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Autore: MadLucy    17/08/2017    3 recensioni
[Killing Stalking]
{MPREG | Sangwoo/Bum | fluffangst | pregnant!Bum | what if}
Sangwoo ridacchiò sprezzante, non abituato ad essere colto alla sprovvista. «E chi te l'ha chiesto, si può sapere? Come mai queste prese di iniziativa?»
Bum avvertì un pizzicorino dietro la nuca. Si rese conto che quel bambino era suo. Del ragazzo che l'aveva salvato da uno stupro per stuprarlo personalmente. Di quel ragazzo bellissimo. Quella bellezza di cui aveva strappato un lembo per custodirlo nel suo ventre.
Gli uscirono parole sconnesse. «Ricordi? l'avevo detto... Mi sarebbe piaciuto che potessimo unirci...»
Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: What if? | Avvertimenti: Mpreg, Tematiche delicate
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C'erano momenti in cui avrebbe preferito uscire, andarsene, fuggire, ma non lo faceva. Era trattenuto da qualcosa -era difficile immaginare cosa, di primo acchito. Si innervosiva in quello scarso spazio, però ci restava, immusonito e irascibile.
Sangwoo stava in casa, pur non sembrando davvero in pace nemmeno lì, come una tacita costrizione. Sembrava alienarsi dal proprio personaggio, ombroso, spiacevole. Non piaceva nemmeno a se stesso. Erano le ore in cui Bum sanguinava di più, ma lo trovava quasi giusto, tale era l'angoscia che infestava la casa. Sangwoo era così tormentato che non era plausibile che non ci fosse un responsabile. Bisognava depurarsi da quella tensione, e giungeva la catarsi del dopo, delle ferite che pulsano stanche, debilitate, come sessi a riposo dopo l'amplesso. Erano ore di silenzio.
Ogni tanto Sangwoo usciva, come per fare una prova di coraggio. Poi tornava, inevitabilmente, con un sorriso sferzante per nascondere che tutto ciò che c'era là fuori -la gente, il fatto che la gente fosse trasportata dalla corrente della sua vita come nel letto di un fiume- l'avesse punito. Forse -per quanto avesse intorno molti adepti, molti galoppini- le molto più numerose esistenze regolari che lo ignoravano con serenità, per contraltare, erano troppo da sopportare.
Sangwoo non dormiva in camera sua, dormiva in una stanza accanto allo sgabuzzino insieme a lui, eppure doveva averla una camera, pensava Bum. Solo che non ci tornava mai. Viveva in quello stallo, a metà strada, tra la sua tana e l'incognita dell'abissale mondo esterno.
Era il mondo che li aveva reclusi là dentro. Lo sporco della vita, che nelle case degli altri era solo polvere su una mensola, un litigio tra coniugi, li aveva ridotti così, in un acquario di petrolio. A sopravvivere solo in quello stagno. Una nicchia ecologica di violenza.

****

Bum non dormiva mai del tutto, non gli sfuggiva mai completamente la coscienza della mappa di dolori sparsi sulla pelle, la stretta discreta della manetta intorno alla caviglia. Sapeva vedere al buio, come i gatti. Verificava la presenza di Sangwoo, la fiutava nell'aria immobile. Era un intercettatore di vibrazioni, sapeva sempre dov'era, ricreava la sua immagine dai suoi rumori, dal suo odore. Era dipinto all'interno delle sue palpebre, come un'icona religiosa. Lo conosceva a memoria. Conosceva com'era fuori e conosceva com'era dentro. Dentro di lui, quando la sua forza svelava quello che era, disperata, un punzone che appartiene ad una macchina che marcia oltre la propria efficienza, verso la distruzione. Sangwoo metteva in scena spettacoli a cui aveva già assistito, residuati della sua memoria. Poi si stancava e ansimava, accaldato, saturo, come un bambino che ha corso troppo, che ha mangiato troppo zucchero e ora gli fa male la pancia, la testa, ed è deluso da tutto ciò che lo rende felice. Aveva la pancia piena di pece, di unto, di scarto. Il suo destino lo nauseava un po', a tratti.
Sangwoo si addormentava accanto a lui, e quando si svegliava lo trovava già vigile, a puntargli addosso occhi come fanali, sbugiardanti, da lemure, sbarrati sulla verità.
«Eddai, dormi» gli sussurrava. Bum chiudeva gli occhi, non obbediva -tanto vedeva anche se li aveva chiusi. Sangwoo non l'aveva tenuto lì per dormire.
Lo teneva lì per guardare. Aveva bisogno di uno spettatore.
Aveva bisogno di un testimone che fosse pronto a giurare che lui era ancora vivo.

***

Bum si sorprendeva, ricordando quando spiava la vita di Sangwoo da fuori, dall'altra parte della vetrina, come se fosse stata irraggiungibile. Non si era mai tradito, Sangwoo. In nessuna foto, in nessun post. Nessuna traccia del suo bagaglio emotivo. Non zoppicava nemmeno un po', là in mezzo alla folla del mondo. Era un professionista.
Forse però sì, pensava Bum, forse lo aveva fatto. Forse per quello lo aveva attirato, inconsciamente, agendo attraverso una rete di simboli che appartenevano alla regione più antica e imperscrutabile del cervello. Forse c'era un gesto che li accomunava tutti, tutti loro, un polso che si piega in modo strano, una mano che incespica su un accendino.
Sangwoo fumava in casa, ogni tanto.
«Vuoi?» gli offriva la scatoletta aperta.
Bum rifiutava. Non aveva bisogno di anestetici. Non doveva andare là fuori a comportarsi come un corpo sano, tornito, pasciuto. Non era mai stato capace, faceva cadere gli oggetti, spezzava le parole pronunciandole, sapeva di deleterio, e si disomogeneizzava dalla miscela con spontaneità. Invece capeggiarli era il passatempo preferito di Sangwoo. Dimostrare di essere meglio di loro, più bello, più furbo. Forse invidiava le gote rosee e la prospettiva dei matrimoni futuri, per quello razziava saltuariamente il gregge. Forse considerava la vita un valore aggiunto, una qualità di cui il suo curriculum era privo. Era così bravo a simularla che si poteva quasi credere che sapesse cosa si provava.
Ma non era il suo scopo. Il suo scopo era nella tana, dove si scioglieva il cerone, dove emergeva a spicchi la sua eredità di lineamenti storti, il sapore del sangue rancido.
Forse Bum era stato capace di vederlo fin dall'inizio, fin da quando non capiva ciò che vedeva.

***

Sangwoo aveva bisogno di un'ombra nel perimetro della quale rincasare di notte, quando non c'erano più luci a guardarlo. L'aveva sempre avuta e ora ne sentiva la mancanza. Poi era ritornata da lui, l'aveva raggiunto nel suo luogo naturale, in cantina. Un margine, una presenza schiva, di quelle che temono di respirare, di non avere abbastanza senso per poter restare. Lui era il senso di quelle anime in pena. Metteva le mani sotto l'orlo della gonna di Bum, con divertita gratitudine. Però le ombre, che tanto gli piacevano perchè non facevano rumore e non occupavano spazio, perchè erano inconsistenti, mancavano di qualcosa, non riuscivano a riempire tutti i suoi buchi. Da qualche parte lo abbandonavano sempre. Era sempre stato così. E Sangwoo si arrabbiava. Alla seconda ombra faceva pagare anche i torti della prima, per la colpa di aver imitato qualcosa di imperfetto. Sua madre non era abbastanza forte da proteggerlo. Sua madre non aveva difeso la sua appartenenza alla specie umana, lo aveva lasciato diventare un paria, uno che gli altri non possono capire. Era come scivolare sul ghiaccio, scoprirlo liscio, sdrucciolevole, senza falle, troppo robusto per essere infranto e troppo debole per offrigli una stabilità. Sangwoo, per mimetizzarsi, aveva imparato a pattinare. A danzare sulla sua menomazione. Bum non negava, era il corpo assorbente fin dall'inizio della storia, e quando Sangwoo gli diceva sei come mia madre ripeteva sì, sono come mia madre.
«Mia madre, non tua, sciocco» lo redarguiva Sangwoo con indulgenza, come se in fondo non lo incolpasse della sua stupidità.
Bum taceva.
Sangwoo lo accarezzava, felice, anche se non aveva qualità. La migliore qualità che aveva era essere suo.

***

Bum non chiedeva mai perchè. Sangwoo era incredulo che qualcun altro, a parte lui, sapesse perchè. Gli piaceva giocare a vittima e carnefice, ma entrambi sapevano che Bum, a differenza degli altri, era stato lasciato in vita -e se era rimasto era un complice. Era sceso nelle profondità della Terra a cercare un profeta, uno che conoscesse la strada e che fosse disposto ad accompagnarlo.
Era l'unico linguaggio attraverso il quale si poteva trasmettere un po' di verità. Era l'unico linguaggio che sapevano parlare restando nei loro corpi.
Era un gioco che non si poteva giocare in un altro modo. Se fosse subentrata l'espressa asserzione di ciò che quella codipendenza era, l'ecosistema sarebbe naufragato. Bum si prendeva la punizione al torto che al suo sistema era stato impartito che commetteva esistendo, Sangwoo si prendeva l'ebbrezza di avere un pulcino adorante da imboccare. Assoluzione. Potere. Narcosi emotiva.
Non poteva durare per sempre. Nelle loro esistenze, nulla era durato. Anche quel palliativo li avrebbe lasciati con il culo a terra. Non avere un ruolo nel mondo aveva questo difetto, non essere avvinti in un reticolo abbastanza rigido, che quindi non ti trattiene, non ti ricorda. Non ci sono abbastanza elementi -mestieri, persone, luoghi, appuntamenti- a tenerti ancorato alla realtà. Tutto è fluido. Le cose non avevano nessun dovere di restare così com'erano. Erano cresciuti senza equilibrio, non sarebbero stati in grado di costruirne uno. Si sarebbero rotti a vicenda sbranandosi da dentro, come locomotive in collisione su binari convergenti. Lo sapevano, e forse si piacevano di più per questo motivo.
Bum non pretendeva niente. Non era un'avventura. Non era una storia di cui si poteva attendere curiosi e fiduciosi il finale. Lui era spacciato da prima di entrare lì dentro.
Si accucciava grato ai piedi di quella lapide, di quel traguardo, di quella fine solida, concreta, che aveva scritto il suo nome, e non quello di uno che gli somigliava.
Ma Sangwoo gli teneva le mani in quel girotondo vizioso, gli mordeva la coda, gli profilava uno stupore più raccapricciante, un limite più in là, un fondo più a fondo. Un gioco più lungo. E Bum aspettava.

***

Sangwoo era venuto ad osservarlo dormire, e l'aveva trovato carponi, che vomitava sul futon. Per un attimo l'idea che il quadretto idilliaco che si prospettava fosse rovinato, che lui non fosse semplicemente un cherubino inorganico, lo aveva corrucciato, ma aveva lasciato perdere. Lo aveva preso addosso, l'aveva portato in bagno e gli aveva lavato il viso, togliendogli la maglietta, come un bambola. Bum si era sentito meglio, gli aveva preparato il pranzo. Era tutto ristabilito.
Il mattino successivo era successa la stessa cosa.
Bum cercava di non farsi notare, di trattenere i conati, di schermarsi dal suo aiuto. Sapeva cosa sarebbe successo, Sangwoo si sarebbe stufato di accudirlo, di consolarlo. Un conto era se succedeva una, due volte, un conto ogni giorno. Sangwoo si stufava in fretta. E si stufò.
«Te lo provochi da solo, vero? per farti portare in ospedale, forse?» Sogghignava. «Ti piacerebbe, idiota. Ti piacerebbe.»
Bum non pensava più alla libertà, ma solo il fatto che gli venisse ribadito che gli era negata, credendo di fargli un torto, gli faceva tornare una di quelle fitte irose. Perchè mai avrebbe dovuto volere stare lì? Ma invece lo voleva, e rimaneva, perchè era l'unica cosa che poteva fare.
Il timore di essere malato non era così campato per aria. Aveva ingerito del veleno una volta, c'erano ancora i suoi piedi fasciati, da concubina cinese d'altri tempi, e ferite recenti che potevano essersi infettate. Ma Bum non pretese nè l'ospedale, nè medicine di sorta. Pensò che la morte gli avrebbe restituito una santità che Sangwoo avrebbe rispettato, che lo avrebbe reso desiderabile, bravo. O forse era qualcos'altro di impalpabile a trasmettergli questa calma. Di sera taceva e ascoltava la grotta del proprio corpo. Non gli sembrava di avere una sofferenza sottopelle, ma una nebulosa, qualcosa di indefinibile, evanescente, a intermittenza alla portata della sua percezione.

***

Ufficialmente Sangwoo se ne accorse per primo, ma non fece altro che razionalizzare qualcosa che l'istinto di Bum cercava di articolare da tempo, senza darsi una risposta definitiva ma accostando i tasselli dell'enigma. Sangwoo realizzò entrando mentre si faceva la doccia. Vide il suo corpo nudo, il costato in rilievo, i capezzoli rattrappiti, sparuto eccetto per i fianchi allargati. Notando la circonferenza non eccezionale ma inspiegabilmente convessa del bacino, doveva semplicemente ammettere che il ragazzo era gravido. Si passò la lingua sui denti, immobile, fissandolo come se non lo riconoscesse.
«Ecco cosa avevi di tanto strano» dichiarò, continuando a squadrarlo da capo a piedi, nonostante il suo disagio. «Sei incinto, vero?»
Bum sussultò, colpito dall'effettività della faccenda, dal modo diretto in cui quella verità era esplosa nella sua mente.
«Credo di sì» sussurrò. Ora i pezzi del puzzle potevano unirsi in armonia, in pace, e trovare la loro coerenza. La benevolenza del suo malessere non era altro che la gioia della natura di fare il suo corso, delle cellule di riprodursi. Fare figli era una cosa bella e giusta. Si accorse di non sapere se rallegrarsi o meno.
Sangwoo ridacchiò sprezzante, non abituato ad essere colto alla sprovvista. «E chi te l'ha chiesto, si può sapere? Come mai queste prese di iniziativa?»
Bum avvertì un pizzicorino dietro la nuca. Si rese conto che quel bambino era suo. Del ragazzo che l'aveva salvato da uno stupro per stuprarlo personalmente. Di quel ragazzo bellissimo. Quella bellezza di cui aveva strappato un lembo per custodirlo nel suo ventre.
Gli uscirono parole sconnesse. «Ricordi? l'avevo detto... Mi sarebbe piaciuto che potessimo unirci...» Ma non lo riteneva francamente plausibile. Era verosimile che una creatura brutta come lui fosse sterile alla bellezza, alla forza, alla capacità di sopraffare il mondo. E invece eccolo lì, nudo, pregno e assolutamente vulnerabile. La carne esposta e bagnata della pancia d'un tratto sembrava palpitare. Bum afferrò l'asciugamano stinto che pencolava dall'appendino, per coprirsi.
«Questi ragazzini d'oggi sono così precoci» continuò Sangwoo, come se non l'avesse sentito. Bum scavalcò il bordo della vasca, attento a non scivolare sulle gambe fragili. Doveva sondare il terreno, ma aveva paura.
«L'idea non ti va?» azzardò infine, stringendosi alle setole dell'asciugamano come a uno scudo. Sangwoo sorrise, avvertendo quanto la sorte della vittima dipendesse dalla sua reazione, dalle sue parole. Si divertì a tenerlo in sospeso, grattandosi il mento, simulatamente pensoso.
«Non lo so. Devo rifletterci» annunciò. «Non è una decisione che si può prendere su due piedi. Ti farò sapere.»
Uscì, baldanzoso, lasciandolo a vestirsi. Bum si toccò la pancia, automaticamente. Che ne sarà di noi. Includere la nuova presenza nel plurale era stato troppo facile, o forse no: come se lo avesse sempre aspettato. Il tassello che avrebbe rivoluzionato la sua storia.

***

Il mattino dopo, a colazione, Sangwoo era cerimonioso, al limite della parodia. Scostò la sedia a Bum quando si avvicinò al tavolo.
«Aspetta, ti aiuto. Dopotutto, sei incinto.» Enfatizzò la parola, quasi canzonatorio, come se fosse una panzana che avesse cercato di propinargli.
Bum deglutì a fatica. Finalmente riusciva a ingoiare qualcosa senza rimettere. Non tirò fuori l'argomento, lasciò che Sangwoo riepilogasse i lavori che voleva fare in giardino in mattinata. Poi, come se nulla fosse, lui tirò fuori da un sacchetto della spesa una confezione rettangolare, grande come quella del dentifricio.
«L'ho preso stamattina» lo informò brioso. «Devi pisciarci sopra e fa la magia.» Bum capì che era un test di gravidanza. Non lo riteneva necessario, ma bevve un bicchiere d'acqua e andò in bagno, stringendolo timidamente in mano. Sangwoo lo seguì, di buona lena. Si sedette sul bordo della vasca mentre lui arrotolava la gonna sulla vita.
«Stai attento a mirare bene» lo incoraggiò, sbirciando sopra la sua spalla. Bum si chiese se temesse una frode, o qualcosa di simile. Ad ogni modo, assistette ad ogni fase e tutto si svolse in completa legittimità, e nessuno potè rifiutare il verdetto.
Sangwoo lo guardò per primo. Sorrise il suo sorriso nervoso da sciacallo ritardatario. «Congratulazioni. Diventerai mamma. Sei contento?»
Bum sospettò che fosse una domanda trabocchetto. Tendeva a privarlo delle cose che lo facevano contento. Perchè lui voleva essere l'unica, o magari solo per dimostrare la propria onnipotenza.
Non rispose, disse: «Se decideremo di... non tenerlo...» ma non riuscì a concludere la frase. Sangwoo si accose di doverlo fare lui almeno dieci secondi dopo.
«Non ti porterò al consultorio, Bumi. Fanno troppe domande, lì» spiegò, pratico e ragionevole, giocherellando con il bastoncino su cui nella finestrella apposita erano comparse due linee azzurre.
Bum udì proprio quel che temeva. «E dove andremo?» tremò. Lui fece un'espressione perplessa, come se la conclusione fosse ovvia.
«Da nessuna parte. Staremo qui.»
Bum pensò che non esiste una procedura casalinga per abortire, ma poi si rese conto del suo errore. Il colore gli si diradò dal viso.
«Sarebbe pericoloso» protestò, con una voce così flebile e remissiva che era la stessa che avrebbe usato per dire "sì, certo".
Sangwoo gli strizzò l'occhio, affabile, con complicità. «Quindi ti conviene non combinare guai.»

***

Bum imparò di nuovo a camminare in punta di piedi. Aggirava l'umore di Sangwoo come si fa con uno strumento troppo sensibile, che potrebbe captare segnali sbagliati. Le sue giornate non gli sembravano più vuote. Le trascorreva con i palmi sull'ombelico, perchè ciò che avveniva dentro al suo corpo era più miracoloso di qualsiasi gesto quotidiano. Voleva sentirsi più in connessione possibile con lui, o lei. Era la prima volta che gli veniva donata della vita. Incorrotta, benedetta di infinite possibilità. Senza uno schiacciante determinismo di sofferenza. Quell'opportunità di uscire dal circolo vizioso lo emozionava segretamente. Prima non aveva un vero scopo. C'era l'essere amato da Sangwoo, sì. Ma era sporadico, infarcito di insulti che gli ricordavano che era una nullità. Certo, era una nullità quand'era uno. Ma ora era due, e l'obiettivo della sua esistenza era portare a buon fine la gestazione, mettere in salvo il bambino e offrirgli un'infanzia pacifica. Non orbitava più a tentoni nel vuoto. Il piccolo era innocente, ed era il figlio di Sangwoo. Un Sangwoo redento, spurgato da ogni infestante ricordo. Una creatura di luce, che riscaldava Bum da dentro e galleggiava verso di lui. Poteva anche non essere davvero qualcosa per Sangwoo, ma era tutto per quel bambino. E non l'avrebbe mai lasciato solo. Sarebbero rimasti insieme per sempre e si sarebbero fatti compagnia.
Sangwoo odorava la sua serenità, per quanto lui tentasse di celarla. E lo annoiava.
«Tutto è andato proprio come hai pianificato, vero?» commentò, con fittizia leggerezza, dopo aver inseguito con lo sguardo un gesto di Bum, un pararsi da uno spigolo come se fosse una lama.
«Non capisco di cosa...»
«Non capisci? Credevi che mi sarei mosso a compassione per il mio pargolo, vero? Era il tuo piano.»
La sua voce cercava di mantenersi disinvolta, quella di un carnefice troppo in alto per essere ferito, con i ferri spianati e insensibili, però era un'accusa, una delusione -una lamentela.
Bum, dopo tanti giorni di placido assorbimento del dolore, avvertì rimergere l'impulso della fuga.

«Per me non cambia niente, sai? Un essere inutile... Due esseri inutili...» Si alzò e gli allontanò la sedia da sotto il sedere, con un gesto brusco. «Uno come te può generare solo esseri che gli somigliano! Pensavi sul serio che me ne fregasse qualcosa, di te e il tuo mostro.» Era diventato irridente, corrosivo. Gli guardò il ventre. Dopo un mesetto dalla scoperta non si era ingrossato molto, era un bulbo timido e liscio, come il rigonfiamento di terriccio che si ammucchiava sopra un seme appena piantato. Tirò un calcio lì, facendolo cadere su pavimento di schiena. Bum esalò un grido lacerato, pieno di panico. Il dolore era profondo, al centro di se stesso, e si irradiava attraverso onde sismiche, che lo facevano scricchiolare in ogni estensione del corpo. Il dolore era acre e acuto, e caldo... liquido. Lava che sarebbe sgorgata dalle crepe. Bum si afferrò la pancia, inorridito. Era un male troppo strutturale... Aveva colto il bersaglio con troppa precisione. Sarebbe successo qualcosa di brutto. Il nocciolo della vita gli sarebbe marcito dentro, in quel suolo inadeguato. Dopotutto niente di buono avrebbe mai potuto provenire da lui, Sangwoo aveva ragione. Era un bene che il piccolo morisse prima che Bum lo contaminasse con la propria storia perversa, con la propria debolezza patologica. Sarebbe diventato una fornace di morte, il suo addome una tomba. Avrebbe murato viva la sua unica speranza. Sangwoo lo chiuse nello sgabuzzino, gettandolo con malagrazia, come un cadavere.

***

Bum attese piangendo il sangue fino all'alba, e poi fino al tramonto successivo. Non venne. Le sue budella non spremettero nessun coagulo rosso. Le sue cosce rimasero asciutte e pulite. Il bambino era ancora rincantucciato nel suo nido. Ma Bum non riusciva a impedirsi di temere che fosse un piccolo cadaverino. E poi raggranellò le prove. La fame intensa e persistente, i capezzoli indolenziti, e la sua pancia che sembrava dilatarsi, elastica e confortevole. Il suo bambino aveva resistito a quella prova, aveva dimostrato quanto ci teneva a venire al mondo. Bum non l'aveva affatto cercato. Era il piccolo che l'aveva trovato, per salvarlo. Aveva mantenuto la presa fra le sue viscere mentre venivano schiacciate. Concepito all'apice dello sconforto, come se il sangue avesse fecondato il terreno dov'era spanto.
Anche Sangwoo giunse alle sue stesse conclusioni, ma non fu di nuovo così aggressivo. Non era più gentile e disponibile come un tempo, ad ogni modo. Lo bersagliava di frecciatine e denigrava la sua progressiva goffaggine, le dimensioni dei suoi fianchi. Era insoddisfatto. Non sapeva come relazionarsi con quella cosa viva in Bum. Continuava a vederlo come un fattore estraneo e indesiderato, motivo d'intralcio e fastidi. Si era intrufolato nel suo mondo personale e l'aveva minato dall'interno. Era lui, Sangwoo, che Bum doveva amare fino all'annientamento di sè, non quel grumo di cellule fortuite. L'elemento disturbante aveva violato il loro ordine, i loro rituali.
Quel giorno Sangwoo gli aveva tolto i piatti dalle mani, aveva voluto lavarli lui. Bum si era seduto, ansioso di uscire dalla stanza. Tamburellava le dita sulla pancia, in un gesto ormai assimilato di nervosismo.
«Mi fa pena vederti sgobbare» rivelò infine. «Così magrolino, con quel bernoccolo davanti...» Ridacchiò, e anche Bum si costrinse a sorridere per non contrariarlo.
Sangwoo accese la radio con un cenno distratto. Killing me softly with his song si diffuse sommessa in cucina. Bum vi era così abituato che la lasciò scorrere insieme all'acciottolio di piatti. Invece da dentro il guscio del suo ventre provenne un tonfo. Lui non riuscì a trattenere un gemito sorpreso, premendo subito i palmi sul punto colpito.
Sangwoo si voltò, le mani ancora nei guanti insaponati di gomma gialla. «Che cosa ti prende adesso?»
Bum si affrettò a sorridere. «Uhm... Suppongo che... gli piaccia.» Abbassò lo sguardo, intimorito, remissivo. La maglietta a righe cominciava a tirargli da ogni parte, doveva sempre strattonarla per non avere una striscia di pancia scoperta.
Sangwoo si tolse i guanti, lentamente, e andò a sedersi accanto a lui. La sua espressione era indecrittabile, fatalista, come se venisse soverchiato da qualcosa di molesto ma prevedibile.
«E così gli piace» ripetè.
«Di solito si muove quando sente qualcosa che gli piace» spiegò Bum, senza incrociare il suo sguardo. O quando ha paura, aggiunse mentalmente.
Sangwoo piegò la bocca in una smorfia strana e allungò due dita verso il pancione, sfiorandolo appena, come se non avesse ancora deciso che gesto rivolgergli.
«Cosa devo farmene di te, eh?» mormorò, stringendo gli occhi. Bum trattenne il fiato.
«Dici che potrei essere un padre migliore del mio?»
Quella domanda lo colse del tutto impreparato. Sangwoo non mutò espressione, ma serrò le labbra, come se vi si fosse incuneato un dolore.
Bum alzò e abbassò il mento un paio di volte, incerto.
Per un po', respirarono entrambi sopra la crisalide dell'essere umano che avevano creato insieme.
«Dobbiamo proteggerlo» bisbigliò Bum. «Dobbiamo proteggerlo da qualsiasi cosa.»
Sangwoo ricambiò il suo sguardo acceso con uno giocoso. «Per prima cosa, cambiamo quella maglia, ti va? Ti dò una delle mie. Sembri una salsiccia strizzata.»

***

Bum svegliò Sangwoo alle due del mattino, mordendosi la pelle all'interno della bocca, e rivelandogli sottovoce di avere le contrazioni. Lui si rigirò sull'altro fianco, sprimacciandosi il cuscino in faccia, e biascicando di sopportare, perchè tanto finchè non si rompevano le acque non poteva fare niente. Bum si era alzato in piedi, piegato in due da stilettate di dolore, ed era andato in cucina a farsi il tè. Gli sembrava così stupido, in un momento cruciale della vita, avere la lucidità per usare un bollitore. La casa era buia e silenziosa e pareva non stesse accadendo niente di eclatante.
Bum sapeva che il pericolo non era scampato. I parti erano faccende pericolose. Sangwoo gli aveva assicurato da mesi di avere contattato un dottore che avrebbe fatto tutto con efficienza e discrezione, prendendo i soldi senza fare domande. Ma e se non fosse stato sufficiente? Se fosse intervenuta qualche complicazione? Se ci fosse stato bisogno di un macchinario, di un dispositivo che il dottore non poteva portare nella valigetta? Se il bambino fosse morto solo perchè Sangwoo non voleva portarlo all'ospedale? Bum considerò l'idea di scappare in strada, bussare a una porta e supplicare di farsi condurre là. Ma poi rammentò che il vicinato era quasi inesistente, e che agire contro la volontà di Sangwoo non gli aveva mai portato fortuna. L'angoscia gli impediva di fantasticare sul nascituro. Quando finalmente vide il liquido viscoso infradiciargli la gonna e bagnare il pavimento, corse a svegliare Sangwoo di nuovo. Lui sollevò il busto, accese la luce e si stropicciò gli occhi. Fissò Bum, assonnato.
«Devi chiamare il dottore» bisbigliò Bum, che sospettava che fosse da chiamare ancora prima di quel momento.
«Giusto. Portami il telefono e la scatola da scarpe che c'è lì vicino» ordinò Sangwoo, placido.
Bum corse ad obbedire, nonostante le fitte ormai lo stordissero. Mollò ai suoi piedi il cellulare e la scatola, e si inginocchiò, sfiancato. Ma Sangwoo non raccolse il telefono. Aprì la scatola e ne estrassse, per l'incredulità di Bum, una siringa incappucciata, a cui lui tolse il tappo, facendo uscire uno schizzo trasparente dalla punta dell'ago.
«Dormirai tutto il tempo, non sentirai niente» garantì. Bum acquisì rapidamente consapevolezza del fatto che non esisteva nessun dottore. Prima che potesse rotolare via, scappare, urlare, la siringa calò sul suo braccio. L'ultima cosa che Bum vide, all'interno della scatola, era un lungo coltello.
Il risveglio fu risalire un crepaccio di melma scivolosa arrampicandosi con le unghie, e dovendosi concentrare molto per non perdere la presa. Bum si lasciò abbagliare dalla luce che penetrava dallo spiraglio delle palpebre pesanti. Mentre la sua mente si metteva faticosamente in equilibrio, riaccendendo tutte le sue funzioni, udì il vagito. Accorato, strenuo, disarmato, com'era stato lui in quella cantina la prima volta che vi era stato rinchiuso.
Bum sapeva che era una cosa normale che un bambino appena nato piangesse, anzi, indizio che era in salute, ma non poteva fare a meno di sentirsi in colpa. Fra lui e suo figlio c'era la schiena di Sangwoo.
«Non piangere, non piangere» articolò con le labbra, troppo debole per pronunciarlo ad alta voce. «Andrà tutto bene.»

***

Sangwoo finì di preparare il dosirak e aggiunse nello zainetto una borraccia, una confezione di cerotti e un piccolo pupazzo di gommapiuma. Era indeciso riguardo la mantellina impermeabile, ma il tempo sembrava sereno.
«Dobbiamo andare, dobbiamo andare» strillò una bambina in corridoio, rimettendosi a correre su per le scale per poi scendere di nuovo.
«Sì, sì, non c'è fretta, non vanno in gita senza di te» la ammansì Sangwoo, scuotendo la testa.
«Ma e se lo facessero?» La bambina saltò gli ultimi due gradini insieme, orgogliosa.
«Smettila immediatamente!» venne sgridata dal padre.
«Ma non mi sono fatta niente!»
«Beh, tu smettila lo stesso! Se ti sloghi una caviglia di certo in gita non ci vai.»
Lei si imbronciò. Quel giorno indossava un vestitino di ciniglia blu, con il bavero bianco. Non era adatto a una gita, contando che si sarebbe tutta arruffata, ma non aveva voluto sentire ragioni.
«Posso andare a salutare la mamma?» chiese. Sangwoo sorrise, conciliante.
«Tua madre è ancora molto stanca, Soo-jin. Quindi non metterci tanto» raccomandò dolcemente.
Soo-jin si appoggiò alla porta chiusa ed esclamò: «Ciao, mamma! Io vado in gita oggi! Torno stasera! Tu guarisci!»
«Ciao, tesoro» sentì una voce fiacca in risposta. «Divertiti...!»
Appagata, la bambina tornò all'ingresso e si mise i sandaletti. «Adesso andiamo, papà! Faremo tardi per colpa tua!»
«Va bene, va bene» rise Sangwoo, infilandole lo zainetto sulle spalle minute e prendendola per mano. «Hai preso tutto?»
La accompagnò fino al limitare del marciapiede, dove c'era una fermata dello scuolabus. La guardò salire, venire accolta dagli amici, sedersi, affacciarsi al finestrino e salutare con la mano finchè fu troppo lontana per scorgerlo. Con quei grandi occhi vellutati e i lunghi capelli corvini, assomigliava moltissimo a sua madre. Però era di temperamento focoso, energico, un po' più come Sangwoo. Rientrò in casa, chiudendosi la porta alle spalle, afferrò uno schiaccianoci in cucina e si diresse verso la camera da letto.
Vi si affacciò, sorridendo serafico.
«Finalmente soli» sospirò. «Allora, cosa vogliamo fare?»




























Note dell'Autrice: Tutto ciò non mi ha ispirato altro che mpreg a tutto spiano.
Grazie per aver letto!
Lucy

 
  
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