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Autore: Kimmy_90    21/08/2017    2 recensioni
[Sequel de "I Frutti dell'Oblio"]
Un battito dopo l’altro, ed uno ancora per abitudine.
Fame, bisogno, bisogno e fame. Non erano quelle le giuste parole. Le parole non dovevano far parte del suo mondo, assai superiore a questo.
Non importava.
Un battito dopo l’altro, avrebbe aspettato. Ancora ed ancora.

Chi è tua madre?, aveva chiesto Obito.
Kushina si era drizzata tutta, prendendo un paio di centimetri nella sola estensione della colonna vertebrale. Aveva levato il mento e aveva risposto con inaudita sicurezza: "Io non ho madre".
Minato aveva sentito un moto di comprensione per l’altra, la quale, a quanto pareva, come lui era orfana di un genitore.
Ma poi Obito era andato avanti, mantenendo una voce insolitamente salda: "Chi è tuo padre?"
E lei: "Io non ho padre."
Minato aveva osservato la bambina gonfiarsi, impettirsi, senza riuscire a capire il perché di tale atteggiamento.
Tu, cittadino, sei figlio del passato e padre del futuro. Apprendi e insegna, non dimenticare mai. Vivi il presente costruendo dalle macerie del passato: ciò che fai appartiene ai tuoi figli, ciò che sei lo devi ai tuoi avi. Sii un buon figlio, sii un buon avo."
[ Warning: "inversione generazionale"]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Kushina Uzumaki, Nuovo Personaggio, Yondaime | Coppie: Minato/Kushina
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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- Questa storia fa parte della serie 'Cristallo di sale'
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(8) – [ Figlie del fuoco ]

 

 

Kushina si guardava attorno con vaga curiosità. Seduta sulla branda, con il volto ancora assonnato, sembrava intenta a perlustrare con gli occhi la sala in cui si trovava.

Non sembrava intenzionata a reagire in alcun modo: forse, si disse Mebuki, avevano ecceduto con le benzodiazepine. Meglio così. 

Sbuffò, un po’ delusa dai suoi pensieri che di giorno in giorno si facevano più egoisti e cinici. Minato sbirciava dal cucinino, in attesa. 

 

Lei si sentiva ancora addormentata.

Non le era ben chiaro dove si trovasse, ma la cosa non sembrava turbarla – e così non si turbò. Lasciò che il tempo passasse, che i suoi sensi riprendessero a funzionare, anche se aveva la continua sensazione di essere cieca, sorda, priva di olfatto e di tatto. Eppure, le informazioni arrivavano: odori, colori, il calore del sole che filtrava dalla finestra.

Osservò la donna: vestiva in modo strano, non con la toga dei Philosophi, non con le vesti dei Custodes, ma nemmeno sembrava una mercante – ed era troppo curata per essere Agricola.

“Come stai?”

Parlava la lingua, e lei la capiva. Che sapesse rispondere era un altro discoso.

Tacque.

Eppure stava bene.

Continuava a guardarsi attorno, finché non incrociò lo sguardo con un paio di occhi azzurri come lo era stato, il giorno prima, il cielo.

 

La bambina dai capelli rossi si bloccò a guardarlo.

Dapprima Minato tentò di non reagire, impaurito all’idea di farla svenire una seconda volta: perché era collassata, poi? Forse era esausta?

Poi iniziò a sentirsi a disagio.

Che voleva?

 

Anche Mebuki era a disagio.

L’idea che quei due si avvicinassero anche solo di un centimetro in più la faceva angosciare. Kankuro, però, avrebbe voluto così.

Fece uno sforzo. Tacque, e non si mosse. E si costrinse a non muoversi se non strettamente necessario.

 

Poi, come al solito, Minato cedette. Di nuovo, e ancora – sembrava che cedere fosse ciò che gli riusciva meglio.

“Ciao.”

“Ciao.”

Il bambino si scostò dallo stipite della porta, e si fece vedere nella sua intera figura, con la sua sciatta casacca e i capelli biondi disordinati. Kushina arricciò le labbra, come interdetta, ma non smise di fissarlo.

“Come stai?” chiese lui, senza più sapere se e come proseguire.

“Bene.”

 

Perché adesso parlava?

 

“Io mi chiamo Minato.”

Quella lo guardò, muta.

“... tu ti chiami Kushina, vero?”

“Kushina è il mio Nomen.”

Mebuki deglutì.

“Il mio è Minato.” rincarò quello.

Lei sembrava non reagire a quella notizia. Minato guardò la madre, guardò la bambina, decise di fare un passo avanti. Mebuki deglutì di nuovo, ma l’effetto fu inaspettato: Kushina mise i piedi scalzi a terra, e si issò in piedi.

 

Era molto strano. Continuava a guardare e continuava a non vedere. 

Mancava qualcosa, mancava qualcosa, mancava qualcosa...

questo risuonava nella testa di Kushina.

 

Bussarono.

 

“Nonna!” Mebuki parve avere cinque anni, in quell’affermazione: finalmente – finalmnete! Sua nonna – Sakura , un aiuto, anzi: L’aiuto!

“Sono Obito.”

La donna rimase interdetta: volle mangiarsi la lingua per il tono con cui aveva squittito poco prima, davanti al cugino, sperando – cos’era, una bambina? – di incontrare sua nonna.

Il ragazzo, varcata la soglia, si guardò attorno: eccola, la rossa. Ed ecco anche Minato.

“Immagino che l’anziana Sakura non sia ancora arrivata. Ciao, Kushina.”

La bambina si volse verso l’uscio – e, in automatico, si batté il petto con il pugno destro.

Niente da fare, ancora insisteva. Mebuki cercò di contenere la rabbia: “Kushina, noi non...” iniziò a dire, il più tranquillamente possibile.

Ma Obito le parlò sopra: “Ignis Regionibus. proruppe, pacato e saldo.

“Patriae Fratres. Fati Fratres.” rispose la bambina, pacata e salda a sua volta, rivolgendogli lo sguardo.

“Devo farti delle domande.”

Quella annuì.

“Che fascia sei?” domandò.

“Blu.”

“E quante stelle hai?”

“Due.”

“E dove si trova tutto ciò?”

“Sulla sopravveste.”

“Che non hai. Perché non hai la sopravveste, Kushina?”

Kushina parve tentennare un attimo. Abbassò gli occhi su di sé e sulla casacca che portava indosso, sbattè gli occhi, e disse: “Me l’avete tolta voi.”

“No.”

“L’ho lasciata nella stanza, allora.” Concluse. Dopodiché, fece spallucce.

Obito scrutò la bambina perplesso da quel tocco vagamente irriverente nel discorso, dopo le serrate battute che si erano scambiati.

“Quale stanza?” insistette lui.

“La mia stanza.”

Mebuki si avvicinò al cugino – pregandolo, all’orecchio, di smettere.

Ma Minato non si sarebbe lasciato sfuggire quel momento di loquacità della rossa: si infilò nel discorso in quello che entrambi gli adulti ritennero il peggiore dei modi: “Tu vivi al Ludus?”

Quella annuì senza scomporsi.

“Ma non c’è nessuno, al Ludus.” insistette Minato.

Obito mimava un violento ‘shhhhhht!’ a denti stretti nella sua direzione, sperando che quel gesto bastasse a dissuadere il bambino dal continuare: no, macché – non lo vedeva nemmeno. Gli occhi di Minato erano tutti per Kushina. Avido, insisteva: “Vivi da sola?”

“No, vivo con gli altri del Ludus.” Tirò sul col naso. “… Dove sei vissuto, Agricola? O sei Agricola per davvero?”

Eccolo – si disse Obito.

Il disprezzo, ma non l’Odio.

La supponenza, ma non l’Odio.

La tracotanza. Ma non l’Odio.

Minato rispose con straniante limpidezza: “No, io vado a Scuola.”

Di nuovo, bussarono.

I due bambini si zittirono, osservandosi l’un l’altro con viva perplessità.

“Ah – nonna, meno male!”

 

I grandi occhi violacei di Kushina incontrarono le fessure stanche e sottili delle palpebre di Sakura. Poi scivolarono sulle guance raggrinzite, sulle rughe, sul naso, sulle labbra, e scorsero infine le sei cicatrici che la vecchia portava sul volto. La bambina arricciò le labbra, indietreggiando con il capo, e poi ritornò a fissare gli occhi della donna.

Sakura la vide allargare la narici.

Poi socchiudere gli occhi, come non ci vedesse bene.

Poi indietreggiare di nuovo.

Portare la mano al petto, e, ancora una volta, attendere di poter salutare la Medicus.

Sakura avanzò lentamente nella stanza, la schiena che pareva volersi raddrizzare nonostante le impossibilità dettate dal suo scheletro.

Obito, nuovamente, sentì quel senso di rispetto che aveva provato davanti alla purezza di Kushina. Nuovamente, per quanto nascosta dietro moltitudini di decine di anni, scorgeva la forza del Ludus materializzarsi in una persona.

A Kushina non era servito fare né domande né osservare le vesti – come avrebbe dovuto fare, o per lo meno così pensava il ragazzo: le era bastato vedere la donna per capire che davanti a lei c’era un Philosophus. L’ultima, dei Philosophi.

Per l’ennesima volta Obito si ripeté che no, questo, un reazionario, non lo avrebbe mai potuto fare.

“Dunque il tuo Nomen è Kushina.” sussurrò l’anziana Sakura.

Quella annuì, senza spostare il pugno dal petto.

Gli altri tre non fiatavano, scrutando le due.

“Dimmi, Kushina.” Il tono dell’anziana Sakura era leggerissimo, ma greve. Non lo aveva mi usato con lui – pensò Minato. Beh, lui non era mai stato un reazionario, se era per quello. “Dimmi, sai dove ti trovi?”

“No.” Rispose la bambina, dritta, immobile. “Forse alle palazzine mediche.” Osò.

Aveva senso, si disse Obito. Se fosse stata un’allieva del Ludus – si corresse.

“Non ci troviamo alle palazzine mediche, Kushina. Siamo lontani da dove credi di trovarti.”

La bambina accettò liberamente la notizia.

“Lo sai perché ti trovi qui?”

“No.” Rispose nuovamente la bambina. “So che non sono stata bene.”

“Non sei al Ludus.”

Kushina annuì, senza mai interrompere il contatto visivo con la donna.

Minato, sconcertato, la fissava con tanta intensità da aver scordato di sbattere le palpebre. Cercò prima la madre, e poi Obito, con gli occhi ancora fissi, e d’un tratto decise di sgattaiolare verso il cugino.

Fece solo qualche passo silenzioso: Kushina gli lanciò una rapida ma folgorante occhiataccia.

Cosa. Stai. Facendo.

Minato si paralizzò: come faceva ad averlo visto, se fissava la bisnonna dritto negli occhi?

“Sei a Folii Pagus.” Continuò l’anziana Sakura, dopo una debita e ben calibrata pausa. “Ma il nome che ha non è questo, adesso.”

Kushina corrugò la fronte.

“Kushina.” la richiamò, ottenendo nuovamente tutta la sua attenzione: la mente della bambina, si era visto, aveva vagato per un istante nel comprendere il significato di quell’affermazione – ma non appena la Philosophus aveva pronunciato il suo nome, si era bloccata. Ed era tornata, quieta, ad ascoltare le sue parole – avida. Avida di sapere, ma non tanto Agricola da chiederlo esplicitamente.

“Non tornerai all’altipiano del Ludus per un po’. Resterai qui, fra i Mercanti, gli Agricola, e tutti coloro che non sono Custodes o Philosophi. Così è.”

Kushina, sotto lo sguardo sconvolto di Minato, annuì. “Sì.”

“Lei è Mebuki, ora sei sotto la sua tutela. Lui è Obito – in assenza di Mebuki, sarà il tuo riferimento. Non fare nulla contro il loro consenso.”

“Sì.”

“Questo ti permetterà di rimettere piede al Ludus nel modo più giusto.”

“Sì.”

“E questa sarà l’ultima volta – fino a nuovo ordine – in cui eseguirai il saluto dei Custodes. Qui, di Custodes, non ce ne sono. Non c’è nessun altro, oltre a me, da salutare – a me, di saluto, ne basterà uno per sempre.”

E prima che Kushina potesse realizzare che invece, qualcuno, in quella stanza – più volte, sino ad allora – il Saluto lo aveva usato, Sakura sfiatò: “Ignis Regionibus.

“Patriae Frates! Fati Fratres!”

 

 

 

____

 

NDA

(ma la commozione di vedere gente che ancora legge, dopo anni e anni – non so descriverla. Grazie çOç )

Kimmy

   
 
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