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Autore: pinky_neko    30/08/2017    2 recensioni
Quando la vita tranquilla di due fratelli cambia drasticamente, non si può far altro che continuare a respirare per non affogare in un mare di disperazione.
Perché a volte basta una sola parola per far crollare intere certezze.
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[Syo e Kaoru Kurusu]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kaoru Kurusu, Syo Kurusu
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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You and Me
 
 
La prima volta che aveva capito sul serio cosa fosse la paura aveva dieci anni.
Rannicchiato in cima alle scale, nel buio per non farsi vedere, coi pugnetti chiusi in grembo e le dita dei piedi arricciate per il freddo, nascoste dalle ciabattine. Era bastata una parola perché il mondo di Kaoru crollasse.
Incurabile.
Così aveva pronunciato la mamma.
Era sgattaiolato fuori dalla sua cameretta non appena aveva sentito il respiro di Syo nel letto accanto al suo farsi più profondo, segno che si era addormentato.
Quella mattina sua madre aveva parlato col dottore, e Kaoru aveva capito che la sera stessa i suoi genitori ne avrebbero discusso.
 
Era tutto iniziato un paio di settimane prima.
Stavano facendo colazione. Seduti al tavolo c’erano solo lui e il suo gemello. Il padre era già all’atelier mentre la madre finiva di preparare frettolosamente la sua borsa piena di spartiti, prima di andare all’accademia.
Apparentemente tutto normale.
Ma quella mattina - una come tutte le altre, con il rumore dei tacchi della madre che facevano da sottofondo al Mi passi la marmellata? di Kaoru e al lamento sommesso di Syo dopo aver bevuto in fretta il tè che puntualmente gli ustionava la lingua -, Kaoru aveva avvertito che qualcosa non andava.
La tazza era caduta dalle mani del fratello, formando una chiazza bagnata sulla tavola. I lamenti di Syo erano continui, non più dovuti soltanto al bruciore; i suoi occhi erano chiusi e le sopracciglia aggrottate in un’espressione di dolore. Si teneva con una mano il petto, stringendo le dita all’altezza del cuore.
Kaoru era rimasto pietrificato al suo posto, mentre sentiva la madre accorrere verso il figlio maggiore – di pochi minuti! Gli ricordava sempre Kaoru ogni volta che Syo lo ripeteva. Siamo gemelli, in fondo! – e chiedergli, agitata, cosa gli facesse male.
Kaoru aveva visto il fratello impallidire, poi tutto era avvenuto così in fretta che in quel momento quasi non si era nemmeno reso conto stesse accadendo per davvero.
Syo aveva perso conoscenza tra le braccia della madre. Lei, disperata, aveva preso il cellulare e chiamato un’ambulanza. Erano arrivati in una decina di minuti, portandosi via Syo e lasciandosi dietro solo una scia di abitudini che quella mattina, per la prima volta da anni, non sarebbero state rispettate.
Non ci sarebbe stata nessuna corsa per il bagno, per vedere chi per primo si sarebbe lavato i denti – vinceva puntualmente Syo, era sempre stato più veloce di lui -. Non avrebbero scelto l’uno i panni dell’altro per prepararsi per la scuola, e non avrebbero nemmeno camminato insieme verso la fermata dell’autobus – il primo che sale tiene il posto all’altro! Era la loro regola -.
Ma quel giorno a scuola non ci sarebbe andato neanche Kaoru.
Più tardi, all’ospedale – dove Syo si era ripreso, ma No, non puoi ancora andare da lui, tuo fratello ha bisogno di assoluto riposo -, aveva chiesto a sua madre cosa gli fosse successo. Il suo cuore si era fermato, gli aveva risposto. Solo per un secondo, ma abbastanza da tenerlo in quella camera d’ospedale per quasi due settimane.
Undici giorni, per la precisione.
Undici, lunghissimi, giorni in cui la routine di Kaoru era stata completamente cancellata. Niente più colazione insieme, niente più corse per il bagno. Niente più Syo.
«Ma lo vai a trovare tutti i pomeriggi, non è come se non lo vedessi mai», lo aveva consolato la mamma. Ma non era la stessa cosa.
Vederlo tutti i giorni in quella cupa stanza d’ospedale, con l’odore di farmaci che gli riempiva le narici e un tubicino infilato nel braccio di Syo – quello prima non c’era mica! -, non era la stessa cosa.
«Mi fanno un sacco di esami!», si lamentava poi lui. «Non è per niente divertente stare qui!»
Nulla era come prima, a parte Syo. Il sollievo di non trovarlo cambiato di una virgola era la medicina migliore per quel turbinio di sentimenti che aveva iniziato a provare Kaoru. Qualcuno li avrebbe chiamati ansia.
Con gli anni – tutte le volte in cui quella stessa situazione si fosse ripetuta da lì in avanti - lui stesso li avrebbe definiti paura.
Ma quel sollievo, nel bambino di dieci anni, gli faceva quasi dimenticare la vista del suo gemello incosciente tra le braccia della madre. Quasi.
Perché poi, ogni volta che andava a letto e chiudeva gli occhi, era l’unica immagine che gli si ripresentava davanti le palpebre serrate.
 

 
All that I know is I’m breathing.
 
 
E finalmente, dopo quegli undici giorni, Syo era tornato a casa. Stanco e spossato, ma felice di trovarsi nuovamente in un luogo conosciuto.
Dall’ospedale si era portato dietro solo un flaconcino con delle pillole. «Me la ha date il dottore», aveva spiegato lui. «Ma sono tanto cattive!»
«Dovrai prenderle tutti i giorni», lo aveva rimbeccato la madre, senza lasciarsi intenerire dal broncetto contrariato sul volto del bambino.
E Kaoru era contento perché finalmente il suo Syo era tornato. Ma la felicità non era durata molto.
L’aveva sentita, la mamma, mentre prendeva il cappotto di suo padre e lo appendeva all’attaccapanni nell’ingresso, non appena questi era rincasato quel giorno. Era stato solo un sussurro, probabilmente per non farsi udire dai gemelli.
Stasera ne parliamo.
Syo non si era accorto di nulla, Kaoru aveva sentito di nuovo quel fastidioso turbinio di sentimenti.
 
E poi si era trovato lì, quella sera, con Syo al sicuro – per la prima volta dopo undici giorni – nella loro cameretta, e lui rannicchiato in cima alle scale.
I genitori parlavano nella stanza al piano di sotto accanto la gradinata. La porta aperta gli permetteva di sentire le voci della madre e del padre che si alternavano.
Il medico ha detto… malattia al cuore…
… tempo rimane…
Riusciva ad afferrare solo strascichi e spezzoni di quel discorso, non tutto, ma comunque abbastanza da capire la situazione. Era più grave di quanto pensasse.
Ma dentro di sé lo aveva sempre saputo, quanto fosse grave, da quel momento in cui Syo aveva mostrato segni di dolore sul volto.
Una parte di lui era rimasta in quella cucina. Immobile e incapace di proferire parola. Rivedeva ancora la mano di Syo abbandonata sul tavolo accanto alla tazza rovesciata. Se si fosse allungato per prendergliela, si era chiesto distrattamente, Syo lo avrebbe sentito? Avrebbe sentito meno dolore?
L’atmosfera in quella casa, nel suo angolino sulle scale, si era fatta pesante. Così pesante che credeva quasi di non riuscire a respirare.
I farmaci ne rallenteranno il decorso.
La madre sembrava essersi avvicinata alla porta, Kaoru riusciva a sentire meglio la sua voce.
È incurabile.
Incurabile.
Era piccolo, non sapeva cosa volesse dire “decorso”, ma conosceva la parola “incurabile”. Non era una cosa bella.
L’ultima volta che l’aveva sentita nominare era stato per sua nonna – quella che viveva in campagna. Syo e Kaoru andavano sempre a trovarla in estate e stavano da lei per un paio di settimane tutti gli anni -.
Anche lei era malata, così aveva detto loro la mamma. Anche lei era incurabile.
E l’anno prima non erano andati a trovarla in campagna per due settimane. Avevano solo avuto il tempo di vederla stesa accanto a un altarino pieno di fiori e candele, prima di tornare a casa loro.
Circondati da tutti i loro parenti – anche quelli che non vedevano mai e qualcun altro che neanche conoscevano – avevano partecipato per la prima volta a un rito funebre, così lo aveva chiamato il padre.
«Sembra che stia dormendo», gli aveva sussurrato Syo quel giorno, mentre nella stanza i loro parenti si scioglievano in lacrime di dolore.
Quella era stata anche la prima volta che aveva visto sua madre piangere.
Loro erano piccoli, ancora non gli era chiaro cosa stesse succedendo, ancora non avevano capito che non ci sarebbe stata più alcuna visita dalla nonna. Ma se la mamma piangeva allora per Kaoru tanto bastava per classificarla come una brutta esperienza che non voleva rivivere.
Non voleva vedere suo fratello dormire accanto a un altare pieno di fiori.
Ma cosa avrebbe potuto fare?
 

 
All I can do is keep breathing.
 
 
Crescendo era diventato più consapevole. Aveva preso le sue decisioni e intrapreso la carriera di medico.
«Lo faccio per aiutare il prossimo», diceva agli altri.
Lo faccio per salvare Syo, pensava.
Egoistico? Forse sì.
Ci sarebbe riuscito? – Incurabile. La serie di sillabe che gli tornava in mente nei momenti peggiori. Ogni minuto della sua vita -. Probabilmente no.
Ma da quella sera in cima alle scale erano passati otto anni. Da quattro, si era trasferito in America per frequentare scuole apposite e seguire studi di ricerca avanzata in campo medico.
Aveva lasciato Syo in Giappone. Per la prima volta, da quando erano nati, si erano separati.
Fino a quel giorno di otto anni prima, per Kaoru sapere di poter essere sempre insieme a Syo era l’unica cosa che realmente avesse mai importato. Stessa cosa per il fratello.
Esserci l’uno per l’altro era ciò che faceva loro sopportare ogni altra situazione possibilmente spiacevole. Erano insieme, tanto bastava.
Ma con l’arrivo della malattia – il singhiozzo al cuore, così l’avevano chiamata da bambini perché A volte sembra battere forte e lento come un singhiozzo, gli diceva Syo – tutto era cambiato.
Kaoru si era scoperto più volte a fissare Syo anche nelle piccole azioni quotidiane.
Quando lo sentiva lamentarsi per il bruciore alla lingua, dopo aver bevuto il tè bollente, aveva paura. Paura che potesse ripetersi la stessa sequenza di avvenimenti accaduti la prima volta: Syo che stava male, la mamma che accorreva accanto a lui, l’arrivo dell’ambulanza.
E Syo che se ne andava.
Le loro abitudini erano cambiate parecchio. Non facevano più le corse per il bagno – non mi va, si scusava sempre Kaoru di fronte al broncio offeso di Syo. La verità era che Kaoru temeva che il singhiozzo sarebbe potuto peggiorare se Syo non fosse stato tranquillo -.
Non andavano più a piedi verso la fermata dell’autobus. In realtà non prendevano proprio più l’autobus. La mamma insisteva tutte le mattine per accompagnarli a scuola in macchina.
A volte, se proprio lei non riusciva per impegni lavorativi – devo stare fuori un paio di notti, ho un concerto fuori città, era la motivazione più frequente -, ci pensava il padre a portarli a scuola, finendo sempre per aprire l’atelier in tarda mattinata.
A nulla servivano le proteste di Syo – Siamo grandi, possiamo cavarcela!, oppure, Farai tardi a lavoro, il laboratorio è dall’altra parte della città rispetto la scuola! -, i genitori erano sordi a ogni obiezione che il gemello maggiore gli propinava. Anche se quelle erano vere.
«Perché non mi aiuti a convincerli?», gli aveva chiesto una volta Syo, con tono disperato.
«Perché magari è più giusto così…»
Si era quasi vergognato della sua risposta, perché Kaoru sapeva che Syo si sentiva trattato con i guanti da tutti. Come fosse debole.
Ma mai, prima di quella risposta, aveva avuto la conferma che anche il suo stesso gemello lo trattasse in quel modo.
Da quel giorno, anche l’abitudine di scegliersi i panni a vicenda era sparita.
 
Kaoru non aveva mai considerato Syo debole. Era il suo gemello, ai suoi occhi era semplicemente perfetto. E forte, e pieno di voglia di vivere.
Kaoru aveva solo paura che fosse il cuore di Syo a essere debole. Che, per colpa di quel singhiozzo che andava e veniva di tanto in tanto – portando Kaoru a rivedere altre decine di volte suo fratello in quel letto d’ospedale con quel tubicino nel braccio -, il suo cuore non riuscisse a stare al passo con quello che la mente e il corpo di Syo volevano invece fare.
Col passare degli anni e con gli studi di medicina se ne era sempre più convinto, ma dopo quell’ultima risposta – e ricordando l’espressione che ne era seguita sul volto di Syo, così offesa e ferita -, non aveva più voluto fermare suo fratello.
Aveva deciso di lasciare quel compito ai suoi genitori, Kaoru l’avrebbe supportato nelle sue scelte.
Così quando Syo gli aveva detto di voler diventare un idol, lui aveva chiuso tutta la sua paura in un angolino della sua anima – dove ancora si trovava quel bambino di dieci anni rannicchiato sulle scale -, gli aveva sorriso e Verrò a tutti i tuoi concerti, gli aveva solo risposto, il più possibile incoraggiante.
Non se ne era pentito solo grazie all’espressione di gioia che gli aveva rivolto Syo. Non lo vedeva così felice da troppo tempo.
Quindi a quattordici anni Syo era entrato nella Saotome Academy, mentre Kaoru si era trasferito in America.
 
E dopo quattro anni in cui non si rivedevano – Kaoru rientrava a casa solo per Natale, periodo in cui Syo aveva sempre da lavorare da quando era diventato un idol a tutti gli effetti -, Kaoru era tornato in Giappone. Tornato per restare, con gli occhi pieni di lacrime, il cuore più pesante di un macigno, e la mente sgombra da una qualsiasi soluzione.
Syo lo aveva stretto forte in un abbraccio e Kaoru aveva ricambiato.
Entrambi consapevoli.
Non poteva ancora fare niente. Solo stargli accanto.
Sarebbe stato sufficiente?
 
 

 
All we can do is keep breathing.
 
Now.
 
 
 
Forse no.
Ma per il momento va bene così, Kaoru.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Qualche spiegazione:
 
- nella storia originale (quella del gioco) Syo è malato al cuore e il suo gemello Kaoru vuole diventare medico per poterlo curare. Nella wiki non è specificato quando Kaoru si trasferisca in America per studiare medicina, io ho sempre supposto lo facesse quando Syo iniziava ad andare all’Accademia Saotome (anche se è poco credibile che a 14 anni uno inizi a studiare medicina, ma qui siamo pur sempre in un videogioco =P)
 
- il fatto che la malattia sia incurabile è di mia invenzione giusto per questa fanfic… dissero sadica fino al midollo… XD
 
- sempre dalla wiki ho scoperto che i genitori di Syo sono una direttrice d’orchestra (la madre) e uno stilista (il padre); ho sempre voluto parlare di loro in una ff (o anche solo citarli come ho fatto qui) e finalmente ci sono riuscita. Non nego che potrei riproporli in futuro se avrò altre ideuzze che li comprenderanno XD
 
- le frasi in inglese in mezzo al testo sono prese dalla canzone Keep breathing di Ingrid Michaelson (mentre la ascoltavo ho avuto l’ispirazione per questa fanfic, mi sembrava carino citarla)
 
 
 
Note dell’autrice: eccomi tornata su questo fandom dopo due anni che non scrivevo più nulla, decisamente troppi! E non potevo non tornare con una ff sui miei gemellini preferiti, anche se lo so, ormai mi sto ripetendo! ^^”
Ho avuto l’ispirazione per questa – ennesima angstuosa (?) - oneshot una settimana fa e l’ho scritta abbastanza di getto in due notti, spero sia comprensibile (anche con quei flashback dentro altri flashback… ho osato un po’ con lo stile, spero di non aver fatto un disastro ^^”).
Scusate per il finale aperto, ma direi che così si può tranquillamente ricollegare alla storia dell’anime (la fine risalirebbe a quattro anni dopo la prima stagione, in sostanza). Non me la sentivo di mettere né un happy ending (non ne ero particolarmente in vena, o non avrei neanche scritto qualcosa di così angst XD), né un finale troppo tragico, ho preferito la via di mezzo.
Spero possa esservi piaciuta, è solo una cosina non troppo pretenziosa a cui però tengo tanto perché comunque tratta diversi argomenti a me molto cari. Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate con un commentino. =D
Grazie a tutti per aver letto.
Un bacio,
Pinky_neko
  
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