Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: s_smile    22/08/2017    1 recensioni
"Non puoi essere uno scrittore se non hai una storia, per cui ho semplicemente coperto la macchina da scrivere e l’ho messa nel ripostiglio, metaforicamente parlando. Fino ad ora. Perché ricominciare, quindi? Beh, la mia vita è un po’ cambiata dall’ultima volta che mi sono seduto ad una scrivania. Potrei dire che me la sono complicata da solo, ma la verità è che non so nemmeno cosa sia successo."
Ho provato a spiegarmi al meglio, ma non so se è una di quelle cose che si possono capire pur senza averle provate.
[Autobiografia senza infamia e senza lode]
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Scrittore alle prime armi.

Per chi, come me, non sa se nella vita se l'è andata a cercare
o se la vita è andata a cercare lui.


 



Per uno scrittore alle prime armi, la pagina bianca può essere fonte di grande angoscia. Devi riempirla, sai che devi, ma nel momento stesso in cui inizi a fissarla, invece di visualizzare uno scenario, nella tua mente c’è il nulla. Bianco, come la pagina.

Per me non è mai stato così. Sin da quando ero piccolo, vivevo per scrivere. Volevo dar forma concreta a quel che un bambino aveva sempre solo immaginato quando il mondo cominciava a stargli troppo stretto. La pagina bianca era la tela sulla quale dipingevo in nero le creature più variopinte, insieme a scenari tra i più inverosimili che potessi inventare. Perché, quando l’acqua era liquida e il cielo azzurro, le cose non andavano esattamente per il meglio.

Sono sempre stato un bambino silenzioso che più che andare a bussare alla porta sul mondo, la chiudeva a doppia mandata e ci piazzava davanti un bel drago paffuto affinché non venisse mai aperta. Mi sono sempre domandato come fosse possibile che i miei genitori e, più in generale, tutti coloro con cui avevo a che fare, non si annoiassero in un mondo ripetitivo e pieno di regole.

Non riuscivo a venirne a capo e nemmeno mi interessava, francamente. Io avevo la mia immaginazione e un computer fisso vecchio di almeno dieci anni, quando lo stesso concetto di computer non ne aveva più di venti, ma mi bastava. E se non mi fosse bastato, avrei immaginato altrimenti.

No, non è la biografia di Stephen King quella che state leggendo, e nemmeno mi piacerebbe che lo fosse: quell’uomo ne ha passate troppe per poterle anche solo elencare e non ho alcun desiderio di percorrere quella strada, anche se alla fine troverei la carriera dei miei sogni.

È sempre stato il mio unico obiettivo voler essere uno scrittore, ma purtroppo, quando il fanciullesco pozzo delle meraviglie che mi regalava così tanti spunti a dieci anni si è prosciugato, ho scoperto di non avere gran ché da raccontare. Non puoi essere uno scrittore se non hai una storia, per cui ho semplicemente coperto la macchina da scrivere e l’ho messa nel ripostiglio, metaforicamente parlando. Fino ad ora.

Perché ricominciare, quindi? Beh, la mia vita è un po’ cambiata dall’ultima volta che mi sono seduto ad una scrivania. Potrei dire che me la sono complicata da solo, ma la verità è che non so nemmeno cosa sia successo.

La farò breve: ero fidanzato da almeno quattro anni; lei era bellissima, intelligentissima e divertentissima… e altri “issimi” che potrei aggiungere, ma che sarebbero totalmente superflui. Non era lei che non andava, ma al contempo lo era e tutt’ora, dopo anni, ancora non mi spiego quale fu la molla che mi fece scattare.

Anzi, lo so: i tovaglioli. Lei non riusciva a scegliere in che modo far piegare i tovaglioli per il ricevimento del nostro matrimonio. Vi sembra assurdo? Per lei, invece, era questione di vita o di morte. Persino di notte, nel silenzio della nostra camera, riuscivo a sentire un sussurro con la voce di lei che ripeteva “A fenicottero o a fungo?” e giuro, non avevo nemmeno idea di come si piegasse un tovagliolo a fungo.

Così, una sera, sono andato al bar. Nulla di strano, fin qui. Volevo prendermi la serata libera da confetti e merletti e bomboniere, ma col senno di poi mi chiedo cosa sarebbe successo se non avessi sentito di nuovo quella voce sussurrare, non mi fossi alzato dal letto e non fossi uscito, mugugnando un “Io esco.”

Sarei stato fregato, immagino. L’avrei sposata, avrei fatto dei figli (un maschio e una femmina, lei li voleva in quest’ordine) e non avrei mai scoperto quello che già sapevo ma che tutti mi avevano insegnato fosse solo una bugia.

Sapete, tanto tempo fa, se un bambino nasceva mancino, gli legavano la sinistra dietro la schiena e lo costringevano ad usare la destra per correggere un difetto. Con me è stato fatto più o meno lo stesso, solo che non hanno potuto legarmi il pene, altrimenti sarebbero stati passibili di denuncia. Ma i miei genitori non si sono dati per vinti e, guidando una carovana di psicologi vecchio stampo e pseudo luminari della medicina moderna, hanno “corretto le mie pulsioni irregolari.”

Ora so bene cosa state pensando: “Ah, la vecchia storia del gay represso!” Lasciatemi dire che siete meschini ad etichettare la mia vita come un cliché e, detto questo, sì, è esattamente la vecchia storia del gay represso. Solo che non ero affatto gay, le ragazze mi piacevano eccome, ma i maschi di più. Non ho mai saputo spiegare il perché, supponevo fosse per affinità biologica, ma facendo queste affermazioni finivo anch’io a spacciarmi per uno pseudo-psicologo-psichiatra.

Non so davvero cosa fossi né perché, ma non mi interessava affatto. Erano gli anni ’70, l’amore libero regnava incontrastato e io non avevo nessuna necessità di ripararmi dietro lo scudo di una categoria riconosciuta e certificata. Ero semplicemente io ed ero libero. Ovviamente qualunque libertà arriva con un prezzo da pagare.

Verso il 1974 i miei genitori arrivarono, con l’esercito al seguito, e mentre l’amore libero scemava in una carneficina di fiori e sentimenti, io venivo trascinato per un orecchio verso la realtà. I media, poi, fecero il resto e la mia natura venne etichettata come uno “sbandamento generazionale” e bollata come pericolosa per l’ordine pubblico. Era strano però: dal ’68 in poi, le uniche ami che avevo visto erano quelle in mano ai militari, ma era risaputo che se lo diceva la televisione allora doveva esser vero.

E vero era, per i miei genitori almeno. Vi risparmio i dettagli della mia “epurazione”, facendovi solo un accenno alla nuova tecnica che si stava sperimentando in quegli anni per curare il mio tipo di malattia: l’elettroshock. Ovviamente non servì, ma dopo ripetuti attacchi epilettici vissuti sul pavimento della mia camera da letto, avevo deciso che non ero più gay, o meglio, bisessuale.

Avevano coniato finalmente un termine per chiarire le idee a quelli come me, ma io lo stavo già salutando da lontano, pronto ad abbracciare solo una delle mie due inclinazioni. Dal 1978 ero ufficialmente etero. Non che avessi potuto davvero diventarlo, s’intende. Così come non puoi controllare il tuo corpo quando hai fame, sete o ti scappa da andare in bagno, non puoi reprimere un’erezione quando il tizio davanti a te fa i piegamenti in palestra. Semplicemente non puoi, il tuo corpo lo sa che stai mentendo.

Il mio corpo lo ha sempre saputo, era un ragazzo sveglio, ma nonostante ciò si ricordava anche delle scosse elettriche ed era un’argomentazione sufficiente a farmi ammosciare come la proboscide di un elefante. Era innegabile che avessi bisogno di uno psicologo, dopo essere uscito dallo studio dello psicologo da cui i miei genitori continuavano a mandarmi. Mi ci spedivano tre, anche quattro volte alla settimana e persino dopo aver conosciuto Barbara mi ci mandarono, almeno finché non furono certi delle mie “intenzioni serie” con lei.

Sia chiaro: non ho mai voluto prendere in giro nessuno. Io ero davvero attratto da Barbara, soprattutto all’inizio della nostra frequentazione. Lo fui di meno a partire dal nostro fidanzamento ufficiale, ma non credo che con questo c’entri la mia sessualità, più che altro era la sensazione di essere in trappola per il resto della mia vita che mi inibiva. L’ho già detto di aver bisogno di un professionista, ma lo ripeto.

Per farla breve, la sera in cui i tovaglioli furono l’incubo peggiore della mia vita – cosa eccessivamente assurda per uno che ne ha passate di peggiori – mi vestì completamente a caso, raccattando una camicia sporca dal pavimento della stanza buia, e uscì. Non ero mai stato un tipo da bar, ma quando devi recitare la parte dell’etero con un padre tifoso di qualsiasi sport possa venirti in mente, tu vai al bar. E te lo fai piacere. Era l’unico bar in cui fossi mai entrato, il preferito di mio padre, e proprio per quello decisi di non andare lì quella sera.

Girovagai per le vie del centro, sobrio e senza meta, con il tessuto verde pisello dei tovaglioli che mi volteggiava davanti agli occhi, finché non fui più in grado di mettere a fuoco forme e colori ed entrai nel primo bar che trovai. E infatti era un pub, non un bar, con le pareti di legno illuminate da neon violacei e tavolini di legno sparsi per tutta la superficie che piroettavano attorno ad un bancone in laminato nero al centro del locale.

Età media degli avventori: ventinove anni. Feci un rapido calcolo, considerando la mia veneranda età di trentadue, e decisi di trascinarmi ad un piccolo tavolo vicino all’entrata ed ordinare una birra, o meglio due. Sapete già com’è andata a finire, ovvero con me e il cameriere di turno avvinghiati nel bagno degli uomini e la sua lingua a solleticarmi le tonsille. Ma io ero etero, un etero confuso.

Proprio per questo, e per la mia sopracitata inibizione cronica, dopo quella sera io e il bel barista – che scoprì esser colombiano e che pronunciava il suo nome, Juan, con un movimento delle labbra che mi faceva venire i brividi anche alle caviglie – non incrociammo più i nostri cammini. Ho il sospetto che la poeticità del nostro incontro fugace avesse poco a che fare con quella decisione; forse ero stato una pessima compagnia notturna, ma erano anni che non mi sgranchivo.

Per me, invece, fu un bene non indugiare in quel rapporto, e per due ottimi motivi: per non alimentare il cliché della fuga d’amore del gay represso e perché, nonostante mi fosse momentaneamente passato di mente, avrei dovuto sposarmi entro poche settimane. Ovviamente alla fine non lo feci. Non perché la mia “malattia immonda” mi precluse la possibilità di avere un rapporto sano con la mia futura moglie, ma perché, semplicemente, non volevo procurarle sofferenze future.

Barbara non sapeva nulla del mio passato e scoprirlo trovandomi a letto con il postino non sarebbe stato certo un lieto fine per la nostra vita coniugale. D’altro canto, io stesso non ero certo di potermelo tenere nei pantaloni per sempre e non volevo che a rimetterci fosse qualcun altro a parte me. Per tutti questi motivi, alla fine lasciai Barbara due settimane prima delle nozze, non ricevendo altro che insulti e maldicenze da parte sua e di tutta la sua famiglia, ma di certo non mi aspettavo che stendessero il tappeto rosso al mio passaggio.

Non le dissi, però, di quel che successe quella sera al pub, non perché non ne avessi il coraggio (ormai il danno era fatto), ma perché in quel momento credevo che avrebbe solo peggiorato le cose. Per lei o per me, non saprei dirlo. Certo, la notizia che il proprio futuro marito se ne va in giro in piena notte a rimorchiare uomini cubani a qualche settimana dalle nozze non è proprio un toccasana per la reputazione di una donna, per cui accettai per buona questa scusa.

Dopo di ché, dovetti affrontare gli sguardi truci dei miei genitori, che mi avrebbero causato una forte angoscia esistenziale se non fosse che avevo preso la decisione di mandarli entrambi a farsi fottere. Non so perché non lo avessi mai fatto prima; immagino fossi troppo codardo per andar contro non solo ai miei genitori, ma anche a tutto quel mondo che mi vedeva come un mostro.

Comunque sia, senza dar loro nemmeno il tempo di sputarmi in faccia, avevo già preso la mia roba ed ero pronto a trasferirmi, senza un soldo e senza lavoro, il più lontano possibile, prendendo qualsiasi mezzo mi avrebbe condotto là dove avrei potuto essere me stesso. E, incredibilmente, lo feci davvero.

È proprio da quel posto che, molti anni dopo, sto scrivendo quest’umile autobiografia, la quale, più che ricostruire per filo e per segno la vita di un uomo che fu tutto fuorché rimarchevole, spera di dare un messaggio: siate quel che siete senza paura di esserlo. Per me è stato così, almeno alla fine, e anche se ancora non ho trovato l’amore della mia vita, come in uno di quei film romantici con Richard Gere, non è questo che mi interessa.

Finalmente sono libero, è questo il punto.





Angolo autrice:

Salve a tutti! Con questa storia ho cercato di trattare in maniera leggera ed umoristica un tema serio, mi scuso se non sono riuscita nel mio intento. 

S.
   
 
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: s_smile