Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Relie Diadamat    25/08/2017    1 recensioni
A scuola, da poche settimane, è arrivato un nuovo ragazzo. Schivo e saccente, nessuno sembra sapere nulla di lui o intenzionato a conoscerlo. Quando la sua strada e quella di John Watson - un giovane diciottenne che sogna un futuro in medicina, preoccupato per sua sorella e la precaria situazione economica in cui riversa la sua famiglia - si intrecciano, il passato di Sherlock torna lentamente a galla.
Ma ben presto, i fantasmi di Sherlock non saranno l'unico problema da affrontare: i sentimenti diventeranno un effetto collaterale incontrollabile.
*
«C’era un ragazzo, un certo Victor, da cui Sherlock era ossessionato. Sembrava l’unico in grado di sopportarlo, peccato che nessuno l’abbia mai visto.»
«Cosa intende dire?»
«Sherlock Holmes è uno psicopatico che ama sentire roba forte nelle vene.» Sally compresse le labbra mascherando un lieve sorriso, come se non avesse aspettato altro da quando si erano incontrati. «Semmai questo Victor fosse davvero esistito, l’unico responsabile della sua scomparsa sarebbe solo Sherlock».
John sentiva la gola secca, il pugno stretto sulla coscia e nascosto dal tavolo. «Così lo fa sembrare un mostro».
«Dammi retta, John. Stagli alla larga».

[Teen!lock // Johnlock]
[Storia liberamente ispirata al romanzo "Il mio cuore cattivo"]
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nda: Buon salve a tutti!!
Finalmente aggiorno questa storia. Felicità-time!
Sono passati mesi dalla pubblicazione dell'ultimo capitolo e di questo mi dispiace tantissimo ma... capitemi, la maturità è stata traumatica. 
Il bello è stato che, leggendo un altro romanzo di Dorn, mi sono accorta che le due storie viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda. Divertente, dato che volevo ispirarmi ad un altro suo romanzo.
Per il resto, voglio solo dirvi che alcuni posti da me nominati sono completamente inventati di santa pianta - così evito di scrivere cavolate su posti che non ho mai visitato in tutta la mia vita. In alcune parti il linguaggio potrà sembrarvi un po' "colorito", ma l'ho ritenuto necessario.
Inoltre, questo capitolo è leggermente più lungo del precedente. Spero non sia un problema.
Ringrazio tutte le belle persone che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/preferite, coloro che leggono in silenzio e gli utenti che mi hanno lasciato per iscritto il loro parere. (Scusatemi se non ho ancora risposto alle vostre recensioni, lo farò il prima possibile!)
Detto questo, vi lascio al terzo capitolo. 
Buona, spero, lettura!
 
III. Lost and insecure, you found me
(just a little late)
 


All’età di dodici anni c’era uno sketch di una nota serie tv americana, in grado di farlo ridere sino alle lacrime, che aveva fatto il giro del mondo. Il protagonista della scenetta comica era un quarantenne di Brooklyn che – nell’arco di una sola giornata – era riuscito a perdere la donna della sua vita, il suo posto di lavoro e l’ananas comprata al supermercato la mattina stessa. L’uomo cadde vittima dell’alcolismo, piccola caratteristica tragi-comica che l’avrebbe reso famoso sul piccolo schermo. In quella scena in particolare aveva bevuto così tanto da non riconoscere neppure il palmo della propria mano, e una volta ciondolato fino al garage dove aveva affidato la sua auto ad un parcheggiatore, aveva urlato al ladro, puntando minaccioso verso il povero guardamacchine. Il tutto si risolse con la caduta rovinosa dell’uomo sul cofano del veicolo.
Ricordò di essersi fatto delle grasse risate, John, di aver rivisto il video più e più volte, raccontandolo a chiunque l’avesse ascoltato fino alla nausea. Ma adesso che, appena varcata la soglia di casa, la sua scarpa si era scontrata con la lattina vuota di birra dimenticata sul pavimento, il ricordo di quella gag non lo fece sorridere neanche un po’. Al contrario, avvertì lo stomaco indurirsi come cemento armato e l’impulso di serrare la mano destra in un pugno.  
Per un momento fu tentato nel girare sui tacchi e uscire di casa così come ci era entrato, ma poi deglutì in silenzio il boccone amaro della rassegnazione sollevando la lattina vuota dal linoleum in legno per poggiarla sul comò, accanto ad una vecchia foto di famiglia. Sembrava passata un’eternità dal sorriso genuino di Harry e il volto sereno di Mr. Watson  immortalati in una cornice graziosa.
La dipendenza dall’alcool di cui sua sorella era caduta vittima, lo preoccupava non meno della situazione in cui riversava suo padre. Era cambiato tutto. In un attimo, senza il minimo preavviso. Era stato come vedersi sommergere dalla lava di un vulcano in eruzione da un giorno all’altro, senza scosse di avvertimento, senza terremoti di monito; come se un palazzo fosse crollato nel bel mezzo della notte, nel bel mezzo del sonno, con un unico rumore sordo.
Era cambiato tutto e, per quanto John si sforzasse di essere forte e stringere i denti, nulla sarebbe più tornato come prima. Nulla.
Adesso c’era spazio solo per il “dopo”, per i resti, per i cocci. C’era spazio solo per una sorella che ingoiava sorsi di insoddisfazione, per un padre distrutto dai propri sbagli, una madre che aveva perso il proprio baricentro e un ragazzo di diciotto anni perso ed insicuro, che per rispondere ai pugni ben assestati che la vita gli rifilava aveva bisogno di correre per le strade di Londra prima che il sole sorgesse, portando fiori freschi una volta a settimana in un cimitero con l’erba alta.
S’incamminò dove  immaginava di trovarla, prendendo mentalmente un bel respiro per prepararsi alla scena che era certo di vedere. Un po’ come quando ritorni nel luogo dov’era stato appiccato un incendio: sai già cosa troverai, sai già cosa incontreranno i tuoi occhi, ma devi comunque stringere forte i denti e farti coraggio. Perché immaginare qualcosa è diverso dal viverla sulla propria pelle.
Ed Harriet era diventato tutto questo: cenere al suolo.
Per questa ragione non si sorprese quando, entrando in cucina, rivide sua sorella seduta tutta sola al piccolo tavolo bianco rettangolare, un bicchiere pieno fino all’orlo di birra. Ancora prima che sollevasse il viso, John poté notare distintamente le occhiaie mal camuffate dal fondotinta e il colore opaco delle sue labbra sottili. Ma come diamine ci erano arrivati a quel punto?
«Se n’è andato».
La voce di Harriet non era spezzata, triste o venata da un incontrollabile dolore interiore. Harriet aveva pronunciato quelle parole distrattamente, come si pronunciano frasi del tipo “manca il latte” o ancora “la mia penna non scrive più”. La voce di Harriet era atona quando i suoi occhi freddi e spenti avevano incontrato quelli bluastri ed esausti di John.
Il ragazzo aveva lasciato perdere lo sguardo di muto rimprovero indirizzato alla sorella e aveva aggrottato le sopracciglia. «Chi?», le chiese solamente.
«Sai benissimo di chi parlo», gli aveva risposto abbassando gli occhi sul bicchiere di vetro. «Lui. Lui se n’è andato. Ha portato via la sua roba ed è uscito».
No, non è vero.
John deglutì in silenzio, lo stomaco improvvisamente di cemento. Il modo in cui Harry continuava a giocherellare col bicchiere, invece, non tradiva alcuna emozione. Come se non fosse successo niente.
I rapporti tra Harriet e Johnathan Watson si erano incrinati talmente tanto fino ad appallottolarsi come un pezzo di carta: Johnathan si disinteressava alle sue giornate ed Harriet lo ripagava con occhiate truci; Johnathan si preoccupava – a suo modo – per le scelte compiute da Harry e lei rigettava il suo finto interesse. Era diventata una partita a ping pong che nessuno dei due era realmente interessato a giocare; l’importante non era neanche vincere, l’importante era non permettere un’ invasione di campo.
Harry non pronunciava nemmeno più il suo nome, come se il solo provarci le desse disgusto. Persino quel “lui” biascicato tra i denti come un sibilo le dava il voltastomaco. John non avrebbe mai compreso sua sorella, non ci sarebbe mai più riuscito. Adesso restava con gli occhi fissi sulla birra aspettando solo che lui muovesse qualche passo, che se ne andasse via – come loro padre.
«Non dici sul serio.» John scosse appena il capo, come se già sapesse la risposta. Non è uno scherzo, John. È tutto vero. Controlla tu stesso.
Harry alzò le spalle con noncuranza, trasformando in parole tangibili i suoi pensieri: «Controlla tu stesso».
Non avrebbe bevuto in sua presenza, ma moriva dalla voglia di farlo. Glielo leggeva dalle dita tremanti e le pieghe involontarie che la bocca assumeva.
Eppure John si mosse lo stesso. Raggiunse a grandi falcate la stanza di Mr e Mrs Watson ed ebbe subito come l’impressione che mancasse qualcosa, ed era così: l’orologio da tavolo, accanto all’abat jour, non c’era più; gli occhiali da lettura, quelli che suo padre lasciava sempre nelle vicinanze della sveglia, erano spariti, così come l’ultimo pacchetto di sigarette. Molte altre cose erano rimaste, come le foto di famiglia adagiate sul comò bianco o la boccetta di profumo che Annie gli aveva regalato lo scorso compleanno, ma un uomo in fuga non se ne fa niente di quelle cose. 
Non può essere vero.
E perché non potrebbe, John?
Perché non deve.
Con uno scatto deciso aprì le ante del grosso armadio. Il vuoto tra le camicie e i pantaloni lo accolse come un pugno secco nello stomaco. Harry gli aveva detto la verità.
Deglutì a stento, tornando a capo basso in cucina. L’occhio gli cadde irrimediabilmente sul bicchiere che sua sorella reggeva tra le mani tremanti, ormai mezzo vuoto. Un moto di rabbia si impossessò del suo corpo, gli ribollì nelle vene fino a tramutarsi in parole: «Penso che tu debba smetterla», sputò fuori a denti stretti, indicandole col mento il liquido quasi terminato.
«Non m’interessa ciò che pensi».
Strinse i denti, i pugni, reprimendo il bisogno isterico di frantumare qualcosa in mille pezzi. «Se continui con questo atteggiamento, le persone si stancheranno di aiutarti».
Gli occhi. Gli occhi di Harry erano spenti e irruenti, fiammeggianti e liquidi. Forse lo stavano solo implorando, forse gli stavano comunicando qualcosa che sua sorella non avrebbe mai espresso verbalmente. Ma erano secoli, ormai, che John non riusciva più a leggere quei messaggi invisibili in quel blu estraneo. Quel blu che sentiva di non conoscere più.  Quel blu che si era posato su di lui come una spada di Damocle oscillante. «Non ho bisogno dell’aiuto di nessuno».
«Sì, dannazione!» esclamò, incapace di controllare il tono della propria voce. «Guarda cosa stai diventando! Non è scappando che si risolvono i problemi, qualche litro in più di alcool nel corpo non ti servirà a niente se non a farti collassare il fegato!»
«E sei tu a dire una cosa simile a me?!» Harry si era alzata di scatto facendo stridere la sedia sul pavimento, fronteggiandolo dall’altro capo del tavolo. «Tu non scappi John?»
Era pronto ad aprire la bocca per quietarla.
No, Harry. Mi prendo le mie responsabilità.
Studio.
Cerco un lavoro.
Provo ad andare avanti.
Ma Harry glielo impedì. Pronunciò un solo nome, un nome in grado di raggelargli il sangue nelle vene. «E Mary? Da lei non scappi? Tutte le ragazze che hai frequentato dopo di lei, Christine e Sarah, cosa sono?»
John restò zitto, fermo, congelato. Udire quel nome era come incassare cento goal in un solo secondo, inciampare durante una maratona e atterrare col naso sull’asfalto. Quel nome era un virus penetrato nel suo organismo, la sua infezione latente. Ma costante.
«No.» John serrò la mascella, due pugni stretti lungo i fianchi. «Non mi va di parlare di questo».
«Ti stai nascondendo, John.»
«Harry».
«Ti nascondi in relazioni vuote, insensate, fingendo di provare qualcosa che non senti da tempo. Passi la maggior parte delle tue giornate evitando le ragazze che dici di amare, costringendoti da solo a mandare avanti rapporti che non fanno altro che soffocarti, e tutto per i sensi di colpa che provi nei confronti di Mary. Quindi no, non sono io ad aver bisogno di aiuto!»
«Ho detto basta!»
Il frigorifero traballò come gelatina al colpo secco di John, le nocche impresse contro la superficie lucida dell’elettrodomestico. Harry fissò ad occhi sbarrati il viso contratto dall’ira del fratello, ammutolita.
John ne aveva abbastanza. In modo o nell’altro era il colpevole; qualunque cosa facesse, ogni volta che muoveva un muscolo, commetteva un errore. Harriet è un’alcolizzata, ma questo perché tu non sai prenderla per il verso giusto; tuo padre è andato via di casa, John, devi rimboccarti le maniche!; santo cielo, John, tua madre non ne uscirà viva. Devi studiare John. La matematica, John. È importante la matematica, non importa che tu non la capisca. Vuoi diventare un medico, John? Pensa a cosa hai fatto a Mary.
Mary.
Sempre lei, sempre presente. Un’infezione perenne, quotidiana, da tenere sotto controllo. Si era diffusa in tutto il corpo arrivando ai polmoni, al cuore e al cervello. Pensare a quel nome gli faceva venire la nausea.
È tutta colpa tua.
Tenne lo sguardo basso sulle mattonelle della cucina senza vederle sul serio, il mento a sfiorare la maglietta a righe bianche e grigie. Le dita erano ancora piegate sul palmo della mano, le nocche impallidite. Restare in quella casa era impossibile: puzzava di birra, abbandono e risentimento. Puzzava di sangue.
John non aveva tempo per quelle cose. John doveva studiare, doveva rendersi utile. Attraversò il corridoio senza pronunciare neanche una sillaba, afferrando in fretta lo zaino che aveva lasciato accanto al portaombrelli.  Quando il bicchiere si schiantò contro la porta, John era già andato via. Sentì il vetro frantumarsi in mille pezzi mentre scendeva velocemente le scale, due gradini alla volta.
Harriet era rimasta da sola in una casa che detestava.
Consumò la rabbia in silenzio, osservando la pozza fetida di birra che si allargava sul pavimento tra i cocci del bicchiere. Nel lanciarlo, Harriet si era bagnata parte della manica e dei pantaloni.
Non c’era nessuno.
Si inginocchiò sul pavimento, lasciando  che i suoi jeans si colorassero di alcool. Allungò una mano verso un pezzo di vetro rigirandoselo nel palmo. Lo avvicinò al polso, sfiorandosi la pelle. Se fosse stato magico gli avrebbe chiesto di mostrarle il futuro, ma nel mondo reale non c’è spazio per la magia, per il lieto fine e tutte le altre cazzate. Quello era solo un pezzo del vetro di un bicchiere che aveva scagliato contro un John immaginario.
Non avrebbe mai potuto mostrarle il futuro, altrimenti Harry avrebbe visto. Avrebbe visto dei capelli biondi confondersi col rosso del sangue, la lama affilata di un coltello e ancora sangue. Sangue ovunque.
 
**


Varcò la soglia della libreria tenendo la mano sinistra infilata nel cappotto scuro, stringendo tra le dita l’elastico per capelli che aveva recuperato nel bosco. Fosse stato un altro giorno, magari avrebbe roteato gli occhi al cielo nell’udire il suono melenso del campanellino fissato sulla porta d’ingresso, ma quella volta Sherlock fece un’eccezione.
Nella sua testa riecheggiava il suono di una risata fastidiosa, poi una frase: “Smettila di curiosare, Sherlock. Non far arrabbiare paparino. Non c’è nessun orologio manomesso in mezzo alla neve.”
Aveva rimuginato su quelle parole per tutto il tempo delle lezioni. All’inizio sembravano non aver alcun senso, ma Sherlock sapeva benissimo che quella era un’opzione da escludere: lui amava giocare anche se gli consigliava di smettere. Lui cercava di stuzzicarlo. Lui aveva ammesso la sua colpevolezza.
Era un gioco tra loro due. Tra Sherlock e il responsabile di quanto era successo, qualcuno che lo aveva notato e si nascondeva dietro messaggi e telefonate da un numero sconosciuto. Lo scopo era svelare l’enigma, osservare e dedurre nell’ovvio, scoprire il volto della persona che si nascondeva dietro la firma“M.”.
Il piccolo paesino nello Yorkshire era costituito da un gruppo di sessantasette case distribuite per la città; le poche ville si trovavano al delimitare del bosco mentre larghe campagne dividevano le abitazioni solitarie e un piccolo cottage. Nessuna di esse sorgeva nei pressi della baita e tutte erano distanti dal lago.
In città era difficile incontrare un volto sconosciuto. Tutta gente monotona e noiosa, si ripeteva tediato Sherlock.
Ma non per questo scovare un criminale era semplice come bere un bicchier d’acqua.
No, il problema non era il posto. Era il suo avversario ad essere un abile giocatore. Ma quello non era più un gioco. Non per Sherlock.
«Sherlock! È un vero piacere vederti da queste parti. Sono arrivati i nuovi saggi sulle fibre tessili.» lo accolse Angelo col suo sorriso migliore, adagiato con le braccia sul bancone, per poi schiarirsi la voce e tamburellare i pollici sul legno.  «Ho saputo che le ricerche sono ancora ad un punto morto».
Angelo, cinquantenne di origini italiane, si era trasferito in quel paesino sperduto dello Yorkshire per ripulirsi la coscienza con l’aria tranquilla di campagna, calzando perfettamente lo stereotipo ex criminale in cerca di redenzione.
La sua fedina penale era senza dubbio più limpida delle acque  del Tamigi considerati i sette passati in galera, ma tutto questo rendeva Angelo un tipo abbastanza stimolante agli occhi di Sherlock. Anche se riusciva a leggere la solitudine tra le pieghe della sua camicia a quadri e il suo passato da scassinatore dalle dita tozze, come un libro aperto, Sherlock non sdegnava  più di tanto quel libraio di mezz’età – lasciando correre quello stupido campanellino.
Angelo era sicuramente meglio dell’istruttrice di danza pettegola, di quel pomposo e irritante Anderson e della giovane e acida giornalista Donovan: l’uomo si teneva lontano dalle malelingue e per Sherlock era un bene. Di solito non gliene importava niente dei pettegolezzi scambiati sorseggiando del pessimo caffè, ma quella volta era diverso. Quella volta le voci di corridoio lo toccavano da vicino.
A Sherlock non importava niente di ciò che la gente pensasse o facesse, ma gli pesava la consapevolezza dell’ignoto. Del non sapere. Del brancolare nel buio insieme alla polizia.
Per questo non offrì una vera e propria risposta ad Angelo, ma all’uomo sembrò bastare il sorrisetto palesemente forzato del ragazzo. «Prendi pure ciò che vuoi», gli ricordò il libraio, e la conversazione terminò lì.
Tutta l’attenzione di Sherlock era focalizzata sull’ultimo messaggio di M. “Non c’è nessun orologio manomesso nella neve.” Accompagnato da un piccolo bonus di incoraggiamento. “Cercare oppure aspettare il tempo giusto? Giallo o rosso? Troverai mai, Holmes, la nostra segreta chiave?”
Sherlock aveva fissato lo schermo del cellulare per diversi minuti, ignorando la lezione di astronomia che ormai era diventata solo un sottofondo, cogliendo l’indizio molte ore prima della campanella di fine lezioni.
Un codice. Una parola ogni tre. Era un gioco che era solito fare con Mycroft.
Dunque, l’indizio di M. era: “Cercare il giallo. Troverai la chiave.”
Lo scaffale dei polizieschi ricordava più che altro un altarino in memoria dei classici gialli. Sherlock impiegò tredici secondi per dedurre, dall’altezza della polvere, che La saggezza di Padre Brown era stata ignorata dal resto degli avventori da circa un mese a dispetto de Le bouchoun de Cristal il cui ultimo acquisto doveva essere avvenuto due giorni addietro.
Ma c’è davvero gente che legge questa roba?!
I libri erano disposti in ordine cromatico – Angelo… sul serio?! – e trovare due romanzi dello stesso autore vicini era un’impresa più unica che rara. Un po’ come immaginare Mycroft seguire correttamente una dieta.
Nella sua mente, piegò le labbra in un mezzo ghigno di compiacimento.
I suoi occhi ricaddero su un volume solitario, poggiato tra un romanzo di Donald Bain e un bestseller psico-thriller come un ponte che unisce due generi letterari apparentemente simili, ma diametralmente opposti.
«Non c’è nessun orologio manomesso nella neve» fece eco ai suoi pensieri che pian piano collimarono con le sue illazioni. «Assassinio sull’Orient Express».
Il libro non presentava tracce di polvere molto accentuate, come se fosse stato riposto in quella posizione da meno di sei ore. Come se lo stesso aspettando.
«Vede, mio caro dottore, io non sono uno che si fida della solita procedura. Io cerco la psicologia, non le impronte digitali e la cenere delle sigarette».
Lo riconobbe in un battito di ciglia. Non gli servì nemmeno voltarsi e incontrare quegli occhi invadenti in netto contrasto col rosso dei suoi capelli. Victor Trevor era stato già scannerizzato e salvato nel suo hard disk. Tuttavia, faticò ad ammettere a se stesso di aver trattenuto un sorriso. «Pensavo preferissi le storie di pirati».
«Sì, infatti», concesse, «ma diventa estremamente difficile non memorizzare i libri che qualcuno leggeva ad alta voce dalla mattina alla sera. Almeno due volte al mese».
«Oh, sono impressionato».
«Ne hai tutto il diritto. Potrei recitarti Dieci piccoli indiani in due lingue diverse, dall’inizio alla fine».
«Fossi in te non mi vanterei di avere tanta spazzatura nel cervello. Lì potrebbe esserci ciò che ti è utile per davvero. È uno spreco immenso riempirlo con romanzetti banali e imbarazzanti».
Victor si lasciò andare ad una lieve risatina. Probabilmente lo avrebbe mandato a quel paese nei prossimi minuti – come tutti, del resto – e a Sherlock non sarebbe importato.
A lui non importava mai.
Gli dava ancora le spalle, il libro ormai tra le mani, quando Victor gli disse: «La tua incoerenza mi diverte. Nel senso positivo del termine, s’intende».
«Incoerenza?» ripeté Sherlock, voltandosi a guardarlo con uno sguardo truce.
Victor Trevor non si era scomposto di una virgola: le sue labbra sottili erano incurvate in un sorriso privo di sarcasmo, scherno o malizia; arrotolato attorno alla mano destra il guinzaglio nero, la sinistra lasciata lungo i fianchi; all’altezza della coscia una macchia d’olio e qualche pelo ramato.
«Gironzoli per il bosco con un libro di Shakespeare, ma affermi che non lo stavi leggendo. Ti ritrovo in una libreria incantato davanti a un romanzo della Christie – che per la precisione adesso si trova nelle tue mani – mentre ti eleggi nemico giurato dei gialli.» Scrollò le spalle, negli occhi la convinzione di averlo inchiodato con le spalle al muro. «O sono io a destabilizzarti, oppure c’è qualcosa che mi sfugge».
«Il problema, Trevor, è che tu guardi ma non osservi».
Victor piegò lievemente il capo di lato, aggrottando le sopracciglia con fare confuso.
Fu Sherlock a sorridere, questa volta. «Se mi limitassi a guardarti non farei altro che vedere un ragazzo che indossa un giubbotto troppo largo per la sua corporatura e un paio di pantaloni grigi. Se invece ti osservassi – esattamente come osservo questi libri – noterei che hai di nuovo offerto il pranzo al tuo cane – pollo fritto, presumibilmente – e questo lo capirei dalla macchia che ti sei procurato all’altezza della coscia e dai peli che ti porti addosso. Non sembri un tipo sciatto a giudicare dal modo in cui curi i capelli e dal costante profumo di deodorante che ti porti appresso, dunque o non ti sei accorto di quella piccola macchiolina o avevi troppa fretta per cambiarti. Un litigio giustificherebbe la fretta, la fretta giustificherebbe il fatto che adesso indossi il giubbotto di tuo padre. (Motivo che mi farebbe pensare ad un piccolo diverbio).
Ma se così non fosse, dove potrebbe mai dirigersi con tutta questa urgenza un ragazzo che non è del posto in una città così piccola e perché non ha scelto di utilizzare il motorino? Perché il ragazzo non doveva raggiungere nessun luogo, ma aspettare qualcuno. Non sei sudato, non hai corso e poi c’è il cane. Perché andarsene a spasso con un cane se l’intento è quello di lasciarlo fuori dal negozio: può entrare, non c’è nessun divieto di sorta, eppure eccoti qui con un guinzaglio arrotolato intorno alla mano destra. Perché lasciare un cane fuori dal negozio? Forse perché temi che la persona che stavi aspettando non gradisse la sua presenza: lo sconosciuto a cui ha morso la caviglia, per esempio.  Lo stesso sconosciuto che al momento del vostro primo incontro indossava una divisa di una scuola privata che dista circa un’ora da qui. Qui accanto c’è la fermata più vicina al centro della città e forse è questo il motivo per cui ci troviamo qui, io e te, in libreria, alle 16 e 47. Dunque, se il tuo desiderio di vedermi è legato alla voglia di comprendere le mie scelte letterarie dell’ultimo giorno, sappi che non leggo quella roba. Io la osservo. Se invece... sei qui spinto dai sensi di colpa, non ce n’è motivo. Per cui puoi anche far entrare il tuo cane prima che morda la caviglia di qualcun altro. »
Sherlock parlò così in fretta che le parole sembrarono incollate tra loro, senza la minima pausa scandita da una normale respirazione. Sul volto di Victor si dipinsero espressioni che variarono dallo smarrimento all’incredulità, ma mai – mai! – Sherlock si sarebbe aspettato ciò che il giovane Trevor fece un attimo dopo che il monologo terminasse. «Dovresti smetterla», decretò.
Sherlock deglutì in silenzio.
Smettila di curiosare, Sherlock.
«Dovresti smetterla di osservare a vuoto e farne qualcosa di più. Ma soprattutto dovresti smetterla con tutti questi pregiudizi nei confronti di Redbeard. Ci è rimasto male anche lui, sai? Ho dovuto offrirgli il mio pranzo per mettere fine al suo digiuno. Dovresti dargli un’altra possibilità. Sa farsi amare, quando vuole».
Un abbaio.
Redbeard scodinzolò a quattro zampe dietro il vetro della porta d’ingresso, come ad acconsentire alle parole del padrone.
«Vedi», Victor lo indicò con un gesto della mano, «è d’accordo con me».
A quelle parole, la bocca del giovane Holmes si arricciò imbarazzata e impreparata al complimento appena ricevuto, e Sherlock poté fare nulla per impedirlo.
 
**


John si era sempre chiesto come riuscissero certe persone a leggere in autobus.
Quel lieve traballare, il chiacchiericcio della gente, gli occhi degli altri puntati sulla schiena… John reputava insostenibile situazioni di quel genere. Una volta salito in autobus, di solito, si concentrava sullo spettacolo che i finestrini avevano da offrirgli, ma forse gli appunti di matematica sarebbero rimasti astrusi anche nell’assoluto silenzio di una biblioteca.
John odiava i numeri, odiava i problemi e tutti i sistemi cartesiani di questo mondo.  Ma non poteva permettersi di odiarla se voleva comprenderla. E doveva comprenderla.
Un tuono.
John spostò lo sguardo dal libro che teneva in equilibrio sulle gambe al finestrino. Londra era cupa sotto quel cielo plumbeo imbronciato; una donna sbucò dal portone di un palazzo tutta incappottata, reggendo tra le mani un ombrello giallo. John rimpianse di non averne uno con sé.
«Segua la stessa strada che ha percorso per arrivare fin qui».
Le iridi cerulee del diciottenne cercarono la fonte della voce appena udita, trovandola seduta qualche sedile avanti con un libro aperto tra le mani. Da quell’angolazione riusciva a cogliere solo il profilo niveo della ragazza, una cascata di capelli color limone  e la lana nera del basco a coprirle una piccola parte della fronte spaziosa; le labbra scarlatte che sussurravano avide le parole che i famelici occhi chiari divoravano.
Per un attimo gli sembrò che il tempo si fosse congelato e che il resto del mondo avesse smesso di girare. Per un attimo sparì il gel colorato sulle unghie curate della ragazza, i capelli si accorciarono fino alle spalle formando boccoli perfetti e la copertina flessibile del romanzo di Emily Brontë divenne spessa e decorata con ghirigori floreali azzurri.
Gli sembrò di rivedere una vecchia pellicola senza audio, una scena di un film a rallentatore.
E Mary?
Da lei non scappi?
Bastò che l’autobus rallentasse e che le prime gocce di pioggia cadessero violentemente sul tettuccio del veicolo per far evaporare quell’immagine.
Spese parte del suo pomeriggio imbottigliato nel traffico senza una meta precisa, gli integrali che tremavano sulle pagine bianche. Piovve per tutto il tempo, anche quando il bus sostò alla stazione.
C’era un silenzio surreale nel mezzo di trasporto. L’unico rumore che si udiva era il picchiettare della pioggia sul tetto della stazione e i passi affrettati di qualche passeggero che si apprestava a salire sul veicolo in partenza.
Il bus dov’era seduto John era il penultimo di una lunga fila. Quasi nessuno sembrava notarlo, ben nascosto dai fari spenti. Scoccò un’occhiata all’orologio da polso. Erano soltanto le sette di sera anche se con quel tempaccio sembrava notte inoltrata.
Immaginò sua madre rincasare distrutta dal lavoro, i piedi gonfi e la testa pesante, mentre accendeva per abitudine le luci del corridoio e della cucina riscoprendosi sola. La immaginò chiamarlo per nome e cercare Harriet senza alcuna speranza di trovarla in casa, sciacquarsi la faccia, bere un bicchiere d’acqua e accorgersi che mancava dell’altro. Se la figurò senza alcun difficoltà con gli occhi increduli sbarrati dinanzi al vuoto nell’armadio per poi raggiungere con un nodo alla gola tutti gli angoli della casa per verificare la mancanza di una qualsiasi cosa che potesse confermare l’abbandono di suo marito. La immaginò sola, smarrita e con le gote rigate dalle lacrime, più stanca di quanto non lo fosse mai stata.
Le mani gli pizzicarono al sol pensiero. John era incazzato nero. Con suo padre, con Harry, con se stesso e con Mary.
Era incazzato con la sua inutilità, la sua impotenza e le sue scarsissime capacità matematiche. Cazzo, lui odiava la matematica, non c’era niente da fare. Non l’avrebbe mai capita!
«Ti ho detto di sparire, mi hai sentito?»
«Fortunatamente per entrambi ti ho sentito, sfortunatamente per te non hai ancora risposto alla mia domanda.»
«Ti ho detto di sparire!»
Un tonfo sordo attirò l’attenzione di John, facendogli dimenticare completamente i suoi problemi. Quasi non credé  alle sue pupille quando affacciandosi al finestrino intravide il volto pallido del ragazzo rischiarato dalla poca luce che giungeva in quella direzione. Era bagnato fradicio, i ricci appiccicati sulla fronte, le spalle contro la fiancata rossa dell’ultimo autobus della fila.
John riconobbe quegli occhi di ghiaccio in un attimo. Era il pazzo. Era Sherlock Holmes.
Non lo aveva mai incontrato fuori dal contesto scolastico e adesso che un tizio allampanato era piegato minacciosamente verso di lui mostrandogli un coltellino, John ebbe come l’impressione di aver incrociato la sua strada per la prima volta.
Non fu chiaro cosa lo spinse a scattare giù dal veicolo, abbandonando i suoi libri su un sedile asciutto e confortante, dirigendosi a passo svelto verso la schiena dello sconosciuto, afferrandolo per il cappuccio; ad ogni modo, quel tizio era talmente fatto che a John bastò un pugno ben assestato sul naso per farlo piagnucolare con le mani sporche di sangue, e metterlo in fuga come una gazzella inseguita da un leone. La lama del coltellino tintinnò sull’asfalto accompagnata dal rumore dei passi dell’uomo in fuga.
John non avvertì neppure il dolore alla mano per il colpo inferto: si sentiva più leggero, svuotato di un peso enorme, come se non avesse desiderato altro per tutto il giorno.
«Ma che cosa hai fatto?!»
Il biondo si stava ancora godendo il suo attimo di gloria – per fortuna nessuno sembrava aver notato quella piccola scaramuccia – quando la voce accigliata di Holmes gli arrivò alle orecchie. Quello lo trafisse con uno sguardo a metà tra l’indispettito e l’iracondo, allargando le braccia con melodrammaticità.
John non riusciva a comprendere quel gesto. «Come?»
«Cosa ti è saltato in testa! Hai la minima idea di quanto tempo abbia speso per rintracciarlo?!»
«Quel tizio era armato!» ribatté piccato John, infastidito dal comportamento insensato di quel ragazzo.
«Sapevo difendermi. Era tutto sotto controllo».
John, paralizzato dall’incredulità, boccheggiò alla ricerca di una risposta sensata senza alterarsi. Fallendo miserabilmente nel suo intento. «… Sotto controllo, certo. Sai, penso che tu mi dovresti un “grazie”».
«Oh, ovviamente. Dovrei esserti eternamente grato per aver messo in fuga la persona che avevo intenzione di interrogare. Peccato che non avessi portato con te una pistola, allora sì che avresti fatto faville!» Holmes snocciolava il suo disappunto come un mixer azionato alla massima velocità, e, se da un’altra prospettiva quella scena poteva sembrare comica, John provò lo stesso fastidio di chi si ritrova circondato da uno sciame di mosche. «Ti sono immensamente riconoscente per aver sfogato la tua rabbia repressa su un perfetto sconosciuto, sono sicuro che la recente lite avuta con tua sorella abbia giocato un brutto tiro ai tuoi nervi saldi».
«Interrogarlo?» gli fece eco, come se avesse detto la più grande assurdità  del mondo. Registrò solo in un secondo momento le ultime illazioni, ritrovandosi a deglutire a bocca asciutta. «Come diamine fai a sapere…»
Sherlock sembrò riprendere momentaneamente la calma. Abbassò il tono della voce, compresse le labbra e prese un lungo respiro. «Dai tuoi vestiti. Sono gli stessi che indossavi questa mattina a scuola. Solo un imprevisto come una lite potrebbe giustificare la mancata doccia e la fuga da casa. Le abitudini alcoliche di tua sorella potrebbero essere un ottimo movente, ma c’è di più. Si tratta di tuo padre. Di quello che fatto e di cui ti senti responsabile».
«Come dia…»
«Non sei andato al cimitero.» Lo anticipò Holmes. «Ti rechi lì ogni settimana, ad un orario e un giorno prestabilito. Lo capisco dal fango che porti sulle scarpe: quel particolare colore rossiccio è tipico solo del cimitero Agra. I residui ai lati non sono freschi, quindi vuol dire che non ci sei stato. Agra non è il posto in cui verrebbe seppellito un membro di una famiglia poco agiata. Questo ci riconduce a tuo padre e all’abbandono della sua carriera chirurgica. E facendo due più due mi sembra logico insinuare che il vero oggetto della discussione avuta con tua sorella sia stato tuo padre.» Una pausa, finalmente, e poi aggiunse: «Per rispondere alla prima domanda: sì, interrogarlo».
Una cosa del genere non gli era mai capitata. John restò letteralmente senza parole mentre Holmes si sistemava la sciarpa intorno al collo pallido, il cappotto che sembrava un mantello inghiottito nell’oscurità a conferirgli quell’alone di mistero di cui tutti a scuola parlavano.  John pensò seriamente che quel ragazzo avesse qualche rotella fuori posto.
Esattamente come te, gli ribadì una vocina nella sua testa.
«Fantastico» riuscì ad articolare, la bocca spalancata. E una cosa del genere l’avrebbe detta solo se un calciatore avesse segnato da metà campo.
Sherlock sembrò impreparato a quella risposta.  «Davvero?» chiese titubante. «Niente “chiudi il becco”, “vaffanculo”, “togliti di mezzo”».
No. Quello l’ho pensato per tutto il tempo. «Assolutamente. È stato… straordinario. Tu… tu… hai detto che dovevi interrogare quel tizio?»
Gli occhi di Sherlock Holmes si ravvivarono di una strana luce e fu chiaro ad entrambi che per il resto della serata non ci sarebbe stato spazio per gli appunti di matematica di John.
Trascorsero un’ora intera seduti su una panchina deserta, nel lato più solitario della stazione, a parlare del drogato col coltellino. A dire il vero, fu Sherlock a parlare per tutto il tempo: John si limitava ad ascoltare, intervenire con domande apparentemente ovvie per Holmes, e annuire poco convinto. Sherlock fu dettagliato e allo stesso tempo si tenne sul vago. In sessanta minuti Watson aveva appreso che Bill Wiggins – così si chiama quel povero diavolo a cui John aveva con tutta probabilità rotto il naso – era un punto fermo per tutti coloro che attendevano la prossima dose di cocaina. Appena venticinquenne, si era rifugiato nella droga per convenienza e sempre per un riscontro economico si divertiva a “condividerla con i bisognosi”. Bill Wiggins poteva sembrare un perfetto idiota, ma ci sapeva fare nel suo campo e soprattutto aveva un’ottima memoria: ricordava alla perfezione i volti e i nomi dei suoi acquirenti, dal primo all’ultimo. Il problema, secondo Holmes, era che Bill non doveva trovarsi a Londra.
 «C’è qualcosa sotto», aveva decretato con aria cupa.
Sherlock era fermamente convinto che Bill fosse coinvolto nella scomparsa di una persona in particolare – un suo cliente a quanto pare -, ma quando John chiese ulteriori spiegazioni il diciottenne fu molto chiaro: «Queste sono informazioni che non posso fornirti».
«Perché?»
«Non sei tenuto a saperlo».
John insistette più volte, ma Sherlock fu irremovibile. Si limitò a ricordargli l’inizio della prossima corsa indicandogli il bus in partenza, e il ragazzo fu costretto a correre come un matto verso le porte ancora aperte del veicolo, spinto dal ricordo dello zaino lasciato sul sedile.
Vide la figura slanciata e impenetrabile di Sherlock Holmes in piedi, le mani lungo i fianchi, diventare un punto sempre più distante mentre John combatteva contro il desiderio di prenotare la prossima fermata e tornare indietro. Voleva saperne di più, scoprire ciò che il ragazzo gli aveva tenuto nascosto, comprendere il suo ruolo in tutta quella storia.
Non pensò ad altro per il resto della nottata. Non pensò ad altro che a Bill Wiggins, al suo traffico di droga e a Sherlock Holmes.

**

 
Angelo aveva reso vana ogni teoria: stando al libraio nessuno di insolito era passato da quelle parti lasciando quel libro della Christie sugli scaffali. «Magari qualcuno lo ha spostato e si è dimenticato di rimetterlo al proprio posto», aveva suggerito.
«Non è stato dimenticato. È stato lasciato in quel punto esatto di proposito. Deve essere successo stamattina, più o meno verso le 10 e 40. Hai visto qualcuno curiosare tra quegli scaffali verso quell’ora?»
Angelo aveva alzato le spalle. «Sono in pochi a leggere gialli da queste parti. Stamattina le uniche persone che hanno messo piede in libreria sono stati la giovane Donovan e il dottor Moran. Soltanto Sally ha dato un’occhiata a quegli scaffali».
Il volto del ragazzo si scurì nell’udire il nome dello psicologo. «Ma non hanno comprato nulla».
«In realtà, il dottor Moran ha comperato l’ultima edizione de L’interpretazione dei sogni. Mi ha fatto impacchettare il libro e se n’è andato.»
«L’interpretazione dei sogni
Angelo indicò col mento  i libri disposti in bella mostra sulla mensola più vicina alla porta. «Libri sulla psicologia. Sembra non leggere altro. In un certo senso sembra avere la sua logica…»
Sherlock si morse la lingua, contrariato.
Per raggiungere i gialli bisognava per forza superare i romanzi rosa e gli storici. Moran si era fermato all’ingresso, aveva comprato il libro ed era uscito. Seppure fosse tornato indietro per depositare il romanzo, Angelo avrebbe udito il campanello e lo avrebbe visto.
Continuò a rimuginarci su anche mentre camminava, tenendo il libro nella mano destra. Quella mattinata si era sforzato di dissimulare il lieve fastidio per il morso dello scorso giorno, ma tutto sommato non si trattava di nulla di grave o particolarmente doloroso. Aveva smesso di zoppicare una volta alzato dal letto, per amor delle sue orecchie.
Sua madre era andata in escandescenza quando lo aveva visto rientrare in casa zoppicante. Le braccia conserte di Mycroft e la sua espressione austera gli sussurrarono una paternale scontata e fastidiosa degna di un fratello maggiore. “La mamma ha già molto per cui essere preoccupata, non ti ci mettere pure tu”.
Indispettire il maggiore degli Holmes era sempre un piacere, per Sherlock… sentire le querimonie di sua madre un po’ meno.
Tutto per un cane. Il cane di Victor Trevor che adesso avanzava docilmente davanti a loro, la lingua penzoloni e il naso ad annusare la scia di frittura proveniente da una tavola calda. Un’immagine carina che discordava col diavolo ringhiante dello scorso pomeriggio.
L’avrà sentita anche lui quella risata?
Come se avesse udito i suoi pensieri, Redbeard si voltò nella sua direzione in quello che a Sherlock parve un sorriso da abete con la lingua lasciata penzolare ad un lato del muso.
«Sai, credo che tu gli piaccia», s’intromise Victor.
«Spero non quanto la mia caviglia».
Victor sbuffò una risata, roteando gli occhi. «Non è un serial killer, è solo un cane!»
«Questo lo dici tu».
Victor Trevor era diverso da tutti i ragazzi che aveva conosciuto nella sua breve esistenza e da tutte le persone che avevano incrociato il suo cammino. Victor sapeva stargli intorno senza infastidirlo, o annoiarlo.
C’era qualcosa, in lui, che lo incuriosiva. Che lo attraeva. Qualcosa che Sherlock non era capace di decifrare. Victor Trevor era… piacevolmente diverso.
«Sherlock».
Victor si fermò, imitandolo, guardandolo con aria interrogativa. «Cosa?»
«È il mio nome», precisò. «Non te lo avevo mai detto».
«Sherlock», ripeté quello lentamente, quasi lo stesse analizzando nel suo palato. «Sembra vagamente il nome di un pirata».
«Sicuramente più appropriato di Victor», ne convenne.
L’accenno di una risata fu spezzata da Redbeard che, inaspettatamente, tirò verso la vetrata della tavola calda. Victor diede un’occhiata al cellulare, guardando poi con la stessa espressione del suo cane l’hamburger che un uomo stava divorando seduto al suo tavolo.  «Senti, Sherlock… non è che per caso avresti fame?»
Sherlock sembrò pensarci su per qualche secondo. «Forse un po’».
Il romanzo nelle sue mani gli apparve improvvisamente più leggero di quanto già non fosse.





 


Relie's Corner:
Spero vivamente di non essere caduta nell'OOC, ma per questo attendo i vostri pareri.
Ho nominato un bel po' di libri - quasi tutti presenti nella mia biblioteca personale -, accanendomi principalmente sui gialli. Questo perché credo che Sherlock non li avrebbe mai graditi come genere letterario. Idem per Shakespeare. (Mi scuso per aver chiamato questi capolavori "roba").
Spero che le deduzioni di Sherlock siano plausibili. Io, almeno, ci provo. xD
Il verso citato da Victor è una citazione del libro "Assassinio sull'Orient Express" di Agatha Christie. 
Il verso citato dalla sconosciuta sul bus (??) è tratto dal romanzo "Cime tempestose".
Non ho la più pallida idea di quale sia il nome del padre di John - figuriamoci quello della madre -, quindi mi sono rifatta alla scelta di Yoko Hogawa per la sua meravigliosa Meant to be Alone.
L'idea della "deduzione sul cimitero" è un chiaro rimando a Elementary, mentre l'assalto di Watson ad un sospettato (chiamiamolo così) è ispirata ad una scena carinissima di una serie russa su Sherlock Holmes. <3.
Sicuramente c'è dell'altro che non ho detto, ma che al momento mi sfugge... quindi mi sento costretta ad eclissarmi e a sperare che il capitolo sia stato di vostro gradimento.
Alla prossima!

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Relie Diadamat