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Autore: usotsuki_pierrot    23/08/2017    1 recensioni
Ecco la storia, raccontata in breve, del mio oc di BNHA, Kimura Nanako!
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«Takuya, aspettami!!».
«Non è colpa mia se sei lenta come una lumaca, Nanako!».
Ero sempre stata invidiosa di tutto ciò che riguardava mio fratello, Kimura Takuya. O di ciò che rimaneva, di lui. Nonostante non avessimo davvero legami di sangue, essendo lui stato adottato prima che nascessi, ci assomigliavamo quel tanto che ci permetteva di vivere il nostro rapporto fraterno senza che qualche estraneo si accorgesse di questo non così piccolo dettaglio.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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PREMESSA
... È passato più di un mese dall'ultima volta che ho pubblicato qualcosa... Mi sento una persona orribile. Ma questa fic è stata (ed è a dire la verità, visto che la sto continuando e sarà divisa in più parti) un vero e proprio parto. Tra interruzioni continue, pause di... riflessione, diciamo, e i dieci giorni passati al mare sono riuscita a dividerla e a rivederla solo oggi. Mi dispiace davvero, spero almeno sia venuta bene-
Detto ciò, questa fic è incentrata su Kimura Nanako, la mia oc di Boku no Hero Academia! In particolare sulla sua infanzia, nel caso di questo capitolo, e sul suo rapporto con il fratello adottivo Takuya.
Durante la storia saranno presenti anche gli oc di due mie care amiche! Lizzy, o meglio Elizabeth, che ormai conoscete bene, e Mizu Satoru!
Spero che vi piaccia e... al prossimo capitolo!!



«Takuya, aspettami!!».

«Non è colpa mia se sei lenta come una lumaca, Nanako!».
Ero sempre stata invidiosa di tutto ciò che riguardava mio fratello, Kimura Takuya. O di ciò che rimaneva, di lui. Nonostante non avessimo davvero legami di sangue, essendo lui stato adottato prima che nascessi, ci assomigliavamo quel tanto che ci permetteva di vivere il nostro rapporto fraterno senza che qualche estraneo si accorgesse di questo non così piccolo dettaglio.
I miei genitori non avrebbero voluto avere figli naturali. Ai loro occhi, gran parte delle coppie decidevano di avere dei bambini per il mero desiderio di portare avanti l'unicità dell'uno o dell'altro; in alcuni momenti li avevano definiti addirittura degli "esperimenti", dei semplici test. O almeno così mi aveva riferito Takuya.
«È per questo che mi hanno adottato», mi aveva confidato una sera, poco prima di metterci a dormire. «Però», aveva continuato, senza rivolgermi nemmeno per un secondo lo sguardo, «quando mamma ha saputo che saresti nata tu, erano così felici... Come se da quel momento avessero cambiato totalmente idea».
«Pensi che io sia un esperimento?», avevo chiesto, incespicando in quelle parole ancora difficili da pronunciare e da comprendere fino in fondo per una bambina di appena quattro anni.
Takuya aveva scosso la testa in risposta, rivolgendomi un'espressione sorridente accompagnata dal rapido movimento della mano, con la quale mi scompigliò i capelli.
«Mamma e papà ti vogliono bene, Nanako...». C'era una punta di risentimento nella sua voce a quel tempo. Sembrava quasi che si pentisse di tutto ciò che diceva. Aveva paura di ferirmi o di spaventarmi, immaginai quando gli anni passarono.


E poi apparve anche la mia unicità: fiato gelido. Era un'unione perfetta; nostra madre aveva sempre approfittato di quello che noi avevamo definito il quirk per eccellenza di un genitore, ovvero la voce amplificata. Le bastava trattenere un po' il fiato, concentrarsi, e ciò che usciva dalle sue labbra era paragonabile ad un urlo potenziato dall'uso di un megafono nuovo di zecca. Mio padre, dal canto suo, aveva ottenuto una delle unicità che mi sarebbero rimaste maggiormente impresse nella memoria. Tutti la chiamavano "sguardo di ghiaccio", tanto che quando da piccola non ero ancora a conoscenza di cosa fossero i quirk credevo si riferissero a qualche sua caratteristica fisica, o a qualche aspetto del suo carattere. Essendo sempre stato un uomo allegro e solare non avevo mai compreso fino in fondo il significato di quell'appellativo che si era guadagnato. E la sua riluttanza a sfruttarlo non mi aveva di certo aiutata.
Scoprii di cosa si trattava quando un giorno, attraversando la strada di fretta, non mi accorsi di una macchina che si stava avvicinando pericolosamente a me. In quell'istante serrai gli occhi e tutto ciò che avrei ricordato in futuro furono le braccia di mio padre che mi stringevano, il suono incessante del clacson e il vociare preoccupato e confuso dei passanti. Quando riaprii gli occhi vidi l'auto completamente congelata. Da cima a fondo. A pochi centimetri da noi. Guardai mio padre, che stava ancora fissando insistentemente la vettura davanti a lui. Venni a conoscenza del fatto che la sua abilità gli permetteva di trasformare in una statua di ghiaccio tutto ciò che voleva grazie allo sguardo, a seguito di una conversazione con mia madre.
Ero ancora piccola, avevo all'incirca otto anni, ma compresi comunque i motivi che rendevano mio padre così restio ad usare il suo quirk.

 

Ebbi modo di testare sulla mia stessa pelle quanto le unicità potessero rivelarsi non tanto inutili quanto dannose, in alcuni casi. Come accadeva per la maggior parte dei bambini, anche la mia si manifestò intorno ai quattro anni ma, come ci spiegò più avanti il dottore di famiglia, il mio corpo parve non essere del tutto pronto a questo cambiamento radicale.
Arrivarono il freddo, i raffreddori e le febbri incessanti e incontrollabili. La causa si rivelò essere la completa trasformazione della mia temperatura corporea, alla quale il mio organismo aveva cercato di opporre resistenza. Durante i mesi e gli anni successivi mi sentii incredibilmente debole la maggior parte del tempo, facevo fatica ad andare a scuola come tutti gli altri e trascorrevo i pochi pomeriggi di pace e apparente salute insieme a Kaminari Denki ed Elizabeth, due miei coetanei che abitavano vicino a me. Scoprii solo più tardi che erano effettivamente gemelli dall'aspetto diverso. Non che mi fossi posta il problema; a me importavano solamente i momenti che passavamo insieme, che fossero fuori o dentro casa, tranquilli o più movimentati. Non sembravano capirmi, pareva piuttosto che per loro il mio stato di salute altalenante, le mie limitazioni, le preoccupazioni dei miei genitori, niente di tutto questo rappresentasse un ostacolo.
Persino quando tornavo a casa con qualche livido causatomi da chi invece non riusciva a vedere oltre il proprio naso e si divertiva a prendersi gioco dei più deboli per potersi creare una stupida reputazione (e mi chiedevo se davvero a Denki e Lizzy andasse bene passare del tempo con me), i loro visi sorridenti mi facevano stare meglio. Immaginavo le loro voci risuonare al ritmo di parole di conforto che avrei voluto sentirmi dire, e mi tranquillizzavo.
Al contrario di mia madre, ovviamente, che più volte aveva rischiato di finire a scuola a informare gli insegnanti di cosa stesse accadendo, nonostante io per prima non lo volessi.
Takuya dal canto suo sembrava tramare qualcosa; era sempre silenzioso, più del solito, se ne stava in disparte a scrivere su degli strani fogli e ogni qualvolta mi avvicinavo a lui nascondeva il tutto dove poteva e mi offriva un sorriso che non aveva nulla a che vedere con quelli che solitamente manteneva, quando era davvero felice. Non importava quante volte gli chiedessi cosa stesse facendo; "non sono cose che ti riguardano" era diventata la sua frase preferita.
Inizialmente credetti che si trattava di stress. Da un paio d'anni si era iscritto nientepopodimeno che alla UA, la scuola per diventare eroi. Era da sempre stata un sogno per lui, e anche quando eravamo piccoli non faceva che ripetermi quanto fosse emozionato all'idea che prima o poi ci sarebbe entrato. Aveva più volte detto che il suo obiettivo era quello di proteggermi, che ci sarebbe riuscito solo analizzando i quirk di quanti più ragazzi possibile, e che la UA sembrava il luogo ideale per farlo.
Era determinato. Tanto che non fece quasi fatica a passare il test. Ma fu solo l'inizio di una serie interminabile di problemi.
Takuya divenne riservato, silenzioso, passava la maggior parte del tempo in camera sua senza dare a nessuno la possibilità di entrarvi. Era visibilmente preoccupato e agitato, ma né io né i nostri genitori sembravamo avere il privilegio di sapere cosa gli frullasse per la testa. Lo sentivo man mano più distante. Quella complicità che ci univa e che ci permetteva di riconoscerci come veri fratello e sorella stava diminuendo, tanto che per qualche tempo arrivai a considerarlo un estraneo. Arrivai a chiedermi se i bei momenti passati insieme durante l'infanzia fossero esistiti davvero o rappresentassero solo un'allucinazione creata dalla mia mente a causa della malattia costante.
Giunsi persino a dubitare della sua capacità di diventare un eroe. Ai miei occhi ormai appariva un'immagine distorta di quello che era il Takuya di anni prima.


Mi pentii solo dopo di non averlo fermato.
A quel tempo avevo all'incirca dodici anni. Era una di quelle giornate che si prospettano essere normalissime, il sole splendeva in cielo con qualche piccola nuvola passeggera; si stava avvicinando l'estate. Ero appena uscita di casa, per aspettare Lizzy e Denki come ogni pomeriggio passato con loro. Per un attimo mi chiesi come mai non fossero ancora arrivati, ma non me ne preoccupai più di tanto. Ero certa che prima o poi li avrei visti in lontananza, perciò non mi restava che aspettare pazientemente.
Man mano che i minuti passavano sentii il calore del sole colpirmi la pelle in maniera sempre più aggressiva; mi sembrò di bruciare. Ci avevo fatto l'abitudine, ormai. Non importava quanto alte o basse fossero le temperature, ogniqualvolta rimanevo ferma sotto il sole avevo l'impressione di squagliarmi. Avrei insomma potuto descrivere come si sentisse il piccolo pupazzo di neve lasciato in balìa del calore primaverile o il ghiacciolo che attende impaziente di essere mangiato pur di non sopportare ancora a lungo i raggi estivi.
Mi sedetti all'ombra generosamente offerta da un albero nelle vicinanze e mi affrettai a recuperare dalla borsa una delle bottigliette d'acqua che ero stata da poco costretta a portare con me. Fortunatamente era ancora ghiacciata. Ne bevvi un sorso, e il mio corpo venne scosso da lievi brividi nel momento in cui percepii la freschezza gelida attraversarmi la gola già secca. La consapevolezza che quello sarebbe stato un gesto ricorrente per il resto della mia vita, che quella sensazione di bruciore alla pelle sarebbe rimasta per sempre e che ogni estate si sarebbe rivelata un terribile inferno creava un retrogusto amaro in bocca, o forse era solo la mia impressione. Riposi la bottiglietta al suo posto, tornando successivamente a guardarmi intorno. Di Lizzy e Denki nessuna traccia. Decisi che mi sarei incamminata verso casa loro, così mi alzai.
«Dove stai andando?».
Mi voltai e indirizzai lo sguardo verso l'alto. Takuya era sul balcone, con le braccia conserte poggiate sulla ringhiera, che mi fissava. La sua espressione era distaccata, ma non fredda quanto quella che aveva riservato a me e al resto del mondo nei giorni precedenti. Al contrario, avevo potuto percepire un pizzico di preoccupazione nella sua voce.
«Sto andando da Lizzy e Denki», risposi, ricambiando il suo sguardo ma mantenendo calma e gentilezza nel tono.
«Non dovevano arrivare loro fin qui?».
«Si ma stanno facendo tardi e penso che magari sarebbe meglio se-».
«Tu resti qui».
Quelle parole mi colpirono come lame affilate.
«Cosa..?».
«Ho detto che devi rimanere qui ad aspettarli».
Non l'avevo mai sentito parlare in quel modo. Era così teso che al solo guardarlo tutto ciò che fui in grado di rispondere fu un semplice "perché?", quasi sussurrato.
«Vuoi forse ammalarti di nuovo? Sei guarita stamattina e pretendi non solo di uscire, ma anche di fare il tragitto da sola?!».
Si susseguirono alcuni minuti di silenzio, al seguito dei quali non riuscii più a rimanere immobile. Strinsi un poco i pugni e dopo aver rivolto un'espressione irritata a Takuya mi diressi verso la casa dei gemelli elettrici.
«Nanako! Torna qui!!», mi ripeteva invano. Lo ignoravo, nonostante la sua voce giungesse alle mie orecchie così forte da penetrarmi nel cervello.
Mi costrinsi a non voltarmi, nemmeno per rispondergli; abbassai lo sguardo, ma ero così concentrata sulla mia risolutezza che non mi accorsi di dove effettivamente stessi andando. Pochi istanti più tardi urtai contro qualcosa, o meglio qualcuno. Una giacchetta nera, probabilmente di pelle - in netto contrasto con le temperature di quel giorno -, una maglietta chiara e dei pantaloni scuri mi si pararono davanti; e ancor prima che l'individuo si voltasse per guardarmi avevo già chiaro in mente di chi si trattasse. Frequentava la mia classe. Era alto poco più di me e aveva un fisico asciutto, tanto che a prima vista non sembrava capace di ferire nemmeno una mosca. Eppure era uno dei ragazzi che più mi infastidiva e torturava ogni giorno, e di certo il suo quirk non mi aiutava a liberarmi di lui o ad evitarlo. "Braccia lunghe", lo chiamavano i suoi amici più stretti per prenderlo un po' in giro, ma quel nomignolo era estremamente attinente alla sua unicità, che gli permetteva di allungare gli arti superiori per diversi metri. Il suo hobby era prendersi gioco di chi, come me, non aveva ancora capito come usare la sua abilità, o più semplicemente ne aveva una ben più complessa della sua. Pareva non capire quanto per alcuni potessero rivelarsi un inferno, come era accaduto a me (proprio una contraddizione, essendo il mio quirk di tipo ghiaccio).
«Oh, ma guarda chi c'è, Nanako!», esordì con una voce irritante. Era visibile il suo tentativo di infastidirmi anche solo con un saluto.
«Preferirei che non mi chiamassi per nome, Fukuda-san», risposi, il più pacata possibile.
«E chi saresti tu per darmi degli ordini, hah? Posso chiamarti come voglio, deboluccia». Rimasi zitta, come mio solito, non tanto per paura ma semplicemente perché non amavo attaccar briga e prendere troppo sul personale degli insulti dettati dall'ignoranza e da un presunto senso di superiorità. Continuai a guardarlo, finché non fu lui a continuare il discorso con un ghigno indisponente.
«Beh? Non sei ancora svenuta dal caldo, questa volta? Stai facendo progressi, non c'è che dire... Ma dopotutto non sarei così dispiaciuto se ci restassi secca una volta per tutte». Strinsi i pugni, cercando di resistere all'impulso di trasformarlo in una statua di ghiaccio o a quello di imprimergli l'impronta del mio palmo su una guancia.
«Non pensi sarebbe tutto più semplice anche per te, Nanako-chan?? Insomma, non avresti più problemi e non ne daresti a nessuno, con quel quirk stupido che ti ritrovi! Sarebbe una liberazione, in fondo».
«Cos'hai detto?».
Ero così focalizzata sul mantenere il controllo che non mi ero accorta della presenza di Takuya poco lontano da noi.
«Takuya!», esclamai nel momento in cui si diresse pericolosamente verso di lui.
«Sta' zitta, Nanako. Con te parlerò più tardi».
Ciò che accadde negli istanti successivi fu così rapido che feci fatica a seguirlo con lo sguardo. Riuscii solamente a vedere mio fratello sollevare Fukuda dal colletto della giacca, per poi portarlo senza troppa gentilezza con la schiena contro il tronco di un albero; lo stesso sotto al quale avevo trovato riparo dai raggi del sole poco prima. Notai subito l'espressione distorta dal dolore e dalla paura del bullo, che cominciò a muovere spasmodicamente le gambe.
«Lasciami!!».
«Prova a ripetere quello che le hai detto, se ne hai il coraggio». Non riuscivo a guardare il volto di Takuya dalla posizione in cui mi trovavo. Potevo vedergli solo le spalle e la testa, ma mi bastò per visualizzare nella mente il suo sguardo freddo, gli occhi blu fissi in quelli spaventati della sua vittima.
«Ho detto solo la verità! Chi non sa usare la propria unicità non serve a nulla in questa società!!», gridò Fukuda.
«Tsk», fece Takuya, poco prima di allentare la presa per far cadere la sua preda a terra. «Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro».
Infilò lentamente una mano nella tasca sotto lo sguardo preoccupato del più piccolo, per poi estrarvi un'armonica. La SUA armonica. Quella da cui non si separava mai, che portava sempre con sé e con cui l'avevo visto armeggiare fin da quando eravamo molto piccoli. Non avevo mai saputo esattamente quale fosse l'unicità di mio fratello, perché come nostro padre anche lui era da sempre stato restio ad utilizzarla; ma da quanto avevo potuto capire quell'armonica era ciò che gli permetteva di sfruttarla.
«Vorrà dire che ti farò cambiare idea con la forza». Il suo tono era così serio, così scuro, che per poco non sentii leggeri brividi di paura salirmi lungo la schiena.
«Nanako, torna in casa, adesso».
Deglutii. Era evidente che stesse cercando di allontanarmi; forse per non ferirmi, o per non farmi assistere al suo quirk in azione. Non riuscii a muovere un muscolo. Ero stata catturata dal terrore e dalla curiosità di saperne di più.
Ma a quanto pare Takuya era troppo occupato per assicurarsi che fossi effettivamente andata via. Potei osservarlo mentre ripuliva alla veloce la superficie dello strumento e i fori sul lato; la maneggiava alla perfezione, eppure non l'avevo mai sentito suonare nulla prima di allora. Ripose il fazzoletto dopo qualche secondo. Portò l'armonica davanti alle labbra, e posizionò al meglio le dita per facilitarne il movimento.
Bastò una nota. Una singola, innocua nota, e sentii quella che mi parve a tutti gli effetti un'onda colpirmi, attraversarmi e immobilizzarmi. Ero paralizzata, ma non dall'angoscia.
Una seconda nota, una seconda onda; mi sentii travolgere da un senso di impotenza incredibile. Riuscii a fatica a buttare lo sguardo sulla figura di Fukuda, che pareva versare nelle mie stesse condizioni.
Una terza nota e la sensazione di pesantezza e disagio aumentò a vista d'occhio. Il mio respiro si fece affannoso mentre tentavo di recuperare aria per far fronte a quella terribile morsa; boccheggiavo lasciando che qualche leggera nuvola di vapore fuoriuscisse dalla mie labbra. Potevo sentire il mio cuore battere a mille, come se stesse colpendo furiosamente le pareti che lo imprigionavano per uscire. Ma non appena i miei occhi chiari si posarono nuovamente sul volto di Fukuda, i battiti quasi cessarono. Vidi gocce che scendevano copiose lungo le sue guance, gocce che mi rifiutai inizialmente di definire lacrime. Cadevano a terra bagnando la strada, ma non emettevano alcun suono. Non sentivo singhiozzare, non sentivo rumori o versi soliti di chi piange. I suoi occhi scuri erano spalancati, fissi sulla figura di Takuya che si ergeva in piedi, le pupille parevano tremare; le labbra erano schiuse, immobili. La pelle era diventata pallida, quasi come se fosse morto.
«Ta...ku...». Ero bloccata. Non riuscivo nemmeno a parlare; ma dovevo chiamarlo, dovevo interrompere quell'incubo, prima che fosse troppo tardi.
Non feci in tempo a finire di pronunciare il suo nome. Takuya smise all'istante di suonare, voltandosi immediatamente verso di me.
«Nanako?! Ti avevo detto di andartene!!».
Mi sentii come se mi fossi appena liberata da delle catene invisibili. Feci un passo, lasciando che la testa ricadesse in avanti e che gli occhi puntassero a terra. Mi portai una mano sul petto, stringendo la maglia nella presa; respiravo di nuovo. A fatica, si, ma potevo respirare.
«Co...Cosa sei tu?!», gridò Fukuda, rialzandosi barcollante. «Io... Io..!».
Strinse i pugni tremanti e si incamminò verso casa con le gambe che davano l'impressione di essere fatte di gomma, digrignando i denti. «Me la pagherete..!!».
Gli occhi blu di Takuya erano rimasti fissi su di me per tutto il tempo, quasi come se avesse già cancellato dalla mente la presenza del bullo alle sue spalle.
«Nanako», disse; ma le mie orecchie non sembravano funzionare come al solito. Sentivo il mondo incredibilmente ovattato, non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Infine, le ginocchia cedettero, i suoni dell'ambiente circostante diminuirono a vista d'occhio e le palpebre si chiusero contro la mia volontà.
«Taku...ya...».

 

Feci un sogno molto strano, nelle poche ore in cui rimasi addormentata in quel sonno profondo. Ero nella mia stanza, seduta sul mio letto; sembravo aspettare qualcosa. Presto capii che si trattava di qualcuno. In pochi istanti, la porta si aprì e Takuya entrò nella camera. Si avvicinò al letto e si sedette accanto a me. Dalla sua bocca uscirono parole che non ricordavo, o che semplicemente non avevo compreso sin dal principio; tuttavia, rimasi attenta all'ascolto fino alla fine, fino a quando non mi rivolse un lieve sorriso che non vedevo sul suo volto da settimane, forse mesi. Lo sentii abbracciarmi, percepii il suo calore e anche dopo il mio risveglio avvertii a lungo quella bella sensazione. Feci per portare una mano tra i suoi corti capelli castano chiari, ma non appena le dita entrarono in contatto con i primi piccoli ciuffi, tutto svanì. Aprii gli occhi.
Abbassai lo sguardo, ancora frastornata dal sonno e intontina da quello stranissimo sogno. Le pupille incontrarono il morbido e leggero lenzuolo, che scostai non appena riacquistai il controllo delle braccia. Tentai di mettermi seduta; non immaginavo che avrei fatto tanta fatica. Il mio corpo era ancora estremamente pesante, come se non fosse più di mia proprietà.
Sospirai. Cos'era successo? Cosa aveva fatto Takuya? Quanto tempo era passato da quando mi ero addormentata, o meglio, da quando ero svenuta?
Lo sguardo si spostò dapprima al pavimento chiaro della stanza, per poi posarsi sulla sedia davanti alla scrivania. Notai solo allora che la mia borsa era stata appesa al suo bracciolo, e che il telefono era stato appoggiato sulla superficie in legno.
Mi misi seduta, barcollando e facendomi forza sulle braccia. Riuscii ad alzarmi solo dopo qualche minuto di sforzi inutili, raggiunsi la scrivania a passi lenti e pesanti ed afferrai il cellulare.
La prima cosa che feci fu controllare l'orario, per constatare quanto avessi dormito: relativamente poco, un paio d'ore. Nella mia mente comparvero in un baleno le immagini di Lizzy e Denki, che probabilmente non si erano fatti vivi, aspettavano ancora sotto casa mia o, peggio, erano entrati per cercarmi.
Mi diressi verso la porta della camera, aprendola quel tanto che bastò per farmi dare una rapida occhiata all'esterno. La mia camera dava su un piccolo corridoio, e si trovava in una posizione da cui si poteva vedere senza problemi parte della sala, o perlomeno il grande divano contro la parete. Era lì che solitamente io e i due gemelli elettrici rimanevamo quando faceva caldo, o ero troppo malata per uscire. Con mio grande sollievo però, era vuoto; e fui ancora più sollevata quando mi resi conto di non sentire le loro voci per la casa.
Decisi di uscire: volevo far sapere a mamma e papà che stavo bene, e soprattutto avevo mille domande da porre a Takuya a cui non avrei di certo trovato risposta standomene in panciolle sul letto.
Aprii un poco di più la porta.
«Ho accompagnato Elizabeth e Denki a casa, si sta facendo tardi...».
«Io ho appena chiamato la polizia, ci aiuteranno loro».
«La scuola?».
«Non ha saputo dirmi nulla».
«N-Nemmeno loro...».
«Dove può essere finito?! Eppure era qui fino ad una ventina di minuti fa! Non può essere andato lontano!».
«La finestra... La finestra era aperta...».
«Hai detto che ha portato via tutto?».
«Ogni cosa... La sua camera è... completamente vuota...».
«Non ha lasciato nulla che potrebbe aiutarci a capire dove sia? Neanche un biglietto?!».
«Caro, dovremmo...».
«Io vado a cercarlo».
«Ma dovremmo rimanere qui e aspettare la polizia..!».
«Al diavolo la polizia!! Mio figlio è scomparso, potrebbe essere andato chissà dove e noi dovremmo rimanere qui ad aspettare loro?! Tu sta' qui e tieni d'occhio Nanako, a Takuya penso io per ora».
Mi sentivo paralizzata, per la seconda volta quel giorno. La mano scivolò via dalla maniglia della porta, ricadendo come senza vita lungo il fianco. Sentivo la gola secca, gli occhi erano fissi sulla parete del corridoio. Deglutii, muovendo senza quasi nemmeno accorgermene un passo avanti a me e voltandomi verso i miei genitori; questi ultimi fecero altrettanto, mentre sui loro visi appariva un'espressione di amara sorpresa e rassegnazione.
«Nanako...», fece mio padre.
«Dov'è... Dov'è Takuya..?», chiesi. La voce risultò roca, traballante, e la gola mi bruciava.
«Nanako-chan..!», esclamò mia madre.
Tutto ciò che vidi prima che i miei occhi si riempirono di lacrime fu mio padre che si avvicinava a me; sentii il calore del suo abbraccio, paragonabile a quello che avevo percepito nel sonno. Iniziai a singhiozzare copiosamente, senza tener minimamente conto delle parole di conforto che mamma e papà mi rivolsero per tentare di calmarmi.
La me dodicenne non riusciva a capire cosa stesse accadendo. Mi dissi che l'unicità di Takuya doveva essere quella di far sentire male le persone. Dopotutto, era successo ben due volte in una sola giornata...

   
 
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