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Autore: Betta7    27/08/2017    4 recensioni
La ragazza S. e il ragazzo A.
Il Destino è un mistero che ci avvolge completamente nelle sue mani e, tra due anime affini, niente può fermare il corso dell'Amore.
" Non riuscivo a pensare lucidamente e, anche se era piuttosto stupido e alquanto imbarazzante, non riuscivo neanche ad immaginare quanto sarebbe stata bella.
Stringevo tra le mani il pacchetto con la rosa all'interno e, riflesso su di esso, vidi Sana scendere dalle scale.
Mi sembrò che il mio cuore si fosse fermato e che, improvvisamente dopo qualche secondo, avesse ripreso a battere. "

" Appoggiai di nuovo la testa sulla sua spalla e mi lasciai portare da lui, e mi resi conto in quel preciso istante dell'enorme fiducia che riponevo in quel ragazzo.
Eravamo amici-nemici, da sempre, eppure non avrei affidato la mia vita in mano a nessun altro. "

Dopo University Life, un'altra storia su un rapporto ai limiti dell'impossibile, un passo separa l'Amicizia e l'Amore.
Ma il Destino sa sempre cosa fa.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Aya Sugita/Alissa, Natsumi Hayama/Nelly, Sana Kurata/Rossana Smith, Tsuyoshi Sasaki/Terence | Coppie: Sana/Akito
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 19.
NON POSSO.


Pov Akito.

Versai altra tequila nel mio bicchiere. Guardai il liquido scendere lentamente dalla bottiglia e riversarsi, altrettanto lentamente, nel bicchiere di cristallo che avevo tra le mani.
Non bevevo tequila, di solito. Preferivo cose come il whisky o la grappa, ma era stata la prima cosa che Tsuyoshi era riuscito a procurarmi.
La stanza d'albergo in cui alloggiavo era bellissima, dormivo in un letto a baldacchino, come lo avevo sempre desiderato da bambino, le cameriere ripulivano la stanza ogni mattina, mentre io scendevo al bar, e la sera mi portavano la cena in camera, come se fossi un super ospite.
Cosa si può fare con i soldi… cosa si fa per i soldi.
Tante cose. Persino distruggere la vita di qualcun altro, come quella ragazza aveva distrutto la mia.
Non riuscivo nemmeno più a nominarla. Il solo pensare a lei mi provocava conati di vomito, e non era solo la tequila ad aiutare il tutto. Ogni volta che davanti ai miei occhi arrivava l'immagine di lei, falsamente distrutta per quello che ci era capitato, che mi era capitato, provavo un senso di disgusto che mai avevo sperimentato nella vita.
Stare con lei mi aveva portato a provare emozioni che mai mi sarei sognato di vivere: la gioia, pura, quella che ti parte dal cuore e arriva alla più piccola particella del tuo corpo; la paura, di poterla perdere e di poter distruggere il nostro rapporto; la rabbia, per non essere riuscito a preservare i nostri sentimenti puri come sono sempre stati; infine l'odio, che non avrei mai pensato di indirizzare alla ragazzina che avevo amato dalla quinta elementare, ma che in quel momento mi stava distruggendo da dentro. Sentivo il mio corpo bruciare a causa dell'odio che lei mi aveva costretto a provare.
Fino a una settimana prima ero un papà. O, almeno, stavo quasi per diventarlo. Oggi non sono niente.
Né un marito, ne un papà, ne un uomo. Non sono nessuno.
Mi ci erano voluti due giorni per realizzare esattamente cosa fosse successo. Mi ci erano voluti due giorni per capire che la mia bambina era morta e che quella ragazza non aveva alcuna intenzione di affrontare il lutto con me, suo marito, ma dietro a qualche macchina fotografica mentre si muove dentro a quei maledetti costumi da bagno che tutti vogliono vederle addosso.
Non aveva voluto più stare con me. Un figlio avrebbe potuto rovinarle la carriera. Non aveva mai voluto quella bambina. Lei l'aveva uccisa. E io l'avevo lasciata fare, credendo veramente che avrebbe potuto amare qualcun altro oltre a se stessa. Come avevo potuto essere così stupido? Come avevo potuto cadere nel tranello ancora e ancora per oltre dieci anni?
Eppure mi reputavo una persona abbastanza intelligente. Non un genio, ovviamente, ma nella media. E non ero riuscito a capire nulla.
Ero ormai al sesto o ottavo bicchiere, non ero riuscito più a contarli dal quarto almeno, e non ero in grado di alzarmi dal divano e arrivare al bagno.
Ci provai ugualmente. Nel tragitto pensai a quanto dovessi sembrare patetico in quel momento, a quanto dolore questa vita aveva riservato per una persona sola, a mia figlia e a quanto sarebbe stata bella e felice se solo avesse avuto la possibilità di nascere e, per la prima volta dopo una settimana, permisi a me stesso di crollare. Caddi sul pavimento, non reggendomi più in piedi, non per il troppo bere – che comunque aveva dato il suo contributo – ma perché la mia anima si era appena definitivamente distrutta. Non mi importava più di vivere o morire. L'unica cosa che mi importava era che tutto quel dolore andasse via perché, per quanto mi riguardava, ne avevo avuto abbastanza anche per la prossima vita.

*

Qualcuno stava bussando, ma avrebbe potuto bussare per il resto della sua vita, non era nemmeno contemplabile l'idea che io riuscissi a reggermi in piedi.
Cercai di mettere forza sulle braccia e tirarmi su dal pavimento della mia magnifica stanza al quarantaduesimo piano di un hotel di cui non ricordavo nemmeno il nome, per arrivare a quella dannatissima porta che non faceva altro che martellare dentro la mia testa. Misi un piede dietro l'altro e, con fatica, arrivai alla porta. Non l'avessi mai fatto. “Akito, devi vestirti, uscire da questa stanza e smetterla di comportarti così.”
Mia sorella mise piede in camera prima ancora che potessi fermarla, la sua riabilitazione ormai aveva fatto miracoli ed era tornata a rincorrermi come faceva un tempo. Non sapevo se considerarla una cosa positiva o una maledizione in quel momento.
Chiusi la porta alle sue spalle, tornando a prendere il bicchiere completamente vuoto dal pavimento per versarci altra tequila. Più tequila avrebbe sistemato tutto.
“Va via, Nat. Non voglio vedere nessuno.”
Natsumi si piazzò davanti a me, mi rubò il bicchiere dalle mani e si scolò l'intero contenuto proprio di fronte ai miei occhi, senza battere ciglio. “Ti ho appena detto di vestirti. Usciamo.”
Mi trascinò fuori da quella stanza in meno di mezz'ora. Non sapevo dove stavamo andando, ma sapere che c'era mia sorella con me rendeva le cose molto più semplici.
Almeno per un po'.

Pov Sana.


Tentavo di non mettermi ad urlare di fronte a Rei che, minuziosamente, cercava di spiegarmi il programma della giornata.
Erano ormai tre giorni che eravamo a Nagoya e quello stesso giorno avrei preso un aereo che mi avrebbe portato a Fukuoka. La mia vita era diventata un continuo andare su e giù per il paese per la promozione di questo film.
Non facevo altro che sorridere e fingere che quello che avevo vissuto negli ultimi giorni non fosse stato un inferno. Nessuno sapeva. Avevamo fatto in modo di non far trapelare nessuna notizia ne della mia gravidanza e del mio aborto.
Ancora mi sembrava strano dire quella parola. Aborto. Era una parola semplice, una cosa che accada a migliaia di donne. Ma tutte loro vivevano il dramma che stavo vivendo io? Quella sensazione di sentirsi strappare il cuore dal petto ad ogni respiro. Quella voglia di chiudersi in una camera e non uscirne mai più. Non sapevo come affrontare quel vuoto. La mancanza di Akito non aiutava di certo. Almeno a lui era rimasto l'odio.
A me cosa era rimasto?
Niente. Non avevo più mia figlia. Non avevo più l'amore della mia vita. Non avevo più nulla.
Guardavo fuori dal finestrino, cercavo di trovare una nota positiva in tutto quel grigio di cui la mia vita si era colorata. “Sana?”.
Non ero in grado di trovarla. Non c'era. Strinsi la borsetta tra le mani, cercando un modo per distrarmi.
“Sana?”
Non esisteva un modo per distrarmi. Come potevo distrarmi dalla mia vita che andava in pezzi?
Sentivo che sarei potuta crollare da un momento all'altro, mandare tutto all'aria, scappare da quella città e tornare da Akito. Ma non potevo. Non che non lo volessi, era forse la cosa che più desideravo al mondo, ma condannarlo ad una vita di rinunce, solo per colpa mia, non era giusto.
“Sana?”
Improvvisamente mi ridestai dai miei pensieri, troppi in quei giorni, e diedi ascolto a Rei che tentava di spiegarmi il programma dei prossimi giorni.
Non avevo molta voglia di sentire tutte quelle banalità, ma lo feci comunque perché non volevo deludere anche la mia famiglia come avevo deluso Akito. Non volevo più deludere nessuno.
Saremmo partiti il giorno dopo per Morioka e poi, da lì, avremmo preso un volo per New York dove sarebbe iniziato il tour mondiale per la promozione del film.
Ero così stanca. Desideravo così tanto tornare a casa mia e allo stesso tempo era l'ultima cosa che volevo al mondo. Mi sembrava di essere spezzata in due, in ogni senso e circostanza, perché non ero capace di vivere una menzogna, non sapevo come conciliare l'enorme vuoto che provavo al centro del cuore con quella vita sorridente e felice che dovevo vivere. Dovevo resistere, in ogni caso. Era il mio lavoro l'unica cosa che mi separava dall'impazzire e non potevo perdere anche quello.
“Sei sicura di voler continuare con il tour? Possiamo tornare a casa anche oggi se vuoi, e mandare all'aria tutto, se non stai bene.”
Le parole di Rei risuonarono nella mia testa come un eco. Avrei potuto lasciare tutto e, per la prima volta nella mia vita d'attrice, era lui stesso a dirmelo, lui a consigliarmi di non tirare troppo la corda perché avrebbe potuto spezzarsi.
Ma lasciare tutto avrebbe significato tornare a casa e affrontare Akito. Natsumi mi aveva detto che non stava più a casa nostra, che aveva preso una camera d'albergo due giorni dopo la mia partenza e non era più uscito da lì. Mi aveva raccontato che aveva distrutto tutto, come fa sempre quando è furioso. La sua macchina, tutte le cose che avevamo comprato per la bambina, i giocattoli, i pupazzi. Aveva raschiato via a forza un ricordo troppo doloroso.
Non volevo essere lì mentre Akito si autodistruggeva per causa mia.
“No, Rei, va tutto bene. Non preoccuparti per me.”
“Mi preoccupo, invece. Non spingere troppo, bambina, non voglio vederti crollare all'improvviso. Potresti prenderti una vacanza, lontano dai riflettori...”
“Non ho bisogno di una vacanza. Ho bisogno di lavorare, di non pensare e di andare avanti con la mia vita.”
Rei non rispose, si limitò a continuare a guidare e anche io rimasi in silenzio per tutto il tempo restante fino al nostro arrivo in albergo.

*

Mi trascinai in camera mia, chiedendo a Rei di chiamarmi solo per cose urgenti, presi il mio cellulare e mi sdraiai a letto.
Non dovevo farlo, eppure ne sentivo il bisogno. Afferrai il telefono dell'albergo e composi il suo numero.
Volevo disperatamente sentire la sua voce.
Il telefono squillò almeno cinque, sei volte, ma non rispose. Non riattaccai, quel suono mi rilassava perché era comunque un contatto con lui.
Quando ormai mi stavo rassegnando la sua voce riempì la mia testa. “Pronto?”
Cercai di parlare, ma dalla mia bocca non uscì nemmeno un suono. E forse fu meglio così.
“Pronto?” ripeté Akito.
Continuai a stare in silenzio, ad ascoltarlo respirare, poi attaccai.
Rimasi immobile, apatica, incapace di dire una parola o di provare qualsiasi tipo di emozione, perché non ero più in grado di entrare in contatto con quella profonda parte di me che amava Akito. Sapevo che mi avrebbe fatto male, che sarei sprofondata nuovamente in quel baratro da cui avevo solo fatto finta di uscire, ma non era facile lasciare indietro quella Sana felice e soprattutto quell'Akito felice.
Nel buio della mia stanza d'albergo, a chilometri di distanza da Akito e da quella vita che mi ero lasciata alle spalle, non era facile respirare. Il peso che costantemente sentivo sul petto si fece più grande, mi schiacciò con forza e non resistetti più.
Scoppiai in lacrime e, cercando di non urlare per il dolore, presi il cuscino e me lo portai alla faccia.
Era finita, io e Akito avevamo perso tutto, e io non volevo più vivere in quel modo.
Non volevo più vivere affatto.

Pov Akito.
 
Io e Natsumi passeggiavamo da almeno un'ora, in silenzio, nel parco che si trovava vicino al mio albergo. Non avevamo bisogno di parlare, io non volevo essere consolato o sentire le solite parole di circostanza perché non sarebbero servite a farmi ritrovare la serenità. Cosa poteva dirmi per farmi sentire meglio? Che la ragazza che era stata al mio fianco da praticamente tutta la mia vita non voleva farmi del male e che il suo aborto era stato un caso frutto della sfortuna? Che non era giusto distruggermi in quel modo? Che dovevo tornare a vivere? Cosa poteva dirmi?
La risposta era impossibile da trovare perché non c'era niente che potesse cambiare la realtà dei fatti.
Quella ragazza mi aveva rovinato la vita e io ero stato così stupido da lasciarglielo fare.
"L'hai sentita?"
Scossi la testa. "Credo sia troppo impegnata con la promozione del film anche solo per discutere i termini del divorzio."
Mia sorella si bloccò improvvisamente, lanciandomi un'occhiata stupita. "Aspetta un secondo! Divorzio? Siamo già così nella merda?"
Natsumi non era solita parlare in quel modo, per questo fui veramente sorpreso di sentire quelle parole uscire dalla sua bocca ma, effettivamente, l'occasione richiedeva un po' di drammaticità e quelle espressioni erano abbastanza coerenti.
"Si, Nat. Non accetterò mai e poi mai che lei abbia scelto la sua carriera invece che la nostra famiglia, invece che sua figlia. Non dopo averla persa. Non così."
Le parole mi uscirono così velocemente che non riuscii a contenerle. Prima era difficile parlare con Natsumi, invece in quel momento mi sembrò la cosa più naturale del mondo.
"Akito... vieni qui." Disse guidandomi verso una panchina vicino a noi. Dopo esserci seduti, riprese a parlare. "Come puoi pensare che Sana abbia scelto la sua carriera invece che la bambina?"
"Lei mi ha detto questo, non vuole avere altri figli perché teme ripercussioni sulla sua vita artistica. Io non posso obbligarla, ma permettimi almeno di odiarla." Sospirai, sfinito da quel discorso e da quel dolore.
"Con la bocca si possono dire tante cose, A
ki. Ma gli occhi non mentono. Anche se Sana è un'attrice, non posso credere che tu non abbia visto un briciolo di sofferenza nei suoi occhi."
Ripensai a quella sera, lei a letto che mi dice di non aver mai voluto quella gravidanza. Io che urlo. Lei che rimane impassibile.
Era un'assurdità.
"Akito, Sana non ha esitato a lasciare la sua carriera, l'università, la sua vita per prendersi cura di Kaori, mia figlia, trattandola come se fosse sua. Era pronta a diventare sua madre se io non mi fossi svegliata mai più. Come puoi pensare anche solo lontanamente che abbia causato lei stessa l'aborto o, peggio, che non volesse altri figli solo per il suo lavoro?
Lei è una delle mie più care amiche, ti è stata accanto, ti ha sposato, per Dio! Non puoi credere veramente a cosa ti ha detto!"
Rimasi immobile, ascoltando mia sorella che mi urlava contro, e magari aveva ragione, ma lei non c'era quella sera.
Non aveva visto Sana scacciarmi, trattarmi come l'ultima persona sulla faccia della terra che potesse amare, scegliere qualcos'altro a me e a sua figlia, non aveva visto quanto dolore avevo provato e non aveva sentito il mio cuore spezzarsi proprio in quell'istante.
"Non lo so, Nat. Non posso dire che tu abbia completamente torto, ma non hai idea dello sguardo che aveva mentre mi diceva che non voleva più stare con me."
Mia sorella si alzò, portandosi le mani alla testa come se stesse impazzendo. "Ma ci deve essere qualcosa sotto, Akito! Non è possibile, mi rifiuto di crederlo!"
"Basta Natsumi, basta. Lei ha preso la sua scelta, io la mia. Non so se c'è qualcosa sotto, non mi interessa nemmeno saperlo, se non ha voluto condividerla con me e se non ha cercato di superarla con me evidentemente non mi amava come diceva. Quindi, ti prego, smettila di difenderla, di ripetermi continuamente le stesse cose. Io sono stanco, sono distrutto, e non voglio sapere più nulla di lei."
Mi alzai da quella panchina e cominciai a correre, lasciandomi alle spalle le urla di mia sorella che mi chiedeva di fermarmi, i rumori di una città che avrei volentieri abbandonato in quell'istante, le occhiate della gente che non sapeva nulla, non conosceva la mia storia o ciò che provavo. Mi lasciai alle spalle quel momento, quella sofferenza, quel desiderio di lasciarmi andare che non mi lasciava in pace nemmeno per un attimo e corsi. Corsi più forte che potevo, spezzandomi il fiato, rischiando di farmi male perché non lo facevo da molto tempo, sudando come mai prima di quel momento e fregandomene della pioggia che aveva cominciato a bagnarmi il viso.
L'universo continuò a prendersi gioco di me, perché mi ritrovai senza nemmeno sapere come, al gazebo. Sotto quel piccolo tetto, che mi aveva fatto da casa durante molte cene passate da solo, immaginando una grande tavola e la mia famiglia attorno ad essa, finché lei non mi aveva fatto vedere che poteva esserci di più di un gazebo, che potevo avere di più, sentii che le forze mi venivano meno. Urlai con tutta la forza che avevo in corpo, urlai per liberarmi da quel dolore dilaniante, perché non sapevo più come si parlava senza gridare, perché era l'unico modo che trovavo per non impazzire, anche se forse non avevo fatto un buon lavoro.
Improvvisamente il mio telefono squillò, risposi senza nemmeno guardare il mittente.
"Pronto?". Ascoltando la mia voce sentii immediatamente che sembravo davvero sconvolto.
Dall'altro lato non parlò nessuno, solo qualche respiro ogni tanto, ma avevo memorizzato anche quello di lei. Il suono del suo respiro.
"Pronto?" Ripetei, sperando che parlasse, che mi chiedesse di poter tornare, che mi pregasse di perdonarla perché avrei fatto qualsiasi cosa se lei me l'avesse chiesto, che mi dicesse anche solo una parola... sarebbe stata sufficiente.
Ma lei non disse nulla. Allora anche io rimasi in silenzio, per almeno due minuti ascoltammo l'uno il respiro dell'altro finché lei non attaccò.
Avrei potuto dire e fare qualsiasi cosa, avrei potuto arrabbiarmi, distruggere tutto quello che mi capitava a tiro, urlarle che la odiavo, ma la verità era che se Sana fosse stata con me in quel momento non avrei saputo far altro che abbracciarla.
Non ragionavo quando si trattava di lei, e a volte quel sentimento mi era sembrata una condanna, altre volte una benedizione.
In quel momento mi sembrò la cosa più pericolosa che potessi tenere dentro me, perché non solo mi aveva tolto tutto, ma mi aveva anche privato di me stesso.
Cosa poteva esserci di peggio?


Cinque mesi dopo.

Pov Sana.

Tornare a casa era stata una tortura, ma necessaria. Non potevo trattenermi ancora all'estero, come il mio lavoro mi aveva condotta oltreoceano così mi aveva prepotentemente riportato in patria, facendo tornare con me i ricordi.
Non mi ero permessa spesso di pensarci, dopo la telefonata in piena notte che gli avevo fatto non ero più riuscita a sentire la sua voce. Avevo ascoltato tantissimi suoi messaggi in segreteria, piangendo fino ad addormentarmi, poi avevo smesso. Non perché non lo amassi più o non sentissi più la sua mancanza, ma perché mi stavo consumando fisicamente. Avevo smesso di mangiare, ero dimagrita così tanto che i giornali avevano cominciato a parlare di me come anoressica, facendo congetture sul fatto che non si vedesse più nessuna foto mia e di Akito. Era stato difficile. Lo era ancora, ma non potevo più permettermi di vivere in quel modo. Non sarebbe stato giusto per nessuno, per Rei e per mia madre soprattutto, che contavano su di me, che mi amavano nonostante tutto e che non meritavano di guardarmi mentre mi lasciavo morire. Perciò avevo raccolto tutta la forza che mi era rimasta, poca ma comunque presente, e mi ero rialzata. Con fatica, grandissima fatica, avevo scelto di vivere, anche se avesse significato vivere in un modo totalmente diverso da come mi sarei aspettata e da come avrei voluto.
Erano passati pochi giorni da quando ero tornata a casa, ritrovarmi di nuovo in camera mia, soprattutto da sola, non era stato semplice e vedere ciò che Akito aveva lasciato dietro di se era stato anche peggio. La stanza della bambina era stata completamente distrutta, con una mazza presumo, e per terra c'erano anche delle piccole tracce di sangue, quindi doveva essersi ferito.
Avevo buttato tutto, stando attenta a non tralasciare nulla, per non dover tornare lì e immaginare di nuovo quei momenti. La sua parte d'armadio era vuota, e la sua parte di letto troppo fredda. Sul comodino c'era il libro che gli avevo regalato per la festa del papà. Non perché fosse chissà quanto importante, ma vederlo in libreria mi aveva fatto pensare ad un modo scherzoso per festeggiare per la prima volta quella ricorrenza.
Avevamo riso tanto quel giorno, pensando che l'anno dopo avremmo festeggiato con un bambino che scorrazzava per casa.
Non era andata così.
In attesa che le ragazze di servizio dessero una pulita, uscii di casa e mi diressi al supermercato visto che le uniche cose che avevo in frigo erano yogurt andato a male e due bottiglie d'acqua, nessuna delle due piena. Camminavo tra gli scaffali in cerca della salsa di soia perché quella sera avevo intenzione di cucinare tonno scottato e di condirlo con un po' di salsa. Non avevo la cuoca personale, purtroppo, e per la maggior parte delle volte era Akito a cucinare, quindi dovevo arrangiarmi in qualche modo.
Andavo avanti e indietro per il reparto sughi pronti e condimenti finché non mi resi conto di esserci passata davanti per lo meno tre volte. Mi alzai sulle punte per raggiungere lo scaffale ma, nello stesso momento in cui la stavo per afferrare, una mano più grande della mia fece lo stesso.
Quando abbassai lo sguardo per sorridere di quel gesto maldestro da parte di entrambi, ciò che vidi mi lasciò senza respiro.
"Sei tornata." Fu tutto quello che riuscì a dirmi.
Akito era di fronte a me, stringevamo entrambi quella bottiglia di salsa, le nostre dita si sfioravano appena eppure sentii in quel contatto un'urgenza che mi era mancata in quei cinque mesi.
Riuscii solo ad annuire. Poi deglutii e cominciai a parlare. "Da cinque giorni." Risposi senza distogliere lo sguardo dal suo.
Anche lui era più magro, si era tagliato i capelli e i suoi occhi sembravano di porcellana, come se ci si potesse vedere attraverso. Aveva sofferto, ne ero certa, così come avevo sofferto io. Forse non era giusto condannarci a quella tortura, ma a lui prima o poi sarebbe passata, avrebbe trovato una donna in grado di dargli una famiglia e di renderlo felice. Lei gli avrebbe dato ciò che io non potevo più dargli.
"Come stai?" Gli chiesi, di riflesso alle miliardi di volte in cui quella frase significava ancora qualcosa.
Akito fece una smorfia, lasciò nelle mie mani la bottiglia e fece un passo indietro. "Benissimo, non si vede? A proposito, ora che la grande star ha fatto ritorno a casa potremmo discutere della questione divorzio? Mi servirebbe il numero del tuo avvocato così da farlo contattare dal mio, se non ti dispiace."
Rimasi di stucco nel sentire quelle parole, ma alla fine non dovevo sorprendermi così tanto. Akito mi odiava, io lo avevo portato a provare quel sentimento ed era naturale che volesse lasciarmi anche legalmente il più presto possibile. Infondo erano cinque mesi che eravamo lontani, non una settimana, quindi immaginai fosse la cosa più sensata da fare. Gli avrei restituito la sua vita.
"Non... non ho ancora richiesto l'inizio delle pratiche, ma ti farò contattare." Dissi cercando di non piangere.
"Wow, e io che pensavo che fossi già pronta per firmare le carte. Va bene, Kurata. Stammi bene."
Detto ciò si voltò e trascinò il carrello e la sua energia negativa lontano da me.
Rimasi ferma per almeno qualche secondo, incapace di muovermi, con quella bottiglia tra le mani e il gelo nel cuore.
Ero stata io a costringerlo a quello, io avevo voluto che mi odiasse, che smettesse di amarmi.
Ma allora perché la parola divorzio mi stava facendo mancare la terra sotto ai piedi?



Pov Akito.

Uscii dal supermercato con un senso di soffocamento che non avevo mai provato. Mi sentivo come in quei film in cui le pareti di una stanza sembrano avvicinarsi fino a schiacciarti, solo che io non venivo distrutto dalle mura bensì da quella donna. Era lei che mi uccideva, che rideva di me mentre cercavo una boccata di aria pulita in un luogo completamente chiuso. Aveva un aspetto diverso, meno curato ed era molto più magra. Le avevo guardato il collo e, nonostante fossero visibili anche prima, le ossa delle clavicole erano come degli spigoli sotto la sua pelle.
Mi aveva chiesto come stavo. Che sfacciata. Stavo male, ma mi ero buttato a capofitto sul mio lavoro, sulle lezioni e sulle gare, che vincevo una dopo l'altra, e avevo tentato disperatamente di non pensare a lei.
Era difficile comunque, ma adesso che era tornata sarebbe stato anche peggio. In più a breve avremmo dovuto partecipare al matrimonio di Tsuyoshi e Aya e, sicuramente, lei sarebbe stata la testimone, il che significava che me la sarei ritrovata sempre accanto. Non sapevo se sarei stato in grado di affrontare una giornata del genere, guardarla sorridere, magari accanto al suo accompagnatore – anche se non pensavo che avrebbe avuto la faccia tosta di presentarsi con qualcuno – e forse anche ballare con qualcuno, non curandosi minimamente di chi la guarda alle sue spalle. Avrei voluto poter evitare quella tortura, ma era il matrimonio del mio migliore amico e non potevo mancare, non per lei.
Avevo lasciato l'albergo e mi ero trasferito di nuovo a casa di mio padre, ma era una sistemazione temporanea. Comunque ero felice di poter passare più tempo con mia nipote, che era diventata una bambina veramente dispettosa – mi domando da chi abbia potuto prendere quella caratteristica, se non per osmosi da Sana – e soprattutto con mio padre che era uscito molto provato dalla storia di Natsumi ed era diventato ansioso e paranoico. Cercavo di rasserenarlo ogni volta che potevo, ma non era facile per me mettere a posto il casino che era diventata la mia vita e occuparmi di lui contemporaneamente. Per fortuna c'era Natsumi a darmi una mano e, praticamente come non avevamo mai fatto, ci sostenevamo a vicenda. Era bello avere Natsumi, mi dava la sensazione di poter affrontare qualsiasi cosa, anche se non era esattamente così.
Non mi sentivo in grado di fronteggiare niente in quel preciso istante, eppure era arrivata al momento. Tornai a casa il più velocemente possibile e, senza dire niente, salii le scale e mi chiusi in camera mia. Mi sentii di nuovo quel bambino di dodici anni che non riusciva a sopportare l'idea che Sana recitasse con quel damerino di Kamura.
“Cos'è successo?”. Natsumi entrò in camera mia e chiuse la porta alle sue spalle. Benissimo, adesso ero diventato la sua amichetta del cuore e avrei dovuto raccontarle tutti i miei segreti.
“Non ne voglio parlare, Nat. Ti prego, lasciami in pace.”
“So che Sana è tornata.” disse lei, mentre faceva le giravolte nella sedia della scrivania.
“Bene, allora mi risparmi la fatica. Ora vattene Natsumi, voglio rimanere da solo.”
Mia sorella non se lo fece dire una terza volta, si alzò dalla sedia e uscì dalla camera.
Dieci secondi dopo ero fuori anche io, con la tuta e le cuffie nelle orecchie, perché non volevo sentire nulla, né i rumori della città né quelli del mio cervello. C'era troppa confusione dentro di me, troppo affollamento di pensieri, di ansie e paure che non riuscivo a debellare.
Dovevo correre. Correre verso di lei, anche se lei non era più la ragazza che avevo amato per tutta la mia vita. Era solo il riflesso di lei, una sagoma vuota che aveva cancellato tutto ciò che di bello avevamo vissuto.
Lei non era più la mia Sana.
Era solo Sana Kurata.



Pov Sana.
 

Camminavo per le strade della mia città come se mi fossi trovata in un luogo sconosciuto. Tutto mi era familiare, ma non mi sentivo più a casa. Avrei saputo descrivere ogni particolare, ma solo con la mente, non ero più in grado di vederlo con il cuore.
Durante i mesi in tour avevo sviluppato quella strana abitudine – strana per me, visto che ero sempre stata una pigra cronica – di fare una passeggiata la sera. Mi rilassava vedere le città nel loro momento di calma, mi faceva sentire ancora padrona di qualcosa. Ormai non lo ero più di nulla, nemmeno di me stessa. Sarebbe stato facile essere di nuovo felice: avrei potuto dire ad Akito che avevo inventato tutto, che lo avevo fatto per non farlo soffrire ma sarebbe stato il gesto più egoista da fare. Non era la vita che lui volevo, accanto a qualcuno che lo avrebbe privato di una parte fondamentale del matrimonio.
Chi ero io per fargli questo?
L'unico modo per rendere Akito felice era tenerlo lontano da me, e lo avrei fatto.
Quell'opzione sarebbe stata alquanto difficile se avessimo continuato ad incontrarci ovunque. “Due volte in un giorno, sono proprio una donna fortunata.” dissi quando lo vidi correre al mio fianco. Non potevo stare con lui, ma se volevamo sopravvivere indenni al matrimonio di Aya e Tsuyoshi avremmo dovuto almeno non urlarci contro ad ogni conversazione. Poi avremmo potuto anche non vederci più, ma lo dovevo ad Aya. Era la mia migliore amica e non potevo rovinarle il giorno più importante della sua vita.
Akito mi rivolse uno sguardo quasi disgustato, poi si tolse una cuffietta dall'orecchio. “Non immagini quanto sia fortunato io.”
“Aspetta.” Stava per andarsene quando lo fermai, trattenendolo per un braccio. “Ti prego, resta. Non… devo dirti una cosa.”
Si piazzò davanti a me con le braccia incrociate, fingendo di ascoltarmi.
“Non voglio che tra di noi ci sia… questo.” indicai lo spazio, troppo grande, che ci separava.
“E cosa vorresti che ci fosse? Io non voglio sapere nulla di te. E ora se non ti dispiace...”. Fece per andarsene, ma lo bloccai di nuovo. Le lacrime lottavano per uscire, tentai invano di trattenerle. “Non avrei mai voluto tutto questo. Lo sai, vero?”
Akito abbassò lo sguardo, sciolse le braccia, si avvicinò a me. Il cuore mi scoppiava. “Non l'ho scelto io. Ora è il momento di pagarne le conseguenze.”
Detto ciò si rimise le cuffie e tornò alla sua corsa. In poco più di due minuti aveva trovato il coraggio di distruggermi di nuovo.
Ma in fondo non potevo pretendere diversamente.



Pov Akito.
 

Frugavo da giorni nel mio armadio alla ricerca di un mio vecchio kimono, ma i risultati erano piuttosto scarsi.
Kiroji, un bambino a cui insegnavo in palestra, non aveva la possibilità di comprarne uno nuovo, visto che il suo si era strappato durante un incontro, e avevo pensato di regalargli il mio che, anche se non era nuovissimo, poteva ancora andar bene fino alla fine delle competizioni.
Avevo cercato ovunque e, puntualmente, cercavo di scacciare quella vocina che mi diceva che potesse essere a casa sua. Non volevo chiamarla per poter controllare ne volevo trovarla lì quando ci sarei andato, quindi verso le dieci uscii da casa mia per andare da lei, per controllare se fosse in casa o no. Avevo ancora una copia delle chiavi di casa, quindi non avevo bisogno che ci fosse lei, ma la paura di incontrarla era come un mostro che mi stava col fiato sul collo costantemente. Temevo di combinare qualche casino con lei attorno e la mia testa non era in grado di interiorizzare altri problemi.
Fuori la sua macchina non c'era, quindi via libera. Parcheggiai e presi le chiavi dalla tasca, per poi entrare in casa.
Entrarci di nuovo mi fece mancare il fiato. Era tutto buio e non mi preoccupai di accendere le luci, visto che dovevo rimanerci per poco più di cinque minuti. Guardai alla mia sinistra e la camera della bambina era proprio lì, a fissarmi, completamente vuota se non per qualche scatola qui e lì. Percorsi il corridoio e mi diressi verso la stanza da letto per prendere ciò che mi serviva. Nella fretta avevo lasciato molte cose lì, me ne resi conto solo quando, aprendo l'armadio, trovai una serie di mie magliette e anche un paio di scarpe. Cominciai a frugare tra la mia roba, ma del kimono neanche l'ombra. Dove cavolo l'avevo messo?
Mi voltai per cercare un borsone dove mettere le cose che avevo trovato e, improvvisamente, sentii un fortissimo dolore al naso e, portandomi le mani al viso, caddi a terra.
“Ho chiamato la polizia, se non te ne vai subito ti spacco la testa!”. Sana continuava ad urlare, dimenando il mattarello che aveva tra le mani. Mi aveva colpito così forte che il sangue cominciò ad uscirmi dal naso, e non riuscivo a fermarlo.
“Sono...” Tentai di parlare, ma il sangue mi era finito in bocca e per poco non vomitai. “Sono io, Sana… fer… ferma!” riuscii a dire infine, alzandomi in piedi e afferrandole il polso, cercando di fermarla.
Lei corse ad accendere la luce, mi guardò stupita e poi mi colpì un'altra volta sulla testa, meno violentemente stavolta. “Cosa diavolo ti è venuto in mente? Volevi farmi venire un infarto? Pensavo che fossi un ladro o peggio!”. Mi colpì di nuovo, e mi sembrò per un attimo di essere tornato alle elementari, quando usciva dalla tasca quel martelletto solo per darmelo in testa.
“Sana, io mi starei dissanguando qui.” dissi andando verso il bagno. Solo allora si rese conto che ero tutto imbrattato di sangue e che non riuscivo neanche a parlare. Gettò il mattarello per terra e mi seguì. “Scusami! Cavolo, ti ho colpito proprio forte. Scusa, Aki.” disse, forse senza pensarci, senza dargli peso o forse per la forza dell'abitudine. Eppure sentirmi chiamare in quel modo da lei, dopo tanto tempo che non le sentivo più pronunciare il mio nome era stato strano. Mi fermai per un attimo, guardandola dritta negli occhi, poi continuai a lavarmi il viso.
“Stai fermo, Akito. Prendo qualcosa per fermare il sangue.”
Si allontanò un attimo e poi mi passò un po' di carta igienica arrotolata e, per un attimo, smettemmo di essere marito e moglie in rotta e tornammo quei due bambini di tanto tempo prima. Scoppiammo a ridere insieme nel momento in cui mi mise quella carta su per il naso. Era surreale, era forse la cosa più inopportuna che sarebbe potuta capitarci, eppure il destino ormai sceglieva per noi.
Mi fece sedere sul water, intimandomi di nuovo di stare fermo. Volevo andarmene. Non ero pronto a starle così vicino.
“Che ci fai qui?”. Le sue domande arrivarono prima ancora che pensassi ad un motivo valido da darle. Lei sciacquò un asciugamano e poi cominciò a passarmelo sul viso per togliere le macchie di sangue. “Non… non devi farlo.” Cercai di toglierglielo dalle mani, ma lei mi bloccò.
“Voglio farlo.”
Gli sguardi che ci scambiammo erano inequivocabili. Avrei voluto così tanto baciarla… e sapevo che lo voleva anche lei, ma nessuno dei due si mosse di un millimetro.
“Quindi… perché sei entrato in casa nost...” si bloccò immediatamente prima di dire di più. “Perché sei qui, Akito?” concluse infine, tagliando corto.
“Ho lasciato delle cose qui che mi servivano.”
“E non potevi semplicemente chiedermele?”. Lo chiese come se vederci fosse la cosa più normale del mondo, come se non ci fossimo distrutti a vicenda prima di quel preciso momento.
“Non ho visto l'auto fuori e ho pensato che sarebbe stato meglio per noi evitare qualsiasi contatto.”
La guardavo dal basso scrutare ogni singolo angolo del mio viso, come se non lo conoscesse abbastanza, come una drogata in astinenza dall'eroina. Tutto in lei mi faceva capire che mi amava. E allora perché aveva distrutto la mia vita?
“Ho dovuto prestare l'auto a Rei, la sua aveva un problema al cambio. Avresti dovuto chiamarmi, potevo farti trovare tutte le tue cose da Tsuyoshi se proprio non volevi vedermi.” disse con la voce calma. Quella voce calma che mi stava facendo uscire di testa da cinque mesi, la stessa con cui mi aveva cacciato dalla sua vita.
“Puoi biasimarmi per questo?”. Non volevo chiederglielo davvero, le parole erano semplicemente uscite dalla mia bocca senza il mio consenso.
Sana scosse la testa e non disse più nulla. Rimanemmo in silenzio per un po', finché lei non mi ripulì la faccia da tutto il sangue. Quando mi disse che aveva finito restai lì, a guardarla mentre lei non si allontanava. Erano cinque mesi che non sentivo il suo profumo. Cinque mesi che la sua immagine mi tormentava come il peggiore dei miei incubi.
“C'erano giorni in cui avrei voluto ucciderti...” dissi tutto d'un fiato, aspettandomi la sua solita reazione esasperata. Invece non disse nulla per un po'.
“Forse avrebbe fatto meno male di tutto questo.”
Non riuscivamo a staccarci l'uno dall'altro, e non perché eravamo masochisti – o forse io lo ero almeno un po' - ma perché tra di noi c'era sempre stato quel tacito accordo.
Se vuoi che io non dica nulla, non dirò nulla. Ma lascia che io sia qui per te.
E avevamo mantenuto quell'accordo per tutti quegli anni. Finché lei non l'aveva tradito, tradendo me e i nostri sentimenti.
Improvvisamente l'atmosfera cambiò e Sana si allontanò da me, facendomi uscire da quello stato di trance in cui mi aveva portato.
“Dovresti andare, Akito. Ti farò sapere quando non sono in casa così potrai venire a prendere le tue cose.”
Mi alzai, senza toglierle gli occhi di dosso. Mi sentivo sporco a volerla ancora. Ma l'avevo amata per tutta la mia vita, come potevo pretendere che il mio cuore perdesse la memoria così, da un momento all'altro?
Mi sarei fatto uccidere per lei.
“Si… vado.” dissi, dirigendomi verso la porta d'ingresso.
Da una parte avevo paura che uscendo da lì non l'avrei più rivista, che si sarebbe smaterializzata davanti ai miei occhi, dall'altra speravo di non vederla mai più, perché la sua presenza mi dilaniava.
Mi sentivo come se un coltello si spingesse sempre più a fondo dentro al mio petto.
Potevo sopportare tutto quello, ancora?
Uscii da quella casa, che era diventata quella perché aveva smesso di essere anche mia, e quando la porta si chiuse sentii che anche dentro me si stava chiudendo qualcosa.
Non ero certo di cosa fosse esattamente, ma ero più che sicuro che quel qualcosa non mi avrebbe più permesso di amare qualcuno ed essere distrutto. Non l'avrei più permesso a nessuno.



Pov Sana.
 
Cercai di non piangere. Cercai di non correre da lui nel momento stesso in cui ebbe oltrepassato quella porta. Non potevo. Ero riuscita a resistere per cinque mesi, potevo sopportare qualche altra settimana.
Potevo davvero sopportarlo? Potevo impormi quella tortura? Potevo davvero imporla ad entrambi?
Avevo scelto io per entrambi, questo poteva davvero essere giusto? Forse no, ma io cercavo solamente di proteggerlo.
Ma era davvero quello il modo giusto?
*
La sera dopo Fuka si era presentata a casa mia con un paio di birre, usando la scusa del troppo tempo passato separate. Sapevo che voleva solamente controllare come stavo, che si preoccupava per me e per la mia salute mentale, avendo lei assistito a tantissimi miei crolli causati da Akito, ed era carino da parte sua.
“Quindi, fammi capire: tu gli hai detto che non volevi bambini per preservare la tua carriera?”
Annuii, aprendo la seconda birra. Non avevo voglia di raccontarle la verità. Non perché non mi fidassi di lei, ma parlarne avrebbe significato ricordare quegli orribili momenti e, visto che non c'era alcuna possibilità per me e Akito era inutile farmi del male e farmi compatire dalle mie amiche. Bastava ciò che le stavo raccontando per capire ciò che provava Akito, anche se non del tutto.
“Sei stata proprio una stronza.”
Sorrisi d'impulso, pensando alla sua totale mancanza di tatto nei miei confronti.
“E' la cosa migliore, Fuka. Non posso renderlo felice, quindi perché fingere e distruggerlo più avanti? Non eravamo giusti l'uno per l'altra.”
Feci spallucce e mandai giù un sorso di birra piuttosto lungo.
“Ma chi diavolo sei tu?” urlò Fuka, alzandosi dal divano. “Non ci posso credere che tu sei Sana Kurata, la ragazza che io conosco, quella che è mia amica! Senti, io ho rinunciato ad Akito per te, perché poteste essere felici insieme. Non puoi farmi questo!”.
Era la prima volta che mi diceva una cosa del genere, che mi rinfacciava quello che era successo ormai dieci anni prima.
Non distolsi lo sguardo. “C'è solo una cosa che non potrei mai fare in vita mia: fare del male ad Akito.”
Fuka mi rivolse uno sguardo sconfitto e non nominò più Akito per tutta la serata.
Mancavano due giorni al matrimonio di Aya ed ero stata una pessima testimone, una pessima amica. Ero pessima e basta.
Non mi meravigliava che Akito non mi volesse più, ero la persona più incasinata della terra.
Nonostante quello lui mi aveva amata.
E io avevo distrutto tutto.

Pov Akito.


“Akito!”.
La voce di Natsumi era un suono lontano e ovattato, che diventava sempre più forte man mano che lei si avvicinava alla mia camera. Quando entrò sentii un tonfo, mi voltai e la trovai con la mia bottiglia di vodka tra le mani.
“Di nuovo?” disse indicando la bottiglia. Mi limitai a voltarmi dall'altro lato, non avevo voglia di affrontare quella discussione. Ero ancora troppo provato dall'incontro con Sana. Stavo tornando ad essere vulnerabile da quando l'avevo rivista e la cosa non mi piaceva affatto. Volevo smettere di essere il suo burattino, ma la verità era che da quando l'avevo conosciuta non avevo fatto altro che aspettare come un cagnolino che mi degnasse di un briciolo di attenzione e, quando finalmente l'aveva fatto, il prezzo dell'attesa aveva smesso di essere così caro e io mi ero auto convinto che potesse bastare per tutti gli anni che avevo passato a cercare un suo sguardo. Mi ero ripetuto mille volte che il fatto di essere sposati, di aver costruito quella strana coppia fosse abbastanza, che avrebbe compensato tutto il resto. Realizzai che non era così non appena mi lasciò.
“Ho bisogno dell'Akito lucido, ti prego.”. Mia sorella proprio non voleva lasciarmi in pace. Sentivo Kaori piangere al piano di sotto ma a lei sembrava non importare.
“Tsuyoshi è in cucina, vuole vederti. Dice che rifiuti le sue chiamate da un paio di giorni, è preoccupato.”
Fantastico, ci mancava solamente Tsu.
“Digli che scendo subito.”
Natsumi uscì dalla mia camera portando con se la bottiglia di vodka, ovviamente, intimandomi di sbrigarmi.
Presi la maglia dal pavimento e la infilai alla meglio, per poi scendere le scale e trovarmi Tsuyoshi davanti, con una faccia alquanto preoccupata.
“Ti sei svegliato con la luna storta?” chiesi mentre mi dirigevo in cucina per fare colazione. Lui mi seguì a ruota.
“Io domani mi sposo, Akito. E tu, in quanto testimone, dovresti impedire che mi venga un attacco di panico o che ne so, portarmi in giro a fare qualche pazzia con delle spogliarelliste scadenti oppure pagarmi una cena, si credo che la cena sia l'opzione migliore perché le spogliarelliste potrebbero essere un po' eccessive e io non voglio che...”
Mi fiondai su di lui e lo bloccai per le spalle. “Tsuyoshi smettila. Niente spogliarelliste, ma ti prego smettila di parlare.” Lo costrinsi a sedersi a tavola, gli piazzai una tazza di cereali davanti e gli versai un po' di latte.
“Adesso mangia. Così avrai la bocca impegnata.”
Tsuyoshi obbedì senza fare storie, e rimanemmo per un po' in silenzio, mentre Natsumi cambiava la bambina e le faceva il bagnetto.
“Ti senti meglio?” chiesi quando finimmo di mangiare.
“Si, diciamo di si, grazie.”
“Scusa se sono stato un pessimo amico. Tu ci sei sempre per me e io sono stato veramente poco presente.”
Tsuyoshi mi tolse la tazza dalle mani e la portò sul piano cottura, scuotendo la testa. “Sei mio fratello, Akito. Non posso chiederti di aiutarmi quando non riesci ad aiutare nemmeno te stesso.”
Annuii. Tra di noi non c'era bisogno di parlare più del dovuto, eravamo fratelli, come aveva detto lui, e io sapevo di poter contare sempre su di lui, anche se spesso io non avevo fatto lo stesso.
Passammo la giornata così, tra chiacchiere di circostanza e ricordi d'infanzia.
Non riuscivo a realizzare il fatto che il mio migliore amico si stesse per sposare. Il matrimonio è un casino, ma lui non avrebbe avuto la mia stessa sorte. Aya non era una pazza squilibrata come Sana, e amava Tsu. Si amavano da sempre.
Avrebbero avuto una vita lunga e felice, esattamente il contrario della mia.



Pov Sana.
 

Aya non faceva altro che toccarsi i capelli, e io non facevo altro che intimarle di stare ferma, perché aveva le mani sudate e avrebbe rovinato tutta l'acconciatura.
Che stress i matrimoni. Erano una vera e propria tortura, chissà perché tutti li designavano come il giorno più bello della tua vita se poi l'unica cosa bella è il momento in cui torni a casa dopo una giornata piena di sorrisi finti?
“Fuka, ti prego, fagli una ramanzina delle tue sennò finirà per impazzire.”
Mentre Aya indossava l'abito, Fuka cominciò a parlare, così mi presi una pausa da tutta quella ansia mista a felicità e mi spostai nella stanza accanto.
Casa di Tsuyoshi e di Aya era molto carina, e ogni suo angolo era pieno dell'amore che li contraddistingueva. Ricordai che Aya mi aveva parlato a lungo del colore della cucina – se prenderla rossa o grigia – e Tsuyoshi continuava a ripetere al telefono che tanto lei alla fine ne avrebbe scelta una terza, perché era l'eterna indecisa.
Tornai in camera da letto, Fuka stava ancora parlando ma Aya non l'ascoltava e se solo lei se ne fosse accorta avrebbe ricominciato da capo. Sul comodino di Tsuyoshi c'era una loro foto durante la vacanza in Italia. Lui l'abbracciava da dietro e la baciava sulla guancia. Aya aveva un'espressione così felice, gli occhi chiusi e la testa rivolta verso l'alto.
“Sei proprio fortunata...” dissi a bassa voce, pensando che nessuno mi sentisse. Invece Fuka smise di parlare e Aya si voltò verso di me.
“Lo so...” sussurrò Aya. “Mi dispiace Sana. Se tutto questo per te è troppo difficile, io… puoi andare.”
Mi avvicinai a lei e l'abbracciai. “Io sto bene, Aya. Tu sei la mia migliore amica. Oggi è il tuo giorno.”
La guardai per un attimo e notai che una lacrima le stava scendendo giù per la guancia. “Non piangere per me, io voglio solo starti vicina. E poi così si rovina tutto il trucco, quindi smettila subito!” le ordinai, sorridendo.
Entrambe scoppiammo a ridere e Fuka alle mie spalle si unì all'abbraccio.
Erano le mie amiche più care. Mi erano state accanto per tutta la mia vita, come potevo abbandonarle solo perché la mia vita era diventata un casino?


*
Aya mi passò il suo bouquet quando arrivò davanti a Tsuyoshi. In realtà dovetti toglierglielo dalle mani perché lei era troppo impegnata a guardarlo. Avevano scelto il rito occidentale ma avevano deciso comunque di mantenere qualche tradizione, infatti l'officiante passò sulle testa dei due sposi un ramoscello di camelia, che poi venne passato ai loro genitori.
Era il simbolo dell'unione delle due famiglie, come due alberi che scelgono di crescere uno accanto all'altro, unendo le loro radici e i loro rami, su in alto.
Avevo scelto volontariamente di non guardare Akito per tutto il tempo, anche se sapevo benissimo di doverlo fare prima o poi.
Ogni cosa durante quella cerimonia mi ricordava lui, il nostro matrimonio, basato su una finzione, e su dei sentimenti che non riuscivamo veramente ad esternare.
Eravamo stati così stupidi.
“Con questo anello io ti sposo...” Tsuyoshi le mise l'anello al dito. “E prometto di esserti sempre fedele, nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia, di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita, finché morte non ci separi.”
Mentre Aya faceva lo stesso abbassai lo sguardo verso la mia mano, inconsciamente non avevo notato di portare ancora la fede, quello stesso anello che io non mi aspettavo. Una lacrima mi scivolò sulla guancia, volevo disperatamente guardarlo, ma la paura mi bloccava.
Avevo paura che mi avrebbe odiato, molto di più di quanto non lo facesse già. Avevo paura di perdere il controllo, che mi sarei fiondata su di lui e lo avrei supplicato di perdonarmi. Avevo paura di trovare nel suo sguardo qualcosa che mi avrebbe detto che sarebbe andato avanti. Io non ci sarei mai riuscita.
Alla fine, comunque, cedetti. Lo guardai. Lui stava facendo esattamente la stessa cosa che stavo facendo io. Non ci avevo fatto caso tutte le volte che lo avevo incontrato prima di quel momento: anche lui portava ancora la fede. Se la rigirava tra le dita nervosamente, mentre Aya recitava le sue promesse.
I nostri sguardi si incrociarono e fu allora che, senza nemmeno rendermene conto, cominciai a piangere. Trattenni i singhiozzi, ma non mi preoccupai di nasconderlo. Chiunque avrebbe pensato che mi fossi emozionata per il matrimonio. Dentro di me tutto stava andando in pezzi. Ma nessuno se ne accorgeva, eccetto Akito.



Pov Akito.

Non aveva alcun diritto di piangere, non dopo quello che mi aveva fatto. Non poteva guardarmi, guardare la mia fede, la sua fede, e piangere in quel modo. Non poteva farmi sentire colpevole della sua sofferenza. Non era giusto.
Il banchetto cominciò subito dopo, ovunque c'era gente brilla, tutti si divertivano e c'era chi si divertiva anche troppo – tipo Gomi, che Hisae non faceva altro che inseguire per tutta la sala – e chi invece, come mia sorella, non faceva altro che starsene seduta con Kaori a rimuginare sulla sua condizione da single. Ma di che si lamentava poi? Kaori, non appena aveva visto Sana, si era dimenata per essere presa in braccio da quella che era stata la sua mamma per mesi. Vedere Sana con la bambina mi faceva uno strano effetto. Sentirla parlare con mia sorella di quanto Kaori fosse cresciuta mi faceva sentire preso in giro. Lei amava quella bambina, glielo si leggeva negli occhi, eppure non era riuscita ad amare mia figlia. Sua figlia.
Mentre sorseggiavo un drink al bar Tsuyoshi si avvicinò a me. “Non mi sembra che tu ti stia divertendo.”
Annuii, buttando giù altro alcol. “Mi divertirei di più se non dovessi sopportare la sua presenza qui.”.
“L'ho vista piangere durante la cerimonia. Non che mi sia soffermato a guardarla, Aya prendeva tutta la mia attenzione, ma diciamo che non è passata inosservata.”
“E' una brava attrice, è il suo lavoro piangere a comando. A questo punto penso che tutti i suoi sentimenti siano una finzione.”
Tsuyoshi non fece in tempo a rispondermi che sentii qualcuno sbattere violentemente i piedi per terra.
Mi voltai e Sana stava andando verso il bagno, con le lacrime agli occhi. Ci risiamo.
“Vai da lei. Scusati.” mi ordinò Tsuyoshi. “Se Aya scopre che la sua migliore amica sta piangendo al suo matrimonio per colpa tua, se la prenderà con me e diventerà vedova prima del tempo.”
Sbuffai e seguii Sana. Non avevo voglia di parlarle, ma non potevo far litigare agli sposi nel primo giorno di matrimonio, nemmeno io ero così crudele.
Quando aprii la porta del bagno la trovai che si guardava allo specchio cercando di sistemarsi il trucco.
Chiusi la porta a chiave, così che non potesse scappare prima di averle detto ciò che dovevo. “Non c'è bisogno di farne un dramma, Kurata. Non ho detto nulla che tu non sappia già.”
Non smise nemmeno per un attimo di guardarsi allo specchio, cercò di ignorarmi, ma mi avvicinai lentamente a lei. Quando lo capì, cominciò ad arretrare.
“No… infatti hai ragione. Almeno così non devo fingere di amarti.” disse senza alcuna emozione negli occhi.
Quella frase mi fece ribollire il sangue nelle vene, non perché non lo pensassi anch'io, ma perché sentirlo da lei era una tortura. Tutto davanti a me diventò nero. La presi per le braccia e la strattonai, trattenendola contro il muro.
“Perché mi fai questo? Perché provi piacere nel torturarmi? Cosa ti ho fatto?” urlai, senza più contenermi, senza pensare che fuori dalla porta c'erano tutti i nostri amici, che avrebbero potuto sentirci. Non mi importava più di nulla.
Sana scoppiò in lacrime, ma non la lasciai. Rimasi lì, nella stessa posizione, la guardai singhiozzare finché non riuscì a parlare. “Tu non lo sai!” urlò anche lei. “Tu non sai che tutto questo fa più male a me che a te! Tu credi che io goda nel farti soffrire? Credi che io abbia davvero finto? Come puoi anche solo pensarlo? Io ti ho amato! Ti amo tutt'ora! Ma non posso darti quello che vuoi! Non posso e non potrò mai!”.
Scivolò contro il muro e la lasciai fare. Si passò la mano tra i capelli, continuando a piangere. Io rimasi in piedi, perché sapevo che se l'avessi guardata dritto negli occhi l'avrei consolata. E lei non lo meritava. Anche se continuava a ripetermi che mi amava, che anche lei soffriva… io avevo passato le pene dell'inferno.
“L'unica cosa che avresti dovuto capire non ti è ancora entrata nella testa.” dissi con la voce di un automa.
“E cioè?”
“Che era te che volevo. Che sarebbe bastato dirmelo, parlare con me, con tuo marito, piuttosto che distruggermi la vita così! Ma tu sei un'egoista! E io sono solo uno stupido, un pazzo, a pensare di amarti ancora!”.
Sana si alzò da terra e si avvicinò velocemente a me. “Allora smetti di amarmi! Smetti di amarmi e sarà tutto più facile!” urlò, dandomi dei pugni sul petto con una forza che non aveva mai avuto.
“Non posso!” dissi tutto d'un fiato. Le bloccai i polsi, ci ritrovammo faccia a faccia, vicini come non lo eravamo da troppo tempo. Non avrei voluto dargli altre sicurezze, ma le parole erano uscite senza filtri, e non ero riuscito a trattenermi. Con lei mi capitava troppo spesso.
Ci guardammo per un attimo in silenzio, nessuno dei due riusciva a distogliere lo sguardo e, quando stavo quasi per decidere di andarmene e lasciarla lì, l'unica cosa che la mia testa mi ordinò di fare fu baciarla.
Mi sembrò come la prima volta. Per tutto il tempo in cui le nostre bocche si toccarono, si leccarono, si esplorarono, pensai che tutto quello che era successo fosse stato una finzione, un incubo, e che quel bacio potesse cancellare tutto il dolore. La portai di forza verso i lavandini e, afferrandola per la vita, la feci sedere sul piano di marmo.
La baciai con tutta la foga e l'urgenza delle notti in cui mi svegliavo da solo nel mio letto e l'unica cosa che desideravo era essere dentro di lei. Abbassai la mano in cerca del suo seno, strizzato dentro a quel vestito verde che per tutta la sera avevo immaginato di strapparle di dosso.
“Ti voglio.”
Cercai di assimilare le parole che mi aveva detto. Lei mi voleva e solo io sapevo quanto anche io la desideravo, ma ero davvero pronto ad amarla come prima?
Mi aveva spezzato in un modo che non pensavo nemmeno possibile, e adesso io cedevo solo perché ero maledettamente innamorato di lei?
Le sue mani arrivarono alla mia camicia e cominciarono a sbottonarla. Fu quando le sue mani toccarono la mia pelle che capii.
“Io non posso.” fu tutto quello che le dissi. Mi allontanai da lei e, abbottonandomi la camicia in fretta e furia, uscii dal bagno.
Tsuyoshi mi guardò correre fuori e non cercò di fermarmi. Proprio per questo era il mio migliore amico.
Uscii in giardino e ritornai dentro solo quando mi calmai. La amavo, la amavo profondamente, ma sarei stato maledetto se mi fossi fatto prendere in giro un'altra volta.


Dopo un sacco di tempo ecco qui il 19° capitolo, appena finito. Mi dispiace non aggiornare più velocemente, ma purtroppo non trovo sempre il tempo/l'ispirazione per continuare.
In ogni caso volevo ringraziarvi per le recensioni che mi avete lasciato. Mi dispiace avervi fatto arrabbiare con questa svolta un po'tragica, ma nella vita non sempre tutto è rose e fiori e quindi devo cercare di essere il più veritiera possibile.
Spero che vi piaccia, che mi lascerete tante recensioni a cui cercherò di rispondere.
Grazie grazie grazie.
Akura.
Per gli amici, come voi, Roberta.

   
 
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