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Autore: usotsuki_pierrot    02/09/2017    1 recensioni
Ecco la storia, raccontata in breve, del mio oc di BNHA, Kimura Nanako!
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«Takuya, aspettami!!».
«Non è colpa mia se sei lenta come una lumaca, Nanako!».
Ero sempre stata invidiosa di tutto ciò che riguardava mio fratello, Kimura Takuya. O di ciò che rimaneva, di lui. Nonostante non avessimo davvero legami di sangue, essendo lui stato adottato prima che nascessi, ci assomigliavamo quel tanto che ci permetteva di vivere il nostro rapporto fraterno senza che qualche estraneo si accorgesse di questo non così piccolo dettaglio.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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PREMESSA
Eccoci qua, finalmente, con il terzo ed ultimo capitolo di questa fic infinita! Dunque, cosa dire. Innanzittutto che mi ci sono impegnata, seriamente, più su questo capitolo che sugli altri due; non che non mi sia focalizzata abbastanza sulle altre parti, anzi, ho fatto fatica e mi sono scervellata parecchio anche lì, ma in questo caso... ho cercato di trovare un'organizzazione, ecco. Ho tentato di scriverlo per gradi, mi sono immaginata le scene nel modo più dettagliato possibile, sia per descriverle al meglio delle mie attuali capacità sia per rendere il tutto quanto più realistico. Questa è una delle fic in cui ho messo l'anima, praticamente :''
Ringrazio soprattutto la mia senpai, creatrice di Satoru, perché senza di lei probabilmente non sarei giunta a questo punto e non sarei stata in grado di pensare ad alcune di queste scene.
Quindi, senza altri indugi - perché tanto Takuya, Lizzy e Satoru ormai li conoscete - vi lascio qui il link della mia pagina fb, vi auguro buona lettura e vi saluto! Alla prossima!!




«Non muovetevi!».
La voce di Aizawa arrivò ovattata alle mie orecchie.
«Quelli sono Villain».
Se ne fossi stata in grado, avrei di certo deglutito. Forse per impedire alla tensione e alla paura che provavo in quel momento di prendere il controllo totale su di me.
Takuya era davvero lì, davanti ai miei occhi, in mezzo a tutti quei Supercattivi. Anzi, si era avvicinato proprio a quello che pareva il capo, l'individuo raccapricciante con le mani mozzate attaccate da ogni parte.
«Ma quello non è..?!». La voce di Momo seguì quella dell'insegnante, che sembrava già pronto a sferrare il primo attacco.
«È Takuya!! Lo sapevo!!».
«Mineta, calmati». Il tono di Tsuyu risultò più calmo di quello degli altri, ma eravamo consapevoli che ormai il terrore albergava dentro ognuno di noi.
«Nanako..!». Kirishima si voltò verso di me con un'espressione preoccupata dipinta sul volto per nulla tranquillo.
Mi tornarono in mente i ricordi di quel giorno in cui Takuya, con la sua maledetta armonica, aveva sferrato quel primo attacco, che mi sarebbe rimasto impresso per sempre.
Strinsi i pugni, per scacciare quell'orribile sensazione, quelle catene invisibili che mi bloccavano.
Le immagini del volto sconvolto di Fukuda...
«Ragazzi, allontanatevi!».
... i suoi occhi spaventati...
«Sensei!!».
... Quella sorta di soddisfazione nell'espressione severa di colui che credevo fosse mio fratello...
«Dobbiamo chiamare i rinforzi in qualche modo!!».
“Basta così”. Furono quelle, le parole di cui mi sarei ricordata in futuro, insieme al coraggio misto ad un tremendo panico che si fece strada dentro di me, spingendo il mio corpo verso l'ignoto.
«Nanako?! Nanako!!».
Le urla di Kirishima giunsero sempre più distanti e flebili man mano che correvo in direzione di Takuya. Le mie gambe mi parvero estremamente leggere e per un attimo ebbi l'impressione di non toccare terra. L'aria che mi circondava sembrò quasi trasformarsi in un vento che, rapido, mi sferzava il viso ad una velocità tale che per poco non mi fece male, passandomi accanto.
Cacciai un grido quando mi ritrovai ad una distanza ravvicinata, un grido di battaglia che fece scattare in Takuya un sorrisetto malvagio che mai avevo visto sul suo volto.
Saltai, sferrando un calcio dritto verso la sua guancia, ma venni prontamente bloccata dalla sua mano. Strinse un poco la caviglia, abbastanza da far comparire sul mio viso una smorfia di dolore appena accennata; riuscii a posare l'altro piede a terra, mentre l'altra gamba era ancora sollevata.
Cercai di imprimere quanta più forza mi fosse possibile per respingere quella barriera eretta dalle sue dita, ma non fui in grado di completare l'opera. I nostri occhi si incrociarono, i miei color del ghiaccio e i suoi blu di una profondità che inizialmente mi spaventò. Un ghigno quasi divertito si aprì sulle sue labbra, sembrava rilassato.
«Na-na-ko», disse all'improvviso scandendo ogni singola sillaba con un tono di rimprovero. «Accogli in questo modo il tuo fratellone?».
«Così è questa tua sorella?». Lo strano individuo dai capelli corti chiari che sembrava a capo di quell'imboscata si avvicinò pericolosamente a me. Deglutii, lanciandogli uno sguardo truce, intrappolata com'ero nella morsa di Takuya.
Quest'ultimo si accigliò di punto in bianco, riservandogli la stessa mia occhiata innervosita e liberandomi dalla presa.
«Tieni giù le mani, Shigaraki».
«Ehi, era per caso una battuta?».
«Mi occupo io di lei, te ne sei forse dimenticato?», il tono di Takuya era teso, irritato.
«Come vuoi, come vuoi», riprese lui. «Tanto non è lei il mio obiettivo».
Cominciò a grattarsi freneticamente il collo, raschiando la pelle con le unghie, tanto da lasciarne segni ben visibili.
“Devo far allontanare Takuya”, pensai, posando lo sguardo prima sull'uomo e poi sul diretto interessato. “Altrimenti non riuscirò mai ad affrontarlo”.
Il castano sembrò leggermi nella mente, tant'è che si voltò nella mia direzione ancora una volta offrendomi un sorriso che di rassicurante aveva ben poco. Avvicinò il viso al mio, finché le labbra non furono quasi appiccicate al mio orecchio destro.
“Perché... perché non riesco a muovermi..?!”.
«Che ne diresti se andassimo in un posticino un po' più tranquillo, solo noi due? Così potremmo parlare in tutta calma...». La sua mano si posò sul mio braccio scoperto dalle maniche troppo corte della maglietta al di sotto della salopette che fungeva da costume; le dita fredde presero a sfiorare la pelle, facendomi rabbrividire. Ero paralizzata, dalla paura forse, o dalla tensione.
«Se non vuoi che resti qui a sistemare i tuoi amichetti uno per uno... seguimi».
Strinsi i pugni; di certo lui se ne accorse, dato che si allontanò senza alcuna fretta e con una risatina che mi irritò non poco. Ci scambiammo un'altra occhiata, poi cominciò a correre lontano dai brutti ceffi che - me ne accorsi solo in quel momento - già stavano lottando contro Eraser Head.
“Tsk...”. Mi misi all'inseguimento di mio fratello, noncurante della pericolosa destinazione che sarebbe diventata di lì a pochi istanti il luogo del nostro scontro: la zona incendi.
Ero così focalizzata nella corsa per non perderlo di vista (tant'era la paura che scomparisse nel nulla come anni prima), che me ne accorsi solo quando, una volta fermatosi poco più avanti di me, una coltre di fumo non mi offuscò la vista e una sensazione sgradevole di forte bruciore non mi salì per il naso.
Mi bloccai, annaspando e portandomi le mani alla gola che iniziava già a pizzicare. Chiusi un occhio, leggermente piegata sulle ginocchia com'ero, e mi guardai intorno; fiamme di ogni dimensione sovrastavano l'ambiente circostante, rendendo il tutto tinto di un rosso acceso e accecante, e il soffitto coperto di una scura nebbia grigia che avrebbe causato una sensazione di soffocamento a chiunque. I palazzi che ci circondavano erano distrutti, inclinati e sulle pochissime finestre ancora intatte regnava il riflesso del fuoco e della distruzione.
“Questo è un incubo”, pensai, stringendo i denti e rimettendomi completamente in piedi. Il ginocchio sinistro per poco non cedette. Ansimai, e il leggero vapore che fuoriuscì dalla mia bocca rappresentava decisamente un brutto segno; avrei dovuto sbrigarmi, se non volevo morire bruciata lì dentro, o peggio, per mano di Takuya.
«Perché fai questo?!».
«Mmmh? Questo cosa, esattamente?».
«Perché hai scelto di unirti a dei Supercattivi?! Non stavi bene con noi, con me?».
«Non sono affari che ti riguardano, sorellina».
Digrignai i denti, guardandolo con un'espressione preoccupata. Afferrai il più rapidamente possibile il contenitore con i cubetti di ghiaccio appeso alla cintura; ne presi uno e lo misi in bocca lasciando che si sciogliesse trasportato da un lato all'altro dalla lingua. Non ci volle molto. Come pensavo, si era già in parte sciolto a causa delle alte temperature che erano state in grado di superare la protezione del contenitore termico.
Alzai la maschera d'ossigeno che ancora riposava appesa al mio collo, a cui erano stati implementati due tubi di piccole dimensioni ai lati. La loro caratteristica principale era la flessibilità: a seconda della potenza del mio fiato, aumentavano o diminuivano la loro larghezza. Al centro, dei minuscoli forellini avevano il compito di aiutare ad amplificare l'efficacia della mia unicità.
Lanciai uno sguardo di sfida a Takuya, che nel frattempo si era lasciato sfuggire una lieve risata divertita, come aveva fatto poco prima. Saltai all'indietro allontanandomi ancora da lui, per poi preparare il fiato e soffiare qualche istante più tardi.
La mascherina trasparente divenne bianca mentre ne raccoglieva abbastanza per poter aumentare l'intensità dell'attacco. Trasformatosi in vento gelido, passò successivamente ai tubi chiari, che si allargarono con il passare dei secondi, fino a rilasciare una potente brezza contenente brina e qualche piccola scaglia di ghiaccio. Alcune delle fiamme vennero colpite e spegnendosi contribuirono in minima parte a migliorare la situazione.
Tirai un sospiro di sollievo, ma capii immediatamente che non avrei potuto festeggiare. L'incendio era troppo aggressivo per essere anche solo indebolito tramite l'uso del mio quirk.
Osservai Takuya. Il ghigno sul suo viso si era aperto ancora di più, nonostante sulla guancia fosse spuntata una ferita da taglio. “Una delle schegge deve avergli trafitto la pelle” pensai, analizzando i fatti. Una piccola goccia di sangue scese prontamente, giungendo fino al mento e cadendo sul terreno arido.
«Bene... Vedo che sei migliorata».
"Tsk...". Non attesi un istante di più. Abbassai nuovamente la maschera, lasciandola ricadere sul petto, e indirizzai lo sguardo a terra. Raccolsi una quantità sufficiente di fiato che mi permise, soffiando, di spiccare un salto abbastanza alto da avvicinarmi a Takuya.
Ero proprio sopra la sua testa, quando il balzo era ormai al termine. Tentai un ulteriore calcio, che venne bloccato come prima, ma dal braccio. Mossi l'altra gamba approfittando del fatto che ero ancora in volo, e riuscii a colpirgli la guancia sinistra, la stessa che era stata ferita.
Takuya indietreggiò, lasciandosi sfuggire un lieve gemito di dolore e portando la mano a toccare la parte danneggiata; si era formato un alone viola scuro intorno al graffio, che aveva tutto l'aspetto di essere il principio di un livido.
“Devo averlo colpito per bene... L'ho preso alla sprovvista”, mi dissi mentre a passo veloce mi avvicinavo nuovamente. Sferrai un pugno dritto verso il suo mento, ma come avevo previsto fu interrotto dalla sua mano. Mi afferrò il polso istintivamente, cosa che mi permise di piegare in fretta e furia la gamba destra tentando di attaccarlo allo stomaco con il ginocchio. Non funzionò, ma fu comunque costretto ad allontanarsi per schivarlo, e perciò a lasciare la presa.
«Sei diventata molto più veloce di prima, Nanako...». La sua voce era così melensa, in totale contrasto con il suo atteggiamento e l'espressione compiaciuta, che rischiai di rabbrividire.
Era vero, negli anni avevo migliorato la mia agilità, per sopperire alle difficoltà che il quirk mi aveva obbligata ad affrontare. Ma non lo ero ancora abbastanza, non per riuscire a sconfiggere Takuya in un corpo a corpo.
“Non mi resta altra scelta...”. Strinsi i pugni. Ormai sentivo la pelle bruciare; rimanere lì m avrebbe consumata da un momento all'altro.
«Come mai non parli, sorellina?». Mi guardò, senza abbandonare nemmeno per un secondo l'aria soddisfatta stampata sul volto. Non risposi.
Portai la mano ad afferrare una delle bottigliette d'acqua che un tempo erano ghiacciate. Mi sorpresi nel constatare che la plastica era estremamente calda. Provai a berne un sorso; era anche più bollente di quanto pensassi. Tanto che fui costretta a buttarla a terra, tossendo.
“Si mette male...”. Non potevo fare altrimenti.
«Nanako, dovresti saperlo che non bisogna buttare a terra nulla...».
Ero arrivata a detestare quella voce. Appoggiai per la seconda volta la maschera sul viso, davanti alla bocca, e cominciai a respirare pesantemente; era il modo più rapido per ottenere quanto più alito freddo possibile. Il materiale della mascherina si appannò di nuovo mentre minuscoli cristalli di ghiaccio accompagnavano la brina prodotta dal mio fiato.
«Cosa stai progettando, eh?». Takuya fece un passo avanti. Poi un altro. E un altro ancora. Sempre più veloce.
Indietreggiai. Non potevo permettergli di raggiungermi prima che avessi finito.
«Rispondimi!!». Era vicino, troppo vicino. Potevo sentire la sua voce rimbombarmi nelle orecchie. Era ad un passo da me.
Allungò una mano, era ormai sul punto di toccarmi. Le dita stavano per sfiorarmi la pelle.
Serrai gli occhi. Abbassai di colpo la maschera dopo aver ispirato; feci per gridare.
«Ma cosa..?!».
Un scia di ghiaccio uscì dalla mia bocca, seguendo una direzione lineare, avanti a me.
Takuya per poco non ne fu travolto.
Parte del terreno venne distrutta, sul suolo erano comparse profonde crepe che si aggiunsero a quelle già presenti nella zona, causate dall'enorme masso ghiacciato fatto di spuntoni e del mio stesso fiato.
Caddi a terra, le ginocchia avevano ormai ceduto. Annaspai, cercando l'aria che non riuscivo a trovare. Mi portai la mano alla gola sentendola pizzicare come non mai.
Gli occhi mi lacrimavano, ma non perché stessi per piangere, quanto piuttosto per la fatica.
Non riuscivo nemmeno ad alzare la testa.
Il mio corpo tremava.
“Cosa... Che mi è successo..?!”; a malapena riuscivo a pensare.
«Nanako!! Tutto bene?!». Una voce estranea fece la sua apparizione poco lontano da noi e dal blocco di ghiaccio appuntito che separava me da Takuya.
“Ojiro..?!”. Il ragazzo biondo con la coda, risultato della sua unicità, mi guardava con un'espressione preoccupata dipinta sul volto. Doveva essere saltato su uno dei massi rialzati di terra creati dalle crepe e dalle fiamme, pensai. Aprii la bocca per parlare, per avvisarlo, dirgli di scappare o di fare attenzione. Ma l'unica cosa che fuoriuscì dalle mie labbra fu il silenzio.
“Cosa... Cosa?! Non esce niente!! Com'è possibile?!”.
«Tsk... Vedo che uno dei tuoi nuovi amichetti è arrivato fin qui...».
Takuya mi rivolse uno sguardo infastidito.
«Sai, sorellina... Non sei l'unica ad essere migliorata, qui».
Strabuzzai gli occhi. Stava per fare ciò che avevo paura avrebbe fatto sin dall'inizio?
Infilò la mano nella tasca per poi estrarvi il suo amato strumento musicale, l'armonica argentata. Ciò che mi fece preoccupare ancora di più fu lo stato in cui quel maledetto oggetto versava: era estremamente consumato. Chissà quanto Takuya si era allenato... e quanto aveva sviluppato la sua unicità. Mi morsi il labbro; tentai di alzarmi, ma era come se il mio cervello non avesse più controllo del corpo. Le gambe non si volevano muovere.
Si portò l'armonica alla bocca, socchiudendo gli occhi blu.
«Cosa ti è-».
«Ojiro, scappa!!», riuscii a gridare, con la voce mozzata.
«Che?!».
Troppo tardi. L'armonica rilasciò la prima nota. Serrai gli occhi, stringendo i pugni. Aspettai qualche secondo, ma non sentii assolutamente nulla.
“Non... Non funziona..!!”, mi dissi, esultando tra me e me. Ma non feci in tempo a finire quel pensiero, che un potente urlo si librò nell'aria facendola quasi vibrare.
Spalancai gli occhi chiari e mi voltai immediatamente verso Ojiro; le palpebre erano serrate, i denti digrignati e le mani premevano contro le orecchie.
Takuya suonò la seconda nota. Le gambe del biondo iniziarono a tremare, come se stessero per cedere da un momento all'altro; un nuovo grido, anche più forte e carico di dolore del primo, partì dalle sue labbra, mentre buttava la testa all'indietro.
Ero paralizzata, con gli occhi ancora spalancati e la vista che pareva offuscarsi ogni secondo di più. Il mio respiro divenne affannoso a quella vista, e leggere nuvole di vapore si liberarono nell'aria scura di fumo.
“No... Non di nuovo..!!”. Non ero in grado di muovere un muscolo. Avevo consumato troppa energia nell'attacco diretto a Takuya.
La terza ed ultima nota partì dallo scintillante oggetto tra le dita del castano. Ojiro cadde, battendo le ginocchia al suolo, incapace anche solo di cacciare l'ennesimo urlo disperato. Rivoli di sangue scivolarono dall'apertura delle dita, ancorate alle tempie, colando rapidamente sul dorso delle mani e attraversando le braccia fino al gomito, da cui poi caddero sotto forma di piccole gocce rosso scure.
Gli stavano sanguinando le orecchie.
«Basta..! Finiscila!!», gridai con voce rauca.
Takuya si fermò indirizzandomi un'occhiata gelida e divertita allo stesso tempo. Allontanò lo strumento dalle labbra, per poi riportarlo nelle tasche dei pantaloni.
«Ci tieni proprio ai tuoi insulsi compagni di classe, vedo», disse. «Tanto quello non riuscirà a muoversi per un bel po'...».
Si voltò verso di me, che ancora mi trovavo completamente immobilizzata di fronte al blocco di ghiaccio che iniziava lentamente a sciogliersi.
«Così nessuno potrà disturbarci...», riprese poi con un tono melenso con il quale sottolineò la parola "nessuno".
Si avvicinò a me, per poi chinarsi e accarezzarmi il mento con una mano, alzandomelo. Lo guardavo dritto negli occhi, in quel momento. Digrignai i denti corrucciando la fronte. Passò un dito sulla pelle rovinata dalle fiamme tutt'intorno.
Sorrise, e potei notare un che di malizioso nel suo sguardo.
Dopo qualche istante sentii i polpastrelli allungarsi sul mio collo, finché tutto il palmo non aderì completamente. Le falangi si strinsero, facendomi mancare l'aria per qualche secondo. Boccheggiai nel momento in cui Takuya aumentò la pressione e la forza delle dita per potermi sollevare da terra fino a distendere interamente il braccio verso l'alto.
Chiusi un occhio stringendo i denti e portai le mani ad afferrargli il polso, mentre l'altra pupilla vagava per cercare la figura di Ojiro; era accasciato a terra. Era cosciente, aveva gli occhi aperti e mi guardava con un ghigno disperato, ma pareva troppo debole per muoversi. Mi dimenai con la poca forza che avevo ritrovato, ma non servì a nulla.
Takuya iniziò a camminare senza allentare la presa e portandomi ad una distanza fin troppo ravvicinata ad una delle fiamme che divampavano vicino a noi.
«E ora... finalmente posso...». Con la mano libera sganciò le bretelle della salopette, che ricadde liberando la maglietta chiara che indossavo al di sotto.
Si leccò le labbra, mostrandomi un sorrisetto diverso dal solito.
«... posso farti mia...». Sbiancai, irrigidendomi.
Il mio cervello parve smettere di funzionare correttamente. Non riuscivo a produrre un pensiero di senso compiuto. Non potevo muovermi, nemmeno per aumentare la forza nella presa al suo polso. Fui solo in grado di guardarlo dritto negli occhi e di percepire l'orribile sensazione della sua mano che si infiltrava al di sotto del tessuto della maglia e quella dei polpastrelli che mi accarezzavano avidamente la pelle.
Involontariamente disegnai nella mia mente il percorso che le dita - di MIO FRATELLO - stavano eseguendo, soffermandosi sui fianchi, risalendo e infilandosi sotto il reggiseno. Non avevo la forza nemmeno per rabbrividire.
«Potrò averti di nuovo tutta per me... tutta».
«Na... Nanako..!». Takuya si voltò, riconoscendo al volo la voce che aveva parlato. Ojiro stava tentando disperatamente di rialzarsi, dopo aver assistito alla macabra scena.
Lo guardai, con gli occhi carichi di terrore e disgusto, finché non riuscii, grazie ad un improvviso attacco di follia e coraggio, ad urlare un «allontanati da me, mostro!!», tirandogli un calcio dritto in mezzo alle gambe. Barcollò, gemendo di dolore, poco prima di lasciarmi cadere a terra senza forze.
Tentai di riprendere fiato come potei, ma la vista era ormai offuscata dal fumo, dalla mano di Takuya intorno al mio collo e dalle fiamme a cui ero stata esposta.
All'improvviso, sentii un rombo. Un rumore forte e sordo che proveniva dall'esterno dell'edificio. Alzammo tutti e tre la testa verso l'origine di quel caos, finché, d'un tratto, un torrente d'acqua non distrusse la porta che bloccava l'ingresso e non ci travolse. Serrai gli occhi proteggendomi per quanto possibile con il mio stesso corpo, portandomi le braccia a fare scudo alla testa.
Mi sentii sollevare da qualcuno, e per un attimo mi irrigidii, credendo fosse ancora mio fratello.
«Stai bene?!». Riaprii gli occhi e mi voltai, incrociando lo sguardo preoccupato di un ragazzo che non era per niente chi temevo fosse.
«Satoru!!».
«Sei così contenta di vedermi che mi chiami persino per nome adesso?».
Mi prese in spalla e, trasportato dalla corrente, raggiunse Ojiro.
«Riesci a muoverti? Dobbiamo andarcene il prima possibile da qui!».
Il biondo riuscì a fatica a rialzarsi, e potei vedere il sangue ormai seccato colato dalle orecchie; guardò il ragazzo acquatico con un'espressione decisa seppur dolorante e annuì.
«Muoviamoci!», disse poi.
Satoru eseguì un cenno affermativo con il capo e saltò, aiutandosi con un'onda creata dalla corrente che stava spegnendo ormai quasi tutto l'incendio. Ojiro seguì, battendo con forza la coda. Una volta in aria, il blu buttò l'occhio all'entrata, urlando un «puoi andare!!».
A seguito di quell'ordine, una potente scarica elettrica si sprigionò per tutto l'edificio, amplificata dalla presenza dell'acqua che - ne ero sicura - proveniva dal lago presente nella zona naufragi.
Non vidi più Takuya. Non lo sentii nemmeno. Pensai che avrebbe urlato o si sarebbe fatto ancora vivo, magari saltando anch'egli prima dell'attacco.
«Va tutto bene, Nanako», mi rassicurò Satoru, poco prima di atterrare su una parte di terra più asciutta. La scarica era terminata.
«Ragazzi!!». Una voce femminile ci raggiunge; mi voltai.
«Lizzy..!», esclamai, ma dalla mia bocca non fuoriuscì nient'altro che un debole soffio.
«Per fortuna state bene..!!». La castana non riuscì a terminare la frase. Cadde in avanti, ma venne prontamente sorretta dalla coda di Ojiro.
«Forse... forse ho esagerato troppo con l'elettricità, eheh...», disse lei, rivolgendoci un sorriso forzato. Succedeva sempre, quando non controllava la potenza dell'attacco: crollava a terra priva di forze, il più delle volte di faccia.
Scoprimmo solo uscendo dall'edificio, che gli altri ci stavano aspettando. I Supercattivi erano fuggiti.



Era passata solo qualche ora dall'attacco dei Supercattivi alla USJ. Il sole stava ormai tramontando, riempiendo di un acceso arancione il paesaggio. Il tuo tocco sulla mia pelle era caldo, una volta filtrato attraverso le imponenti finestre della UA.
Ero seduto, in quel momento. Seduto su una delle sedie nel corridoio colorato poste al di fuori dell'infermeria. Aspettavo.
Il mondo giungeva quasi ovattato alle mie orecchie, mentre gli occhi erano fissi al pavimento lucido e i gomiti appoggiati alle ginocchia.
Sentii dei passi avvicinarmi, ma non ebbi la forza di guardare a chi appartenessero.
«Cosa fai ancora qui?». Avrei riconosciuto quella voce e quel tono perennemente irritato tra mille. Mi lasciai sfuggire una risatina forzata.
«Sto aspettando...».
«COSA stai aspettando, eh?!».
«Bakugou, io non... non posso entrare».
«Smettila di dire cretinate o ti prendo a calci nel culo finché non ti convincerai a portare quei dannati capelli a punta lì dentro!». Come al solito, non riusciva a contenersi.
«Non ne ho il diritto».
«Hah?! Hai preso una botta in testa o te la devo tirare io adesso?!».
«Non ho fatto nulla per aiutarla. Non sono stato io ad andare lì e salvarla».
«E con questo?».
«Come "e con questo"?! Non vorrà neanche rivolgermi la parola!».
«Non sei l'unico a non aver fatto nulla per lei. Perfino quel cagasotto di testa a sfere è entrato». Sospirai. Era vero, avevo visto andare tutti, dal primo all'ultimo studente della 1-A, andare in quella stanza.
«È perché quella merda umana l'ha toccata, per caso?».
Mi irrigidii. Da quando Ojiro aveva parlato alla classe di cosa Takuya aveva fatto a Nanako, non ero riuscito a togliermi l'immagine dalla mente. Strinsi i pugni.
«Quella vuole vedere te più di chiunque altro. Anche più della gemella intelligente di quell'idiota di Kaminari, e del ragazzo pinnoso, che sono dentro adesso».
Rivolsi lo sguardo alla porta.
«Vuoi forse farti fregare da quei due?! Non eri tu il vero uomo?! E invece guardati, stai qui a piagnucolare, aspettando che ti portino via la tipa». Deglutii, e non potei fare a meno di arrossire.
Presi coraggio e mi alzai. Aveva ragione, dovevo entrare. Lo guardai, con un'espressione da cui trasparivano le emozioni che provavo in quel momento.
«Grazie, Bakugou».
«Tsk, muovi il culo, ho detto!!».
Risi un poco, e mi affacciai alla porta. Afferrai la maniglia e la feci scorrere. All'interno della stanza c'erano due letti, uno dei quali vuoto, e una tenda che serviva a separarli. Accanto, i numerosi macchinari disposti ordinatamente, che emettevano i soliti bip e suoni ripetuti all'infinito.
«Mh? Oh, Kirishima!».
«Finalmente ti sei deciso...».
Elizabeth e Satoru mi rivolsero un'occhiata che valeva più di mille parole. “Era ora”, dicevano. “Ti sei fatto attendere abbastanza”.
Sul letto dalle lenzuola bianche, Nanako era seduta con la schiena appoggiata alla testiera, le braccia e il collo coperto di bende pulite, e un'espressione sorridente ma incredibilmente sconvolta e triste sul volto. Tra le mani aveva un cartello bianco e una penna dall'inchiostro nero; mi tornarono in mente le parole di Recovery Girl, che annunciavano alla classe quanto fosse stata dura curare dalle ferite la sua pelle e la sua gola, e che la guarigione comportava che non potesse parlare per qualche giorno.
Deglutii nuovamente, fin troppo teso.
«Andiamo, lasciamoli soli», proruppe Satoru, rivolgendosi a Liz e indirizzando alla arancione un sorrisetto compiaciuto.
Una volta usciti e chiusosi la porta alle spalle, mi voltai ancora verso Nanako, che con aria sollevata prese a scrivere.
«N-Nanako, io..!», balbettai.
Lei si concentrò per qualche istante.
Mi sorrise. Alzò il cartello.
“Come stai, Kirishima?”.



L'oscurità della notte inoltrata aveva pervaso ogni angolo di quel vicolo nascosto nella città di Tokyo. Gli edifici i cui lati fungevano da sue pareti erano in rovina, pieni di crepe e dalla vernice scrostata in più punti. L'odore rancido di due cassonetti della spazzatura abbandonati a loro stessi poco lontano da me mi penetrava le narici, facendo comparire una smorfia di disgusto sul mio viso e per poco non mi fece tornare indietro seduta stante. I vestiti che avevo indosso si erano finalmente asciugati solo qualche decina di minuti prima, zuppi com'erano. Al solo pensiero di come, poche ore prima, avevo rischiato di finire annegato o fulminato per colpa di due semplici mocciosi mi irritava non poco; ma ciò che mi faceva andare su tutte le furie erano le loro mani... le loro braccia... intorno al corpo della mia preziosa sorellina. Solo io avevo il permesso anche solo di sfiorarla. Solo io potevo accarezzarla, dappertutto, dove più preferivo. E allora perché, perché si erano permessi di portarla via da me?!
Tirai un pugno al muro, accecato dall'ira. Sospirai per calmarmi; avevo bisogno di riprendere fiato. Entrai nel locale dalle luci soffuse che usavo come rifugio quando la mia mente tornava a pensare a Nanako e a quanto lontana fosse da me.
Mi sedetti, ordinando il solito drink. Non feci in tempo a darmi un'occhiata in giro che una voce femminile alle mie spalle mi colse alla sprovvista.
«Piacere di conoscerti, Takuya...».

   
 
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