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Autore: Adeia Di Elferas    22/08/2017    6 recensioni
Pandolfo Malatesta, figlio illegittimo del grande condottiero Roberto Malatesta e suo erede, si guadagnò una pessima nomina, indulgendo nel corso della sua vita e del suo predominio su Rimini in vizi e crimini di ogni sorta.
Tuttavia, prima di diventare Pandolfo IV, il Malatesta dovette passare attraverso molte prove del fuoco, di cui la prima gli capitò tra capo e collo a soli sedici anni.
Malpiero di lui dirà: "Questo Pandolfo è homo de mala natura , dissoluto in ogni vizio." e non ebbe torto. Tuttavia, come si arrivò a un simile risultato?
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Rinascimento
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La notte era tenera e profumava di primavera. Il venticello dolce che spirava dalla costa portava con sé l'aroma pieno e conturbante del mare, che andava a mescolarsi con quello più terreno e concreto del bosco che stava a non molta distanza dalla casa di Elisabetta Aldovrandini.

Dal palazzo si sentivano ancora arrivare le voci di quelli che facevano festa e, di quando in quando, se il vento era a favore, si potevano riconoscere ancora le ultime note strimpellate dai musici.

Pandolfo restava nell'ombra, lontano dalle carrozze e dalle torce appese al muro della casa di sua madre, ma teneva con attenzione d'occhio il portone.

Sapeva che Raimondo sarebbe uscito da lì.

Il giovane, che avrebbe compiuto diciassette anni solo a luglio, annusava l'odore di quella notte di marzo con sospetto. Gli abiti da penitente che sua madre gli aveva fatto indossare gli stavano anche troppo larghi. Quegli stracci servivano solo per mascherare meglio la sua identità e per permettergli di tenere il pugnale celato agli occhi del mondo.

Si trattava quasi di uno stiletto, di un tagliacarte, per quanto era lungo e sottile, ma Pandolfo immaginava che sarebbe bastato.

Quando sua madre gli aveva chiesto se avesse già ucciso qualcuno, il ragazzo si era sentito in forte disagio, non sapendo cosa rispondere. Visto lo sguardo assente con cui la donna lo aveva fissato, però, Pandolfo aveva intuito cosa si aspettasse da lui.

“Certo, madre.” aveva risposto, sentendo qualche goccia di sudore scendergli lungo la nuca, tra i lunghi capelli neri e lisci.

“I mendicanti, gli schiavi, i vecchi e le donne del bordello non contano.” aveva precisato allora Elisabetta, mentre i suoi occhi piccoli e tondi tradivano un barlume di speranza.

“Mi sono scontrato con uomini cresciuti – aveva mentito spudoratamente Pandolfo, terrorizzato all'idea di poter deludere sua madre – e li ho uccisi.”

Che Elisabetta gli avesse creduto davvero o meno, non lo si era capito, ma comunque quel discorso doveva averla convinta, perché subito dopo aveva porto lo stiletto al figlio e gli aveva spiegato che cosa avrebbe dovuto fare la sera del ballo.

Mentre ripassava nella mente quella scena, il giovane Malatesta cominciò ad avvertire un tremendo vuoto allo stomaco.

Fissava ancora il portone del palazzo, intento a scorgere subito suo cugino Raimondo, e intanto si rimproverava da solo per non aver toccato cibo per tutto il banchetto.

L'agitazione per quello che l'aspettava era stata tale che, anche davanti alle sue portate preferite, Pandolfo non era stato in grado di mettere in bocca altro se non qualche pezzetto di pane. Non aveva nemmeno toccato il vino, ad accezione del sorso bevuto all'apertura delle danze, e adesso il suo corpo protestava per quella negligenza.

Il battere ritmico di quattro zoccoli sulla terra battuta gli fece perdere un colpo al cuore, ma per fortuna si trattava solo di uno dei servi che aveva portato un cavallo a fare due passi, forse perché troppo agitato.

Quando tornò il silenzio, Pandolfo strinse con più forza il manico del pugnale in mano e respirò lentamente. Doveva farsi forza. Non poteva deludere sua madre.

Raimondo aveva l'abitudine di lasciare le feste abbastanza presto. Forse per qualche sua forma di prudenza, o forse solo perché tra balli e brindisi si annoiava a morte.

Quella sera, però, sembrava ritardare.

La testa di Pandolfo venne attraversata con orrore da una serie di terribili immagini. Mentre si incassava nelle spalle e spostava il piede da una delle lunghe e secche gambe all'altra, il giovane figlio del compianto Roberto Malatesta si immaginò che suo cugino avesse notato la sua sparizione improvvisa dalla sala, che avesse accusato sua madre Elisabetta di essere in odore di congiura e che avesse cominciato a uccidere tutti i presenti.

Proprio quando il suo cervello gli proponeva la scena in cui Raimondo sgozzava sua madre senza alcuna pietà, il protagonista di tali malsane fantasie si profilò sul portone.

Colto di sorpresa, Pandolfo non si mosse con la rapidità che si era ripromesso di avere. Tuttavia Raimondo era, come da attese, completamente solo e sembrava desideroso di andare fino alle stalle a piedi.

“Che volete? Chi siete?” chiese l'uomo, voltando appena la testa verso l'ombra che gli era arrivata al fianco.

Pandolfo si chinò, per nascondere meglio il viso, e allungò una mano un po' tremante, atteggiandosi a mendicante in cerca di carità.

“Non ho con me denaro.” disse Raimondo, secco.

Aveva parlato a voce forse troppo alta. Pandolfo temette che qualcuno avesse sentito e che presto sarebbe arrivato un nugolo di soldati e tutto sarebbe andato all'aria.

Così fece di nuovo il gesto del questuante, con più insistenza, facendosi tanto appresso a suo cugino da indurlo ad alzare una mano, come se volesse scacciarlo a suon di scapaccioni.

“Vi prego...” sussurrò Pandolfo, sperando che la contraffazione della sua voce fosse sufficiente a non insospettire il parente.

Sbuffando, Raimondo alzò un momento gli occhi verso una delle torce e cominciò a cercare qualcosa nella scarsella.

Quando finalmente trovò una moneta, allungò la mano dicendo: “Tieni, pezzente... E ora sparisci.”

Pandolfo sapeva che quello era il momento. Mentre si preparava a sentire il freddo della moneta contro il palmo della mano, avvertì un nodo allo stomaco.

Tentennò quel breve istante che fu sufficiente a Raimondo per subodorare il pericolo.

Sgranando gli occhi e spalancando le labbra, in parte nascoste dalla fitta barba grigia, l'uomo tentò di ritrarsi, probabilmente per scappare.

Preso dal panico almeno quanto la sua vittima, il giovane Malatesta afferrò con forza la mano del cugino, ancora protesa con la monetina tra le dita, e alzò il pugnale, che luccicò alla luce delle torce.

Quando i due si trovarono a guardarsi negli occhi, Raimondo non riuscì nemmeno a gridare, per la sorpresa e l'orrore della scoperta, mentre nell'anima di Pandolfo si scatenò l'inferno.

Rivide in modo vivido e sconvolgente delle immagini che aveva ricacciato nel fondo della memoria, ma che non avevano mai perso la loro forza.

Rivide Raimondo che parlottava concitatamente e a bassa voce con Galeotto Ludovico – tutore legale di Pandolfo – di come farlo sparire alla prima occasione.

Rivide la smorfia beffarda di Raimondo, quando aveva detto a Elisabetta che Pandolfo era stato scelto, sul letto di morte, da suo padre, Roberto, come erede.

Rivide il sorriso falso con cui Raimondo lo lodava ogni volta che lo vedeva cavalcare o cacciare nei boschi di Rimini.

E, più di ogni altra cosa, rivide Raimondo ritirarsi nella stessa camera in cui risposava Elisabetta, sua madre.

Con il cuore che correva nel petto, Pandolfo si accorse di non avere più davanti a sé il Raimondo vestito a festa, che usciva dal ballo indetto a casa Aldovrandini, ma bensì il Raimondo nudo, che faceva stendere sua madre sulle lenzuola di seta e la faceva sua.

Li aveva spiati, tante volte, guardando dalla serratura o dalla porta che veniva lasciata socchiusa, come se uno dei due quasi sperasse di essere scoperto.

“Muori!” gridò, la voce strozzata, mentre con tutta la forza che aveva piantava la punta dello stiletto nel petto del cugino.

Raimondo fece un gemito tronco, mentre la lama scheggiava una costa e faticava a penetrare la carne.

Ansimando, Pandolfo l'estrasse e riprovò, più in basso, poi di nuovo in alto, colpendolo nella pancia e poi alla gola.

Quando sentì delle urla arrivare dalla direzione in cui stavano le stalle, il giovane Malatesta tolse per l'ultima volta la lama del pugnale dal corpo di suo cugino, se lo infilò nella cintola, e scappò.

Corse per almeno mezz'ora, inoltrandosi tra le stradine di Rimini. Le conosceva bene, ma in quella notte apparivano tutte uguali: buie, sporche e maleodoranti.

Scivolando su una chiazza di liquami, Pandolfo decise di fermarsi. Si appoggiò alla parete di una casa un po' scalcinata e tentò di respirare normalmente.

Sentiva un odore ferrigno molto strano e gli volle qualche minuto per capire che proveniva da lui.

Era il tanfo del sangue. Ne era ricoperto. Alla luce pallida della luna, riuscì a scorgere le macchie scure che imbrattavano i suoi abiti da mendicante.

Con rabbia, si strappò via la parte superiore del suo travestimento e poi si sedette in terra, le mani sopra la testa.

Non aveva mai ucciso un uomo, prima di quella notte.

Non accorgendosi di come avesse iniziato, Pandolfo pianse a lungo, in silenzio, fino a farsi dolere la gola e bruciare gli occhi.

Non riusciva a pensare a nulla. Aveva solo paura. Quello che aveva provato, il suono sordo che aveva fatto il corpo di Raimondo cadendo in terra quando lui se n'era andato, le urla di quelli che da lontano avevano visto gli ultimi atti di quell'omicidio... Era tutto troppo, per lui.

Quando riuscì a ritrovare un minimo di lucidità, poi, si rese conto con maggior forza di quello che aveva fatto.

Sua madre lo aveva convinto che quella era l'unica cosa da fare. Raimondo stava prendendo potere e presto avrebbe fatto uccidere Galeotto Ludovico per prenderne il posto. Dovevano essere più veloci di lui. E così avevano dovuto agire.

Però questa consapevolezza non alleviava il peso che Pandolfo sentiva nel petto. Aveva tolto la vita a un uomo, un suo congiunto, per di più. Quello era il genere di colpe che nemmeno un papa può levare da una coscienza.

Si rialzò a fatica e fece qualche passo. Arrivato alla fine della stradina in cui si era imbucato, vomitò un po' di bile. Ricominciò a camminare, le gambe malferme e le mani che tremavano come foglie.

L'alba si stava avvicinando e qualche mercante e artigiano, nella penombra di quell'ora, lo scambiò per un ubriaco che cercava di tornare a casa, barcollante e mezzo nudo, i capelli lunghi e impiastrati che coprivano il volto e un odore strano addosso.

Passando per vicoli che conosceva bene, Pandolfo arrivò fino al palazzo di sua madre, nel quale entrò da una porta secondaria che di norma usavano solo i servi.

Senza indugiò, andò fino alla camera di sua madre. La trovò aperta e così entrò e si buttò sul letto, esausto.

Era ormai mattina fatta, quando Elisabetta arrivò dal figlio. Lo trovò ancora con addosso le brache di tela grezza sporche di sangue e con gli occhi sbarrati rivolti al soffitto.

Si sedette accanto a lui sul materasso e gli prese una mano nelle sue. Anche se era solo un ragazzo, quelle erano già le mani grosse e forti di un uomo.

Erano incrostate di sangue secco, ma non tremavano più.

“Hai ancora con te il pugnale?” chiese la donna, passando a controllare l'altra mano.

Pandolfo si ricordò solo in quel momento dello stiletto che ancora portava al fianco. Provò a dire che sì, l'aveva ancora con sé, ma dalle sue labbra non uscì nemmeno mezza parola, così si limitò a indicare la cintola.

Elisabetta prese con lentezza l'arma e la osservò con attenzione. Cercò di pulirla un po' con il lenzuolo, ma ormai le macchie erano vecchie ed era difficile.

Con una scrollatina di spalle, si infilò lo stiletto in uno dei tasconi della sottana e disse: “Di questo mi occupo io.”

Guardò il figlio per un istante, poi gli spostò una ciocca di capelli neri sporca di sangue rappreso dalla fronte e sussurrò: “Adesso spogliati. Sta arrivando la mia cameriera con il necessario per un bagno. Ufficialmente tuo cugino Raimondo è stato ucciso da un pezzente che gli aveva cercato denaro. Tuo cugino non glielo voleva dare e il mendicante l'ha aggradito. Siamo intesi?”

Pandolfo annuì lentamente e si mise a sedere sul letto, per poi alzarsi.

“Figlio mio – fece Elisabetta, fermandosi un momento, prima di lasciarlo libero di spogliarsi in vista del bagno – hai fatto la cosa giusta.”

Le labbra sottili di Pandolfo ebbero un tremito, ma ancora una volta il giovane non riuscì a parlare.

Elisabetta sospirò e poi, infischiandosene del pericolo di sporcarsi i vestiti, lo abbracciò con forza.

Siccome il ragazzo era già molto più alto di lei, la donna si mise in punta di piedi, mentre egli si incurvò un po'.

Quando riuscì ad appoggiare le labbra all'orecchio del figlio, la madre gli accarezza con dolcezza la testa e aggiunse: “Ora sei un uomo. E io sono fiera di te.”

Con un'ultima stretta accorata, Elisabetta si congedò.

Pandolfo, rimasto solo, si cavò le brache e le scarpe e si guardò un attimo nello specchio a mezza figura che sua madre usava sempre quando si faceva pettinare i lunghi capelli.

Mentre si guardava, quasi non si riconosceva. Nei suoi occhi scuri qualcosa era cambiato. Provò un profondo senso di smarrimento, ma poi si guardò meglio. Il suo volto e il suo petto erano ancora schizzati di sangue. C'era qualcosa di evocativo, per lui, in quella visione.

Senza riuscire a frenarsi, il giovane Malatesta scoppiò in una fragorosa risata priva di gioia e, quando la serva arrivò portando con due schiavi la tinozza per il bagno, il Pandolfaccio stava ancora ridendo.

 

 

 
   
 
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