacere.

Lei venne d’improvviso; intorno a lui erano i passi di corsa della ragazza, il suo respiro affannato.
Di colpo la sentì quasi fisicamente, china su di lui.
La ragazza piangeva lacrime roventi di rabbia. Aveva poca importanza la materia: quelle lacrime che bagnavano la terra due metri sopra le sue ossa giungevano a pugnalargli l’anima.
Lei affondò le dita nel terreno come artigli – la sensazione postuma del sangue, della carne tagliata tra la testa e le spalle.
Tu non mi abbandonerai!
Ringhiò la ragazza, la sua voce, il suo respiro a un soffio dall’anima del Cavaliere.
Le manine serrate sul legnetto erano ormai mani di donna che potevano stringere lui.
Non così facile, Kleine Dame, non così facile dargli un ordine. Ma lei era tenace e, come aveva spezzato quel ramo, ora era certa di poter avere lui. L’anima dell’uomo ebbe uno spasimo d’odio e adorazione.
“Tu non mi puoi abbandonare. Non te lo permetto!”
Ripeté la ragazza e questa volta quella piccola anima dalla risata maligna, dallo sguardo insolente, gli si strinse con feroce disperazione. C’era una supplica sotto quell’ordine. Il Cavaliere ne rise allo stesso modo maligno, ma la lasciò rifugiarsi presso di lui, lasciò che fosse su di lui come alcool su una ferita e bruciassero insieme.
La ragazza lo sentì e per una frazione di secondo pensò di ridere anche lei, ma subito le sue dita si staccarono dal terreno, si sollevò e col piede cancellò con ira, con odio il segno che la mano aveva lasciato.
Lui la sentì staccarsi inutilmente: lei restava sempre, sempre erano con lui il suo sguardo superbo e crudele, le sue mani sporche di sangue. E ora era certo d’essere anche lui sempre da qualche parte con lei, tra l’anima e la mente, l’ordine e la supplica, l’odio e l’amore.

 

Era brava a ignorare tutto ciò che non le era utile e ci sarebbe riuscita senza sforzo anche in quel momento. Invece restava immobile nel suo giaciglio, immersa nel buio con uno spasimo indefinibile e feroce nel cuore. Il mattino dopo, se l’avesse ricordato, ne avrebbe riso , avrebbe finto che non fosse successo affatto e le sarebbe riuscito facilmente. Ma in quell’istante quella sensazione, quel pensiero nemmeno propriamente formulato erano, suo malgrado, irrinunciabili.
Ricordava che da bambina lo faceva quasi apposta di richiamare alla mente il Cavaliere. Lei e sua sorella avevano freddo e fame, la notte calava e nelle tenebre la consapevolezza d’essere completamente vulnerabili, ormai prive di qualsiasi protezione, diventava quanto mai angosciante: Crone piangeva sommessamente, lei pensava al Cavaliere. Rivedeva il volto dell’uomo, quei denti affilati, quegli occhi spettrali, le sue armi, l’ascia e la spada con la testa di serpente; lo rivedeva combattere contro quei soldati americani, forte, feroce; ripensava alla tomba con la spada piantata nel terreno e se ne compiaceva; ricordava a sé stessa che quel guerriero le era permesso, la rivalsa le era promessa. Quel pensiero aveva il potere di rassicurarla, farla sentire protetta; quel pensiero poteva cullarla in sogni di sangue.
Mary non sapeva come, quando, cosa fosse cambiato negli anni, ma ora preferiva passare direttamente a figurarsi il piano e con gelida lucidità aveva ricacciato ogni impressione infantile; non doveva considerare il Cavaliere che come un mezzo per il suo fine. La riempiva di disappunto notare di tanto in tanto la radice di un qualche sciocco pensiero annidarsi inopportuno tra le sue trame.
Forse si trattava del fatto che cresceva, diventava donna e imparava a conoscere la gente spiando la vita di Sleepy Hollow; e vedeva come, secondo il mondo, una ragazza della sua età avrebbe dovuto essere e comportarsi: illudersi come lei non aveva potuto, né voluto fare nemmeno da bambina, fantasticare d’amore, struggersi per un qualsiasi insulso giovanotto della cittadina o un inesistente Principe Azzurro. E lei non poteva fare a meno di pensare che se davvero erano richieste tali sciocchezze a una ragazza, lei non sarebbe certo stata disposta a piegarvisi così vergognosamente! Non cosi facile controllarla, non così facile farla prostrare a terra e farla stare al suo posto. A loro quello stupido Principe Azzurro, a lei un Oscuro Vendicatore; e lui era il solo
L’animo le restò sospeso, tremante, per una frazione di secondo. Succedeva sempre così: il pensiero si sfaldava nebuloso senza che potesse scacciarlo; e in quei momenti sentiva quasi concretamente qualcosa d’altro vibrare sulla sua anima.
La reazione era d’ira o di gelo, sempre d’odio, ed era un sollievo.
Nel buio scorse d’improvviso il bagliore dell’unica candela accesa riverberare negli occhi di Crone, stesa accanto a lei. La sorella la fissava immobile, Mary se ne accorse solo in quel momento. Quello sguardo la fece rabbrividire: dava l’impressione che Crone stesse prestando i propri occhi a qualcosa d’altro.
“Che c’è?” disse bruscamente alla sorella “Dormi” le ordinò.
Crone si voltò in silenzio e Mary spense la candela.


Quando la sentì avvicinarsi, il passo di lei era un passo di regina, sicuro, calmo, come quando era venuta la prima volta, da bambina. Anche ora veniva ad ammirare la propria opera.
Il Cavaliere non l’avrebbe certo tollerato, se solo avesse potuto. Ma non poteva. Lei lo sapeva, lei ne era compiaciuta, lei ne rideva. Lui ne bruciava, ma non poteva fare altro che attenderla e lo strazio che ne aveva diveniva tanto intenso da essere sublime.
Lei si sedette lì, sotto l’albero che da lui aveva preso vita, si stese – il suo corpo premeva dolcemente sulle ossa del Cavaliere.
Mia madre mi raccontava una storia” disse con noncuranza- ma gli prestava attenzione, lui lo sapeva: quegli occhi calmi, quasi distratti, sulla terra che ricopriva i suoi resti erano roventi sulla sua anima.
Parlava di un uomo che doveva mantenere un segreto, ma questo segreto lo tormentava tanto che alla fine si confidò con un albero. Ma l’albero lo disse al vento col fruscio delle foglie e il vento spifferò tutto col suo fischio.” Poggiò la mano sulla radice e lui la sentì su di sé, qualcosa tra una memoria della carne e un’impressione dello spirito.
Quest’albero sembra fare al caso mio” proseguì lei “Non ha mai avuto foglie. Quanto a te, mio oscuro vendicatore, confido nel fatto che i morti non parlano.”
Il Cavaliere la sentì avvicinarsi come chi si diverte ad andare sempre più vicino a una belva in gabbia, la guarda con un sorriso maligno e gli occhi illuminati dall’ebbrezza del potere, e più la fiera si agita e si fa minacciosa, più ne è entusiasta.
Sapeva che lei era lì per questo, per mostrare che poteva avvicinarsi senza esserne scalfita e se si stendeva lì, sotto quell’albero, con lui, poteva farlo come sua padrona.
Lo spirito del Cavaliere arse con più intensità al pensiero, non solo d’ira, non solo di rancore e orgoglio, perché lei era la sola che avrebbe potuto, che aveva potuto …
Oh, lei ci teneva a fargli sapere che lei era e sempre sarebbe stata la sola. Era orgoglio, era una singolare sorta di gelosia.
Ne ebbe la stessa sensazione di quando illogicamente  si ritrovava a ridere per il sangue di una ferita fresca.
Gli occhi di lei si fecero attenti, il suo sguardo parve perforare la terra, come in cerca delle orbite vuote dell’uomo e l’anima del Cavaliere non nascose un ghigno a quella della donna: la maschera era caduta e gli occhi della carne ora lo osservavano quanto quelli dello spirito. S’era avvicinata troppo alla gabbia, infine.
In un istante lei se ne rese conto e il suo sguardo tornò immediatamente quello altero della regina, della padrona.
“Shhh” gli sibilò, poi si alzò e si allontanò come era venuta. 
Non sarebbe tornata a lungo: quel gesto d’orgoglio era inteso a congedarsi da lui finché non le fosse stato concretamente utile.
Non le sarebbe stato difficile: era brava a ignorare qualsiasi cosa non le fosse funzionale. Ma la verità era che lei non poteva davvero allontanarsi: le loro anime dimoravano insieme, si scrutavano, si ringhiavano maligne e si intrecciavano come cose fatte della stessa materia, sempre in lotta per essere a turno o allo stesso tempo dominatrici e dominate. E tanto più lei si mostrava orgogliosa, padrona, tanto più al contempo si stringeva a lui.
Lei si allontanava e prometteva di non tornare a lungo, ma il Cavliere ne sentiva con sé lo spirito, intorno a lui tutti i passi di lei e ogni suo sguardo, dal primo all’ultimo, con lui era quel segreto e mille altri tra le loro anime, su di lui la leggera pressione di quel corpo di donna.


A lungo … Non erano che parole: un secondo o un secolo non faceva molta differenza. C’era più attesa, questo sì. C’era più rancore e più desiderio, una trepidazione simile all’eccitazione che si spandeva sottilmente nel sangue in attesa della battaglia, atroce come la sete insaziata della belva.
L’anima di lei pareva ora più lontana, ora più vicina- comunque sempre presente- e al contempo rideva crudele e taceva cupa; una sorta di gioco penoso e intollerabile che lo faceva impazzire.
Ma infine lei venne, nel cuore di una notte senza luna, quando l’oscurità era più impenetrabile- l’ora degli amori clandestini e degli omicidi.
Aveva fretta e non gli prestava attenzione, come non volesse distrarsi. Prese a scavare con impazienza sotto alla spada, con una vanga. Al Cavaliere ricordò in qualche maniera la sensazione di una lama nelle carni.
Quel gesto non lo sorprendeva, era come se avesse sempre dato per scontato che presto o tardi lei avrebbe scavato sotto quell’albero, dove giaceva il suo cadavere, precisamente all’altezza della testa. Non per questo gli era meno doloroso.
Non poteva fare nulla, non poteva impedirle nulla. Se la minaccia non lo spaventava, l’impotenza lo uccideva nello spirito con un esasperato spasimo d’ira.
Di colpo lei lasciò la vanga e si gettò in ginocchio a scavare con le mani, così vicino ai resti dell’uomo che lui poté percepire nell’anima una ad una quelle dita e una per una le maledisse. Maledisse il ramo che quelle mani avevano spezzato, maledisse il terreno che ora smuovevano, maledisse l’anello nuziale che lei portava all’anulare. Odiò quelle mani che l’avevano tradito e ancora lo tradivano, odiò quelle dita che avvolgevano il suo cranio per strapparlo alla terra, stringevano la sua anima per strapparla a lui.
Ma quelle stesse mani, sollevando il teschio, pulendolo dal terreno, per un istante ebbero un impercettibile tremito- un fremito d’eccitazione che le si spandeva nel sangue, in attesa della strage.
Il Cavaliere non l’aveva mai odiata tanto e le loro anime non erano mai state tanto vicine: più che toccarsi, erano sovrapposte. Fu un’estasi singolare rendersi conto di quanto poco mancasse perché semplicemente si unissero.
Per un secondo lei rimase a fissare le orbite del teschio, all’orlo della consapevolezza.
D’un tratto distolse lo sguardo e posò in fretta il cranio a terra per ricoprire la buca; da lì non si tornava indietro e non poteva permettersi di esitare. Raccogliendo il teschio, nascondendolo sotto la mantella e stringendolo al petto mentre si allontanava, aveva posto l’ultimo sigillo, ma doveva ignorare tutto ciò che potesse esserle d’intralcio.

Da quel momento il Cavaliere non avrebbe saputo dire se fosse più il corpo a rivolere la testa o la testa a voler tornare sul corpo. E d’altra parte c’erano ben poche cose che avrebbe saputo dire: la coscienza di sé era terribilmente ridotta.
Il corpo non agiva fuori della sua volontà, ma certamente non per sua volontà, e la testa era semplicemente  altrove.
In tutto questo lui non era né con l’uno, né con l’altra. Era come sospeso in mezzo, sempre al suo fianco lo spirito di lei, la voce di lei spesso, e sempre con lui l’eco di una promessa non mantenuta.
Una testa per una testa” diceva lei.  

 

Dopo la visita di quel buffo giovane, Crone aveva chiesto all’ Altro di cercare ancora il Cavaliere, perché quel che aveva percepito di lui non era stato che una parte, quasi più ciò che lo seguiva dal villaggio all’Albero –il sangue, l’aria che si richiudeva sul destriero al galoppo- più che la sua presenza.
Crone non aveva più paura del Cavaliere e lui non aveva mai provato rancore per lei: le loro anime si comportavano come tra vecchi conoscenti, con un’indifferenza quasi affettuosa- un po’come trovare qualcosa esattamente dove ci aspettava che fosse.
Mary era con lui, i loro spiriti erano legati in qualcosa che era sia lotta che simbiosi.
Crone non ne fu stupita: aveva imparato da tempo a sentire la vibrazione tra due anime che si chiamavano, a vedere la trama sottile che, consapevoli o meno, tessevano tra di loro. Mary e il Cavaliere avevano cominciato molti anni prima, con fili rossi come sangue, bianchi come ossa, neri come abissi d’odio.
Ora Crone sedeva nel suo rifugio. Sotto il velo calato sul volto, la mano cerea della donna sfiorava il contorno delle labbra. Doveva essere stato l’Altro a disegnarle quei segni scuri sulla bocca.
Neanche questo la stupiva; li avrebbe mostrati a Mary, le bastava sapere questo.
Qualcuno bussò e ciò di colpo la sorprese. L’Altro infine s’era ritirato del tutto.
Crone aprì e mosse un passo, sollevando il velo, come per vedere meglio, poi si volse. Il volto di Mary balenò davanti ai suoi occhi per una frazione di secondo, prima che la sorella calasse l’ascia.
Il corpo di Crone ricadde su sé stesso, la testa rotolò alcuni metri  e si arrestò mostrando il volto, gli occhi vacui semiaperti, le labbra socchiuse, i segni scuri sulla bocca in risalto sull’incarnato esangue.  


Non s’era chiesto come sarebbe stato quando il corpo avrebbe recuperato la testa o la testa sarebbe tornata sul collo: non ne aveva del tutto la facoltà e comunque non gli sarebbe importato granché.
Fu singolare, come se la sua essenza venisse concentrata, addensata, prima in termini astratti, poi via via più precisamente, inequivocabilmente e infine puramente materiali. Infondo si trattava di tornare provvisoriamente –ne era certo- ad occupare un preciso ed unico punto nello spazio e nel tempo.
Non meglio, non peggio, solo diverso, ormai vagamente estraneo
Aveva dimenticato, o meglio non aveva più avuto importanza, come fosse avere un corpo, come le cose avessero forma e consistenza - l’Albero, quelle tre figure attonite, la donna riversa a terra, il battere sul terreno degli zoccoli di Temerario … -  come fosse esistere dove il peso e la concretezza della materia, lo spazio e il tempo hanno significato.
Aveva dimenticato come fosse avere una donna tra le braccia, come fosse guardare un bel viso con occhi di carne; aveva quasi dimenticato come il corpo potesse partecipare del desiderio dell’anima.
Lei si stava svegliando lentamente e piano volse il capo, piano sollevò lo sguardo. Guardò il Cavaliere ad occhi spalancati, senza voce per gridare. Ma lui riconosceva perfettamente anche in quell’istante il modo in cui i loro spiriti sempre si graffiavano e mordevano e più si combattevano più si legavano. Quella era forse l’estrema tensione di quel gioco crudele.
Ormai era solo il velo della materia a separarli- un velo sottile, che non poteva più sussistere, una materia nella quale anche lei non poteva più esistere e sfuggirgli, quando con lo spirito era sempre stata con lui, sempre più stretta, l’aveva cercato e voluto.
Il Cavaliere soffocò d’impeto quella materia con un bacio feroce che potesse strapparla via e annegò nel sangue il grido che ne veniva.


Non s’era mai chiesta come fosse morire e, abbastanza curiosamente, era riuscita a non chiedersi mai come fosse l’Inferno. Aveva pensato di saperlo quando s’era svegliata tra le braccia del Cavaliere e quando lui l’aveva baciata. Si sbagliava: ora non aveva quasi importanza la sensazione di quei denti affilati piantati nella lingua e nelle labbra. C’era ben poco di fisico, in effetti, forse solo un ricordo o un’astrazione.
Le anime avevano sensazioni diverse, non meno vivide.
Non c’erano diavoli e fuoco. C’era solo il proprio spirito che si ripiegava in sé stesso e quello del Cavaliere sempre con lei. Gli ringhiava e lui ne rideva maligno; si nascondeva nei recessi di sé stessa e lui la scrutava cupo, ringhiandole in risposta. 
Non fu qualcosa da scoprire –lì ciò che si scopriva lo si era sempre saputo, il momento della consapevolezza era lo stesso dell’inconsapevolezza, era lo stesso istante da sempre: l’anima di Mary si ripiegava in sé stessa e vi ritrovava sguardo immateriale di lui, vi ritrovava lo spirito dell’uomo, legato al suo in un intrico indistinguibile, e non come qualcosa di nuovo entrato in lei a forza, ma come qualcosa che vi era sempre stato.
Si minacciavano e si ferivano, come avevano sempre fatto;  la loro gioia era il culmine del dolore, il loro amore l’acme dell’odio. Lottavano tra loro per prevalere ed essere battuti e si legavano, si fondevano, erano una stessa cosa, come era sempre stato.
 

   
 
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