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Autore: Ulisse Degli Architravi    29/08/2017    0 recensioni
Questa è una storia che va narrata ad alta voce, sull'epidermide del mulo.
Una strana, zozza famiglia. Una casa piena di zitelle occhiute e spione; qualcosa di macabro forse, ma sicuramente grottesco e manesco, a volte.
La dimora di peti dissonanti e i recinti dai forti fanculo.
Occupazioni ignobili e noiose, mentre nelle profonde pentole gorgogliano minestre d'avanzi e tante frattaglie.
Quando a Londra Dracula cercava di non farsi fare allo spiedo e ad Est qualcuno beveva sangue inveendo contro il suo molestatore a botte di "sacripante", a sud... ci si poneva una domanda (forse) abbastanza grossolana e ingombrante:
Può un cretino innamorarsi di un capro?
Genere: Comico, Erotico, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, Crack Pairing
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza
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L’aria era malata e fetente, per le finestre chiuse alla notte di fuori e per i malumori del tizio sul tavolaccio, che continuava a dialogare con il Padreterno nell’aldilà forse,  ma certamente restava con il mormorante culo a terra e in quella precisa stanza.
Dopo ore, ogni cosa attorno, come impregnata da tanto forte essenza, sembrava abbastanza lurida; questo forse anche perché la vecchia aveva rovistato ovunque, alla ricerca di qualche avanzo da mangiare, poi raccattato in un pentolino di smalto rosso sbeccato e messo da parte a terra, tra altre cose, con qualche frattaglia di giorni, ancora buona per un animale. Qualche povera bestia infatti aveva saltato il pasto, visto l’imprevisto avvenuto e un morto su un tavolaccio della cucina, al luogo della solita cena.
Aveva digiunato il padrone di casa e così i suoi tanti gatti.
Il signor Carnefrolla aveva, attorno a casa, un invisibile esercito di spelacchiati felini, davvero poco domestici e infidi, animali che neanche troppo in fondo detestava. Fosse stato possibile diversamente, non avrebbe voluto tra i piedi quelle lagne insistenti, ma certo i gatti erano più simpatici dei sorci, che pure spopolavano in campagna e facevano molti più danni di qualunque altro animale, persino più delle donnole e le volpi.
Attirare i randagi attorno alla casa quindi, con un po’ di pessima pappa, era diventata una buona abitudine per il nervoso signor Carnefrolla e anche quella sera avrebbe fatto il suo pessimo dovere in merito, se l’improvvisata del gruppo di uomini, che se n’era venuto da lui con il “morto”, non gli avesse alla fine fatto mettere da parte (con il proprio piatto) ogni altro pensiero ed anche voglia.
Così, nella sua camera da letto, chiuso a chiave come gli avevano quasi raccomandato quelli, e con un nervoso tale da spingerlo ad usare il pitale di ceramica sotto il letto ogni mezz’ora, come un vecchio incontinente tormentato dal desiderio di svuotarsi, il signor Carnefrolla rimuginava sul morto di cui non sapeva niente. E intanto anche i budelli gli si torcevano in pancia e lo facevano in complicati nodi da marinaio, perché tale era stato per molti anni; e questo mentre appunto rimpiangeva qualunque brutta bagnarola in acqua smossa sulla quale si era anche trovato a vomitare; nonostante tutti i casi sventurati stare malamente in mare era decisamente più confortevole che vivere su quella terra mal ferma e tremante, per i troppi passi dei cretini attorno. Così, mentre il nervoso signor Carnefrolla si sentiva davvero all’inferno e indeciso se osare alzarsi del tutto per andare a prendersi, con la dovuta prudenza del caso, un goccio di qualcosa di forte o una purga (magari insieme) nella cucina della sua casa qualcun altro si beava.
La vecchia Rimasuglia aveva divorato la pappa dei gatti da parte, sbavando e borbottando al proposito, e si era goduta quell’improvvisato pasto dopo aver molestato un po’ il tizio sul tavolaccio; che forse era morto e forse no, ma certo abbastanza da sopportare (e forse gradire) le sdentate attenzioni di Rimasuglia e quel suo devoto strofinarlo e pizzicargli il lurido fondello esposto, anche maledicendo di non riuscire a girarlo da sola. Potendo l’avrebbe morso, pensava Rimasuglia; ma non aveva quasi che labbra e qualche dondolante dente. Era però quello che immaginava di fare di fronte a tanta abbondanza, vista sempre dal punto di vista di una donna che le carogne le frequentava in tanti sensi.
E se i notturni erano per gli animali spazzini o piccoli predatori, Rimasuglia vegliava perché era il suo momento.
Attorno, tutto taceva. Sembrava davvero la camera di un malato, più che di un morto, o una cucina; che pure restava tale, nonostante tutto.
Ma non in quel momento. Era l’ora stregata e Rimasuglia lo sentiva.
I vestiti bagnati ancora in quell’angolo a parte, forse iniziavano ad asciugarsi. Le scarpe vuote, a quel punto avrebbero ballato volentieri per poi diventare di nuovo violente con gli altrui sederi. Forse necessitavano di più di qualche sputo per essere lucidate. Vi avrebbe pensato lei, se le fossero avanzati tempo e voglia da altro.
Si immaginava tante cose, Rimasuglia. Cose da fare con il morto, ovviamente. E con un pasto che imputridiva nella pancia, tutto sembrava quasi perfetto.
Certo, su ogni cosa vi era sempre quella goccia che la disturbava. Non c’era per davvero, ma c’era lo stesso nella sua testa. Continua e costante come certo singhiozzare e tossire, era una goccia che quel mucchietto d’ossa di Rimasuglia sentiva precipitare ritmicamente nel pozzo che aveva in cranio. Così si vedeva: Un pozzo; che però non era d’acqua, ma più simile alla minestra di sterco e terra che si lasciavano gli animali dietro, nei recinti fangosi dopo il camminare in circolo e la pioggia. La goccia puzzava, come tutto il resto.
Di questo ne era inconsapevole e al tempo stesso sicura.
Sicura come di trovare qualcosa di troppo familiare in quel bel fondello esposto, così ben disegnato e segnato da quell’incidente. Lo era poi stato? Lo ripensò nell’atto di sedersi sul ferro incandescente, per casualità infelice. Come doveva aver urlato! Ma se invece, in tal segno, vi fosse stato qualcosa di intenzionale? Allora chiunque aveva agito per danno, lo aveva abbellito ulteriormente! Chissà se qualcuno aveva inteso di marchiarlo a fuoco come fosse una bestia perché era come tale oppure... per farlo suo anche agli occhi di tutti coloro che l’avrebbe visto con le braghe calate.
Le idee facevano un ballo di fantocci attorno alla sua testa e la goccia cadeva e cadeva.
Se solo quegli uomini avessero detto il nome…!
Ma anche la carità di girarlo di faccia sarebbe stata apprezzabile, da più punti di vista.
- Chi lo sa come ti chiami, bel ragazzo, di cui adesso vorrei vedere il … – l’ultima parola della rima poetica, si perse nella sgradevole biascicata singhiozzante su una risatina maliziosa – colpa tua, che mi fai venire voglie…!
che van per tocchi, pizzicati e morsi!
Sebbene ora non abbia più denti
(che furon croce e delizia di alcuni)
certo mi resta appallottolata in bocca
una lunga lingua, lenta e passionale!
Ti piacerebbe averla,
me la faresti entrare? – e glielo chiese così, come potesse dirle un “sì”.
Vi fu però silenzio e Rimasuglia, rise.
Se presente, con il morto sul tavolaccio e lei vicino, ci fosse stato qualcuno ad ascoltarla, possibilmente non avrebbe capito bene le sue parole, tanto le diceva male. A sarebbe stato un peccato, visto il parlar forbito e il ricercare la rima in fastidioso “a capo”, spesso preso per rutto o singhiozzo. Ma la poesia non era compresa da gentaglia che a stento sapeva fare croci sui fogli per la propria firma ed era già paradossale, per tale donna, impiegare il tempo a tentare di rimare. Ma era così, nel suo mistero.
E nell’ignoranza di tutti coloro che la ignoravano, come ombra, a lei piaceva poetare.
Ma praticamente senza denti e con troppa saliva in bocca, Rimasuglia sbavava più che discorrere e così, della bellezza dei suoi pensieri, nessuno si accorgeva. Per fortuna. Come di ciò che teneva sotto i luridi stracci che l’avvolgevano, come un sacco di patate floscio.
Se qualcuno le avesse rovistato nella veste, ma certo nessuno si azzardava a farlo per lo schifo e la certezza di poterle trovare addosso solo ossa e pulci, avrebbe scoperto ciò che dopo il pasto, e in quella eccitazione, aveva lì tirato fuori per conforto: uno straccetto piegato a forma di testolina lorda.
Un fantoccio con una faccia che sembrava aver avuto per la benedizione di uno starnuto di cenere sopra, e la successiva asciugatura di un denso moccio. Forse era stato un vecchio fazzoletto infatti, ma per la vecchia era già una bambola e il suo feticcio del momento. Per corpo, un pezzo di legno di scarto rimediato chissà come e già per grazia, forse, vi aveva tolto i chiodi; forse memore di qualche intima disavventura al proposito. Infatti, nonostante tutta la buona volontà che forse vi metteva, ogni suo pupazzo finiva per somigliare all’unica cosa di cui avesse certa anatomica competenza, dopo una vita intera. Falliche creature dotate al difetto di una sola palla, sembravano oggetti adatti ad altri scopi, rispetto al teatrino solitario di Rimasuglia. E forse lo erano. Da lì, l’incerta cura per i chiodi.
Faceva quelle bambole ogni volta che poteva, con la qualunque; e la fantasia al proposito le veniva regolarmente dopo aver mangiato o aver  visto un funerale, era la regola.
In quel caso aveva almeno fatto la prima cosa e la seconda, possibilmente, l’avrebbe avuta un paio di giorni seguenti. Si sentiva quindi allegra. Ma tutto sarebbe stato come doveva se quegli uomini, che dovevano tornare a prenderselo, non avessero dovuto riportare il morto a qualcuno che stava lontano. Allora avrebbe perso sia la messa, che ciò che avrebbe volentieri morso. La cosa la inquietò con tanta evidenza da far mormorare a testa bassa anche il molle fantoccio che agitava, come fosse presa dal fottere malamente l’aria che la circondava, visto il raffinato gesto. 
Fuori sarebbe presto arrivato il giorno e non vi era forse molto per godere di ciò che poteva avere e toccare, piuttosto che di tutto il resto che avrebbe rimpianto.
Si rivolse quindi verso il pupo lordo che scosse il capo a quel pensiero che non aveva espresso.
- Non essere geloso, mia piccola testina! Dopo ti metterò dove più t’aggrada – Rimasuglia baciò il fantoccio e lo ripose in una piega degli stracci che la coprivano e quindi si avvicinò al morto sottosopra, come le sue budella piene di pappa per gatti e attorcigliate dalla commossa emozione che provava nel guardare quel tizio sul tavolaccio. Con lenta cura, si chinò all’unico suo buco che forse ancora ascoltava qualcosa di quel mondo e con il quale, pure morto, continuava a parlare. Così, sussurrò le sue bavose parole, quelle che le colavano dal cuore – mi piacerebbe essere di te, ciò che non hai digerito o questa cicatrice storta; bellissimo sarebbe essere quello che ti rende difettoso, ma che facendoti tale è segno stesso di celata perfezione…! – e sempre nessuno avrebbe capito una sola parola, ma ben compreso il gesto che ne seguì, fatto dalla vecchia con sincera passione. Rimasuglia strinse tra le secche dita la carne molle di ciò che guardava avidamente, come per lasciarvi un altro segno di possesso, poi si chinò su quel piccolo, neanche tanto, umido buco. Infilò la lunga lingua nell’antro posteriore, e mentre lo faceva sentì nel cuore qualcosa di simile a cosa dovesse essere l’amore.
Perché era perfetto e lui, sapeva dell’unico Paradiso che Rimasuglia avrebbe riconosciuto come tale: un luogo nascosto che odorava male. Il suo paradiso era viscido, forse troppo freddo e purtroppo già finito in terra, oltre il tempo che le sarebbe rimasto in bocca. Ma non era attimo di perdere l’impegno del trasporto! E così non fece infatti, fedele al suo desiderio.
Nella muta stanza in cui erano soli, le luci stavano spegnendosi nel giorno e il silenzio era stropicciato solo da quel grigio risucchiare. Al culmine di quell’appassionato bacio, Rimasuglia, insoddisfatta nel cuore, non poté che fare il più grande atto d’affetto di cui fosse capace. Si cercò addosso il fantoccio e quindi tolse la bocca dal paradiso per conficcarvi dentro il suo feticcio, il suo personale tappo a quel pozzo di goduria!
E mentre lo faceva, senza trattenersi, gli chiese se gli piaceva a quel modo o se forse lo preferiva messo al rovescio. Con tale cura continuò fino alle prime luci, che strisciarono, dagli scuri di legno rimasti mezzi aperti al buio di quella notte, come fossero altre lingue bianche. Si risentì gelosa, quando le vide sfiorare le carni morte dell’uomo riverso sul tavolaccio e che era suo. Ma certo non al sole aveva dato tutta quella confidenza, il morto. E questo la fece quietare in parte.
L’alba vera giunse con la grazia di una secchiata di piscio rivoltata giù per la finestra e non poté che odiarla. Rimasuglia, commossa e ancora più disfatta dal pensiero che stava per perdere ciò che aveva appena imparato ad amare, fece giusto in tempo a riporre il suo intimo segreto più al caldo di dov’era stato.
Intanto la conchiglia della casa mormorava.
Il nervoso signor Carnefrolla si era alzato dal letto, in cui si era quasi strozzato con le lenzuola, e lavandosi la faccia con acqua fredda faceva un rosario di insulti ai cristiani, senza toccare i santi.
Ce l’aveva certo con chi stava per venire. Venire a portarlo via e chissà dove!
Neanche sapeva il nome del suo amore.
Le restava solo quello che c’era stato tra loro. Il segreto che il suo fantoccio avrebbe raccontato al prossimo pupazzo che avrebbe fatto, di sicuro, quando avrebbero spettegolato del luogo oscuro in cui era stato.
La vecchia rivolse al tavolaccio un’occhiata liquida e malinconica, quindi trascinò la sedia su cui prima era stata tanto seduta e si andò ad acquattare nell’angolo, dove stavano i suoi vestiti ormai asciutti. E quelle scarpe, da pulire a sputi. Ma ormai non le restava più umore per quello, in tutti i sensi.
Povere scarpe che non avevano ballato! E neanche tirato in calci che desideravano.
Lo pensò mesta, quasi avrebbe pianto, sapendolo fare.
Intanto, bussarono alla porta come l’alba aveva fatto sull’oscuro cielo. C’era già più di qualche uomo, fuori. Le voci oltre la soglia erano fumose e basse, come le nuvole.
 
   
 
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