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Autore: John Logan    03/09/2017    0 recensioni
[https://it.wikipedia.org/wiki/Warhammer_40.000]
Benvenuti a tutti!
Qui di seguito troverete la prosa delle avventure del Mercante Corsaro Xanatov e del suo equipaggio. L'ambientazione è Warhammer 40000, ma se nel leggere troverete riferimenti, occulti o palesi, ad altre saghe, non temete! Adoro mescolare le storie per trarne storie nuove. Da sempre desidero condividere le avventure che progetto per i miei giocatori, e finalmente eccone un estratto. Attenzione però, la storia è scritta per essere capita anche da chi è assolutamente profano, sia del gioco Warhammer che della fantascienza in generale. Per chi invece è ferrato in materia, chiedo aiuto: se notate errori rispetto all'evoluzione canonica degli eventi nell'universo ufficiale del gioco, non esitate e scrivetemi!
Detto questo vi lascio alla lettura e mi raccomando, demolitemi con le critiche! Altrimenti non potrò mai sapere come migliorare.
Grazie a tutti, buona lettura.
Genere: Avventura, Dark, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Il deserto di polvere era immoto. La cenere si adagiava lentamente sul terreno soffice, grigio e piatto a perdita d’occhio. Il cielo e la terra si fondevano all’orizzonte indistinto ed il moto lento delle nuvole scure ed opprimenti era costante, puntellato solo occasionalmente da una scarica elettrica ma nulla sembrava poter turbare quel velo di apatia.
Nessun rumore agitava la morta quiete ormai da decenni, o forse secoli, da quando il pianeta era divenuto un guscio vuoto, inospitale a qualsiasi forma di vita.
In una indifferente giornata, come le migliaia sue precedenti, avvenne però un cambiamento improvviso. Anticipata da un rombo, sommesso ma crescente come quello di un terremoto, la coltre di nubi nere di cenere si squarciò e una colossale massa di metallo incandescente, lamiere contorte, fiamme ed esplosioni solcarono il cielo a folle velocità. Nel suo vano e disperato tentativo di atterrare, niente avrebbe potuto arrestare la sua ultima corsa: un vascello spaziale si schiantò inevitabilmente al suolo, disseminando frammenti dello scafo per chilometri e sollevando una nube di cenere tanto fitta ed ampia da arrivare al cielo.
Ridotta ormai ad una massa informe, la Bastimentum 11 sfogava l’inerzia della sua mole sul terreno polveroso e lasciava dietro di sé le scie infuocate dei pezzi di carena in frantumi, lanciati in ogni direzione come proiettili impazziti. Ma non tutte queste scie erano frammenti, alcune di esse erano scialuppe di salvataggio, forse lanciate per errore dopo l’ingresso nell’atmosfera, forse semplicemente distrutte nelle esplosioni dei ponti, o forse cariche di qualche fortunato ancora in vita.
Dopo essersi trascinata per chilometri, finalmente l’immensa mole della nave trovò la pace al termine della corsa. L’onnipresente cenere della superficie tornò piano piano al luogo dove era stata disturbata, soffocando ogni fuoco e coprendo col suo manto ogni cosa.
In mezzo alla grigia distesa senza fine, in un luogo ormai molto lontano dallo schianto, una scialuppa precipitò al suolo e rimase incastonata nel terreno, come un bocciolo di metallo in mezzo a una tormenta. A manifestare la vita ancora protetta dal suo guscio lucido, una piccola luce di segnalazione pulsava come un lento battito cardiaco che andava affievolendosi.
Passarono le ore, la cenere continuava inesorabile a coprire ogni traccia dell’accaduto e presto non ne sarebbe rimasto nemmeno il ricordo. Eppure, così come la vita trova sempre modo di sbocciare anche nei meandri più oscuri delle galassie, la gemma metallica fiorì all’improvviso. Il portellone esplose con fragore, spalancandosi, liberando dei superstiti.
La prima tra essi a uscire indossava una spessa armatura che la copriva dagli stivali all’elmo. La usurata tinta mimetica lasciava trasparire il grigio metallo sottostante in più punti, cicatrici vistose di vecchie battaglie. Ella sfoderò due pesanti pistole modello Requiem e perlustrò, con gesta consumate, l’area circostante.
L’immensa e desolata distesa le tolse il fiato per un momento, ma dall’interno dell’abitacolo una voce concitata la chiamò:
- Sophiex! -
Un giovane uomo, dalla corporatura robusta e dalla testa rasata, fece capolino. Il volto rosso dallo sforzo e dall’agitazione.
- Sophiex! Vieni, aiutami, dobbiamo portare fuori il capitano! -
Sbuffando, la donna si avvicinò all’uscio e osservò il fratellastro Sean trascinare il corpo del loro Capitano, aiutato da un altro uomo, Xerath.
Questo pareva più anziano del primo ma trasportava il peso morto dell’amico senza tante lamentele. Forse erano solo gli occhi infossati e l’espressione dura a trarre in inganno sull’età, ma di certo quello sguardo torvo apparteneva a chi aveva una certa dimestichezza con la sofferenza.
I due fecero qualche passo e poi adagiarono il corpo nella polvere. Entrambi erano vestiti con stinte divise militari e protetti da simili armature a placche, tipiche della Guardia Imperiale ma di diversi battaglioni.
Entrambi restarono in ginocchio accanto al corpo, tentando di rianimarlo in qualche modo. Il volto cinereo di Xanatov Van Vendigroth era incorniciato da capelli color platino, solo i rivoli di sangue rappreso ai margini della bocca e del naso manifestavano la vita che aveva animato quei lineamenti però ora troppo simili all’immobile deserto. La casacca indaco con tutti i suoi orpelli dorati erano sporchi di fuliggine e rovinati dagli incendi che a bordo avevano devastato la nave, ormai una delle poche rimaste alla nobile ma decaduta famiglia di Mercanti Corsari Van Vendigroth. Il loro primogenito, la loro speranza, ora lottava tra la vita e la morte sulla superficie di un mondo senza nome. Presto il suo corpo e quelli del suo equipaggio sarebbero stati sepolti sotto la pioggia incessante di cenere e dimenticati.
- La nave… - sussurrò Sean a denti stretti.
- Come è potuto accadere!? Eppure le carte nautiche… dannazione! Ci siamo fatti fottere come degli imbecilli! Dannazione! - Imprecò al cielo.
- Riprenditi, Sean. - Lo ammonì la sorellastra in tono glaciale. - Dobbiamo restare concentrati. -
Un’altra voce si unì alle loro: 
- Il protocollo prevede per prima cosa l’adunanza dei sopravvissuti. - Disse una voce sintetizzata, espressa per mezzo di un vox esterno, montato dove dovrebbe esserci la bocca su un volto normale. Tutti i presenti si voltarono ad ascoltare.
Evento raro, a parlare era stato Zero, il Tecno-prete di servizio sulla Bastimentum 11, colui che aveva il compito di guidare e sostenere gli spiriti dei meccanismi e dei cogitatori su tutta la nave. Più macchina che uomo, come di consueto alla sua casta si copriva col pesante mantello rosso distintivo e parlava solo per divulgare o richiedere informazioni. Era uscito anch’esso dalla capsula di salvataggio e ne stava controllando i sistemi, forse alla ricerca di qualcosa di utile o magari perché semplicemente non poteva farne a meno. 
- Non sappiamo nemmeno dove siamo, come facciamo a trovare qualcun altro? - Disse Xerath serio.
Nessuno seppe rispondere, ognuno perso nelle proprie inquietudini. Non riuscivano a ragionare lucidamente. La fuga dal ponte di comando era stata precipitosa e caotica. Le esplosioni avevano ucciso molti ufficiali e quasi ucciso anche loro, schegge di vetro e metallo erano conficcate nella carne e nelle armature di ognuno, ma era l’ostinazione ad aver quasi ucciso il Capitano. Lui sarebbe rimasto a bordo, accogliendo il fato avverso con stoicismo, ma l’equipaggio stretto attorno non era affatto d’accordo. Aveva resistito fino all’ultimo e loro con lui, ma quando aveva perso i sensi nell’ultima esplosione, nessuno aveva esitato. Lo avevano caricato a peso sulla navetta e si erano espulsi prima ancora che la Nave entrasse nell’atmosfera.
Un fruscio li destò dai ricordi, portando la loro attenzione nuovamente all’ingresso della capsula. L’ultimo elemento della stretta cerchia si era finalmente palesato. Irving il Navigatore.
Similmente a Zero, anche lui copriva le sue fattezze dietro un ampio abito, blu scuro come il cielo di notte. Sulla testa, un turbante le cui ampie frange lasciavano trasparire solo gli occhi. Anch’egli uomo di poche parole, Irving faceva parte dell’unica casta di mutanti che l’Imperium umano accettava come parte di sé. Incalcolabili generazioni di fine ingegneria genetica avevano partorito umani dotati del “terzo occhio”, un organo capace di scrutare attraverso il vuoto delle stelle fin sulla Antica e lontanissima Terra, patria ancestrale dell’umanità, dove un imperituro faro mistico, l’Astronomican, consentiva loro di orientarsi nella galassia.
- Le carte sono fasulle. - disse, riferito al pacco di pergamene che stringeva in pugno.
- Ecco come ci hanno ingannato. Ci siamo fidati come degli inetti e abbiamo navigato per giorni su una rotta completamente sbagliata. - Sentenziò il Navigatore, con un grave tono di sconfitta molto personale.
- E non ho la minima idea di dove siamo finiti. – Aggiunse.
- Però siamo vivi! - Tuonò Sophiex, già stanca delle lamentele.
- Ora il Capitano si riprenderà e troveremo una soluzione. Qualcuno sarà sopravvissuto sulla Bastimentum! Quegli scafi sono fatti con almeno venti metri di adamantio di rinforzo, ci basta trovare una navetta intatta e potremo lasciare il sistema. – Propose lei.
Tutti i presenti ascoltarono le sue parole e vollero crederci, consapevoli che una sola persona poteva renderle reali. Tutti gli sguardi si posarono su Xerath, silenziosi ma trepidanti. Lui prese un grande respiro e disse semplicemente:
- Non c’è altra scelta. Va bene. -
Posò le mani sul corpo di Xanatov e prese a recitare sottovoce una litania appena distinguibile. Xerath era stato un militare, ma non un soldato normale né un pilota come era Sean. Lui era uno psionico sanzionato: la sua mente disciplinata poteva immergersi e trarre energia da quel malefico e caotico piano di esistenza noto all’umanità come Immaterium. Un luogo popolato da entità diaboliche e fameliche, un infinito mare ribollente delle più ferali emozioni esistenti manifestate in creature aliene ed ostili. Chiamato anche Warp, esso è un luogo di grande pericolo ma anche di immenso potere, al quale solo gli psionici possono attingere. Per questo motivo ognuno di loro deve essere strettamente controllato da ogni organismo dell’Imperium, onde evitare che qualche demone famelico possa farsi strada in una mente debole ed incarnarsi nel Materium.
Nei milioni di mondi abitati da umani e controllati dall’Impero, alcuni ricevono il pesante fardello della capacità psionica. Molti impazziscono, altri vengono sacrificati o rapiti e altri ancora cedono alle seduzioni e alle minacce che i Demoni del Warp sussurrano alle loro orecchie, diventando così eretici. I più fortunati invece vengono scovati e portati fin sulla Antica Terra dalle navi nere dell’Inquisizione. Tramite un complesso e dolorosissimo rituale, la loro anima viene legata a quella dell’Imperatore stesso. Il Dio-Imperatore, colui che da più di diecimila anni regna su tutta l’umanità dall’alto del suo Trono Dorato ed illumina la galassia tramite l’inestinguibile fiamma dell’Astronomican, all’interno della quale i più deboli tra gli psionici ardono e si consumano, alimentando la fiamma stessa. Ma alcuni, i più forti, sopravvivono. Marchiati per sempre da cicatrici e traumi, la Schola Psionicis si fa carico del loro indottrinamento per poi indirizzarli all’addestramento o all’impiego più adatto.
Xerath era uno di questi. Sanzionato in giovane età all’utilizzo militare, fece per il Capitano quello che avrebbe fatto sul campo di battaglia. Recitando una litania di concentrazione immerse la sua psiche nel Warp, attingendo all’energia necessaria per chiudere le ferite di Xanatov e riportare un alito di vita in quel corpo sempre più freddo. Per loro fortuna, nessun essere maligno era in attesa oltre il velo, le maree del Warp parvero statiche come l’ambiente attorno a loro, ma anche in assenza di perturbazioni l’aria già fredda divenne gelida. Un brivido corse sulla loro pelle e del sangue colò dal naso di Xerath: l’energia era stata canalizzata con successo, ma non era ancora il momento di festeggiare.
Tutti attesero col fiato sospeso mentre il tempo pareva dilatarsi all’infinito. Lunghissimi momenti carichi di speranza e preghiere divennero attimi di ansia e, infine, nera delusione.
Sophiex si voltò immediatamente e con lo sguardo annebbiato finse di cercare ancora possibili minacce, ma con la mente già proiettata sulla mossa successiva. Relegò il dolore della perdita in un angolo della coscienza e con l’espressione cupa nascosta dall’elmetto valutò l’enorme danno che la morte del Capitano avrebbe comportato per tutti. Gli istanti di totale silenzio non alimentarono l’assurda speranza di vedere Xanatov nuovamente in piedi, pronto a guidarli con la solita energia e determinazione. Il fantasma della disperazione aleggiava su di loro, in agguato e pronto a sbranarli.
Il Navigatore si fece avanti di qualche passo: era il più pragmatico tra i membri dell’equipaggio interno ed era stato, tempo addietro, investito del ruolo di Capitano in seconda da Xanatov stesso. Disse:
- Zero ha ragione. Dobbiamo ricongiungerci ai superstiti e salvare quante più risorse possibili. La Bastimentum è persa ma se vogliamo avere una possibilità di sopravvivere dobbiamo comunque ritrovarla. Xanatov ha fatto le sue scelte ed è morto da vero Mercante Corsaro, questa era la sua volontà e noi l’accetteremo senza compatirlo. Ora andiamocene.
Senza aspettare reazioni o domande tornò alla capsula e prese ad accumulare all’esterno tutti i kit e le risorse utili. All’equipaggio non restò che seguire il suo esempio, lasciando da parte i sentimentalismi e rimboccandosi le maniche.
- Il corpo del Capitano non è ancora freddo e già correte al lavoro per salvarvi il culo… bravi ragazzi, mi rendete orgoglioso! -
Dal suo letto di cenere, l’inconfondibile sarcasmo di Xanatov li colse alle spalle.
- Quante volte dovrò morire per vedervi lavorare un po', eh? – Incalzò.
 Il volto tirato ma colorito era contratto in una smorfia a metà tra il sorriso ed il dolore. Tutti corsero al suo capezzale, Sophiex e Sean per primi lo aiutarono ad alzarsi mentre gli altri gli si strinsero attorno, ringraziando il favore del Dio-Imperatore che ancora evidentemente non li aveva abbandonati.
- Come stai? - Chiesero.
- Merda ci hai fatto prendere un colpo. – Dissero.
- Sono vivo. - Rispose lui.
- Ma la mia nave è persa e questo per me è peggio della morte. Avreste dovuto lasciarmi lì. -
L’equipaggio borbottò indistintamente delle scuse o giustificazioni, sapevano che aveva ragione, il suo stesso onore era messo in gioco, soprattutto dopo essere stato raggirato e manovrato da quel tale che avevano imbarcato a Porto Girovago; Wade, Harlan Wade, così si era presentato.
Ammettere passeggeri su una nave non era cosa insolita, anzi, era praticamente prassi, soprattutto per le navi della loro categoria. La rotta percorsa dalla Bastimentum 11 era nota e abbastanza sicura, usata da molte navi mercantili di tutto il Settore Calixis e da chiunque fosse così sconsiderato da voler uscire dallo spazio reclamato dall’Imperium. Porto Girovago era la destinazione di molte navi, così come della Bastimentum 11, e anche punto di partenza di moltissime altre persone. Ultimo baluardo dell’Impero prima di attraversare le roboanti Fauci verso Koronus: la “terra di nessuno” fatta di miti, popolazioni aliene e pirati, ma anche di tesori nascosti e nuove scoperte.
 
*** GRIGIORE
 
Erano approdati da poco, la nave ferma nel vuoto in attesa che le navette di carico scambiassero il contenuto della stiva con altra merce, sarebbero ripartiti da lì a qualche giorno. Medea Van Vendigroth, sorella di Xanatov e Siniscalco della famiglia, era l’unico ufficiale dell’equipaggio ad essere scesa dalla nave. Era infatti suo compito e diletto controllare ogni sfaccettatura del processo di scambio delle merci, acquisizione e transazione di credito. Si era presa inoltre la briga di accogliere i passeggeri e raccogliere qualche informazione su di loro: in realtà l’introito derivante era insignificante, in termini economici, ma negare un passaggio era considerata una vera scortesia e spesso nuoceva alla nomea stessa della famiglia. In quei giorni avevano raccolto i soliti marinai che avevano esaurito il mandato o la manovalanza che si spostava di sistema in sistema in cerca di impiego; non potevano certo aspettarsi un personaggio tanto eccentrico come Harlan Wade. Medea era rimasta subito affascinata dai suoi modi affabili e dall’eloquio forbito, inoltre diceva di essere un rappresentante dei maggiori produttori di carburante del Settore: Medea non poteva lasciarsi scappare l’occasione di essere in credito con una figura così utile a chi, come loro, dovevano mantenere una flotta di navi mercantili.
Mentre il suo seguito caricava le merci, Wade si aggraziava l’equipaggio interno e nel giro di un giorno si era trovato già a tavola con i ranghi più alti. Il Capitano Xanatov e sua sorella, così come il Navigator Irving, Sean il Maestro Pilota, la Comandante della Sicurezza Sophiex e persino lo Psionico Xerath si erano lasciati allietare dalle sue storie e dagli aneddoti, assaporando un assaggio delle sue avventure nel grigiore della loro mercantile monotonia.  
Il suo silenzioso influsso diventò così forte che nel giro di pochi giorni la nuova rotta era stata approvata. Le nuove carte nautiche fornite al Navigatore li avevano illusi che era davvero possibile navigare attraverso le Fauci ed il Capitano, fuori di sé dall’eccitazione, aveva deciso di provare a sé stesso e all’universo intero che lui era un vero Corsaro degno del suo mandato e non solo un mercante come tutti gli altri. C’era solo un modo per dimostrarlo ed era a un passo da lui: navigare verso Koronus e tornare gloriosi.
Una volta divulgata l’intenzione, molti dei passeggeri preferirono aspettare la nave successiva per paura di non fare più ritorno. Ancora oggi queste persone raccontano di come il vigile occhio del Dio-Imperatore vegliò su di loro, salvandoli dal nefasto destino della Bastimentum 11.  
 
- Dov’è mia sorella? - Chiese Xanatov.
Tutti gli altri si guardarono a vicenda ma nessuno aveva una risposta certa.
- Non era sul ponte di comando quando le esplosioni… - disse lui preoccupato.
Il tecno-prete, già equipaggiato e pronto a partire, si fece avanti e rispose come se fosse stato presente e partecipe durante tutta la conversazione precedente. 
- Al momento della prima esplosione, Medea Van Vendigroth controllava lo stoccaggio dell’ultimo carico nella stiva inferiore C1. -
Zero catalizzò l’attenzione in un secondo, ma non si scompose minimamente.
- Al momento del collasso dei motori Warp, coordinava l’evacuazione della stiva mentre i compartimenti depressurizzati venivano sigillati. Nell’istante prima che la nostra capsula venisse sganciata il suo segnale era perso nella stiva da dodici minuti.
- Medea… - Sussurrò triste il Capitano.
- In questo momento starà organizzando il razionamento dei viveri mentre costruisce un campo base con i rottami, vedrai. - Disse Sean tentando di sorridere, ma nessuno era dell’umore per apprezzarne lo spirito.
- Lei non ha abbandonato la nave. - Disse ancora Xanatov. - Lei è rimasta fino all’ultimo ed è morta sulla nave, come dovrebbe fare un vero capitano. Ho resistito fin che ho potuto, ma non è stato abbastanza. Non mi avreste dovuto portare via. -
L’ultima frase però, suonò stranamente vuota da ogni rimprovero, nonostante la decisione autonoma dell’equipaggio, la sua tristezza era tale che ogni biasimo o responsabilità sarebbe rimasto sempre e solo sulle sue spalle.
Lo psionico gli si parò davanti e lo scosse per le spalle dicendo:
- Sì, forse abbiamo sbagliato, ma il destino non lo conosce nessuno. L’Immaterium non ci ha divorato, anzi, ha scelto di salvare la nostra vita, per cui io la vedo come una fortuna. Forse la nave non è ancora persa anche se ha ricevuto dei danni enormi, però potremmo ancora salvarne delle parti. È giusto che il capitano viva finché esiste la speranza. La nave era la nostra casa così come la tua, non siamo stati felici di abbandonarla ma restando all'interno saremmo morti di sicuro. Il ponte di comando è andato interamente distrutto e poi… - Poi? - Incalzò Xanatov curioso.
- E poi, quel bastardo di Wade è qua fuori, ed io voglio vendicarmi! – Sibilò lo psionico.
 
Avevano lasciato il guscio vuoto della capsula da molte ore, ma il paesaggio non sembrava voler cambiare. Un’arida pianura di cenere, coperta da nubi dense dello stesso colore che lasciavano cadere fiocchi leggeri della stessa materia. Il loro umore non poteva riflettere meglio il paesaggio: persi in una landa desolata, con poche provviste ed equipaggiamenti di emergenza appena sufficienti ai bisogni di qualche giorno. Erano stati persino costretti ad avvolgersi il naso e la bocca con degli stracci per non inalare costantemente la cenere, ma anche attraverso quei filtri il sapore bruciato asciugava la saliva e nauseava l’olfatto.
In testa alla spedizione, Irving tentava di scrutare le risacche dell’Immaterium col suo terzo occhio, nella speranza che evidenziasse qualsiasi cosa degna di nota nell’arco dei chilometri attorno alla loro traiettoria, ma di fatto erano completamente persi.
Le ore si trascinavano lente e nessuno fiatava. Solo Zero, di tanto in tanto, si fermava ed emetteva strani ronzii e cinguettii. Il tecno-prete aveva smontato il radiofaro della capsula e lo aveva fissato alla sua schiena come uno zaino, mentre la relativa batteria di alimentazione ora era collegata anche ad un fucile laser di sua creazione, da cui non si separava mai.
Per la centesima volta nell’arco di quelle ore, disse:
- Nessun segnale nel raggio d’azione. -
 Per poi tornare a marciare senza aggiungere altro. Il moto almeno aveva un lato positivo: il freddo era davvero pungente ed i loro vestiti erano appena sufficienti a non farli congelare. Camminare era quindi l’unica soluzione a molteplici problemi, ma non avrebbero potuto farlo per sempre.
Arrivò infine l’ora in cui dovettero fermarsi e tentare di riposare. Sulla nave, il suono della sirena avrebbe dichiarato l’inizio dell’orario “notturno” ed i turnisti alla manutenzione si sarebbero dati il cambio. Xanatov e Irving avrebbero bevuto un goccio di vino dolce prima di dare un’ultima occhiata alla rotta per poi coricarsi. Ma quella sera, la prima di molte, sarebbe stato tutto diverso. Il sole pallido dietro le nubi sembrava volerle frantumare nel suo passaggio, creando tra di loro una trama frastagliata, come il terreno crepato durante la siccità. E non voleva tramontare. Il vago chiarore variava di intensità ma non lasciava capire quanto fossero lunghe le giornate su quel pianeta maledetto.
Costruirono così un rozzo accampamento con l’attrezzatura disponibile: un telo per coprirsi dalla cenere e due piccole tende dotate di coperte termiche d’emergenza. Dopo essersi divisi una razione minima e un sorso d’acqua, si coricarono optando comunque per fare dei turni di guardia, una sana abitudine mai sorpassata.
Xanatov si offrì di fare il primo turno, lasciando che la ciurma si riposasse subito. Inoltre sentiva il bisogno di un momento di solitudine. Il prezzo della sua folle decisione era stato altissimo, ed era stato pagato col sangue dei marinai e delle ultime preziosissime risorse economiche della famiglia, già in crisi. Questo bastava a farlo sentire terribilmente in colpa, ma più di ogni altra cosa sentiva l’angoscia della perdita della sorella. Lei era tutto. Era la sua famiglia, la sua più cara amica ed una lavoratrice talentuosa ed insostituibile. Xanatov non era il tipo da lasciarsi andare, ma quel preciso istante di afflizione lo stava trascinando come un fiume in piena. Nient’altro pareva importante ormai. 
- Irving dice che questo pianeta è al termine della sua esistenza. -
Una voce lo riscosse dai suoi pensieri. Sophiex si sedette accanto a lui, lo sguardo fisso all’orizzonte e le mani impegnate a legarsi alla meglio i lunghi capelli. 
- Dice che l’attività vulcanica è enorme e che i detriti nell’atmosfera impediscono al sole di far crescere la vita. Pare che siamo finiti su un pianeta morto. -
Xanatov si riscosse e sorrise debolmente all’amica, ma non rispose subito.
- Non riesci a dormire? - le chiese.
- E chi potrebbe? – Rispose lei. - Se chiudo gli occhi vedo ancora il ponte esplodere, mi fischiano le orecchie e ho lo stomaco che brontola, quasi più forte di Sean quando uso le sue navette. Però la cenere sul terreno è soffice, in un’altra situazione sarebbe quasi piacevole dormirci. -
Un altro sorriso fugace trapelò dal volto del Capitano attraverso i suoi lunghi capelli canuti e Sophiex lo colse con piacere.
La soldatessa armeggiò tra le tasche nascoste della divisa sbiadita ed estrasse un oggetto dai riflessi metallici. Era una fiaschetta di liquore e la porse volentieri al Capitano. Lui la guardò davvero stupito e disse sottovoce: - Ma guarda, avevo proprio una sete! Sai, un vecchio saggio una volta disse: è incredibile come si possa fare a meno dell’indispensabile quando c’è il superfluo! -
Presero entrambi una lunga sorsata di rigenerante liquore e risero. 
- Riposati un poco Capitano, tocca a me ora. - Gli disse lei.
Xanatov si arrese alla stanchezza e provò a coricarsi. Mentre la coscienza veniva meno le immagini degli avvenimenti delle ultime ore si accalcarono davanti ai suoi occhi, ma presto vennero tutte inghiottite dall’oblio.
- Nessun segnale nel raggio d’azione. -
La voce campionata di Zero lo svegliò di colpo e lo spavento si portò via il sonno.
 
La giornata successiva non parve differente dalla precedente. Il deserto di polvere si estendeva a perdita d’occhio ed i fiocchi che cadevano dal cielo coprivano in poco tempo persino i loro passi. Xanatov stava ancora riflettendo sugli avvenimenti di Porto Girovago, quando un altro dettaglio poco chiaro gli venne alla mente. - Tra i passeggeri che abbiamo fatto salire a bordo, qualcuno doveva sicuramente essere in combutta con Wade. - Disse il Capitano.
- Dopo l’imbarco, da quando Medea ce lo ha presentato, è stato quasi sempre sul ponte con noi. Non ha materialmente avuto il tempo di sabotare i motori né tantomeno piazzare cariche esplosive sulla nave. Deve aver avuto l’aiuto di qualcun altro, per forza! Tra i passeggeri, chi secondo voi poteva essere complice? - domandò.
- Qualcuno davvero in gamba. - Rispose subito Sean.
- Non si può semplicemente bighellonare per la nave. Ci sono controlli e zone a ingresso riservato, nessun passeggero sarebbe mai ammesso alla sala motori, non avrebbe accesso nemmeno alla stazione della stiva. - Infatti. - Aggiunse Xerath.
- E poi ci sono i ragazzi di Sophiex a vigilare, solitamente. Certo, ci siamo fatti fregare pure noi, figurati se potevano accorgersi di qualcosa loro. – Disse senza velare troppo il sarcasmo.
Presa sul personale la soldatessa rispose oltraggiata:
- Ehi! Chiudi quella fogna! I miei soldati sono intelligenti e ben addestrati! Ti faccio notare che di tutti i viaggi che abbiamo fatto, di tutte le persone che abbiamo imbarcato, nessuna è mai riuscita a fare veramente un danno. Pensa al tuo di mestiere, invece. Non avresti dovuto fare una scansione psionica o una stronzata del genere, tu!? -
Sean intervenne, esclamando:
- I due soldati! – Ma nessuno capì. – Sophiex, ricordi che me lo hai fatto notare tu? C’erano quei due che non mollavano Wade un attimo. Siamo riusciti a tenerli fuori dal ponte di comando, ma ogni volta che Wade saliva o scendeva loro erano nei paraggi, almeno l’uno o l’altro. -
Lei lo guardò interrogativa e rispose poco convinta:
- Si, è vero. Quei due parevano sospetti all’inizio, ma poi ho pensato fossero semplici guardie del corpo. –
- Di chi state parlando? - Chiese il Capitano.
Lei rispose:
- Uno di loro era molto alto e muscoloso. Ben protetto da un’armatura e all’imbarco ha dichiarato una carabina laser e un paio di armi bianche. Aveva proprio la faccia di un soldato mercenario. L’altro era di statura normale, anche lui con una buona armatura e aveva con sé un fucile laser di precisone, un Folgore molto raffinato, però non ricordo i loro nomi. -
Xanatov assorbì le informazioni e ponderò per un lungo momento.
- Di soldati mercenari ce ne sono un’infinità, soprattutto là, ai confini dell’Impero. Chiunque viaggi da solo e intenda sopravvivere è praticamente costretto a comprare protezione, ha senso. Wade li avrà reclutati in qualche viaggio o direttamente al Porto, però c’è qualcosa che ancora non mi torna. -
Il brontolio degli stomaci riempì il silenzio meditabondo che si era creato, così si fermarono per una pausa. Le razioni ormai scarseggiavano così come le gelatine idratanti. Il silenzio era tanto forte che ognuno di loro poteva addirittura sentire il battito del proprio cuore, così restarono un momento seduti a rilassare i muscoli. Irving invece si allontanò dal gruppo, dando loro le spalle, e quando fu a distanza di sicurezza slacciò il turbante e si inginocchiò a terra. Sapeva già di compiere un tentativo a vuoto, ma schiudere il Terzo Occhio era liberatorio come una boccata di aria fresca, così scrutò il grigio orizzonte.
 
- Ecco! - esclamò Xanatov.
- Cosa? - fecero eco gli altri.
- Non sono stati imbarcati insieme. Wade è stato portato da mia sorella direttamente sul ponte, così da presentarcelo. Tutti gli altri passeggeri invece sono passati attraverso le guardiole di sicurezza. Lui non ha fatto altro che rimbambirci di chiacchiere e racconti, ci ha incantato con le sue storielle per farci perdere tempo, mentre gli altri due erano relativamente liberi. Parliamoci chiaro, la sicurezza sulla Bastimentum 11 non è certo inespugnabile. Zero, fammi un resoconto delle ultime revisioni fatte. - Comandò il Capitano.
Il Tecno-prete, che pareva sempre assorto e distratto, ripose invece con prontezza:
- Per ordine di Jugram Van Vendigroth, attuale detentore del Mandato di Commercio Imperiale e capofamiglia, gli spiriti macchina degli accessi di sicurezza dell’intera flotta non vengono reintegrati né nutriti da ventisette anni terrestri, ad eccezione degli spiriti della stiva di carico. La scelta è stata giustificata da motivi di budget in quanto l’Adeptus Mechanicus non ha concesso lo sconto richiesto dalla sua famiglia per l’acquisto di altre unità del mio stesso indirizzo. La quantità di tecno-preti della mia generazione all’interno della flotta è più bassa del trenta per cento rispetto alla necessità reale. -
Tutti i presenti restarono a bocca aperta e anche un pizzico imbarazzati dalla situazione economica della famiglia con cui lavoravano da generazioni intere.
- Siamo messi così male? - domandò Sean, retoricamente.
Il Capitano si alzò, pronto a ricominciare il cammino verso il nulla.
- Se questi… sabotatori, chiamiamoli, avevano un minimo di attrezzature e preparazione, siamo stati un lavoretto davvero facile per loro. Questa è la verità. - Disse lui, profondamente avvilito. In quel preciso momento prese consapevolezza che il suo sogno di dimostrare alla famiglia e all’universo quanto valesse era davvero solo un sogno. Era un Capitano di bassa categoria ed era riuscito a farsi fregare con una facilità esagerata. La vergogna lo coprì interamente, si sentì tanto vulnerabile da doversi allontanare immediatamente dalla ciurma. Così anche gli altri, costernati, si alzarono e lo rincorsero ma senza sapere bene cosa fare. All’improvviso, una figura emerse dalla neve cinerea e fermò il loro avanzare. - Ho trovato qualcosa. - Disse Irving.
 
*** TEPHRA
 
Erano ancora troppo distanti per capire cosa fosse né quanto fosse grande, ma qualcosa era. L’indistinguibile confine all’orizzonte tra il cielo plumbeo e la polverosa pianura rendeva praticamente impossibile determinare le distanze a occhio nudo. Poteva essere qualsiasi cosa: una capsula di salvataggio o un piccolo rottame a poche centinaia di metri così come l’intera stiva della nave, ma a diversi chilometri di distanza.         A loro però, importava poco. Dopo giorni a brancolare, qualsiasi novità avrebbe potuto nutrire la loro speranza, persino quell’offuscato miraggio appena percepibile.
Il gruppo si mosse subito come un sol uomo, accelerando l’andatura; non si misero a correre solo perché la cedevolezza del terreno glielo impediva, ma il loro spirito galoppava rinnovato. Purtroppo però scoprirono che la rivelazione giaceva ancora molto lontana. Gli attimi divennero minuti, ed i minuti, altre ore. Xanatov rallentò il passo ed infine si fermò del tutto. Ansimando, scrutava in lontananza l’obiettivo.
- Se gli occhi non mi giocano strani scherzi, posso ben dire che stiamo correndo verso qualcosa di gigantesco. Che ve ne pare? - domandò, e tutti annuirono.
Estrasse dalla bisaccia quel che restava del cibo e dell’acqua: lo offrì ai compagni e con grande enfasi, annunciò:
- Ho sperato di trovare almeno qualche altra capsula, altri compagni o almeno altre provviste, ma non ho osato sperare di trovare la nave direttamente. Abbiamo perseverato attraverso la disperazione! Un ultimo sforzo e saremo in salvo. -
Con gli sguardi colmi di fiducia, mangiarono e bevvero gli avanzi delle scorte, pronti a seguire il Capitano ovunque e per sempre.
Continuarono la marcia e l’oggetto distante si fece sempre più nitido. Meglio si poteva vedere, meno però sembrava una nave stellare, né tantomeno il suo relitto. A qualche centinaio di metri da loro, strani ammassi rocciosi si profilavano irregolari e sgraziati: sembravano guglie candide, strani edifici collassati, torri diroccate, palazzi perforati da quelle che potevano essere finestre come crateri. Forse sì, era davvero un relitto, ma di una città intera.
Il gruppo, sbigottito, avanzò quasi per inerzia, e mentre avanzava, il profilo di un essere umano sembrò venire loro incontro. L’attenzione dei presenti si concentrò sull’uomo, o meglio, sulla forma antropomorfa che pareva attenderli silente all’ingresso della città, come un guardiano immobile. Era una enorme statua.
Erta su un blocco di pietra alto due metri, la scultura raffigurava forse un soldato, o comunque un umanoide con indosso una voluminosa armatura. La statua era talmente logora e corrosa da sembrare pietra grezza appena sbozzata e solo l’immaginazione aiutò il gruppo a ricomporre il significato che poteva aver avuto. Su tutta la superficie del blocco alla base dovevano esserci state delle iscrizioni, ormai completamente illeggibili. Tutti i dettagli della foggia dell’armatura erano stati molati, la testa sgretolata era riconoscibile solo per la posizione che occupava tra le spalle e la sua postura eretta non presentava tratti distinguibili.
- Beh…almeno non erano alieni! - disse Xerath e nessuno capì se era una constatazione o un tentativo di umorismo.
Il Capitano esaminò con attenzione la statua, poi interrogò con lo sguardo sia il Tecno-prete che il Navigator. - Non identifico nessun tratto distintivo né indizi utili l’erosione non è databile per mancanza di parametri di valutazione comunque non imputabile al deposito di cenere. - Disse Zero in un sol fiato.
- Sono d’accordo con lui. - Aggiunse Irving.
- Questo pianeta sta evidentemente morendo. Questa è la prova che qui è esistita una civiltà, ma potrebbe essere scomparsa da secoli o millenni per quel che ne sappiamo. - Sentenziò.
Xanatov allora interpellò i tre ex-militari:
- Riconoscete qualche tratto assimilabile all’Impero? L’armatura magari, può appartenere a qualche Adeptus Terra? –
- Può essere qualsiasi cosa, Capitano… - rispose Sophiex sconsolata.
Xanatov sospirò, ma la sua espressione non si era per nulla rabbuiata; superò a grandi passi la statua e disse: - Saliremo su una di quelle torri allora, speriamo di avere una visuale migliore. Il radiofaro potrebbe anche trasmettere meglio il segnale e magari potremo trovare tracce di qualche altro superstite. -
 
Si lasciarono quindi il milite ignoto alle spalle, avventurandosi nella città apparentemente morta. Imboccarono un’ampia via dal fondo dissestato, tuttavia sgombra da grandi macerie. Ai loro fianchi i ruderi biancastri restavano imperturbabili al loro passaggio, ma evocavano scenari spettrali nell’immaginazione dei sei. Niente aveva dato loro il sospetto che qualche minaccia potesse realmente attenderli in agguato, eppure la città cimitero bastava da sola a mettere i brividi e a tenere tutti sul chi va là.
Il velo creato dalla cenere cadente impediva di abbracciare con lo sguardo le dimensioni reali della città ed essa si mostrò ancora più grande e labirintica dell’impressione iniziale: dappertutto ammassi di macerie e resti carbonizzati di strani veicoli occludevano i passaggi più stretti, così come le vie perpendicolari alla principale, larga quasi venti metri e punteggiata da altre basse vetture distrutte.
Guidato più dall’inerzia che da una reale speranza, l’equipaggio si muoveva compatto e circospetto, alla ricerca di qualsiasi segno di vita o di passaggio.
Lo trovarono.
L’eco dello scoppio li raggiunse troppo tardi e troppo tardi riconobbero il fischio di un proiettile che solcava l’aria: con un grido di dolore e spavento, Sean cadde a terra, colpito in pieno.
La permanente sensazione di pericolo ed i sensi vigili furono la loro salvezza nel momento in cui una gragnuola di altri proiettili si schiantarono attorno.
Sbalorditi dall’irruenza dell’attacco, non poterono che cercare riparo dietro le macerie dell’edificio più vicino. In circostanze così improvvise, quale che fosse l’addestramento ricevuto dal singolo, la regola era solo una per tutti: correre al riparo. Solo Sophiex invece, padrona di sé stessa anche nelle circostanze più difficili, riuscì ad identificare la tattica nascosta dalla violenza dell’attacco e ad optare per una variante. Piuttosto che saltare dritta in copertura, eseguì una piroetta sopra Sean afferrandogli saldamente le caviglie con le mani. Lo coinvolse nella rotazione così da trovarselo caricato in spalla una volta tornata in equilibrio. Solo allora schizzò veloce dietro il primo riparo disponibile.
La strategia degli attaccanti era chiara per una militare esperta come lei: il loro numero non era probabilmente sufficiente a soverchiare il suo equipaggio in battaglia, così, piuttosto che rischiare di essere scoperti prima di un’imboscata vera e propria, il loro cecchino li aveva tenuti sotto tiro ed aveva sparato il prima possibile, ma non per uccidere. Il ferito avrebbe agonizzato nella polvere e sanguinato a lungo prima di morire, costringendo i suoi compagni ad un tentativo di salvataggio che li avrebbe esposti ai successivi attacchi.
Contro avversari poco addestrati o emotivamente vulnerabili il metodo era spesso efficace, Sophiex lo sapeva benissimo. Aveva quindi optato per assumersi qualche istante di rischio in più al fine di eliminare il deterrente che li avrebbe inchiodati nel terrore. 
La scarica di colpi imprecisi che piovvero avevano infatti solo la finalità di aumentare il panico causato dall’attacco iniziale, spingendo gli assediati a reagire impulsivamente.
La guerriera prese in mano la situazione, dicendo – Non preoccupatevi per Sean, non è ferito gravemente. Preparate le armi invece, perché stanno venendo a prenderci. –
 
Armi alla mano, strisciarono carponi di copertura in copertura, tentando di allontanarsi il più possibile dalla zona di fuoco alla ricerca di una posizione più vantaggiosa. Non poterono far altro che inoltrarsi fra i ruderi del palazzo più vicino. Questo era vuoto, bianco, sgretolato e gli unici passaggi verso l’interno erano grandi buchi irregolari nelle pareti, alcuni dei quali trapassavano ininterrotti l’intera ampiezza della struttura, assumendo strane angolazioni e traiettorie. Quando finalmente furono tutti nascosti nella stessa stanza, Sophiex adagiò Sean contro un muro, gli slacciò in fretta la pettorina dell’armatura, strappò il tessuto sottostante e tastò alla ricerca della ferita: Sean pareva essersi beccato un proiettile al torace, ma sembrava respirare bene nonostante la lesione. Era cosciente anche se un po' intontito e, cosa più strana, la ferita pareva già non sanguinare più. – La spalla…- disse lui a denti stretti, togliendosi le piastre di protezione per verificare in prima persona il suo stato.
– Benedetto figlio dell’Imperatore! – esclamò lei alzandosi immediatamente, in un tono misto tra irritazione, sorpresa e sollievo. Ad eccezione di Zero, gli altri, confusi, vollero sincerarsi personalmente della sua condizione ma Sean si alzò prima ancora che questi potessero avvicinarsi.
Fu a tutti chiaro che l’occhio vigile del Dio-Imperatore non aveva ancora smesso di vegliare su di loro. Il proiettile gli aveva lacerato la pelle appena sotto la scapola, ma non era riuscito ad oltrepassarla poiché il braccio destro di Sean, dalla base del collo fin alla punta delle dita, altro non era che un rimpiazzo cibernetico.
Le circostanze precise in cui perse il braccio erano note solo a lui, ma risaliva a molti anni addietro, a prima ancora che si unisse all’equipaggio della Bastimentum 11. Ad ogni modo non era stato mai un segreto, anzi, Sean lo esibiva anche con un certo orgoglio quando era a bordo.
- Sto bene - disse, roteando la spalla per verificarne il corretto funzionamento. L’urto era stato forte, ancora qualche centimetro e il proiettile lo avrebbe centrato il pieno petto. Si rimise velocemente l’armatura e sfoderò la sua pistola Requiem, mostrandosi il più concentrato e pronto possibile. Era stato dannatamente fortunato e lo sapeva.
L’inaspettato attacco li aveva scossi, ma ora la vaga sensazione di pericolo che avevano avvertito si era incarnata in una minaccia più o meno consueta: non era una bella sensazione sentirsi sparare addosso, tuttavia era qualcosa di comprensibile e contrastabile.
Compatti, strisciarono tra le macerie, ben attenti a non farsi vedere ma al contempo cercando di localizzare gli attaccanti. Non dovettero attendere molto: lungo la strada, un paio di figure umanoidi avanzavano quatte con le armi puntate di fronte a loro, indice di un buon addestramento militare.
– Sono loro? I due tirapiedi di Wade? – chiese Xanatov sottovoce.
– Sì, potrebbero essere loro – rispose Sophiex – ma da qui è difficile vederli bene. Comunque mi sembra azzardato da parte loro esporsi già, sempre che siano davvero solo in due. –
L’equipaggio puntò pistole e fucili, pronto a fare fuoco al segnale. I due soldati avanzarono ancora convinti di essere in vantaggio e mostrando, infine, la loro vera natura.
Sembravano uomini, ma la loro pelle era grigia come la cenere e a tratti addirittura scagliosa. Indossavano semplici armature di recupero e avevano dei fucili rudimentali. La parte meno umana però era il viso: gli occhi erano due fessure sgraziate sotto una fronte spaziosa e aggrottata, il naso schiacciato quasi irriconoscibile, la bocca allungata come quella di un predatore, ma senza labbra a proteggere le zanne nere e spaccate. Non erano le due guardie del corpo di Wade, non erano nulla che l’equipaggio avesse mai visto prima.
- Fuoco! – urlò il Capitano e nessuno esitò. I due grigi si voltarono giusto in tempo per ripararsi dietro la carcassa di un veicolo ma questo non fu abbastanza per proteggerli: il plasma incandescente della pistola di Xanatov sciolse il metallo e i proiettili dei suoi compagni li trapassarono, facendoli letteralmente a pezzi. L’equipaggio però non ebbe il tempo nemmeno di esultare, la battaglia era appena cominciata. 
Altri proiettili piovvero sui loro ripari costringendoli ad abbassare la testa; dall’altra parte della strada c’era un edificio speculare al loro, dalle finestre del quale, al secondo o al terzo piano, altri soldati grigi li avevano ingaggiati in combattimento.
Il gruppo si spostò nuovamente, cercando di sottrarsi alla linea di tiro dei nemici dietro coperture più solide. La teoria di Sophiex sull’inferiorità numerica degli assalitori si rivelò drammaticamente errata, soprattutto quando incapparono in un altro gruppo di soldati grigi che stava venendo loro incontro. Alcuni di questi però, spavaldi, li caricarono armati di grandi mazze o fucili a canna corta, uscendo in gruppo dai loro ripari e urlando disumanamente. Sophiex era quasi offesa dalla loro strategia incurante: nessuno poteva prendersi il lusso di sottovalutare il proprio avversario, tanto meno quei barbari. Decisa a vendere cara la pelle, prese un lungo respiro ed uscì dalla sua copertura sparando in modalità semi-automatica con entrambe le pistole. Il ruggito delle Requiem sovrastò ogni altro rumore mentre esplodeva i suoi letali proiettili. Un termine in realtà riduttivo per le sue munizioni: dei dardi auto-propulsi a massa deflagrante superdensa, capaci di sventrare l’acciaio senza difficoltà, nonché capolavoro inimitato dell’Umanità. I soldati grigi colpiti esplosero come palloni gonfi, spargendo sangue scuro dappertutto. La soldatessa aveva spazzato via la temibile offensiva in un baleno e questo sollevò il morale dei suoi compagni, che risposero al fuoco incitandosi con grida di battaglia.
Sean imitò i gesti della sorellastra sparando agli avversari più vicini, quelli rimasti nascosti dietro i muri, non più candidi, delle stanze attigue alla loro. La sua mira però non era precisa come avrebbe voluto in quel momento: anni passati dietro una console o un volante gli avevano portato via il tempo e l’interesse ad un addestramento militare più canonico, ma la pistola Requiem, a quella esigua distanza, era capace di trapassare anche i muri, compensando così la sua scarsa padronanza. Accanto a loro Irving, armato di pistola laser, aspettava paziente che le cannonate dei compagni demolissero le coperture dei nemici, per piazzare qualche preciso colpo alle loro parti scoperte: nemmeno lui era un gran tiratore, ma aveva un grande autocontrollo e, dalla sua posizione riparata, sparava senza fretta. Anche la sua pistola era un portento di tecnologia: la Folgore era un’arma laser d’élite, sovralimentata da celle energetiche esterne per garantire una potenza incredibile in un singolo letale fascio di luce coerente. Mentre le Requiem intimorivano con il frastuono e l’esagerata brutalità delle ferite inferte, le Folgore, in mani capaci, erano armi chirurgiche quasi inarrestabili.
Eppure i nemici sembravano non provare paura. Forse per semplice ignoranza o spinti da chissà quale bestiale brama, parevano completamente indifferenti al macello dei propri compagni. Inoltre erano dei tiratori esperti, anche se peccavano di grande fretta. I loro fucili semi-automatici sputavano proiettili senza sosta. Sophiex si trovò così a constatare che se qualcuno di loro avesse mirato con più pazienza quella battaglia sarebbe durata molto meno.
Dall’altra parte della stanza invece, con la schiena attaccata al muro perimetrale e la testa quasi tra le ginocchia, il Capitano non se la stava cavando bene. I soldati grigi incalzavano, guadagnando terreno ad ogni offensiva. I due morti in strada erano stati rimpiazzati da altri quattro che erano usciti dall’edificio di fronte al loro, in supporto ai tiratori sui piani più alti che non avevano abbandonato la posizione e li stavano crivellando di colpi. Fortunatamente l’inclinazione di tiro era sufficientemente alta perché i cecchini non potessero bersagliare Sophiex, Sean e Irving, ma lui, Xerath e Zero erano costretti dietro il loro misero, ma unico riparo. Lo stallo però sarebbe durato ancora per poco, i soldati grigi avevano ogni vantaggio tattico e non avrebbero fatto prigionieri.
Xanatov cercò per l’ennesima volta un momento di pausa tra le loro raffiche. Sapeva di dover rispondere al fuoco, di dover mostrare coraggio ai suoi uomini e ai nemici, ciò nonostante il semplice istinto di sopravvivenza aveva la meglio e lo costringeva a tenere bassa la testa. 
– Vado io, capitano. – propose Xerath in tono serio - Ho ancora qualche asso nella manica. –
Senza attendere conferma, lo psionico si concentrò chiudendo gli occhi e all’improvviso fu avvolto da una strana nebbia semitrasparente che rese la sua immagine vaga e sfuocata. Dopodiché saltò fuori dal riparo e corse a perdifiato in strada, aggirando le coperture dei grigi in direzione dell’altro edificio e sotto lo sguardo sbigottito di tutti i presenti. L’istante di esitazione causato dal suo coraggioso gesto non fu sprecato: Zero, prontissimo, mirò e aprì un buco tra gli occhi mostruosi del nemico più vicino mentre Xanatov, sull’onda dell’esaltazione eroica, saltò anch’esso il muro crivellato, arrostì un soldato grigio con una scarica di plasma incandescente ed estrasse la sua lama potenziata, pronto a ingaggiare un duello all’arma bianca col primo a portata. I cecchini sopra di loro adesso avevano solo l’imbarazzo della scelta: da una parte uno strano soldato correva senza usare il minimo riparo, dall’altra l’umano con la sfarzosa veste indaco brandiva solo una spada e rincorreva tra i rottami gli altri soldati. I due cacciatori grigi nascosti al secondo piano dell’edificio presero accuratamente la mira ma, prima che potessero aprire il fuoco, un dolore pungente alla testa li costrinse addirittura in ginocchio. Con i fucili a terra e la testa tra le dure mani, i due soldati vennero travolti dalla nausea e dalla terribile sensazione che qualcosa di estraneo stesse tentando di uscire dal loro cervello, qualcosa che stava scavandosi un percorso dall’interno, con morsi dolorosamente acuminati. Per le loro menti ormai spezzate dalla potenza psionica, la soluzione era una e ovvia: aprirsi il cranio e farle uscire. Xerath, dalla strada, sapeva che non erano più una minaccia e si allontanò. Aveva accartocciato le loro menti come fogli di carta da buttare. Il rumore sordo dei loro teschi che si schiantavano ritmicamente sulla parete era già una conferma sufficiente, così poté dedicare la sua attenzione ad altro. Tornò nei ranghi giusto in tempo per vedere il Capitano trafiggere l’ultimo grigio rimasto in piedi. Anche Zero e gli altri compagni avevano terminato il lavoro, erano usciti dai loro nascondigli ed erano scesi in strada.
– Che cosa sono queste bestie? – chiese Sophiex chinandosi ad esaminare uno dei corpi e la sua arma – può l’essere umano degenerare fino a questo punto? – aggiunse ancora lei.
– Con le dovute analisi, in dodici o sedici giorni potrei scoprire molto. – rispose Zero.
I due psionici si guardarono e scossero la testa. - Non sono creature del Warp – dissero concordi.
- Sono ostili e agguerriti, eppure la loro esistenza è una buona notizia – disse il Capitano. – Saranno pure ferali, ma se sanguinano vuol dire che da qualche parte hanno cibo e acqua. Questo pianeta ci concede almeno di morire combattendo, non trovate? Piuttosto che l’inedia lo preferisco cento volte.
L’equipaggio si scambiò occhiate perplesse, ma in fondo il Capitano non aveva torto. Sean, rincuorato, rinfoderò la sua pistola e prese a raccogliere fucili e munizioni:
- Non so voi, ma io sono già quasi a secco di cartucce e, con tutto il rispetto, non sono così pazzo da buttarmi nella mischia con la spada in mano. – Disse il pilota.
L’ebrezza della prima vittoria però era destinata a durare poco. Prima che potessero anche solo cominciare ad elaborare un piano, un forte rumore di ferraglia trascinata li raggiunse rimbalzando tra le pareti degli edifici. Si guardarono intorno puntando i rudimentali fucili, senza però vedere altri movimenti. La strada maestra restava velata dalla cenere cadente e solo Irving riuscì a scorgere qualcosa in mezzo alla foschia.
– Là – disse soltanto, puntando il dito verso il centro della città. – C’è una barricata di lamiere che blocca l’accesso! – disse alzando la voce.
– A che distanza? – chiesero gli altri.
– A circa cinquecento metri… Per l’Imperatore! Ne arrivano altri! – urlò lui atterrito, prima di lanciarsi in corsa di nuovo nell’edificio diroccato. – Correte! – urlò ancora.
Con il cuore a mille, la compagnia fuggì veloce, seguendo un itinerario improvvisato dal navigatore.
– Quanti erano? – gli chiese Xanatov.
– Decisamente troppi, Capitano. – rispose lui affannato.
– Proviamo ad aggirarli. Se tornassimo nella pianura esterna saremmo troppo esposti e non potremmo più tornare qui. Dobbiamo superare la loro linea e nasconderci. – consigliò Sophiex.
– D’accordo. Indietro non si torna comunque. – sentenziò il Capitano. – Restiamo compatti. Se incrociamo qualcuno non sparate! Dobbiamo nasconderci. –
Corsero tra i corridoi vuoti e bianchi, armi strette in pugno e pronti a lottare. Era sicuramente un sollievo non avere la cenere cadente a oscurare la vista, ma nemmeno correre alla cieca in quell’angusto cimitero era confortante. L’edificio era un dedalo dalla bizzarra architettura e pieno di macerie. I muri perimetrali avevano un corridoio parallelo che dava accesso ad un numero esorbitante di piccole stanze in serie: schema abbastanza ripetitivo, curioso, ma semplice. Tuttavia, senza motivo apparente, questi corridoi svoltavano improvvisamente verso il centro dell’edificio, tagliando di netto il blocco di stanze attigue e formando un intreccio inutilmente complesso. Le piccole stanze tra l’altro non erano collegate tra loro, o almeno non collegate volontariamente, infatti fu solo grazie ad alcune pareti crollate che l’equipaggio riuscì a trovare una via d’uscita dallo schema e quindi fuggire dall’edificio.
Una volta fuori verificarono se l’orientamento del navigatore non fosse venuto meno al suo dovere. Erano finiti su una strada secondaria che correva parallela alla grande via centrale, quindi separati da essa proprio dall’edificio che gli aveva offerto rifugio. Attorno a loro il cielo era visibile solo a tratti: i palazzi erano ovunque e tutti molto alti. A pochi passi dalla compagnia ansimante, una stretta via di raccordo orizzontale era ostruita da un cumulo di macerie alto più di due metri. Questo bloccava di fatto la vista e l’accesso alla strada principale e, sempre se i calcoli di Irving erano corretti, avrebbero dovuto trovarsi oltre la barricata. Così tutti tesero l’orecchio per captare ogni minimo indizio che confermasse la speranza, ma quello che sentirono fu solo il sibilo di altri proiettili. Nei piani più alti degli edifici circostanti, l’equipaggio riuscì a scorgere almeno tre postazioni diverse da dove i cecchini grigi avevano tiro libero su di loro.  L’urto delle pallottole arrivò contemporaneamente al panico: il Capitano e Xerath vennero scaraventati a terra dalla forza dell’impatto ed il loro sangue s’impastò a terra con la cenere. Fortunatamente, in entrambi i casi, l’armatura impedì ai colpi di arrivare in profondità, limitando il danno a qualche costola incrinata. Fuggirono tutti a gambe levate, senza piani né strategie, solo per mettersi al sicuro sotto il tetto più vicino. L’edificio successivo era uguale in tutto e per tutto: muri bianchi e sporchi di cenere, sgretolati da chissà quale cataclisma e file di stanze in sequenza in lunghi corridoi pieni di macerie. Corsero tutti a più non posso, cercando invano un nascondiglio che non li mettesse con le spalle al muro, ma ormai non c’era più tempo: gli spari avevano attirato l’attenzione di altre pattuglie e le grida gutturali dei cacciatori grigi echeggiavano in strada, sempre più vicine. Il Capitano, in testa alla comitiva, si lasciò guidare dall’istinto, sforzandosi al massimo di non cedere alla voragine che la paura stava scavando nel suo cuore. Corse lungo i corridoi serpeggianti, ignaro del fatto che ogni suo sforzo di seminare gli inseguitori sarebbe stato comunque vanificato dalla scia di sangue che si stavano lasciando alle spalle. Corsero alla disperata, fino ad arrivare a quello che sembrava essere il cortile interno dell’edificio. Lì però la strada finiva, erano in trappola. Ogni altra via era bloccata da macerie o semplicemente dall’architettura insensata del luogo stesso.
Sotto un cielo inclemente, incorniciato da pareti bianche come le ossa di una carcassa spolpata e immersi nella cenere fino alle ginocchia, i sei compagni si guardarono negli occhi e silenziosamente decisero di combattere insieme la loro ultima battaglia. Fianco a fianco, si voltarono ad affrontare la morte. Le armi strette in pugno e puntate verso i corridoi bui, fermamente decisi a portarne all’inferno quanti più possibile.
Ed eccoli arrivare: tanti, troppi, feroci e alcuni dei quali anche deformemente giganti. I loro spari già riempivano l’aria prima ancora di avere una linea di tiro decente, ma i compagni tennero i nervi saldi, confidando nelle loro solide armature e attendendo il momento giusto per contrattaccare. All’improvviso però un fascio di luce laser brillante si sviluppò a pochi centimetri dalle loro teste: avevano forse sottovalutato il loro arsenale? Se i grigi avevano davvero quel livello tecnologico a disposizione, la battaglia sarebbe stata in realtà solo un’esecuzione molto veloce. Ma un grido di dolore venne tra le file dei mostri, e poi altri fasci laser a raffica seguirono il primo, falciando i grigi esterrefatti costringendoli al riparo.
– Quassù! – urlò una voce umana dall’alto. L’equipaggio sbalordito si voltò immediatamente: i due soldati, i compari di Wade, sparavano in ogni direzione dall’alto del piano superiore, mirando attraverso uno dei fori nella parete. Il più piccolo dei due, quello che portava il fucile di precisione Folgore, calò una corda fatta di tessuti intrecciati urlando ancora: - Svelti, salite! – E così fecero senza indugio, ma non tutti.
Il Capitano Xanatov sparò prima ai grigi e poi puntò la pistola al plasma contro i due. – Voi! Siete stati voi a dirottare la mia nave! Preferisco morire qui che farmi fottere ancora da voi!
Ai grigi però non importava nulla del confronto, anzi, senza più timore accerchiarono la preda disponendosi attorno al cortile, rispondendo anche al fuoco di soppressione dei due nuovi arrivati.
– Capitano! – urlarono i suoi compagni disperati. – Sali! Mettiti in salvo! –
Il soldato disse:
- Noi siamo cacciatori di taglie! Wade era la nostra preda e voi lo avete protetto, ora sali dannazione! –
Xanatov fissò il suo sguardo in quello del soldato, cercando una verità più importante della sua stessa vita. I grigi erano ormai in posizione, non c’era più tempo. Dopo un istante che parve a tutti un’eternità, Xanatov scattò in avanti e saltò sulla corda scalandola agilmente, ma, a un passo dall’arrivo, una scarica di colpi crivellò l’apertura della parete, riempiendo il corridoio di polvere e costringendo tutti al riparo.
Il grido di dolore stavolta fu umano e dolorosamente familiare.
– Capitano! – urlarono ancora gli altri, impotenti. Quando la polvere si disperse tutti videro il soldato tutto muscoli steso a terra, in una pozza di sangue denso, ma con il braccio proteso oltre l’apertura a sorreggere Xanatov ferito seriamente. Presa dalla furia cieca e dall’angoscia, Sophiex uscì dal riparo con le pistole spianate urlando improperi e scagliando pallottole a raffica. Il soldato ferito non si arrese, tese i muscoli allo spasmo e con un grido sovrumano si alzò, sollevando di peso il Capitano privo di sensi e mettendoselo in spalla. Il cacciatore di taglie allora urlò: - Da questa parte! – sovrastando con la voce il caos della battaglia, e scattò rapido lungo un corridoio.
Corsero tutti come se non ci fosse un domani: saltarono fosse nei pavimenti, muri crollati, schivarono imboscate e proiettili, con le grida tremende degli assalitori che li tallonavano, eppure, sorprendentemente, si fecero anche più lontane, fino a disperdersi completamente.
Non sapevano quanto tempo fosse passato, con il fiato corto e le tempie che martellavano per lo sforzo infine si fermarono a riposare. Il cacciatore di taglie aveva indicato loro un luogo riparato nel ventre dell’ennesimo palazzo crollato, ma lui non aveva intenzione di fermarsi e con gesti decisi intimò a tutti di resistere ancora un po’. Portandosi il dito alla bocca nell’universale gesto del silenzio, si allontanò con passi felpati nel buio di un sotterraneo, tornando dopo solo un paio di minuti. Troppo stanchi e scossi per obiettare, i membri dell’equipaggio tirarono il fiato attenti a non fare il minimo rumore e non questionarono l’iniziativa del nuovo arrivato, che li guidò tentoni dentro un rifugio ancor più nascosto.
Erano finiti nelle fondamenta di un edificio quasi completamente distrutto, solo pochissimi e deboli raggi di luce filtravano attraverso la montagna di macerie, avvolgendoli in una fredda e polverosa oscurità. Un paio di piccole stanze collegate all’esterno da un tunnel fortuito, trovato chissà come dai due soldati, nascondevano un intelligente rifugio. I due cacciatori di taglie adagiarono Xanatov sul pavimento, poi, con gran sorpresa di tutti, aprirono una botola celata scostando un cumulo di detriti che avevano ammonticchiato su una lamiera piatta, posta proprio sopra l’apertura nel pavimento. Uno alla volta si calarono all’interno, atterrando in un’altra piccola stanza senza uscite. Solamente dopo aver chiuso l’unico ingresso venne accesa una brillampada e poterono finalmente riposarsi.
La stanza era già stata usata come rifugio, infatti poterono vedere scorte di razioni e altro equipaggiamento sparse.
– Io sono Jun, lui è Blade. – disse il soldato più smilzo. – E come ho detto prima, siamo dei cacciatori di taglie. Abbiamo delle domande da farvi su Wade, ma, prima di tutto, qua potrete trovare un po’ di cibo e dell’acqua che ci è rimasta. Riposatevi e poi parleremo. – disse ancora, recuperando un kit medico da un angolo polveroso del rifugio. Blade era allo stremo delle forze e aveva perso molto sangue, così come il Capitano che respirava appena.
– Ci penso io. – disse Xerath, alzandosi in piedi. Jun soppesò la situazione e annuì. Lo psionico fece stendere il gigante accanto al Capitano, posò le mani sui cuori di entrambi e cominciò a recitare la sua nenia. Le energie del Warp risposero alla sua richiesta e per brevi attimi il respiro dei presenti si condensò in sbuffi di vapore mentre la temperatura dell’ambiente colava a picco. I due corpi vennero imbevuti di nuova linfa vitale: il sangue si fermò ed i loro lineamenti si rilassarono dal dolore. Nessuno voleva far altro che rifocillarsi e dormire, così crollarono tutti in su sonno senza sogni. 
 
Si svegliarono molte ore dopo, con i muscoli doloranti e la bocca asciutta. La brillampada era stata attenuata al massimo e non si riusciva a distinguere nient’altro che le sagome dei propri compagni. Anche se relativamente al sicuro, nessuno poteva sapere se qualche pattuglia dei grigi fosse nei pressi del loro nascondiglio, quindi non si fidavano nemmeno a parlare a voce alta. Una volta sveglio però, il Capitano esigette delle spiegazioni, così si radunarono tutti attorno al piccolo lume e divisero lo scarno pasto liofilizzato. Quasi sussurrando, Jun prese la parola:
- Io E Blade siamo sulle tracce di Wade da molto tempo. Egli è un criminale interplanetario, ben noto alle autorità. Le informazioni sul suo giro di affari però sono frammentarie e discordanti, crediamo infatti che possa avere qualche aggancio nell’Administratum del Settore. È un ingannatore nato ed è anche molto pericoloso: che tu gli sia nemico o alleato, una volta conclusa la tua utilità è sicuro che farai una brutta fine. Persino il suo identikit cambia continuamente, pare infatti che assuma anche l’identità delle proprie vittime e che le usi per i suoi giri loschi. Siamo stati vicini a prenderlo molte volte, ma è sempre riuscito a scappare. Lo abbiamo inseguito per tutto il Settore Calixis e alla fine sembrava lo avessimo messo con le spalle al muro proprio a Porto Girovago, ma lì è riuscito ad abbindolarvi e non siamo più riusciti ad avvicinarlo.
L’oscurità fortunatamente nascose il rossore sul volto dell’equipaggio e del Capitano. L’oltraggio ricevuto era inammissibile e rievocarne il ricordo era doloroso e frustrante per tutti. Un miscuglio di rabbia e vergogna faceva attorcigliare le viscere al solo sentirne parlare, eppure era la cruda verità.
– Una delle sue possibili identità, cioè un commerciante di carburante delle Marche Drusus, era nella lista dei passeggeri della vostra nave – continuò Jun - così ci siamo imbarcati immediatamente anche noi. All’inizio pensavamo foste già in combutta con lui, ma poi abbiamo capito che vi stava usando solo come scudo. Quello che non capisco però è come e perché vi abbia dirottato verso le Fauci. Uscire dalle Stelle dell’Aura con una nave cargo e senza scorta è una vera e propria follia.  
Xanatov bevve un sorso d’acqua e poi rispose:
– Ci aveva dato delle mappe. Mi sono fidato della sua parola, ho creduto che fosse possibile navigare attraverso le Fauci e tornare indietro. Inoltre ci sembrava d’aver fatto un buon affare sul carburante e mia sorella, Medea, si sentiva in dovere verso la sua cortesia. Quando ha cominciato a parlarci delle avventure oltre il confine dell’Imperium e della sua necessità di trovare qualcuno di coraggioso per accompagnarlo… beh, ho ingoiato l’esca e tutto l’amo.
– Medea? – fece eco Blade, suscitando la sorpresa di tutti i presenti.
– Sì, mia sorella. – ripeté Xanatov, poi un lampo si accese nei suoi ricordi: lei non era sul ponte di comando durante il disastro, ma forse loro potevano sapere dov’era in quel momento!
– L’avete vista? – chiese lui di slancio – Sicuramente l’avrete vista all’imbarco dei passeggeri! Dov’era quando sono iniziate le esplosioni? Era ferita?
Jun scosse la testa negativamente, ma Blade aveva ancora qualcosa da dire:
– Sorvegliavamo a turno l’accesso che dal ponte di comando usavate per arrivare alla stiva, era il turno di Jun ed io ero nel deposito. Wade aveva imbarcato della merce e volevamo sapere cosa ci avesse nascosto, ma non l’ho trovata in tempo. Le esplosioni hanno mandato tutti in panico, gli incendi scoppiavano uno dietro l’altro così sono tornato agli alloggi. Lì sembrava che la situazione fosse sotto controllo, infatti c’era lei che dirigeva le operazioni di soccorso, ma poi è scattato l’allarme d’evacuazione. Prima che la folla mi trascinasse alle scialuppe l’ho vista ancora al suo posto, nella cabina della stiva ad organizzare la fuga generale. Io e Jun ci siamo infilati nella prima capsula aperta e siamo fuggiti. Non so se lei abbia fatto a tempo.
Il racconto aveva lasciato tutti perplessi. Il Capitano aveva davvero sperato di sentire buone notizie e il sapere che Medea non era morta nel dirottamento poteva essere una buona notizia. Questo comunque non significava che fosse sopravvissuta al naufragio, comunque Xanatov voleva restare positivo, o per lo meno rimandare gioia o dolore a quando avrebbero avuto risposte certe.
– Dobbiamo pianificare qualcosa – disse il Capitano – se esiste una speranza di sopravvivere sta nelle scorte di questi alieni. Il tempo stringe, se c’è qualche superstite dobbiamo raggiungerli il prima possibile ed organizzarci.
– Dobbiamo orientarci. – aggiunse Irving. – Questo pianeta è strano, rumoroso e sfocato. Devo staccarmi da questo suolo bruciato e provare a guardare l’orizzonte da un altro punto di vista.
Xerath intervenne rispondendo al collega:
– Ci sono delle torri molto alte in mezzo ai palazzi. Sono diroccate come tutto il resto, però potrebbero darci una visione migliore del territorio. In fondo stiamo parlando di una intera nave naufragata, non può essere così difficile da vedere.
Jun si alzò di scatto e si avvicinò alla botola di lamiera, allarmando tutti. Tese l’orecchio, immobile, poi si voltò nuovamente verso il gruppo. Il suo tono calmo non trasmise alcun pericolo. 
– Oltre la barricata dei soldati grigi ce n’era una che sembrava in buone condizioni: nei giorni in cui ci siamo nascosti qui, abbiamo provato ad avvicinarci, ma sembra che i grigi la usino già come appostamento e oggi ne abbiamo avuto conferma. – disse lui continuando il discorso.
– Non starete davvero pensando di tornare alla barricata!? – tuonò Sean inorridito, ma il silenzio meditabondo che seguì lasciava intendere chiaramente che l’idea era stata presa davvero in considerazione. – Li avete visti, no? Erano tantissimi e siamo riusciti a fuggire per miracolo. Ci staranno cercando, sanno che siamo qui, non possiamo semplicemente tornare sui nostri passi e sperare di non incontrarne nessuno. – aggiunse ancora il pilota.
– Sarebbe di certo una sorpresa. – esordì Sophiex – Sono sicuramente in vantaggio, ma combattono in maniera arrogante e infatti continuano a sottovalutarci. Hanno una dannata fretta! Si aspettano delle prede ferite e spaventate da cacciare, certo non a torto, ma possiamo cambiare strategia.
– Sono d’accordo. – asserì il Capitano dopo un istante di riflessione – Ma il risultato finale dipenderà da come giochiamo le nostre carte. In questa situazione disperata non abbiamo molto da perdere, se non la vita chiaramente, ma il mio asso nella manica rischia molto di più della morte.
Xanatov si alzò, pulendosi distrattamente la veste lercia dalla cenere e sistemandosi alla buona i capelli incrostati di sangue. I suoi occhi magnetici e profondi cercarono quelli dello psionico, che aveva già intuito dove sarebbe finito il discorso.
– Xerath. – lo esortò il Capitano in modo molto teatrale – Nessuno di noi può fare quello che fai tu. Nessuno di noi rischia quello che rischi tu. Sei stato obbediente al patto di famiglia, patto per cui sei abilitato ad usare i tuoi poteri solo in casi di grave necessità e, beh, se questa non lo è, allora non so quale possa essere. Ti do ufficialmente il permesso ad usare tutto il tuo potenziale fino a che non saremo fuori dai guai, o meglio, ti lascio libero di decidere cosa fare e come farlo. Mi riterrò responsabile di qualsiasi conseguenza negativa.
Lo psionico si alzò a sua volta e l’espressione compiaciuta parlava già da sola.
– Capitano, non vi deluderò. – disse con un inchino fintamente formale. – In fondo oltre la morte rischio solo che i Demoni del Warp banchettino con la mia anima per il resto dell’eternità, mentre questi vestono la mia pelle e scorrazzano per i mondi seminando devastazione.
Il sarcasmo strappò a tutti un debole sorriso, come se la possibilità espressa da Xerath fosse esagerata.
– Bene, allora è deciso. Torneremo alla prima barricata e da lì saliremo sulla torre. Speriamo di trovare bel tempo. – concluse il Capitano.
Pronti e carichi uscirono da nascondiglio senza far rumore e risalirono il percorso fino in superficie. Lasciarono un momento di tranquillità al Navigator per decidere la direzione da prendere mentre Jun e Blade controllavano che la strada verso la superficie fosse sgombra, dopodiché si avventurarono nelle strade polverose della città dimenticata. La “notte” appena trascorsa era stata indulgente, aveva lasciato che dormissero senza né incubi né sogni, ma la cenere non aveva mai smesso di cadere, là fuori. Ipnotica nel suo moto eterno, li accolse indifferente e silenziosa, come un Dio distante ed alieno inconsapevole della vita che lotta e sanguina per sopravvivere un altro giorno, ancora.
 
Silenziosi e circospetti, camminavano senza una precisa formazione. I loro occhi scrutavano le finestre dei palazzi in cerca di cecchini e le loro orecchie erano tese verso ogni rumore sospetto. Il navigatore aveva calcolato che la loro precedente fuga li aveva portati ben oltre la prima barricata, verso il centro della città, ma con una deviazione non indifferente a sud della via principale. Potevano scegliere tra due opzioni: la prima era quella di provare a tornare sui loro passi, attraversando più o meno il tragitto che li aveva portati in salvo; la seconda invece mirava a tagliare direttamente verso la via centrale e poi seguirla fino alla barricata, che era il loro punto di riferimento. Il vantaggio della prima opzione era che Jun e Blade conoscevano meglio la strada e che sarebbero sempre rimasti tutti al coperto, possibilmente al riparo dai cecchini. Non volendo però sottovalutare i propri avversari, era facile aspettarsi delle imboscate di pattuglie che sicuramente li stavano ancora cercando. I vantaggi della seconda, ovviamente più rischiosa, erano la possibilità di aggirare il plotone che li inseguiva e di conquistare la migliore visuale ma, contemporaneamente, li avrebbe esposti agli altri rischi ignoti che la città poteva avere in serbo per loro. Non avevano infatti potuto vedere oltre la prima barricata, quindi nessuno sapeva quanti grigi effettivamente abitassero le rovine.
– Ma come possono vivere in un mondo sterile come questo? – si domandò Jun tra sé e sé, mentre avanzavano di riparo in riparo. Una inaspettata risposta lo scosse dai suoi pensieri: la voce campionata di Zero arrivò attraverso il micro-comunicatore a cuffia.
– Secondo i miei calcoli, queste forme di vita possono essere sostenute solo da un ecosistema molto ricco di nutrienti. Gli esemplari incrociati finora sono dotati di una grande costituzione, seppur fisicamente depravati. La morfologia dei loro tratti estetici li identifica come predatori abituati alla scarsità di luce e la variabile sonora delle loro comunicazioni staziona in uno spettro molto ridotto. Questa indagine preliminare, basata sulla sola osservazione e sugli archivi Xeno Imperiali, li classifica come possibili mutanti del sottosuolo con scarsa o assente stratificazione culturale. Forse è una degenerazione umana causata da un avvelenamento progressivo da fonti sconosciute. Sarebbe quindi opportuno raccogliere dei campioni. Di fatto, essi sono impossibilitati quanto noi di vivere in superficie.
Tra le precauzioni prese per poter avanzare silenziosamente, tutti avevano allineato gli spiriti dei propri micro-comunicatori così da potersi parlare anche a grande distanza senza fare chiasso.
– Stai dicendo che sono usciti apposta dai loro buchi per farci la festa? – intervenne Xerath ironico.
– Poco probabile. – rispose ancora Zero - Le feste sono celebrazioni tipicamente umane dal contenuto geograficamente codificato, ritualizzato a condivisione di bevande e cibarie tra consanguinei o appartenenti a gruppi sociali affini. È però noto che sia diffusa la pratica di sparare al cielo con armi da fuoco o detonare grezzi ordigni esplosivi, ergo, la traiettoria dei proiettili sparati e l’evidente differenza razziale tra questa nostra squadra e il loro gruppo esclude quasi interamente la possibilità che nella degenerazione della loro cultura, quella attuata verso di noi sia una forma di solenne benevolenza. – concluse il tecno-prete.
– Lascia perdere, Zero. – rispose sconsolato lo psionico. Seppur in parte ancora umani, i sacerdoti dell’Adeptus Mechanicus si lasciavano alle spalle tutto ciò che dell’umano ritenevano superfluo. La venerazione dell’Omnissiah, così era chiamata la loro divinità-macchina, significava ricerca, accrescimento e preservazione della conoscenza. La vita biologica era per loro una forma di esistenza inferiore rispetto alla vita meccanica, a cui loro aspiravano sin dai ranghi più bassi. Ad ogni modo, l’Impero umano non poteva esistere senza la loro conoscenza della tecnologia ed il Culto dell’Omnissiah vedeva nell’Imperatore la manifestazione fisica del loro Dio-Macchina. In questa fusione simbiotica, la presenza di una squadra di tecno-preti a bordo di una nave spaziale era un aspetto fondamentale del suo funzionamento, ma, seppur conteggiati nell’equipaggio, essi preferivano conversare con i motori al plasma piuttosto che sprecare tempo in scambi inutili con degli umani. E Zero non faceva eccezione.
Si imposero allora di evitare rumori inutili per lasciare il canale libero alle sole emergenze.
Il loro cammino era appena cominciato ed era bastata una piccola ricognizione per capire che le opzioni a loro disposizione non erano molte. Le pattuglie dei grigi erano ovunque: piccole instancabili squadre non avevano ancora gettato la spugna, cercandoli alacremente dietro ogni angolo. Per evitare scontri diretti furono così costretti a imboccare la via più veloce verso la strada principale, avventurandosi in zone ignote della città seppur dense di edifici simili e similmente distrutti agli altri già esplorati. Il loro movimento furtivo era andato però crescendo di velocità per ogni pattuglia schivata, il ritmo della fuga cresceva tanto quanto l’interesse dei grigi ad ogni più piccolo movimento o rumore. Arrivarono infine a quello che doveva essere l’ultimo palazzo della serie che divideva il loro nascondiglio dalla strada maestra. I cacciatori grigi sembravano inconsapevoli della loro presenza, ma erano in molti e l’agitazione cominciava a intralciare i movimenti calcolati e prudenti della squadra. In un paio di circostanze fu solo la fortuna ad evitare che venissero scoperti, nondimeno riuscirono nell’intento di mantenere un basso profilo. Arrivò però il momento in cui i loro cuori palpitanti necessitarono una sosta, quasi più per l’ansia che per la fatica, così irruppero nell’ultimo edificio e si nascosero nella stanza che sembrava meglio difendibile.
Questa aveva l’ingresso all’interno dell’edificio, un secondo collegamento verso un’altra stanza e un grosso foro che consentiva loro l’accesso al corridoio di fronte e, attraverso una delle sue grandi finestre, avevano un’ottima visuale della strada più in là.
Per arrivare fin lì senza dar battaglia a nessuno avevano dovuto tracciare un percorso negli anfratti più nascosti, strisciando nella cenere e tra le macerie fino ad arrivare infine al loro obiettivo. Non era certo stato facile, ma si può dire che avevano ricevuto un aiuto inaspettato: li aveva asfissiati e tormentati per giorni, eppure ora l’alleata migliore era proprio la cenere. Essa attutiva i loro passi furtivi, cancellava le tracce alle loro spalle e li accoglieva nel suo abbraccio grigio, rendendoli spettri dello stesso colore dei muri.
Erano quindi riusciti a concludere la prima tappa del tragitto senza gravi problemi. Silenziosi e concentrati si radunarono nella piccola stanza, lasciando che le avanguardie controllassero le possibili vie da percorrere. Jun, esperto in infiltrazioni ed appostamenti, si portò al secondo piano della struttura così da poter individuare tutte le possibili minacce mentre Sophiex, coraggiosa, esplorava i corridoi al piano terra, cercando la via più nascosta per avvicinarsi alla barricata di soppiatto.        
Avanzarono compatti, parlando sottovoce alle cuffie solo quando era strettamente necessario. Molti di loro avevano avuto un addestramento militare quindi poterono comunicare anche con i gesti codificati propri delle Guardia Imperiale, la forza militare probabilmente più vasta e sicuramente più variegata dell’intera galassia. Ogni pianeta Imperiale, oltre a pagare le ovvie imposte all’immensa macchina burocratica dell’Administratum, è anche tenuto ad arruolare ed addestrare una divisione planetaria dell’esercito, che all’occorrenza può essere dirottata verso altri sistemi stellari bisognosi di supporto. Nessuno dei membri dell’equipaggio interno aveva svolto insieme la leva obbligatoria, nemmeno Sean e Sophiex, ma le tattiche basilari e i protocolli d’azione erano comuni a tutta la galassia dominata dall’Imperium.
La guerriera fece cenno al gruppo di avanzare ancora, accorciando la distanza che li divideva da lei, poi li fermò con un altro gesto e loro, ormai abituati, cercarono nascondiglio in attesa del via libera. Sophiex non perdeva di vista nemmeno la via principale della città, che scorreva loro parallela al di là dei fori nella parete. La strada in rovina era ampia e decisamente ingombra: le macerie ed i relitti dei veicoli arrugginiti erano ovunque, abbandonati e sepolti da chissà quanti anni. Nessun segno del nemico attirò la sua attenzione. La squadra continuò quindi il suo cammino lenta e prudente, attenta ad ogni movimento e ad ogni rumore sospetto. La via continuò ad apparire libera per il primo tratto, ma con un po’ di fortuna sia Jun che Sophiex riuscirono a scovare alcuni appostamenti di cecchini e piccole pattuglie vaganti prima che queste scorgessero loro. Quando finalmente giunsero in vista della barricata tutti tirarono un sospiro di sollievo: la tensione nell’aria pareva dover esplodere da un momento all’altro, inoltre, più che i muscoli affaticati dalla scomoda postura accovacciata, erano tutti stremati mentalmente dalla continua vigilanza e attenzione. Erano molle caricate pronte a scattare ma consapevoli di doversi contenere al massimo. Ora però il loro obiettivo era vicinissimo e nessuno si aspettava davvero che sarebbe andata così bene. Si radunarono quindi in un’altra stanzina dell’edificio, a brevissima distanza dalla barriera, prendendo fiato e scaricando i muscoli dall’agitazione. Jun intanto aveva guadagnato una nuova posizione sopraelevata che gli dava un’ottima visuale della strada, della barriera e della torre oltre questa. Il cacciatore di taglie osservò che la barriera era alta cinque o sei metri e, nonostante fosse costruita con rottami e ostacoli di fortuna, era evidentemente posteriore al cataclisma della città. Un ballatoio correva sopra la barriera per tutta la sua lunghezza ed era ancorato alle pareti dei due edifici laterali alla strada. Era largo abbastanza da far camminare una persona alla volta ed aveva dei piccoli gradini sul fianco interno che davano l’accesso a un balcone nascosto. Su di esso era montato il rudimentale meccanismo a carrucola che consentiva l’apertura del portone centrale, quasi indistinguibile dalla barricata stessa.
Da quella posizione Jun poté vedere senza problemi almeno tre grigi ai posti di guardia: due di questi, i cecchini, erano stesi sul ballatoio a pochi metri l’uno dall’altro, quasi immobili e intenti a scrutare la strada di fronte a loro, in direzione della pianura esterna. Il terzo invece era accanto all’ingranaggio di apertura, dava le spalle alla barriera e guardava fisso verso l’interno della città. Se si fosse degnato di alzare lo sguardo forse avrebbe avuto qualche possibilità di trovare Jun, ma non pareva particolarmente reattivo.
Jun fantasticò per un breve istante sulla maniera migliore di ucciderli, quasi sentendo il grilletto fremere per l'eccitazione di colpi così puliti e facili. Si attenne invece al piano e continuò a scrutare l'ambiente alla ricerca del passaggio più sicuro per la torre. Questa era distante non più di cinquanta metri, ma si trovava dall'altra parte rispetto alla via principale. Jun valutò che il tragitto migliore sembrava essere proprio il ballatoio: se fossero invece scesi in strada, sia davanti che dietro alla barriera, i grigi avrebbero potuto vederli senza grossi ostacoli. Anche la balaustra però non era esente da pericoli. A quell'altezza da terra si era visibili a distanze maggiori e la via pullulava di pattuglie e altri cecchini. I grigi avevano già dimostrato di essere ben addestrati e anche la più sprovveduta forza militare avrebbe preparato fuoco di supporto per la barriera: Jun non avrebbe commesso l'errore di sottovalutarli. Ritiratosi in copertura, parlò piano al vox comunicatore descrivendo agli altri la situazione.
La voce del capitano ad un certo punto intervenne nella prudente esposizione di Jun:
- Questo è l'ultimo ostacolo prima dell'obiettivo. Dobbiamo essere preparati ad ogni evenienza. Jun, tu resta in posizione e dacci copertura. Noi neutralizzeremo il soldato accanto alla carrucola e attraverseremo la via uno alla volta, così da non dare nell'occhio. Io andrò per primo.
-Potrei andare io. - disse invece Irving, portando un dito alla fronte come unica spiegazione.
Il Capitano valutò un momento la sua offerta e calcolò la nuova variabile, poi diede il suo cenno d'assenso. Si portarono tutti in posizione dietro l'ultima parete prima della barricata. Lì il navigatore, serio, disse:
- Qualsiasi cosa succeda, non guardatemi.
- Sei in posizione Jun? – Si assicurò il capitano.
- Li ho già sotto tiro. - rispose lui.
- Procedi. - disse allora Xanatov al Navigator. Questi slacciò senza esitare il turbante e semplicemente uscì allo scoperto, affacciandosi a una delle grandi finestre del corridoio, cercando con lo sguardo il soldato. Il grigio percepì il movimento ed i suoi occhi alieni inquadrarono il nemico, avrebbe voluto voltarsi, puntare e sparare, ma non un muscolo rispose più al suo cervello. L'occhio del Navigator aveva assorbito tutta la sua attenzione, trascinando la sua mente impreparata al cospetto di uno sconvolgente riflesso del Warp stesso. Il grigio non riuscì a distogliere lo sguardo e restò paralizzato sul posto, incapace di articolare nemmeno un pensiero.
- Ora andate, ma non voltatevi. - Sussurrò Irving con un filo di voce.
Xanatov fu l'apripista: con passi prudenti e collaudati strisciò in strada agile e silenzioso. Tenne la testa bassa dietro ogni possibile riparo e arrivò sano e salvo dall'altra parte. Nessun pericolo era in vista, nessun proiettile era stato sparato e così fece cenno agli altri di seguirlo. Svelti, gli altri scesero in strada uno alla volta, nascondendosi dietro ogni ostacolo e addirittura strisciando pancia a terra nei punti più vulnerabili, così come aveva fatto lui. Ma non tutti furono così furtivi. Dei calcinacci caddero da una pila instabile, rimbalzando su una lamiera per poi rotolare. I due cecchini sulla balaustra si voltarono e non poterono non vedere Irving. Egli purtroppo era ancora troppo concentrato e non se ne accorse, così questi, con movimenti repentini, si voltarono, puntarono e spararono. Il Navigator cadde a terra violentemente, urlando per il dolore e contorcendosi: il primo proiettile lo aveva colpito all’addome mentre il secondo, fortunatamente, non partì mai. Jun si era mosso immediatamente, stroncando un cecchino appena aveva percepito il pericolo, ma non aveva potuto sparare anche al secondo prima che a sua volta sparasse a Irving. Lo uccise subito dopo, ma ormai il danno era fatto. Il cacciatore di taglie abbandonò la posizione e scese in soccorso del navigatore in quanto erano gli unici rimasti da quel lato della strada. La squadra cercò immediatamente riparo, certi che la battaglia li avrebbe travolti a momenti mentre Blade invece sparò a sua volta, uccidendo il soldato paralizzato sul balcone. Tutti restarono col fiato sospeso, armi pronte e sensi all'erta, ma l'unico suono che si sentì, dopo un lunghissimo istante, fu l'eco di un corno che, in lontananza, suonò due volte.
Jun intanto arrivò dal navigatore e constatò che la situazione era tragica: le urla si erano fatte gemiti sommessi ed il sangue si era raggrumato in una pozza scura sotto il corpo raggomitolato.
- È vivo? - Chiese Xanatov al vox.
Il cacciatore di taglie dovette avanzare tentoni per non incrociare il suo sguardo letale. 
- È vivo, ma è messo molto male. - Rispose lui dopo avergli bendato la fronte.
- Io torno indietro, Capitano! - Urlò Xerath angosciato dalla notizia e pronto a correre in soccorso.
I pensieri si accavallarono frenetici nella mente di ognuno, ma non ci fu tempo per fare nulla. Una detonazione poco distante attirò l’attenzione di tutti verso il centro città, dove una nuvola di cenere appena mossa si allargò dall’interno di un edificio verso la via principale. Una seconda esplosione, molto più vicina, riversò macerie in strada mentre una intera sezione dell’edificio collassava su sé stessa. La terza li travolse prima ancora che potessero decidere di fuggire o fare qualsiasi altra cosa. Il muro adiacente alla stanza che li nascondeva esplose in frantumi, scagliando schegge e polvere in ogni direzione e costringendoli a gettarsi lontano dalla deflagrazione. Disorientati e quasi accecati dalla polvere, brancolarono disordinati dietro ogni possibile riparo, cercando di riprendere il controllo, ma il peggio doveva ancora arrivare.
La cenere si disperse per un istante mentre una parte del soffitto crollava al suolo: Blade era disteso a terra, semi coperto dalle macerie, l’urto aveva sbalzato Sophiex e Sean all’esterno dell’edificio e giacevano entrambi a terra accanto alla carcassa di un veicolo. Xanatov si riparò con tempismo sufficiente a non essere completamente travolto dal crollo e poté vedere Zero e Xerath fare lo stesso, anche se erano entrambi feriti. Il tecno-prete zoppicò visibilmente il più lontano possibile mentre lo psionico sembrava sul punto di perdere i sensi, ma tenacemente restò in piedi, fronteggiando la sfida che egli aveva capito essere ben più grave della mera esplosione: al posto del muro sbriciolato, una creatura da incubo torreggiava su tutti loro.
Ad una prima occhiata, non lo si sarebbe distinto da una grande roccia. Era di un grigio scuro proprio come la pietra e non aveva un’anatomia distinguibile, non in quella forma almeno. Un esame più attento però faceva emergere altri dettagli: il carapace roccioso che lo copriva non era uniforme, anzi, delle fessure simili a crepe dividevano tutta la sua superficie in placche distinte e in mezzo a queste spuntavano dei barbigli lunghi e appuntiti che sondavano l’aria attorno. Xerath non attese oltre: con un urlo di pura furia veicolò l’Immaterium attraverso il suo stesso corpo, amplificando le sue bio-correnti vitali in un vero e proprio fulmine organico che scaricò interamente sul mostro. Xerath non aveva mai fatto uso di tanta forza psionica prima d’ora e chiunque avesse assistito alla scena si trovò con i capelli ritti ed il sangue sgorgare dalle narici per l’urto psichico, ma la scena fu insieme terribile e maestosa e fu impossibile distogliere lo sguardo. La bestia non restò affatto impassibile all’attacco, anzi, il suo ruggito di dolore fu talmente profondo e grave da saturare il loro udito, scuotendoli fino alle ossa. La paura, anzi, il terrore della minaccia ignota scatenò a tutti la reazione più diretta: la violenza. Xanatov urlò tutta la sua disperazione mentre sparava senza freno globi di plasma incandescente alla bestia e così fecero anche Zero e Sophiex, che nel frattempo aveva ripreso i sensi. I proiettili Requiem gridavano schiantandosi contro la pelle rocciosa del mostro, spargendo frammenti letali in tutte le direzioni. Il caos era sovrano e si nutriva della paura e del frastuono di tutti i proiettili sparati e delle grida umane e disumane. Fumo e cenere riempirono l’aria e gli occhi dei presenti, ma l’attacco non si fermò fino a che tutti i caricatori furono svuotati. Allora il mostro contrattaccò: con un balzo incredibilmente rapido si avventò su Xerath, che saltò di lato un istante prima di essere completamente travolto dalla mole dell’avversario. L’armatura assorbì l’impatto che sarebbe stato fatale, lasciandolo a terra senza fiato ma integro. La creatura però fu rapidissima e sollevò una propaggine simile a un braccio per maciullare al suolo lo psionico, ma nel farlo lasciò scoperto un fianco e ben due fasci laser approfittarono dell’occasione ferendola. Il primo arrivò da Blade, il cui ghigno rabbioso era appena visibile attraverso la maschera di sangue che scaturiva dalle sue ferite. Il secondo, invece, dal suo compare, Jun, che dall’altra parte della strada aveva assistito all’aggressione dell’inconcepibile creatura. Questa si ritrasse in difesa, chiudendosi impenetrabile nel suo guscio roccioso. Un rombo simile a un terremoto scosse nuovamente la struttura mentre il mostro scattava ancora all’attacco, stavolta puntando al guerriero. Egli però era già ferito e le macerie ostacolarono i suoi movimenti: fu come essere travolto da una locomotiva in corsa. Blade venne scagliato in aria per alcuni metri e crollò a terra rimbalzando pesantemente. Jun fissò impotente il suo amico e compare rotolare inerme a terra: la sua mente vacillò per un istante, rifuggendo il dramma e minacciando il panico, tuttavia resse e restò forzatamente lucida. Dopotutto lui non era né una persona né un soldato comune, i suoi sensi erano stati addestrati al limite e forse oltre e solo così riuscì a prendere la giusta decisione: restò al suo posto, col fucile in mano, puntando non la bestia aliena, ma ai soldati grigi che, incauti come al solito, si stavano ammassando in strada aspettando il momento giusto per dare all’equipaggio il colpo di grazia. Il cacciatore respirò a fondo, controllò i muscoli e poi ne fece strage, uno alla volta, senza pietà.
La sete di sangue del mostro però era bel lungi dall’essere appagata. Il Capitano si sforzò di riprendere il controllo, soffermandosi un istante prima di agire: aveva capito quale poteva essere il punto debole della creatura, ma la sua arma si era surriscaldata per i troppi colpi sparati in rapida successione e sarebbe stata inservibile per alcuni minuti. Vide Xerath trascinarsi nella polvere mentre Sophiex aiutava il fratellastro ad alzarsi, l’unico pronto a sparare pareva Zero ma dalla postura malamente accovacciata ad un muro capì che non era in grado di muoversi. Allora si fece coraggio ed agì. Armato solo della sua spada, capacissima di spaccare a metà un tronco d’albero, ma probabilmente ora inutilizzabile, corse fuori dal suo riparo, urlando contro la bestia e minacciandola con l’arma. Il Capitano ora non aveva più paura. Quella non era solo una bestia aliena, quella era l’incarnazione aberrante delle sue colpe, degli sbagli, dell’orgoglio e dell’arroganza che aveva portato tutti alla rovina. Ma il Capitano ora non aveva più paura. Con un balzo furioso si avventò sul nemico mulinando la spada con tutta la forza che gli restava in corpo, gridando e scaricando ad ogni fendente la sua ira profonda. Fu come una vampa di fuoco, un’esplosione di energia vitale che ravvivò le braci degli animi dei suoi compagni. Non lo avevano mai lasciato solo e non lo avrebbero lasciato mai. Sophiex e Sean caricarono le armi e spararono alla schiena della bestia mentre Zero approfittava di ogni pertugio per ferirla nel profondo. Il mostro si trovò assediato da tutti i lati, ma più i colpi incalzavano più la sua frenesia si faceva pericolosa. Prima della fine, ci fu un ultimo scambio di sguardi: Xanatov aveva guadagnato abbastanza tempo per dare a Xerath un’ultima occasione. Rapido come un fulmine, il mostro deviò un fendente del Capitano e lo colpì al fianco scoperto, scagliandolo rovinosamente contro un muro, ma lo psionico era pronto. Con un grido ultraterreno concentrò tutto il suo potere in uno sforzo di volontà innaturale, tanto forte da coprire ogni altro rumore con le propagazioni di un urto psichico, cadenzato come un frenetico battito cardiaco. Lo psionico era una maschera di sangue: gli occhi, il naso, la bocca sanguinavano copiosamente, ma la sua concentrazione fu inamovibile, fissa sul palmo della mano protesa di fronte a lui. La bestia capì, ed il suo grido fece tremare le fondamenta stesse dell’edifico mentre, impazzita, vorticava su sé stessa demolendo qualsiasi cosa le si parasse di fronte. L’urto psionico, già prima battito frenetico, aumentò ancora di frequenza, accelerando sempre di più e ancora oltre, provocando un dolore inimmaginabile alla bestia che, accecata dall’agonia, provò a uccidere il suo aguzzino. I suoi colpi minacciarono da vicino Xerath ma questi non si mosse di un passo, anzi, quando finalmente il mostro fu abbastanza vicino, chiuse la mano a pugno, seppur con grandissima fatica. Con un ultimo straziante grido, il cuore della bestia collassò e la forza psionica proseguì la sua opera, lacerando addirittura le carni della creatura che letteralmente esplose in un bagno di sangue. Il destino però non concesse all’equipaggio nemmeno un istante per gioire della vittoria, se così poteva chiamarsi. L’edificio, già in rovina, non resse oltre e collassò su sé stesso, inghiottendo tutti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
GOETIA
 
Quando riprese i sensi, il buio era totale ed il silenzio lo era ancora di più. Quando Xanatov aprì gli occhi, dovette aspettare lunghi momenti prima di ricordare cosa fosse successo. La Bastimentum distrutta, Medea persa, l’equipaggio ferito, la cenere, i soldati grigi, ed infine il mostro. Dovette sputare un grumo di cenere e sangue prima di riuscire a respirare e quando lo fece prese a tossire senza controllo e ad ogni colpo una fitta dolorosissima gli trapassava il costato. Terminato l’attacco si costrinse a girarsi sul fianco sano, scoprendo che le gambe erano bloccate e che uno spesso strato di cenere lo aveva interamente coperto, quasi come se il pianeta stesso fosse già pronto a seppellirlo ed assimilarlo tra le altre rovine. Percorso da dolori lancinanti, si trascinò a forza, percependo che il peso delle macerie sulle gambe rotolava via lentamente. Alla fine del movimento trovò un muro a cui appoggiare la schiena, respirando a fatica provò ancora a muoversi ma ogni muscolo del suo corpo gridava di dolore ed il polpaccio, dapprima insensibile, prese a lanciargli fitte brucianti tanto da strappargli un grido. Era vivo, ma gravemente ferito e sepolto dalle macerie. Non sapeva se sentirsi fortunato o l’esatto opposto: sapeva solo di essere stremato, tanto da non avere nemmeno la forza per far esplodere il panico che già gli stritolava i polmoni. Giacque contro il muro, lottando per respirare, fino a che un’altra violenta tosse non lo scosse. Il dolore alle costole fu tanto forte da farlo quasi svenire: stelle bianche volteggiarono nel suo campo visivo, che andava pian piano restringendosi. Fu allora che qualcosa, nel buio, si mosse.
A pochi passi da lui, un piccolo oggetto ronzante sembrava muoversi a mezz’aria. Al suo centro una piccola luce rossa pareva scrutare nella direzione di Xanatov. La vista sfocata del Capitano ci mise qualche minuto ad inquadrare l’oggetto e ad adattarsi al buio. L’oggetto era un teschio, ma non umano, più allungato, come quello di un bovino. Fluttuava davvero a mezz’aria ed era coperto di strani apparecchi tecnologici. Uno di questi riempiva una delle orbite vuote del cranio biancastro ed era quello che emetteva la luce rossa. In quel buio assoluto però, arrivò ad essere una fonte di luce sufficiente a percepire l’ambiente circostante.
Xanatov restò a terra e osservò le strette pareti sporche che lo circondavano, vide un corridoio che si perdeva nell’oscurità e osservò la pila di macerie che era crollata al suolo attraverso il soffitto. Si accorse così dei due corpi sotto le macerie, stupendosi con sé stesso di non averli visti subito. Maledicendosi per l’ennesima volta, strinse i denti e con grandissimo sforzo si alzò in piedi. L’oggetto volante si ritrasse a distanza di sicurezza senza smettere di scrutarlo, ma Xanatov non ci badò e si trascinò fino ai due corpi coperti di cenere. Bastò un istante a riconoscere l’armatura militare di Sophiex e la divisa da pilota di Sean. Febbrilmente il Capitano cominciò a scavare e a spostare detriti nella speranza di poterli liberare.
Il teschio volante restò fermo e fisso ad osservare mentre Xanatov si rompeva le unghie scavando con le dita. Le labbra spaccate dell’uomo si muovevano senza fiato, recitando inconsapevolmente una preghiera al il Dio-Imperatore dell’umanità, chiedendo una grazia per le vite in pericolo dei suoi compagni. O per le loro anime, nel caso fosse troppo tardi.
Scegliendo fra il destino, la fortuna o davvero l’intercessione divina, Xanatov si chiese chi dovesse ringraziare per la benedizione ricevuta; ad ogni modo erano ancora vivi. Forse le ferite avrebbero lo stesso ucciso tutti e tre nel giro di poche ore, ma al momento godette del sollievo di avere ancora la possibilità, seppur remota, di poterli salvare.
Concentrandosi per trovare una soluzione, sentì più volte la stanchezza ed il dolore tentare di sopraffarlo. Decise così di cercare qualcosa lì attorno che potesse aiutarlo a scavare ma, in quel momento, il teschio luminoso si voltò e corse via lungo il corridoio buio. Senza pensare, lui si gettò all’inseguimento, tuttavia il dolore lo colpì ancora forte e dovette aiutarsi col muro per non poggiare la gamba ferita a terra. Si trovò di nuovo cieco mentre la luce rossa spariva in lontananza, però non si perse d’animo e proseguì il cammino. Zoppicando e brancolando nel buio, perse la cognizione del tempo e dello spazio percorso. Concentrato com’era nello sforzo di reggersi in piedi, quasi non si accorse della tenue luce che aveva iniziato a rischiarare i muri, fino a che, con sorpresa e sollievo, non arrivò addirittura a vederne la fonte. Il corridoio terminava in un’altra anonima stanza quasi vuota e sporca. I muri grigi e polverosi erano foracchiati da quella che poteva essere stata una raffica di mitragliatore, ma la cosa più interessante era invece al suo centro. Poggiata sul pavimento, una antica lampada ad olio faceva ondeggiare lingue di luce sulle pareti. A poche spanne sopra di essa, il piccolo servo-teschio fluttuava, proiettando una grande ombra dietro di sé e fissandolo col suo occhio rosso.
- Capi tano, voi siete fortu nato ad avermi in contrato. – Disse il servo-teschio attraverso un vox. La voce robotica parlava con un accento terribile.
- Chi sei? Cosa vuoi da me? – Rispose Xanatov sbigottito e perplesso.
-Io sono un mer cante come lo eravate voi. E ora che non avete più unanave si amo uguali, blocati su questo pianeta di menti cato da tuti nel tenta tivo di sopra vivere.
- Cosa? Ma che pianeta è questo? Chi sei tu? – La confusione di Xanatov era all’estremo. 
- Quante do mande, quante do mande! Vedete capi tano ogni cosa ha il suo pre zo qui su Goetia, anche le infor mazioni. Questo pia neta dimenti cato è quasi intera mente privo divi tama non è privo di sorprese. Sarei felice di scambiare riche ze con voi.
Il Capitano dovette impiegare molta attenzione per estrapolare il significato alle strane parole appena udite. Non poteva certo fidarsi, ma ogni informazione poteva essere cruciale, anche se forse non gli restava più nessun motivo per volersene andare dal pianeta morto. Forse sarebbe stato meglio lasciarsi seppellire dalla polvere e sparire nell’oblio, piuttosto che affrontare l’umiliazione della sconfitta e del disonore.
- Io non ho più nulla ormai, non posso offrire niente. – Disse lui. 
- No nonè ve ro. – Replicò il misterioso interlocutore. Dopodiché il servo-teschio si spostò di lato, lasciando che la luce tremolante della lanterna bagnasse anche la parete alle sue spalle, proprio a pochi passi dal corridoio, sul cui uscio Xanatov era appoggiato. La visione colpì il Capitano con la forza di un pugno, le sue gambe cedettero per la sorpresa e tutta la sua disperazione venne spazzata via da un unico pensiero, ora diventato realtà: di fronte a lui, Medea Van Vendigroth lo stava aspettando.
Il volto ed i vestiti erano coperti di cenere, era priva di sensi e ferita lievemente, ma era incatenata alla parete. Una gabbia di rottami la costringeva in una posizione rannicchiata e le braccia erano entrambe piegate all’indietro, infilate fino alle spalle all’interno di due fori nella parete.
– Medea! – Urlò suo fratello. – Medea sei viva! Rispondimi! –
Il Capitano sfoderò la lama potenziata e balzò in avanti, pronto a liberarla, ma la gamba non resse lo sforzo e lui cadde a terra dolorante.
– No no sate! Ho oferto uno scambio, se prove rete a liberarla ucciderò. – Disse concitato l’altro.
– Io l’ho trovata. Lei è lamia merce. Voi avete perso lanave ma posedete ancora ogeti di rara qualità egli uomini con la capacità di usarli.
- Loro sono il mio equipaggio, ma non appartengono a me, non sono una merce. – Disse Xanatov rialzandosi.
- Questo è un pun to di vista. Quanto vale lei per voi? Non volete sapere co savia spetta su Goetia? –
Con un grande sforzo di volontà, il Capitano represse il desiderio di fare a pezzi il teschio volante e liberare la sorella. Si costrinse ad apprezzare il fatto che già fosse viva e si appellò al suo lato più cinico per poter affrontare l’aguzzino nella maniera più proficua. Era in una situazione di netto svantaggio commerciale, ma la sua controparte sembrava ancora intenzionata a negoziare un affare e Xanatov aveva maturato una certa esperienza sul campo. Aveva solo bisogno di ridurre lo svantaggio e capire a cosa la creatura mirasse: solo così sarebbe riuscito ad ottenere un buon accordo.
– E va bene. Hai la mia attenzione, dimmi che cosa vuoi. – Disse il Capitano con una rassegnazione artefatta. – Prima però ho una condizione. Tu sembri già sapere molto di me. Sappi che, da dove vengo io, è un gesto di grande scortesia non presentarsi prima di una negoziazione. Un buon nome apre molte porte, così come un cattivo nome ne chiude. Un Mercante che non si presenti ha sicuramente qualcosa di losco da nascondere, e tu hai detto di essere come me. Dimostralo. – Continuò Xanatov, calandosi agilmente nel suo ruolo preferito.
Il servo-teschio ronzò per qualche istante, trasmettendo solo rumore bianco e fissandolo col suo inespressivo occhio luminoso.
– Mi sembra giusto. Potrai chia marmi Ler’en. – Rispose infine.
– E sei uno Stryxis, vero? – Lo incalzò il Capitano. Ora che la sua mente si era schiarita, un ricordo improvviso lo aveva aiutato a distinguere lo strano accento del suo interlocutore.
Anni addietro, mentre le sue giornate trascorrevano tranquille nel castello di famiglia su Thracian Primaris, il pianeta Capitale del Sub-Settore Helix, i suoi tutori lo avevano formato affinché potesse diventare anche lui, un giorno, un Capitano Van Vendigroth degno del suo nobile nome. La sua mente ed il suo corpo venivano quotidianamente addestrate a questo fine e, tra le molteplici discipline, una tra le più curiose era stata voluta espressamente da suo nonno Eadric. Oltre ad imparare tutte le declinazioni possibili del Gotico imperiale, egli volle che tutti i giovani talentuosi, come lo era il suo pupillo Xanatov, imparassero anche come le altre razze parlavano la sua lingua, così da poter riconoscere un mercante alieno sotto mentite spoglie. L’Impero era inflessibile riguardo ai rapporti con gli Xeno: all’interno del confine imperiale una qualsiasi forma di vita aliena sarebbe stata immediatamente annientata o, nel peggiore dei casi, deportata dall’Inquisizione stessa per essere interrogata. Ma per i detentori del Mandato di Commercio Imperiale, cioè i Mercanti insigniti dell’onore, e dell’onere, di esplorare lo spazio oltre i confini segnati dell’Imperium, la questione Xeno diventava decisamente relativa. La galassia era abitata da un’infinità di razze umane ed aliene, ma solo alcune di esse potevano essere davvero una minaccia per il mastodontico impero dell’umanità. La maggior parte di queste infatti non avevano né la tecnologia né l’interesse ad esplorare il buio tra le stelle, e proprio lì si creava l’opportunità di profitto per un Mercante Corsaro avveduto: manifatture pregiate, animali alieni per le arene, materie prime e manodopera a basso costo per la loro estrazione e produzione. Fuori dallo spazio imperiale, il Mandatario era l’unico autorizzato a relazionarsi con le popolazioni esterne, anzi, in alcuni casi si poteva anche dire che il Mercante parlasse addirittura con la voce dell’Imperatore stesso. Le possibilità di arricchire l’Impero e di arricchirsi erano virtualmente infinite, e una così grande responsabilità aveva ovviamente un suo esorbitante prezzo. Chi per avarizia, chi per sfrontatezza, o anche solo per sfortuna, molti erano stati i Corsari a cadere in disgrazia. Chiunque venisse trovato ad abusare del proprio potere veniva abbattuto senza pietà dalle stesse mani che lo avevano elevato. Famiglie intere prelevate dalle navi nere dell’Inquisizione per non fare mai più ritorno, genealogie stroncate come erbacce per impedire che la corruzione dilagasse come una gangrena all’interno dei confini dell’Impero. Per questo motivo il saggio Eadric Van Vendigroth insistette a lungo perché ogni Capitano imparasse a distinguere i linguaggi Xeno conosciuti, visto e considerato l’assoluto divieto imperiale ad impararne direttamente gli idiomi, cosa che lui, invece, si sussurrava avesse fatto. Molti suoi parenti avevano segretamente deriso l’anziano capostipite per le sue idee assurde, ma Xanatov no, nemmeno una volta. Anzi, il solo ricordo era sufficiente a riempirgli il cuore d’affetto e di gratitudine, ora come non mai. Quelle sillabe interrotte, il lessico fintamente raffinato, la pronuncia sgradevole come se l’interlocutore non usasse le labbra: era uno Stryxis, non poteva sbagliarsi.
– Compli menti, siete ar guto per essere mori bondo. – Disse Ler’en senza entusiasmo.
Xanatov ringraziò l’Imperatore per la seconda volta nel giro di pochi minuti. L’alieno non aveva nemmeno tentato di dissuaderlo, probabilmente perché sapeva di avere una pronuncia indecente o magari perché si era sentito in una posizione di forza tale da sottovalutare la propria controparte. Il Capitano era determinato ad aumentare il ritmo della trattativa, così si sforzò di ricordare tutti i dettagli possibili su questa razza aliena. Sapeva che quegli orribili Xeno dalla forma canide e vagamente antropomorfa erano una razza di depravati commercianti nomadi. Definirli Mercanti sarebbe stato un insulto a tutta la categoria. Erano più che altro schiavisti e trafficanti senza scrupoli. Senza fissa dimora, essi abitavano le stelle, solcando gli spazi con le loro navi carovane, sempre in movimento, o in fuga.
Questo Stryxis era di certo anomalo: era solo, e per sua ammissione era forzato a restare sul pianeta. Potevano essere indizi molto importanti per svelare alcuni segreti, ma il Capitano aveva sapeva di potergli spremere ancora qualcos’altro, così continuò il gioco.
 – Colpa dei soldati grigi. Sembra quasi che ci stessero aspettando, incredibile, vero? Questi, che vivono sottoterra tutta la vita, escono in superficie in uno dei luoghi più inospitali della galassia apposta per farci fuori. Sarà una coincidenza? – Xanatov si era espresso volutamente con sarcasmo perché sapeva che, per le menti aliene, era una di quelle sfumature del linguaggio così difficili da essere frustranti. L’obiettivo era appunto quello, spazientirlo e lasciargli il sospetto di non avere colto il messaggio per intero.
– Come ho già de to, sei ar guto. A basta nza per ca pire da solo che igrigi, come li chi ami tu, non sono emersi per caso. Ti meriti un regalo: un uomo è atte rato su Goetia prima dello schi anto della vo stranave. Questo uo mo parla la lin gua dei nativi e li com pra tu ti, isti gàndoli a darvi subito la caccia. Poi viene da noi e com pra altre cose, sopra tu to com pra i nostri occhi e le nostre ore chie. Ma io non sono come i miei compa gni. Io so che anche voi siete ri chi, e se lui pagabene, voi pagherete meglio. – Ler’en dimostrò di non essersi lasciato impressionare troppo dalla sapienza di Xanatov e giocò una carta molto audace. In pratica li stava ricattando, sperando che la loro paura verso Wade, perché solo lui poteva essere il misterioso uomo, giocasse un ruolo decisivo per intimorirli e spingerli a collaborare. Così facendo però aveva davvero regalato al Capitano molte preziose informazioni, anche se era poco saggio fidarsi interamente della storia raccontata dall’alieno.
– Facciamo che ti credo. – Rispose imperturbabile Xanatov. – Comprerò io le informazioni che daresti all’uomo che ci vuole morti, e voglio l’esclusiva. Inoltre comprerò la persona che tieni imprigionata qua di fronte a me, e per finire mi servono medicine e attrezzi per curare le nostre ferite. Quale è il tuo prezzo?
Xanatov interpretò il gridolino rauco che gli rispose dal vox come una risata, anche se pareva più il risultato di una tortura ad un animale, dopodiché Ler’en disse:
– Bene! Sapevo che eri una persona ragionevole. Certo, ti darò quello che serve, al giusto prezzo. Io voglio armi e munizioni, più sono rare meglio è. Inoltre, voglio che raccogliate quelle dei vostri nemici uccisi e me le lasciate al sicuro lungo la vostra strada, così che io possa recuperarle. Quelle serviranno a mantenere il mio silenzio.
Xanatov rovistò tra le pieghe della casacca ed estrasse una fiasca al plasma per la sua pistola. La depositò a terra e disse:
– Aspettami qui allora, ti porterò tutto quello che possiamo sacrificare in questo momento. – E si voltò per tornare dai propri amici.
– As pe ta. – Disse ancora Le’ren. – Se mu ori non puoi sal dare il paga mento.
Il servo-teschio ronzò fino ad un foro nella parete, con un piccolo guizzo di laser rosso lo allargò a sufficienza per passarci attraverso e sparì alla vista. Tornò dopo qualche istante, portando con sé una valigetta metallica tutta graffiata e depositandola accanto alla fiasca. Raccolse poi le munizioni e volò via di nuovo dentro il foro. Xanatov si trovò per le mani un kit medico da battaglia: all’interno c’erano garze cataplasmatiche, disinfettante, piccoli attrezzi per estrarre i proiettili e dei cerotti di stimolante per soldati. In gergo chiamato solo Stim, era di fatto una potente droga capace di sopprimere il dolore e schiarire la mente, rendendola più lucida e reattiva. Gli effetti collaterali erano però tremendi, ciò nonostante Il Capitano non esitò. Il cerotto prevedeva un rilascio graduale, forse pensato per sforzi prolungati, eppure già dopo qualche istante dall’applicazione si sentì pervadere da un’onda calda e invigorente. Respirava con meno fatica e poté finalmente fasciarsi la gamba fradicia di sangue. Prese la lanterna dalla stanza e corse dai propri compagni, trovandoli dove li aveva lasciati. Li liberò dalle macerie e medicò le loro ferite più evidenti, in quanto la medicina non era mai stata il suo forte e non poté fare più di quello che gli consigliò l’intuito. Lasciò il kit e la luce accanto a loro, ma prese un paio di caricatori Requiem e lo zaino di Sean, che conteneva i fucili dei grigi uccisi e tornò indietro.
– Questo è tutto quello che posso darti ora. – Disse Xanatov rivolto alla luce rossa volteggiante in mezzo alla stanza. In quel momento si accorse inoltre che il buio non era così totale come si aspettava. Dai fori nella parete si poteva vedere una flebile luce, riflessa da chissà dove, ma che non poteva essere troppo lontano dalla superficie. Riuscì persino a distinguere la sagoma di Medea rannicchiata contro il muro.
Il servo-teschio si limitò a sollevare lo zaino senza rispondere, soppesandolo e misurandolo mentre si avvicinava al pertugio nel muro.
All’improvviso una luce investì il Capitano alle spalle, seguita dallo scalpiccio di due persone. Sean e Sophiex irruppero nella stanza con le armi spianate.
– Capitano! – Urlò lei – Stai bene? C’era sangue dappertutto, abbiamo sentito le voci… che sta succedendo qui? Stai bene?
Entrambi erano spaventati e perplessi, ma Xanatov voleva terminare lo scambio prima di ogni altra questione o spiegazione.
– Oh, che l’Imperatore ci protegga, quella è Medea! – Esclamò Sean – Capitano! Cosa significa? Cosa ci fa qui?
Il teschio volante attraversò il foro, poi la sua voce metallica disse:
- Non è su fi ciente! Vo glio anche le vo stre armi! Sei stato ava ro, Capi tano.
Xanatov abbassò con forza le braccia protese dei compagni, lo stryxis lo aveva già minacciato di essere pronto a uccidere Medea una volta, e lui non voleva correre il rischio che si spaventasse.
– State calmi e lasciatemi fare. – Ordinò il Capitano al proprio equipaggio, poi si rivolse nuovamente allo schiavista alieno:
- Non è avarizia! Come possiamo uccidere altri grigi se ci togli tutte le armi!?
Il corpo di Medea fu scosso da un brivido mentre una smorfia di dolore le contrasse i bei lineamenti. Aprì gli occhi e provò a divincolarsi, ma le sue braccia restavano saldamente bloccate all’interno dei fori nella parete. Xanatov urlò il suo nome mentre la situazione precipitava drammaticamente. Ler’en pareva infuriato e sembrava deciso a recuperare la sua merce, il Capitano pensò a una qualche altra possibile offerta che potesse interessarlo e magari calmarlo, ma non ci fu tempo. Sophiex non aspettò di capire cosa stava accadendo: puntò di nuovo le armi verso il muro e sparò senza pietà al misterioso assalitore, pur non sapendo né cosa fosse né dove fosse. Le detonazioni dei proiettili Requiem risuonarono come cannonate e ottennero un effetto analogo sulla parete già danneggiata, che crollò in macerie senza opporsi. In tutta risposta però, un pesante fumo scuro filtrò dai fori e si sparse nella stanza, ottenebrando loro la vista e bruciando le mucose. Xanatov sfoderò comunque la lama e incurante del rischio si lanciò verso la sorella. Prima che il gas venefico lo stordisse, riuscì a squarciare la gabbia con due precisi fendenti e trasportare il corpo della sorella lungo il corridoio dal quale erano venuti. Sean e Sophiex lo aiutarono a caricarla in groppa e corsero via veloci, tossendo e lacrimando copiosamente.
Fortunatamente il gas non si espanse nella loro direzione, poterono quindi difendersi nella stanza dove si erano svegliati. Il Capitano valutò che la sorella non aveva ferite degne di nota, così la adagiò a terra e provò a svegliarla.
– È viva? – Chiese Sean in apprensione.
– Come sta? – Fece eco Sophiex.
Entrambi gli erano di spalle, in quanto avevano occhi puntati e armi in guardia verso il corridoio, ma Xanatov scoccò lo stesso una feroce occhiata verso la militante. Nel momento in cui la soldatessa aveva aperto il fuoco contro il muro, al Capitano si era gelato il sangue nelle vene, credendo che Sophiex non avesse visto Medea incatenata.
– Hai disatteso un mio ordine esplicito, mettendo a rischio la vita di Medea. – Sibilò lui, contenendo a stento l’ira. La donna si voltò perplessa ed ancora agitata, ogni replica però le morì in gola non appena vide gli occhi gonfi e iniettati di sangue del suo Capitano. Averlo incollerito e deluso le provocava un dolore e un rimorso tale da sapere che torto e ragione ora non avevano la minima importanza, così abbassò gli occhi e tacque.
– Merda! Arriva qualcuno! – Sussurrò concitato Sean, ritraendo la testa dall’uscio della porta e voltandosi verso il Capitano che, svelto, spense la lampada che ancora ardeva.
Tutti e tre si immobilizzarono, orecchie tese e mani strette sulle armi puntate verso il buio. Questo però non era così profondo come sembrava all’inizio, anzi, ora che il fumo si era disperso ed i loro occhi si erano adattati, godevano persino di un certo vantaggio. Quel vago chiarore che Xanatov aveva notato precedentemente, ora si era fatto più forte e irraggiava attraverso il soffitto dell’ultima stanza, consentendo loro di vedere alcune ombre avvicinarsi al foro, come se stessero anch’esse scrutando nel buio. I tre sapevano di essere in trappola, nessuno di loro si sarebbe infatti sognato di aprire il fuoco, tuttavia, per evitare altri incidenti, Xanatov toccò lievemente i polsi protesi dei propri soldati e li sospinse verso terra; poi sfoderò la sua lama e, silenzioso, li precedette di qualche passo lungo il corridoio. I tre non riuscirono a percepire niente più di deboli sussurri, non potevano quindi far altro che attendere nel più totale silenzio.
All’improvviso però una delle due figure si risolse ad agire, saltando dentro il varco e atterrando nella stanza demolita dai proiettili Requiem. Era un soldato grigio, coperto da una spessa pelle imbottita e con il fucile in guardia. Questi ispezionò le macerie e fu solo il caso a non farlo voltare subito verso il corridoio. Xanatov allora scattò in avanti, pronto a trafiggere il soldato con la punta della spada, ma un'altra minaccia distrasse il suo bersaglio. Un grido soffocato sopra di lui lo fece voltare, giusto in tempo per vedersi scagliare addosso il corpo squartato del proprio compagno. Rapido come un fulmine, l’assalitore saltò giù anch’esso, usando così tutto il suo peso per trafiggere il grigio con una baionetta.
Il guerriero lasciò baionetta e fucile conficcati nel corpo, ma recuperò la sua ascia dal cranio del primo soldato.
– Blade. – Lo chiamò Xanatov, emergendo piano dall’oscurità in compagnia dei due fratellastri.
Il soldato sgranò gli occhi per la sorpresa ma li salutò solo con un cenno della testa.
– Jun! Li ho trovati! – Urlò poi al cielo.
 
***
 
- L’area è sicura, per adesso. – Sostenne Jun – Ne abbiamo fatti fuori un buon numero, ed i restanti sono stati fuorviati da Xerath. Il vostro amico ha detto di poterli gestire meglio se opera da solo; non avendo grandi alternative lo abbiamo lasciato fare. – Concluse lui sommariamente.
Il gruppo si era radunato quasi al completo nella piccola stanza sotterranea. Il confronto con la bestia li aveva sfiancati, nel corpo e nell’anima, tuttavia la loro più grande paura era stata fugata, poiché il Capitano era ancora vivo. Il crollo dell’edificio aveva però coinvolto anche la torre, obiettivo dell’equipaggio. Collassate le fondamenta, si era poi schiantata in strada, demolendo altri ruderi e sollevando una coltre impenetrabile di cenere. Il confronto a fuoco era stato quindi sospeso, lasciando tempo sufficiente ai superstiti di darsi un punto di ritrovo e riorganizzarsi mentre i nemici cercavano un modo per aggirare il disastro. Così, sfruttando le comunicazioni a corto raggio, si erano radunati in un edificio a poca distanza dalla barricata, dalla parte opposta della torre crollata. Lì Xerath aveva fermato le emorragie, probabilmente fatali, di Blade e Irving, lasciando invece il compito di cercare i dispersi al resto dell’equipaggio. Lui avrebbe distratto i soldati grigi rimasti nella speranza di guadagnare altro tempo.
Un silenzio stanco e meditabondo cadde su tutti i presenti, quelli ancora coscienti, almeno. Medea e Irving infatti giacevano ancora su lettighe di fortuna, svenuti. Blade si era accasciato contro una parete ed il colore della sua pelle sembrava volersi adattare alla tinta tenue dei muri. Zero zoppicava ancora visibilmente ed era intento a steccarsi una caviglia gonfia e livida, mentre Xanatov, Sean e Sophiex erano coperti di cenere impastata a sangue. Escoriazioni e tagli coprivano il loro corpo in tutte le zone scoperte dalle placche delle armature, anch’esse ammaccate e graffiate. L’unico apparentemente illeso era il cacciatore di taglie, anche se la cenere non lo aveva certo escluso dal suo abbraccio: lui stesso si trovò a osservare con ironia che il loro aspetto non era più quello di persone, bensì di spettri. 
Il Capitano provò per l’ennesima volta a mettersi in contatto con lo psionico, sperando fosse nei paraggi e potesse sentirlo attraverso le micro-cuffie, ma anche l’ultimo tentativo finì a vuoto.
-Va bene… - Disse lui con un filo di rassegnazione – Non possiamo aspettarlo oltre, dobbiamo approfittare del tempo che ci ha regalato per pianificare la prossima mossa. Come vi ho spiegato, l’alieno che teneva prigioniera mia sorella non è solo. Altri come lui, a sua detta, sono spie al soldo di Wade, come lo sono anche i soldati grigi. È chiaro che questo pianeta, chiamato dallo stryxis “Goetia”, nasconde qualcosa che Wade vuole ad ogni costo.
Il Capitano si rivolgeva a tutti e a nessuno, parlava spingendo lo sguardo oltre le pareti, immerso nella sua riflessione, convinto ancora di poter prendere in mano la situazione e guadagnare terreno sul nemico.
Sean provò a prendere la parola ma venne interrotto subito da Jun:
-Non dimentichiamo che si è organizzato molto bene per eliminarci tutti. L’Imperatore solo sa cosa ha schierato contro i superstiti della Bastimentum! È chiaro che in qualche modo ci teme, altrimenti non si sarebbe impegnato così tanto per farci fuori.
Il pilota gli scoccò un’occhiataccia irritata, ma, rispettoso, attese che Jun terminasse per esporre la propria idea. Il Capitano però lo zittì subito alzando nella sua direzione la mano con l’indice rivolto al cielo e proseguendo senza interruzioni il ragionamento del cacciatore di taglie.
-Condivido. Avrebbe potuto lasciarci morire di inedia nel deserto, ciò nonostante ha mobilitato un battaglione di soldati mutanti apposta per farci fuori.
-Non esattamente. – Intervenne Sophiex – Non possiamo sapere se qualche altro sopravvissuto, di quelli espulsi con le capsule intendo, sia già arrivato qui. Né se ce ne sono altri dispersi nel deserto. In questa città potrebbero esserci altri membri dell’equipaggio, così come siamo arrivati noi, loro due e Medea. Non può essere che Wade ci tema solo se ci raggruppiamo in molti?  
-È possibile, sì. – Ammise Xanatov. – A maggior ragione, dovremmo trovare il relitto della Bastimentum il prima possibile, allora. – Disse ancora lui, risoluto. Poi d’un tratto gli sovvenne un’idea.
- Zero! – Chiamò – Il radiofaro capta qualcosa? – Chiese il Capitano al tecno-prete. Questi rispose prontamente, anche se per tutta la discussione era rimasto appartato a diagnosticare i propri sistemi.
- No. L’energia si sta esaurendo, inoltre il crollo ha danneggiato l’alloggiamento delle batterie. La sua capacità è quindi tremendamente limitata dalla poca potenza, sarà possibile utilizzarlo a pieno regime solo se lo spirito macchina verrà adeguatamente nutrito da una fonte costante.
Quella che era parsa una buona idea venne stroncata sul nascere dalla realtà dei fatti. Tutti si strizzarono le meningi per proporre altre idee, tutti, tranne Sean, che aveva incrociato le braccia con aria offesa. Non approfittò della pausa per dire, finalmente, la propria opinione; seguì invece con sguardo perplesso ogni interlocutore, come nel tentativo di raccogliere attenzione solamente col contatto visivo.
Jun non se ne accorse minimamente e continuò con le sue deduzioni:
-E se invece i soldati non fossero qui apposta per noi? Cioè, mettiamo il caso di essere finiti proprio nel luogo di interesse di Wade, nel senso che non c’è altro che polvere per centinaia di chilometri in ogni direzione e chiunque, stando sulla superficie, prima o poi, vagando, incappi per forza in questi ruderi. Crediamo di essere stati fortunati a trovare la città, magari invece Wade voleva atterrare esattamente qui perché è qui che c’è quello che gli interessa. A quel punto sarebbe un comportamento logico fortificare ogni accesso ed eliminare ogni ficcanaso.
-Giusto. – Rispose Xanatov, concentrato.
-Quindi mi sembra più probabile che sia proprio qui il suo nucleo di interesse. Pensateci: chi potrebbe mai sopravvivere più di qualche giorno marciando nel deserto? Non abbiamo né veicoli né scorte. Se potessimo interrogare quell’alieno o magari contattare altri superstiti…
- Magari possiamo davvero! – lo interruppe Sean alzando la voce e indicando con le mani l’angolo della stanza dove Medea riposava. Tutti si voltarono a guardarlo, poi guardarono il siniscalco steso a terra; lei li stava già osservando con un mezzo sorriso sulla bocca.
- Lo sapevo che non eravate morti. – Disse con un filo di voce.
Il Capitano si gettò subito da lei, aiutandola a mettersi seduta. 
– Come ti senti? – le chiese, apprensivo, suo fratello.
– Io sto bene. Lo schiavista voleva venderci a buon prezzo, si è preoccupato che non morissimo di fame o sete durante gli spostamenti.
– Come sei fuggita dalla nave? C’era qualcuno con te? – Chiese Jun.
Medea prese un sorso d’acqua dalla borraccia offertale da Xanatov, poi osservò attentamente ogni persona nella stanza; infine prese coraggio con un lungo respiro e raccontò:
- La stiva era un immenso rogo… non so come sia potuto succedere. Con l’aiuto di alcuni ufficiali abbiamo evacuato il personale, ma i passaggi verso il ponte di comando erano ostruiti o esplosi. Così siamo scesi a poppa, ma anche lì la situazione era drammatica, forse anche peggiore. Dicevano che i motori warp avevano smesso di funzionare durante una tempesta improvvisa e che lo strappo verso il Materium aveva portato la nave fuori rotta, oltre ad uccidere tutto il coro astropatico, per poi finire direttamente nel campo gravitazionale di un pianeta sconosciuto. Mi dissero che tutti i collegamenti con il ponte erano saltati e che nessuno sapeva cosa fare, così pensammo di invertire i motori per una decelerazione d’emergenza, ma l’intera sezione era isolata da un blocco manuale. Così, per non finire carbonizzati, siamo fuggiti con una scialuppa.
- Un blocco manuale? – Fece eco Sophiex – Ora è chiaro. Lui aveva dei complici sulla nave, non può aver fatto tutto da solo. – Dedusse lei, riferendosi ovviamente al loro arci nemico.
-  Ma chi mai potrebbe eseguire così fedelmente un compito suicida? Noi siamo vivi per miracolo e per quel che ne sappiamo sulla Bastimentum potrebbero anche essere tutti morti nello schianto. – Arguì Sean.
-  Non fate l’errore di sottovalutarlo. – Li ammonì Jun – È un maestro dell’inganno e non agisce mai senza aver accuratamente pianificato ogni evenienza. Sono sicuro che non vi abbia scelti a caso.
Medea ascoltò tutto con attenzione, senza interrompere, poi si rivolse solo al fratello e, sottovoce, chiese:
- Di chi stanno parlando? C’è un colpevole per il disastro?
Il resto dell’equipaggio tacque, lasciando che fosse il Capitano a darle tutte le spiegazioni.
- Harlan Wade. – Disse lui. – Noi pensiamo che ci sia lui dietro tutto questo.
Medea strabuzzò gli occhi, sbigottita.
- Com’è possibile? Perché? – Chiese, quasi spaventata.
- Non lo sappiamo. Ma sappiamo che le carte nautiche che ci ha venduto sono false. È stato lui a persuadermi di viaggiare oltre il passaggio Koronus. Inoltre, abbiamo saputo dal tuo carceriere che lui sa esattamente come muoversi su questo pianeta morto, ha preso contatti con gli alieni qua presenti e sta cercando qualcosa. Queste due persone che vedi, Jun e Blade, sono cacciatori di taglie e sono sulle sue tracce da molto tempo.
Medea scosse la testa incredula, il volto le si contrasse per il dolore della rivelazione mentre lacrime improvvise lavarono la cenere dalle gote arrossate.
- È colpa mia… - Disse con un singhiozzo – Xanatov, oh, per l’Imperatore, è tutta colpa mia! Io l’ho fatto salire! Mi dispiace, io pensavo che… -
- No non è colpa tua. – La interruppe suo fratello. – Il Capitano sono io, mia è stata la decisione e mia è la responsabilità. Lo abbiamo ascoltato tutti con piacere, ci siamo fidati di lui, ma la colpa è solo mia.
- Con tutto il rispetto, Capitano… – Si intromise Sophiex – Ma a questo punto non ha più la minima importanza. Dobbiamo solo trovare il modo di uscirne.
- Sono d’accordo. – Disse Jun, guardando poi Medea negli occhi. – Ci servono però tutte le informazioni possibili. Sugli stryxis per esempio, o qualsiasi altra cosa tu possa aver visto in questi giorni. Come sei arrivata qui? Eri sola?
- Lasciale un momento! – Intervenne Xanatov – Non vedi che è sconvolta?
- Non ce l’abbiamo un momento! – Rimbrottò Jun – I grigi potrebbero tornare a minuti! Dobbiamo escogitare un piano immediatamente e fuggire senza lasciare tracce.
- Dove siamo ora? – Chiese Medea tagliando corto. Aveva riguadagnato il controllo di sé ed era pronta ad aiutare. Suo fratello le rispose subito:
- Siamo in una città in rovina. Dopo essere atterrati con la scialuppa, abbiamo vagato nel deserto per giorni ed infine Irving ha percepito questo agglomerato poco lontano dalla nostra posizione. Una volta dentro siamo stati subito attaccati da questi soldati dalla pelle grigia. Qui abbiamo incontrato i due cacciatori di taglie, che all’inizio pensavamo fossero complici di Wade, e insieme abbiamo affrontato altri grigi mentre cercavamo un luogo sopraelevato: il nostro obiettivo era di riuscire a scrutare l’orizzonte abbastanza da scorgere il relitto della nostra nave. L’unica nostra speranza è radunare i sopravvissuti, se ce ne sono, e recuperare tutto il possibile dal relitto.   
Medea si alzò in piedi e con lo sguardo immerso nel ricordo raccolse tutti i pensieri e le informazioni mentre passeggiava, lentamente, attorno alla stanza, massaggiandosi i muscoli doloranti. Tirare le somme era il suo mestiere e trovare una soluzione ai problemi la sua specialità: la situazione era ovviamente critica, ma la partita con Wade non era ancora chiusa. Tutti ascoltarono con interesse crescente:
- Sulla scialuppa eravamo in dodici. Due avevano già gravi ustioni quando siamo partiti e sono purtroppo morti nello schianto sulla superficie. Il primo giorno abbiamo costruito un piccolo accampamento, mentre gli ingegneri tentavano di captare qualche segnale e lanciare un SOS col radiofaro. Le risorse di emergenza erano già scarse, non saremmo mai sopravvissuti più di quarantotto ore, così abbiamo deciso di andarcene. La pianura di cenere non aveva punti di riferimento ed il cielo restava coperto, ma siamo partiti ugualmente. Prima che ci attaccassero abbiamo perso un altro marinaio, era ferito, ma non si è lamentato fino a che non è crollato al suolo. La notte del terzo giorno, quando la luce era meno intensa, ci hanno assaltato nel sonno. Nemmeno il tempo di rendercene conto e stavamo già marciando in catene, con un cappuccio in testa e drogati con qualche strana sostanza. Non so dire quanto tempo passò prima di arrivare a destinazione, tutto quello che udii furono le voci terribili dei nostri carcerieri che parlavano con altre creature dalla voce gutturale. Li vidi solo una volta, quando tentarono di vendere me: eravamo in un’ampia piazza circondata da edifici bianchi completamente in rovina. Lì, delle creature umanoidi dalla pelle scagliosa e grigia contrattarono il nostro acquisto da strani alieni alti e gobbi, coperti da strati di ampi tessuti luridi, dietro le quali nascondevano le loro fattezze contorte. Mi pare avessero quattro occhi, un muso vagamente canide e le dita esili e artigliate.
I grigi, come giustamente li chiamate voi, erano invece ammassati in baracche fatte di lamiere ossidate e in tende di fortuna, ma erano molti ed erano ben armati. Comprarono tutti i miei uomini per farli lavorare o forse per combattere, non lo so, ma li portarono all’interno di una piccola torre vecchia e arrugginita e non li vidi più. Quella torre aveva qualcosa di stranamente familiare, ma al momento ero troppo spaventata per capire. Ad ogni modo, gli schiavisti si accamparono non lontano dai grigi, capivo da come si parlavano che la trattazione non era andata bene e la loro attenzione era completamente catturata da qualcosa che avevano appreso dai grigi stessi. Io ero uno scarto di magazzino, non mi avevano voluto, così mi chiusero dentro una specie di container metallico insieme alle altre merci invendute, mentre loro continuavano a litigare. Il container mi offrì un ulteriore indizio: era molto vecchio e quasi del tutto arrugginito, eppure era un modello standard Imperiale! Pensai subito fosse stato razziato e nascosto lì tempo addietro, quindi questo pianeta desolato non poteva essere che un covo di pirati, ergo non lontano da rotte commerciali Imperiali. –
Tutti i presenti sgranarono gli occhi per la sorpresa. Il racconto alimentava la loro speranza tacita di poter lasciare il sistema ignoto per tornare nel territorio Imperiale. La mera sopravvivenza era stata un problema tanto pressante da scavalcare il quesito tutt’altro che trascurabile: su che pianeta erano finiti? Anche se la risposta a questa domanda non fosse mai arrivata, almeno sapevano che qualche collegamento con l’esterno poteva esserci. Tutti pendevano dalle labbra di Medea, persino Zero mostrò attenzione diretta e, incredibilmente, Blade partecipò al dialogo:
-Quindi, che sia dei grigi o stryxis, da qualche parte deve esserci una nave pirata. Questo pianeta è solo un nascondiglio per i loro traffici. – Disse lui, pragmatico.
-È quello che penso. – Rispose lei – Ma la storia non è ancora finita. – Aggiunse, continuando la narrazione.
-La mia prigione era piena di buchi e crepe, così passavo le ore osservando l’esterno, sperando di captare qualche informazione riguardo voi e la Bastimentum. Nello specifico, osservavo la strana montagna di rifiuti metallici all’ombra della quale eravamo accampati. Capii che in realtà era un relitto anch’esso, ma talmente logorato da essere letteralmente in pezzi, eppure non avevo dubbi: era una antica piattaforma di carico merci pesanti arenata su un fianco, completamente priva di carena e, per di più, al centro del suo spiazzo di carico, si apriva un foro irregolare di almeno sei metri che la trapassava per intero. Anche quello era un modello antiquato, tuttavia capace di vincere la gravità ed uscire dall’atmosfera senza problemi.  Così, infine, ho unito i pezzi del puzzle e ho capito: le baracche costruite con i container, la vecchia torre di controllo arrugginita, la piattaforma di carico e la città in rovina. Questa città non può che essere un sito di stoccaggio merci e, se è costruita da mano umana, e dati gli elementi che vi ho esposto direi di sì, il magazzino vero e proprio deve essere per forza sotto la superficie!
L’equipaggio continuava a fissarla perplesso, quasi frustrati dal lungo ragionamento e desiderosi di capire quello che il siniscalco aveva capito così brillantemente.  
-Medea. – Disse, calmo, il Capitano – Non abbiamo né il tempo né l’energia per decifrare i tuoi enigmi, se hai un piano, ti prego, diccelo e basta.
-Ma non capisci? – Rispose lei amareggiata.
-La piattaforma di carico è stata abbattuta in volo mentre seguiva le coordinate di atterraggio fornite dalla torre di controllo, che di solito è eretta al margine della piazza d’accesso al magazzino interrato. Precipitando, ha rovesciato il carico di container lungo tutto il tragitto ed infine si è schiantata a terra, sicuramente nei pressi della piazza di carico. La torre dove i grigi hanno condotto i miei marinai era proprio al margine della piazza dove i soldati si sono accampati dentro dei container vuoti! Questo vuol dire che se la torre autorizza l’accesso, il pavimento mobile della piazza calerà sotto la superficie in attesa che la piattaforma atterri al suo posto, per consentire lo scarico delle merci, come farebbe un qualsiasi montacarichi! 
  • Stai dicendo che i grigi sono dei pirati e stivano la refurtiva sotto questi ruderi? – Domandò scettica Sophiex.
  • Aspettate un momento… – intervenne Jun – Questi relitti di navi, carcasse di veicoli, la città in rovina, sono tutti troppo vecchi, anzi, antichi! Non è possibile che queste bestie grigie governino una nave interstellare e depredino cargo Imperiali: sono dei selvaggi! –
  • Esatto! Avete ragione! – Quasi urlò Xanatov quando la rivelazione lo colse.
  • Qua sotto c’è della refurtiva nascosta! Ora capisco il piano di Wade… un antico sito di stoccaggio pirata, una milizia privata di bestie a difenderlo e degli ignari complici da sacrificare. Sotto mentite spoglie lui arriva sul pianeta, cancella ogni prova uccidendoci e distruggendo la Bastimentum che lo ha trasportato ed infine si impadronisce di un antico tesoro, sepolto in un pianeta dimenticato dalla luce dell’Imperatore.
Lo sguardo e l’immaginazione di ognuno si perse nella memoria, rivivendo gli ultimi giorni sotto la luce della rivelazione. La situazione non era meno grave, ma almeno sapevano in cosa erano stati coinvolti. Le personali elucubrazioni vennero però interrotte da un gemito: Irving si era svegliato, dolorante e confuso, ed i suoi compagni lo soccorsero prontamente. Ben presto anche lui volle sapere come se l’erano cavata e restò impietrito di fronte alla sagoma di Medea: pareva proprio avesse visto un fantasma. L’energia warp plasmata da Xerath aveva richiuso il buco nella pancia che gli stava costando la vita, lasciando solo il ricordo del dolore e una sensazione fredda nelle viscere. Irving, abitualmente impassibile, sembrò davvero sollevato nell’apprendere di non essere più in pericolo, lasciando così intendere di aver proprio visto in faccia la morte.
Solo Zero e Medea restarono in disparte ad osservare la scena, entrambi elaborando le informazioni alla ricerca del piano d’azione migliore. Fu il tecno-prete a rompere il silenzio tra loro, proponendo una idea che il Siniscalco ascoltò con grande attenzione.
L’equipaggio invece aiutò il Navigator a rimettersi in sesto, informandolo anche sugli ultimi sviluppi. Il chiacchiericcio concitato che ne scaturì venne però ammutolito dallo sguardo di ghiaccio di Medea che, mortalmente seria, disse:
  • Zero ha un piano. È rischioso, molto, ma non abbiamo alternative. Forse non è ancora troppo tardi per fermare Wade.
 
***
 
Lo psionico era davvero stanco. Solo lo sforzo di concentrazione sarebbe bastato ad assorbire quasi tutta la sua energia, purtroppo era costretto anche a muoversi di continuo, sforzandosi di non essere né visto né sentito. Xerath era seriamente affaticato, eppure l’idea apparentemente suicida di attirare i grigi lontano dal gruppo aveva dato i suoi frutti. Quei soldati bestiali avevano abboccato senza sospetto, lanciandosi con furia all’inseguimento dell’umano che li stuzzicava con il fuoco della sua pistola laser. La zona su cui si era schiantata la torre, inoltre, era invivibile anche per loro, in quanto la nube di cenere sollevata avrebbe soffocato chiunque, così, frustrati e feriti, non avevano esitato ad attaccare quella figura indistinta tra le macerie.
Era passata un’ora, o forse anche di più, e lo psionico era ormai allo stremo delle forze. Con i suoi poteri, aveva attirato i grigi verso la periferia, sperando di poterli poi seminare e tornare indietro a cercare gli altri. La fuga purtroppo si era spinta troppo oltre ed il segnale del micro comunicatore si era affievolito di conseguenza, fino a sparire. Il momento giusto per tornare indietro era infatti già passato; lo psionico, ormai messo all’angolo, ora rischiava seriamente che i cacciatori lo trovassero. Si erano fatti via via sempre più spavaldi: forse avevano capito che la loro preda era sola, oppure si erano stancati del gioco e volevano chiudere la partita. Quale che fosse il motivo, la situazione stava nettamente peggiorando, eppure si sentiva pronto. Avrebbe potuto finalmente sfogare quella sua energia interiore, quel fuoco mistico che lo consumava fin dalla tenera età, anche se nessuna età era mai stata tenera per lui. Xerath era un’arma vivente, né più né meno, e lui lo sapeva, anzi, lo accettava. In questo momento, invece, per la prima volta in vita sua, si era trovato letteralmente fuori controllo. Lontano dalle leggi dell’Impero e dell’uomo, sapeva di poter dare il massimo senza temere nessuna conseguenza, non tanto per sé stesso, ma almeno per le persone attorno a lui.
I grigi incalzavano e presto lo avrebbero trovato, così decise di smetterla di scappare e di colpirli duramente. Scelse un edificio pericolante tra i tanti, preferendone uno relativamente sgombro da macerie, o che, per lo meno, consentisse una buona visuale del piano terreno. Identificato il candidato migliore, si dedicò alcuni minuti a predisporre la grezza trappola che aveva in mente, poi sfruttò ancora il suo potere psionico, alleggerì con esso la presa della gravità sul suo corpo e levitò agilmente raggiungendo il tetto, o quello che ne restava. Da lì sopra aveva un’ottima visuale dell’interno semi-crollato dell’edificio e delle strade limitrofe: la trappola era pronta a scattare. 
Non dovette attendere molto prima che una pattuglia entrasse nell’edificio. Cauti e circospetti, setacciarono ogni anfratto e nascondiglio, pronti a crivellare qualsiasi cosa si muovesse. Infine, un soldato trovò qualcosa a terra: dietro una colonna bianca e screpolata dal tempo, uno straccio di tessuto, sporco di sangue ancora vivo, giaceva tra le macerie. La cenere non lo aveva ancora inghiottito e per il soldato fu una traccia importantissima. Corse veloce fuori dalla struttura grigia, per poi tornare dopo pochi istanti accompagnato da altri soldati. Xerath era immobile nella sua posizione sdraiata, osservando la scena dall’alto e non osava nemmeno respirare per non tradire la sua presenza. La cenere aveva cominciato a seppellirlo, ma egli non ci badava minimamente: con la pazienza di un cecchino, dominava la paura e l’adrenalina, in attesa del momento opportuno, anzi, dell’unico momento a sua disposizione. I grigi sapevano di essere vicinissimi alla preda, così si sparpagliarono tra le rovine dell’edificio, silenziosi, pronti a stanarlo ad ogni costo. Solo in quel momento però si accorse di aver lasciato un altro indizio, stavolta involontario. Da una qualche ferita, lo psionico stava effettivamente sanguinando. Purtroppo per lui, la chiazza di sangue si era allargata e ora piccole goccioline cadevano, con suono ritmico, dal tetto fino al suolo. I grigi, in apparenza stupidi e ferali, erano invece cacciatori arguti e spietati, infatti, ben presto, due di loro percepirono qualcosa nell’aria e si diressero istintivamente sulle macerie sopra le quali il sangue stava gocciolando. Xerath non aveva più tempo e non poteva assolutamente farsi scoprire, la trappola doveva scattare ad ogni costo: con un impegnativo sforzo di concentrazione, la sua volontà di piegare la materia si focalizzò attorno a uno dei pilastri più grandi nell’ampia sala al piano terra, dove i grigi stavano frugando ogni angolo. Con tuoni improvvisi e scoordinati, dei fucili presero a sparare frenetici in ogni direzione, sgomentando i cacciatori. Questi balzarono al riparo con grande rapidità e, altrettanto agilmente, risposero al fuoco. Eppure nessun nemico reale li stava davvero minacciando: il piano di Xerath era proprio questo. Disposti attorno a quel pilastro, nascosti dalla cenere e dai rottami, i fucili raccolti ai grigi morti erano serviti da esca e da diversivo, concertati dalla sua volontà psionica.
I soldati presenti spararono quasi alla cieca, crivellando la colonna e le macerie che supponevano fossero i ripari degli assalitori. Xerath si compiacque del risultato, ma sapeva di non essere ancora fuori pericolo. Strisciò furtivo sul tetto del rudere, portandosi al confine del muro esterno e osservò le strade. Come era prevedibile, anche altre pattuglie erano state attirate dal fuoco, sicure di aver ormai accerchiato la preda. Stava andando tutto per il verso giusto, e fu proprio questa considerazione ad allarmare il soldato: era strano, troppo strano. Non c’era però tempo per le congetture, doveva approfittare del diversivo e fuggire più lontano e silenziosamente possibile. Prese così un lungo respiro e si alzò in piedi, osservò la facciata dell’edificio di fronte e calcolò una distanza di almeno sei metri. Allentò nuovamente i lacci della forza di gravità e si preparò a saltare in lungo, al fine di scavalcare il profondo vuoto sottostante con un unico balzo soprannaturale. All’improvviso però, come se il cosmo avesse interpretato il suo tetro sentore come un desiderio inespresso, una saetta parve illuminare il cielo con un bagliore rossastro e subito uno scoppio assordante la seguì. Un’esplosione tremenda scosse la struttura direttamente alla sua base, quindi avvolgendo nelle fiamme qualsiasi cosa: muri, strade e soldati.
 
 
 
L’accampamento non era molto grande, non per gli standard Imperiali, ma era ben affollato. I grigi, affaccendati, spostavano casse e rifornimenti dentro e fuori da container arrugginiti e tende militari. A giudicare da ritmo sostenuto dei lavori in corso parevano persino avere fretta. Il campo era stato eretto all’interno di una grande piazza, circondata da torri ed edifici in rovina e stava crescendo ancora, colonizzando le strade attigue ed i ruderi circostanti. Si stavano chiaramente preparando ad una vera e propria battaglia, fortificando i punti strategici e posizionandosi in attesa di un potenziale assedio.
Il relitto della chiatta di carico non doveva essere troppo difficile da trovare; Medea non conosceva direttamente la strada ma aveva un’ottima memoria, grazie alla quale infatti trovarono e seguirono il lungo muro di cinta che lei sapeva essere vicino al deposito dei container, dove era stata rinchiusa, e quindi al loro obiettivo.
Il muro, come tutto il resto, era composto da lamiere arrugginite e macerie di qualsiasi genere. Era vecchio, ma non antico, non come la città almeno. Eppure i grigi si muovevano tra i ruderi con familiarità, ma era chiaro che nemmeno loro potessero davvero abitare quella desolazione, antica o recente che fosse. Da dove venivano allora? E quel dispiegamento di forze, cosa significava?
Queste ed altre ancora erano le elucubrazioni dell’equipaggio mentre si spostava, sempre furtivo, inoltrandosi ancor di più nel territorio nemico, fino a raggiungere il confine naturale del lato est del campo nemico. L’accampamento vero e proprio era in realtà inavvicinabile a causa delle macerie: l’unica possibilità d’accesso erano le due strade maestre che confluivano nella piazza principale, il cui itinerario attraversava due piccoli avamposti subordinati; uno appunto sul versante est e l’altro opposto su quello ovest. Il confine naturale era invece un enorme cratere che si estendeva dal muro di confine fin quasi alla strada maestra, limitando di fatto ogni accesso a quell’unica strada, ovviamente barricata e presidiata da quella costola del campo principale. L’equipaggio trovò riparo all’ombra di una montagna di macerie bianche e polverose, esattamente dall’altra parte del cratere, su cui poi salirono per poter cercare con lo sguardo una via d’ingresso alternativa alla strada pattugliata. Videro che il campo secondario era  esattamente a nord della loro posizione e si estendeva oltre la conca per alcune decine di metri, fino al relitto della chiatta orbitale. Alla loro destra, il muro perimetrale si interrompeva proprio sul confine dell’area coinvolta dall’antica esplosione, grande per altro quasi quanto il campo stesso, per poi continuare oltre la chiatta. Alla loro sinistra invece la strada maestra procedeva costeggiando la sponda del cratere, separando quindi il piccolo accampamento dal principale e proseguendo, dopo una decisa curva a sinistra verso il centro della città, fino al suo cuore, nella piazza principale.
Un’ipotesi d’azione poteva essere quella di aggirare la depressione nel terreno verso est, seguire ancora la muraglia metallica, rasentare il confine del campo ed arrivare al relitto senza ingaggiare battaglia; poteva essere una buona idea per evitare le pattuglie, ma camminare all’estremità della dolina voleva dire strisciare con grande fatica fra le montagne di detriti, col rischio che vedette o cecchini potessero avvistarli senza troppe difficoltà dal campo e già ad una grande distanza. Stesso discorso sarebbe valso se invece si fossero calati proprio all’interno della conca: lì sarebbero stati bersagli così semplici che l’idea equivaleva a suicidio.
L’opzione meno rischiosa sembrava essere la strada maestra, ma anche ammesso di riuscire a oltrepassare la barricata, non potevano semplicemente sperare di passare inosservati fino alla chiatta, tanto meno fino alla torre di controllo.
- Quale è il piano, quindi? – chiese Sean al Capitano.
Xanatov aveva ascoltato, attonito come gli altri, mentre Medea traduceva l’input che il tecno-prete le aveva dato come spunto. Zero sosteneva che, se non severamente danneggiati, i cogitatori impiegati all’interno delle macchine potessero restare sopiti per anni, o addirittura secoli, comunque pronti ad essere risvegliati dal sonno anche solo da un bio-impulso. Doveva essere un impulso specifico, ma Zero non sembrava preoccupato da un dettaglio del genere, sempre che il tecno-prete potesse ancora provare preoccupazione in generale. Ad ogni modo, Medea, che tra tutti i meravigliosi doni posseduti non aveva purtroppo quello della sintesi, riassunse così:
- Ammettendo che tutte le variabili ambientali non abbiano degradato i sistemi relativi al trasporto e stoccaggio della merce, potremmo e dovremmo raggiungere la torre di controllo ed inserire manualmente i dati del permesso di atterraggio della piattaforma di carico, innescando così l’apertura del magazzino sotterraneo, che deve trovarsi necessariamente sotto i piedi dei grigi trincerati nella piazza principale. Così facendo creeremo lo scompiglio necessario per infiltrarci all’interno e scoprire finalmente il segreto di Wade.
L’idea nasce dalla corretta osservazione di Zero che ci suggerisce di raggiungere la cabina di pilotaggio del cargo così che lui possa estrarre i dati relativi al deposito, sempre che, ovviamente, non siano andati distrutti con i cogitatori nello schianto.
I membri dell’equipaggio si erano guardati l’un l’altro con la fronte aggrottata, semplicemente increduli. Un’ultima, disperata, battaglia si frapponeva tra loro e la salvezza, fra una grigia prigionia e la fuga, fra la certezza della morte e la fragilità della vita. E quel pianeta maledetto, Goetia, avrebbe riscosso il suo tributo di sangue, fino all’ultima goccia.
- Il piano è semplice. – Rispose Xanatov al fido pilota.
- Dobbiamo scortare furtivamente Zero fino al cargo, così che prenda i dati che ci servono. Jun, tra tutti noi, è il più competente ed addestrato per essere avanscoperta e guardia del corpo del tecno-prete, per cui sarà lui a guidarlo. Giusto? – Domandò il Capitano all’aria, sapendo che il cecchino era nei pressi.
- Confermo. – Rispose infatti lui, molto serio.
- E quindi noi… - Continuò Sean titubante.
- Non ci sei ancora arrivato!? – Lo rimproverò ruvidamente la sorellastra - Noi siamo le esche, maledizione. – Aggiunse lei, con aspra disapprovazione.
Sophiex non era stata d’accordo sul piano nemmeno per un momento. La sua mente strategica aveva calcolato le possibilità di successo della missione e, considerando le enormi variabili, quali: i rischi insiti di un conflitto a fuoco, la schiacciante minoranza numerica, la familiarità del nemico col campo di battaglia e le scarsissime probabilità che i dati fossero ancora integri, etichettò l’intera l’iniziativa come una vera e propria follia.
Eppure il Capitano aveva approvato l’idea. Consapevole di tutto, ma armato di una fiducia e una sicurezza che parevano incrollabili, il solo stargli vicino alimentava le braci della speranza, come una brezza vitale su un fuoco morente.
Blade controllò il suo fucile laser un’ultima volta e disse:
- Preferisco morire qui, uccidendo questa feccia aliena, che morire di fame strisciando nella cenere. – Per poi allontanarsi dal cumulo su cui erano saliti tutti, pronto all’azione.
La squadra scese dai detriti e li costeggiò in senso orario, seguendo la curvatura del cratere fino a raggiungere con lo sguardo il primo ostacolo. La strada maestra correva lontana alcuni metri da loro, punteggiata, come le altre strade, da relitti di piccoli veicoli, buche e detriti, fino a raggiungere una barricata di lamiere. Questa era molto simile alle prime già incontrate: ci si potevano aspettare quindi cecchini sulla balaustra e altri soldati all’interno. Diversamente dalle altre però, la barriera era ancorata alla parete di un edificio solo da un lato, mentre l’altro pilastro di sostegno era invece una colonna di veicoli impilati. Partendo da questa, una fila di container mezzi arrugginiti era stata allineata per chiudere il passaggio, sistemati in linea retta fino al cratere. Il lavoro però, fortunatamente, non era stato ancora terminato: era quindi possibile sgusciare attraverso la muraglia abbastanza facilmente, sempre che, ovviamente, nessuno stesse sorvegliando. Così, mentre l’equipaggio restava nascosto, in attesa del via libera, Jun avanzò quatto di riparo in riparo, avvicinandosi solitario alla barricata. Tutti capivano che l’esito dell’infiltrazione era determinate ai fini dell’intera missione: se Jun avesse fallito, si sarebbero dovuti aprire la strada con le armi, e questa era l’opzione che tutti volevano evitare. Attesero quindi col fiato sospeso e le armi strette in pugno, pronti comunque a dare il meglio.
 Dopo pochissimi minuti, la voce di Jun risuonò piano nei loro vox comunicatori auricolari:
- Sono tutti morti… – Disse.
- Perfetto. E bravo il nostro cacciatore! – Si complimentò Xanatov, mentre tutti traevano un sospiro di sollievo.
- Ma non li ho uccisi io. – Rispose di nuovo Jun.
- Cosa!? Erano già morti? – Esclamò Sophiex stupita.
- Come è possibile? – Fecero coro gli altri, altrettanto sorpresi.
- Due cecchini e una guardia. Non è un bello spettacolo. Uno di loro sembra…liquefatto. Non hanno sparato nemmeno un colpo.
- Allora non siamo gli unici nemici che hanno! – Esclamò quasi contento il Capitano.
- Svelti, approfittiamone. – Li incitò Blade.
- Giusto. Presto arriverà il cambio della guardia, dobbiamo essere rapidissimi. – Confermò Sophiex
La squadra avanzò svelta fino al muro di container e passò oltre. La strada maestra proseguiva il suo corso per alcune decine di metri, arginata a sinistra da un edificio crollato e a destra dal cratere, prima di attraversare l’avamposto e svoltare a sinistra verso il centro città. Lungo il percorso, l’unica copertura che poteva nasconderli alla vista dei soldati era una torre diroccata, esattamente a metà strada. Senza esitare corsero in quella direzione, armi in pugno, solcando il terreno soffice senza rumore ma, purtroppo, anche senz’altro riparo possibile.
La fortuna li assistette: le pattuglie erano fuori dalla visuale, così, una volta arrivati al riparo della torre, Xanatov disse nel vox:
- Avanti Jun, muoviti da lì. –
Poi, rivolgendosi alla squadra, aggiunse:
  - Zero, tu aspetta qui che lui arrivi. Voialtri, con me. – E così dicendo sbirciò oltre il riparo, studiando la disposizione delle tende e dei container, così come le posizioni più evidenti dei grigi, al lavoro e di pattuglia. L’equipaggio aveva già combattuto fianco a fianco molte volte in passato, mai però i loro nemici erano stati qualcosa di così… alieno. Concorrenti economici, scagnozzi, feccia e tagliagole: nemici audaci, malvagi a volte, eppure umani, come loro. Qui era diverso. I grigi parevano poco più di bestie armate, invece erano cacciatori nati, guerrieri feroci e senza paura della morte. Vivevano al fianco di mostri terribili, come quello che li aveva quasi uccisi tutti, ed erano rintanati su un pianeta morente, senza speranza. Xanatov si trovò a pensare che, se avesse potuto, anche lasciando da parte il personale desiderio di vendetta, li avrebbe comunque uccisi tutti. La pietà, verso una vita così misera e depravata, sarebbe bastata a spingerlo all’annientamento totale. Per un fugace momento di distrazione, immaginò sé stesso a bordo di un incrociatore da battaglia imperiale, pronto a dare l’ordine per un vero bombardamento orbitale. La fantasticheria poi lo riportò con la mente alle storie che suo nonno Eadric gli raccontava di tanto in tanto, delle gesta degli avi loro predecessori e, soprattutto, alle leggende che gravitavano attorno alla figura di Bauer Van Vendigroth e della sua mitica nave, l’Artemixia XIII.
Ma Xanatov voleva e doveva restare assolutamente concentrato: scacciò ogni pensiero inutile e si lanciò nell’azione. Valutò accuratamente le possibilità di movimento tra le pattuglie, usando la stessa precisione con cui calcolava le finestre di lancio tra le orbite dei pianeti. Così facendo poté guadagnare altro terreno, riuscendo addirittura a far nascondere l’intera squadra dietro una pila di container vuoti, proprio sul confine del campo. Da quella posizione però, i più accorti videro che alcune pattuglie avevano cambiato ronda e una di queste aveva imboccato la strada maestra, diretti senza dubbio alla barricata.
- Jun, maledizione, dove sei finito? – Chiese il Capitano, ansioso, attraverso la microcuffia.  
Dopo alcuni estenuanti momenti di silenzio, finalmente ebbe risposta:
- Ci sono, ci sono, eccomi. – Rispose Jun ansante.
- Ho nascosto i corpi come ho potuto e ho coperto il sangue con la cenere. Non basterà ma almeno gli faremo perdere un po’ di tempo nelle ricerche.
- Sei con Zero?- Chiese ancora Xanatov, tenendo per sé commenti e rimproveri.
- Si, sono qui alla torre. –
- Bene. Da qui in poi hai carta bianca, ma evita assolutamente il confronto a fuoco. Dovete restare nascosti. Se saremo costretti, saremo noi ad aprire il fuoco per attirarli lontano da voi. Tra poco creeremo un diversivo, dopodiché potrete partire. È tutto chiaro? – Riepilogò il Capitano con tono adeguato al suo ruolo. L’equipaggio aveva puntato ai barili che i grigi trasportavano con tanta energia. Erano integri e pieni, a giudicare dallo sforzo fatto per sollevarli, e sporchi di una sostanza chiara, oleosa e dall’odore irritante e inconfondibile di carburante.
Nascosti dietro la torre, anche Jun e Zero videro la pattuglia avvicinarsi, così si nascosero in attesa del segnale. Il cacciatore di taglie però era abituato a lavorare in maniera molto diversa: da ottimo cecchino qual’era, conosceva a fondo il valore della pazienza, sebbene sapesse anche improvvisare, all’occorrenza. La cosa fondamentale, infatti, era mantenere il controllo del campo di battaglia. Jun aveva capito che il loro tempo stava esaurendosi e che non sarebbero mai riusciti a strisciare fino alla piattaforma prima che i grigi trovassero i corpi dei compagni; il conflitto era ormai inevitabile, ma c’era ancora tempo per guadagnare una posizione di vantaggio. Doveva agire al più presto. Così il cacciatore scrutò la cima della torre, cercando con lo sguardo una posizione da cui avrebbe avuto linea di tiro sul maggior numero di nemici possibile, ma ciò che vide gli gelò il sangue nelle vene.
Dalla cima alla torre in rovina, esattamente dove si sarebbe sistemato lui, Jun vide spuntare quello che per certo era un fucile di precisione. Per puro e fortuito caso, o forse addirittura per grazia divina, il cecchino stava scrutando le lande desolate oltre il muro di cinta della città, forse sicuro del fatto di non doversi preoccupare del territorio attiguo al suo nascondiglio. Con il cuore a mille, capì che da un momento all’altro il tiratore avrebbe potuto guardare giù e avvistare l’intero equipaggio, inconsapevole e vulnerabile.
- Zero! – Disse lui, inquieto. – Avvertili, c’è un cecchino, io salgo! -
E così dicendo balzò sulla parete, scalando la facciata rovinata con la forza della frenesia.
Dopo qualche istante Xanatov lo chiamò al vox.
- Jun! Che diavolo stai facendo!? Non era questo il piano, maledizione! –
- Lo avete capito o no che c’è un cecchino qua sopra!? – Tuonò lui di rimando.
- Ci sposteremo dietro un altro nascondiglio! Tu attieniti al piano e porta Zero alla chiatta! – Ordinò il Capitano.
- No, se vi muoveste da lì attirereste la sua attenzione. Devo eliminarlo subito, da lì poi vi darò copertura. – Rispose fermamente Jun.
- Copertura!? Ti ho detto di non sparare assolutamente! Jun, non sparare a nessuno! – Insistette Xanatov ostinato, ma ormai gli eventi erano in moto e presto sarebbero precipitati nel conflitto.
Jun scalò la parete della torre al meglio delle sue possibilità, ben conscio dell’avvicinarsi inesorabile della pattuglia. Doveva arrivare il prima possibile per guadagnare la posizione di vantaggio, altrimenti nessuno di loro sarebbe uscito vivo dall’inevitabile scontro. Le voci dell’equipaggio continuarono a ronzare senza senso nelle sue orecchie mentre tutta la sua concentrazione era catturata dalla prova. Tuttavia, non fu sufficiente.
Le crepe nella parete della torre gli avevano suggerito l’idea iniziale ed erano state appigli validi, tanto da fargli guadagnare alcuni metri senza troppa difficoltà. Prossimo allo sforzo finale, invece, venne tradito dalle stesse mura che lo avevano invitato in partenza. Il cacciatore di taglie scivolò, forse sulla cenere o forse per cedimento naturale dell’appiglio, perse quindi l’appoggio e precipitò nel vuoto.
 
A poca distanza dalla torre, nascosto in alcuni container arrugginiti, l’equipaggio attendeva trepidante. La posizione celata consentiva loro di osservare una porzione del campo brulicante di grigi, affaccendati nel trasporto di barili e casse di munizioni. Era un ottimo posto per spiare i loro movimenti, ma presto l’intera squadra capì di non essere nella posizione più vantaggioso per sferrare un attacco, meno ancora se l’obiettivo era creare un diversivo senza essere visti. Muovendosi tutti insieme avrebbero di certo attirato l’attenzione per cui, sussurrando e gesticolando, la squadra condivise questa consapevolezza nella ricerca di una soluzione. Il Capitano era inoltre molto contrariato dall’iniziativa di Jun: che avesse o meno avuto successo, le parti ormai si erano invertite. Lui e Zero sarebbero stati il diversivo, al resto della squadra restava solo l’assalto a sorpresa, ma il fine ultimo dell’azione sembrava ormai irraggiungibile.
– Così come faremo a portare Zero alla chiatta!? – Domandò furente Sophiex a bassa voce, senza aspettarsi una risposta e al solo fine di scaricare la frustrazione.
-Dobbiamo agire subito. – Asserì Blade, determinato.
-Andrò da solo. Farò esplodere quei barili vicino alla tenda grande al centro dell’accampamento, a quel punto voi cercherete una posizione migliore e aprirete il fuoco. Anche Jun così dovrebbe avere tempo sufficiente per mettersi in posizione. – Continuò il soldato.     
-No, sei pazzo! – Disse Sean spaventato. – Il piano non era questo! –
-Ha ragione. – Aggiunse Medea in supporto al pilota. – Non ha senso affrontare questa battaglia se non possiamo portare Zero alla chiatta. Dobbiamo tornare indietro. –
-Purtroppo sarebbe impossibile. – Aggiunse Irving perentorio.
Il Navigatore stava osservando l’esterno attraverso una breccia nell’armatura metallica del container, parlò senza nemmeno voltarsi, concentrato e preoccupato.
-Un’altra pattuglia ha cambiato percorso ed un gruppo di grigi sta svuotando delle casse vicino alla strada maestra. Probabilmente stanno andando a lavorare sulla barriera incompleta che abbiamo superato poco fa, ormai non possiamo più tirarci indietro. – Continuò lui.
Un istante prima che l’equipaggio realizzasse appieno di non avere più scampo, un breve ma intenso fruscio crepitò attraverso le micro-cuffie:
-Jun? Zero? Che succede? – Chiesero loro, allarmati.
La voce campionata del tecno-prete rispose prontamente:
-Una nuova variabile positiva si è aggiunta all’equazione che sarebbe risultata equivalente alla nostra morte. – Disse lui senza emozione.
-Ehilà. – Li salutò Xerath, cogliendoli completamente alla sprovvista.
-Il mio comunicatore è morto. – Continuò –  Vi spiegherò. Sto usando quello di Jun.
-Perché? Lui dov’è? – Chiese Xanatov.
-Tu dov’eri? Cosa è successo? – Chiesero gli altri.
-Ve lo spiegherò appena posso, comunque non preoccupatevi. Ora devo aiutare Jun a far fuori questo cecchino, altrimenti non avrete scampo. Aspettate la nostra copertura prima di agire, da qua la situazione sembra ancora peggiore. – Li avvertì lo psionico.
-Cosa vuol dire? – Domandò Sophiex, preoccupata che le fosse sfuggito qualcosa.
-Ma dove siete? – Chiese Xanatov.
-Praticamente in cima alla torre. Diciamo che ho aiutato Jun a salire… Comunque volevo avvisarvi che da questo punto saremo in silenzio radio, altrimenti ci troveranno. Passo e chiudo. -  Concluse lui tassativo, e la comunicazione si interruppe.
L’equipaggio era agitato, gli sguardi perplessi e preoccupati balzavano da uno spiraglio all’altro, sperando di riuscire a cogliere, attraverso le pareti arrugginite dei container, qualche altro vitale indizio; lo scontro diretto sarebbe stato un macello, ma anche ammesso di vincere la battaglia, niente avrebbe garantito il buon esito della missione che si erano preposti.
Il Capitano percepì l’angoscia della situazione: avrebbe voluto rassicurarli, ma lui per primo sentiva il panico solleticargli la bocca dello stomaco. Erano nascosti, eppure la minaccia incombente stava logorando i nervi e presto sarebbero ceduti. Dovevano restare e aspettare? Non sarebbe stato meglio trovare una sistemazione più strategica? Il suo sguardo scrutò ogni membro della squadra, per incrociare infine quello di Blade: fermo, determinato, agguerrito e disilluso. Non c’erano bisogno di parole: avevano rimandato l’inevitabile ma la strada era una sola, ora dovevano agire.
 
Per fortuna non ebbero bisogno di arrivare fino all’ultimo piano per trovare un appiglio abbastanza saldo. Xerath era affannato per lo sforzo mentre Jun faticava a ritrovare la calma. Il cuore gli martellava ancora nel petto per lo spavento e sentiva le ginocchia molli, ma sarebbe morto pur di non darlo a vedere. Difatti, se lo psionico non lo avesse afferrato al volo, sarebbe morto di certo nello schianto, ma il cacciatore di taglie non era tipo da mostrarsi vulnerabile né di necessitare aiuto, per cui tralasciò i ringraziamenti e spiegò brevemente la situazione al compare per convincerlo, e forse anche per convincersi, di avere ancora tutto sotto controllo.
Quale che fosse il piano, a Xerath comunque importava poco. Aveva appena passato delle ore davvero terribili e solo la sua rigida disciplina mentale gli consentiva di mantenere il controllo sulle violente emozioni che sentiva. Nonostante ciò, si sorprese di provare lo stesso un insolito piacere nel ritrovare incolume la propria squadra; ma fu solo un istante. Accantonò velocemente tutte le distrazioni in un angolo del cervello e si concentrò sull’energia che gli consentiva di ignorare la gravità, sollevando nuovamente sé stesso e Jun, aggrappato, sempre più in alto.
L’esplosione che aveva quasi ucciso lo psionico poco prima, aveva danneggiato gran parte del suo equipaggiamento, a cominciare proprio dalle comunicazioni. Ferito, isolato e braccato aveva corso sperando di indovinare la traiettoria su cui si sarebbe mosso l’equipaggio: fortunatamente lo sguardo benevolo del Dio-Imperatore non lo aveva ancora abbandonato. Anzi, grazie a una fortuita traiettoria migliore, era arrivato addirittura in anticipo sulla marcia furtiva dei compagni, tuttavia senza averne però consapevolezza. Lì, era stato costretto a uccidere le guardie sulla barricata quando una di queste lo aveva scorto, per poi subito fuggire ed addentrarsi ancora di più nel campo nemico, maturando nel frattempo la convinzione paranoica che i suoi compagni fossero stati catturati.
Persino facendo appello a tutti i suoi poteri però, sarebbe stato quasi impossibile seguire la strada maestra senza essere visto. Così riflettendo si era quindi concesso un’ultima opportunità di cercare l’equipaggio, prima di intraprendere quella strada senza ritorno. L’istante successivo alla fatidica decisione, vide Jun in lontananza, intento ad arrampicarsi sulle macerie alla base della torre. Seguendo così la sua ascesa con lo sguardo, scorse anche lui il cecchino appostato in cima. Capì che il momento di riposarsi non era ancora arrivato, anzi, e quando il cacciatore di taglie precipitò nel vuoto, grazie all’Imperatore lui era pronto.
– Che hai intenzione di fare ora? – Chiese Xerath al compagno di squadra, mentre fluttuavano in senso inverso alla gravità. Ancora pochissimi metri e sarebbero arrivati in cima alla torre, alle spalle del soldato, in teoria.
– Tu cosa credi? – Rispose Jun sarcastico.
Approdarono, letteralmente in punta di piedi, su quello che un tempo era stato un pianerottolo. I profili di usci vuoti erano l’unica cosa rimasta a sostenere un brandello di soffitto, sotto alla quale l’ignaro soldato si riparava dalla cenere cadente mentre scrutava l’orizzonte immobile. Attorno a loro, solo il grigio desolato di un cielo ostile e carbonizzato. Pochi ma cruciali passi separavano i due cacciatori: un solo errore poteva costare la vita a tutto l’equipaggio. Lo psionico avrebbe potuto eliminare il soldato facilmente, ma tutte le sue modalità avrebbero allarmato il campo sottostante, vanificando gli sforzi fatti per restare incogniti. Così attese, immobile e silenzioso, mentre Jun, passo dopo passo, accorciava le distanze tra la sua lama e le terga del mostro, dalle quali, per altro, un corno d’allarme pendeva pronto per essere usato. Un solo fiato e tutto il campo avrebbe imbracciato le armi, pronto all’attacco. In contrasto con l’apparente dilatarsi del tempo durante quei lunghissimi istanti di ansia, la lama balenò fulminea e precisa, conficcandosi fino all’elsa nella gola del cecchino, soffocando quindi in flebili gorgoglii quello che sarebbe stato il suo grido.   
Lo psionico tirò il fiato, rendendosi conto di aver assistito in apnea a tutta la scena. Ammirato, commentò dicendo:
– Ci sai fare con le pugnalate alle spalle! –
Ma Jun non rispose: adagiò il corpo così da non farlo precipitare e poi ne prese subito il posto. Diede una rapida occhiata in giro attraverso il mirino del fucile e poi sussurrò:
- Oh, merda!  -
Lo psionico si avvicinò preoccupato e gli domandò:
– Cosa!? Cosa hai visto? –
– La chiatta orbitale! Guarda là… - Rispose Jun angustiato, indicato un punto nell’aria – Quei bastardi hanno usato la carcassa come fosse una torre di vedetta. Lo vedi quell’agglomerato di sacchi vicino alla fila di container? Quella che risale il relitto partendo dal muro di cinta, lo vedi cosa c’è in cima!? – Incalzò lui, frustrato ed arrabbiato.
– Oh, merda. – Disse Xerath, sconsolato.
- È una dannatissima mitragliatrice! Una torretta mitragliatrice! – Esclamò lo psionico, sconcertato.
– Sì! E… Oh no! No no no no no! Maledizione! Avevo detto di aspettare! – Tuonò Jun all’improvviso.
– Sono usciti dal nascondiglio! Pazzo! Idioti! – Inveì ancora lui, contro Xanatov, contro Blade e l’intero equipaggio.
Il cacciatore di taglie aveva visuale su tutto il campo, fin alla chiatta e anche oltre, tuttavia la cenere rendeva difficilissimo mettere a fuoco i dettagli, come a vedere attraverso un’abbondante nevicata o addirittura peggio. Però la squadra guidata dal Capitano riuscì a vederla bene, mentre abbandonava il rifugio ed imboccava inconsapevolmente la strada che li avrebbe portati al massacro.
Jun imbracciò il fucile, prese accuratamente la mira ed espirò, mettendo tutto sé stesso in un unico colpo. Un piccolo guizzo di luce laser proruppe dall’arma, solcando quel centinaio di metri in una invisibile frazione di secondo e finendo dritta in faccia all’armiere della torretta.
Un tiro perfetto.
La situazione, ovviamente, precipitò.
Un corno d’allarme suonò una lunga e gracchiante nota, tutti i grigi imbracciarono le armi e molti saltarono dietro la prima copertura possibile. Alcuni di loro invece non fecero nemmeno a tempo ad alzare la testa dalle loro faccende. Come un fulmine a ciel sereno, tutte le armi dell’equipaggio esplosero all’unisono i loro colpi, falciando chiunque si fosse trovato nella traiettoria della loro carica. Con cadenza impeccabile ed inarrestabile, i globi di plasma della pistola del Capitano devastavano sia la carne che il metallo senza distinzione, le armi Requiem di Sophiex ruggivano mietendo una vittima dopo l’altra, seguite a ruota dalle brevi raffiche della pistola di Sean. Blade scaricò l’intera batteria del suo fucile laser senza sprecare nemmeno un colpo e poi, inarrestabile, brandì il fucile come una mazza. Il navigatore, invece, si scostò leggermente dal gruppo, sciolse il turbante ed incrociò lo sguardo di quanti più grigi possibile, inchiodandoli sul posto per consentire a Medea di ucciderli uno a uno, sparando loro a distanza ravvicinata.
La battaglia già galoppava frenetica e così anche il ritmo delle fucilate. Jun non aveva esitato un istante dopo il primo colpo: abbassò il tiro, osservò l’area aggredita dalla sua squadra e riprese a sparare, stanando i grigi trincerati grazie al decisivo vantaggio della sua posizione.
I grigi però non erano soldati comuni. Lo stordimento iniziale dovuto alla sorpresa si dissipò molto velocemente e le perdite subite non inficiarono la loro tattica: risposero al fuoco con altrettanto vigore e ferocia, costringendo l’equipaggio a nascondersi a loro volta. Lo scambio di raffiche venne a breve sostituito da colpi più sporadici ma più precisi, a sbilanciare il combattimento però, truppe speciali dei grigi fecero la loro comparsa sul campo di battaglia. Erano creature ancora più grosse e deformi dei soldati normali, che già parevano bestie antropomorfe, e brandivano inoltre rudimentali lancia-granate ed armi bianche, come asce o martelli, enormi e pesanti. Il loro fuoco era impreciso, quasi casuale, ma le detonazioni spargevano schegge acuminate in ogni direzione e sollevavano nugoli di cenere: Sophiex capì senza sbagliare che quel fuoco di sbarramento serviva solo a mettere paura ai nemici, per far guadagnare tempo prezioso alle altre unità e, vedendo la reazione sgomenta della propria squadra, né constatò l’efficacia. 
Senza esitare ulteriormente, la guerriera si lanciò avanti, scavalcando il proprio riparo con balzo per poi finire dietro un muretto mezzo crollato. La nube aveva ostacolato la sua vista come quella di tutti gli altri, ma la sua memoria spaziale era molto allenata e quasi non ebbe bisogno della vista per potersi muovere tra i vari ripari. Quando finalmente il nugolo di cenere si disperse a sufficienza, Sophiex riuscì a scorgere i profili dei giganti bitorzoluti mentre camminavano, spavaldi, in mezzo al campo di battaglia. I suoi calcoli erano stati esatti e la sua posizione era quindi laterale rispetto alla loro avanzata: non poteva chiedere di meglio. Preparò la coppia di pistole Requiem sulla cadenza semiautomatica e poi fece fuoco, avvantaggiata anche dalla corta distanza, non poté mancarli. Il primo di questi mostri cadde a terra crivellato, tuttavia per abbatterlo erano state necessarie più pallottole del previsto, per cui il secondo fu ferito ma non morì, anzi, infuriato, lasciò cadere a terra il lanciagranate e sfilò dalla cinghia a tracolla un’ascia talmente grande che avrebbe potuto spezzare un albero con un sol colpo. La sua andatura però, goffa e pesante, non accelerò il passo per raggiungere la soldata oltre il muretto: non fu necessario. L’ascia venne calata con tale forza da sbriciolare il muro come fosse un castello di sabbia, schiantandosi esattamente dove un istante prima la guerriera era accovacciata.
Con un’agile piroetta, Sophiex aveva schivato il primo fendente ma non ebbe tempo di rallegrarsi nemmeno per un istante: il bestione infuriato la stava incalzando e lei aveva svuotato i caricatori nel primo assalto. Alla ricerca disperata di un aiuto, osservò brevemente attorno a sé, nella speranza che qualcuno potesse darle supporto. Tuttavia, la controffensiva dei grigi stava mettendo in serio pericolo anche il resto della squadra, impegnandoli difatti in una estenuante difesa. Alzò allora gli occhi alla torre, auspicando in un piccolo miracolo da parte del cecchino, ma quello che vide non la riempì di speranza, bensì di orrore.
Dall’alto del suo riparo, lo sguardo di Jun correva febbrile da un bersaglio ad un altro, tentando in tutti i modi di spezzare l’accerchiamento che, evidentemente, i soldati grigi stavano attuando contro l’equipaggio. Come se non bastasse, il suo occhio allenato scorse anche Sophiex in grave pericolo: a chi avrebbe dovuto dare la priorità? Ogni colpo sparato poteva significare la vita o la morte di una o più persone, avrebbe retto quella pressione? Ma il destino, malevolo, esaudì il suo desiderio inespresso di essere sollevato dal peso di una tale scelta; l’ultima cosa che sentì fu l’urlo di Xerath accanto a sé, poi il mondo andò in frantumi.
Dalla mitragliatrice, incredibilmente, una tempesta di proiettili si riversò sull’ultimo piano detta torre, demolendo quello che restava dei ruderi con una raffica esagerata, distruggendo in pochi istanti la minaccia del cecchino e tutto ciò che gli stava attorno.
La guerriera vide la cima dell’edificio esplodere in schegge. Incredula e afflitta, continuò comunque a torcersi e a schivare gli attacchi, pur sapendo che ormai non aveva più speranze. Col fiato corto, infine, mise un piede in fallo: dopo una piroetta, andò a sbattere malamente contro una lamiera uscita all’improvviso da chissà dove. L’ascia avversaria calò inesorabile e, descrivendo una traiettoria diagonale, falciò il riparo e lei senza distinzione. Tramortita e sanguinante, vide il colosso avvicinarsi per finirla. Ciò nonostante, l’ascia non calò.
Ruggendo come un leone, Blade saltò sulla schiena del grigio deforme per sbilanciarlo. Il guerriero strinse saldamente un braccio attorno al collo taurino del nemico mentre con l’altra mano lo pugnalò ripetutamente con un coccio appuntito, sul volto e alla gola. Il grigio urlò di dolore, scuotendosi e sanguinando come un toro impazzito, riuscendo poi nell’intento di afferrare l’aggressore e a lanciarlo lontano. Blade controllò la caduta, rotolò nella cenere per alcuni metri e si rimise in piedi con un po’ di fatica. Il grigio, sempre urlando di rabbia e dolore, si strappò il coccio affilato dall’orbita maciullata, poi sollevò con entrambe le mani l’ascia e si lanciò, folle di rabbia, contro l’assalitore.
Blade fece appello ad ogni grammo di coraggio che gli restava in corpo per non voltarsi e fuggire. Guardò la bestia avvicinarsi, restò concentrato fino a percepire il fendente un istante prima che partisse, lo schivò di un capello e poi saltò subito di lato. A terra, accanto a sé, ora c’era il cadavere del primo bestione ucciso da Sophiex: era, finalmente, dove voleva essere. Con gesto fulmineo raccolse la pesante arma dal corpo inerme e con un ampio fendente laterale falciò le gambe del nemico, atterrandolo. Il maglio di Blade aveva frantumato le ossa del nemico con schiocchi violenti, descrivendo successivamente un grande arco sopra la sua testa per poi calare giù in verticale. Il guerriero mise tutta la propria forza in quel colpo di grazia che sfracellò il cranio della bestia, riducendolo poltiglia.
Dal canto loro, i grigi restanti, consapevoli di aver perso il vantaggio numerico nei continui assalti, cambiarono improvvisamente tattica. Sfruttando la loro naturale pigmentazione, si confusero con il cereo ambiente circostante, ben attenti inoltre a mettere maggior distanza possibile tra i due schieramenti. L’equipaggio infatti era tenace e, nonostante le perdite subite, non erano disposti a cedere terreno senza combattere. Ma il tempo era loro nemico, e i grigi lo sapevano bene: a breve sarebbero arrivati soldati di rinforzo mentre la squadra avversaria era stanca e ferita. Non avrebbero dovuto far altro che sfruttare la maggiore gittata dei loro fucili per annullare il vantaggio delle potenti pistole in mano agli assalitori. Ad ogni modo, la torretta mitragliatrice era nella posizione perfetta per crivellare anche loro senza problemi, come aveva fatto con il cecchino sulla torre. Bastava attendere, e così i soldati attesero, nascosti.
All’improvviso però, piuttosto che il suono di una nuova bordata della torretta, tutto il campo udì un forte scoppio. Alte fiamme, blu e verdi, tinsero e spinsero la cenere cadente lontano dal relitto della chiatta, sulla cui cuspide, la torretta ardeva avvolta da vampate chimiche. Il profilo del mantello cremisi del tecno-prete proiettò una inquietante ombra su tutto l’avamposto, prima di sparire addentrandosi nei meandri della piattaforma.
Con un grido di rinnovato vigore, il Capitano condusse un nuovo assalto, approfittando lesto del disorientamento dei nemici rimasti e che fu, infatti, a loro fatale. Dando fondo ai caricatori, chiunque fosse in grado ancora di sparare stanò i grigi restanti, uccidendoli senza remore. La battaglia perciò finì con la stessa rapidità con cui era iniziata, lasciando i sopravvissuti increduli ed esausti.
Il distaccamento era stato arduamente conquistato, ma la distanza che lo separava dall’accampamento principale non era molto: era impossibile che le vedette non avessero udito il fracasso dei combattimenti. Il piano iniziale era stato stravolto, il tempo continuava a essere loro nemico e il breve vantaggio conquistato poteva sparire in un istante, eppure non poterono abbandonare Jun e Xerath, così si divisero.
Medea e il navigatore corsero dietro a Zero, seguiti da Blade che reggeva una Sophiex zoppicante e malconcia. Xanatov e Sean invece corsero fino alla torre, nel disperato tentativo di salire fino in cima, pregando ci fosse ancora qualcosa da poter fare per salvare i loro compagni.
Quando però furono nei pressi della base, capirono di aver sprecato fiato. Non fu difficile riconoscere i loro corpi, abbandonati su una pila di macerie appena cadute e cosparse del loro sangue.
- Li avete trovati? – Chiese Medea attraverso il vox. I due però non proferirono parola, indecisi se avvicinarsi o voltare le spalle alla tragedia e correre via.
– Non può essere… - Biascicò Sean, tremendamente colpito dalla scena. Il Capitano invece si fece forza e si avvicinò ai due corpi: Jun era in uno stato tremendo, le costole frantumate avevano lacerato muscoli e pelle mentre Xerath era interamente coperto di sangue: non c’era centimetro del suo corpo che non fosse perforato da schegge o peggio. Xanatov si inginocchiò accanto allo psionico, intenzionato a ringraziare l’amico del grande sacrificio compiuto e a dirgli addio. Il suo volto terreo era immobile, ma il Capitano percepì lo stesso qualcosa, come un piccolo movimento o, chissà, addirittura un respiro. Forse era solo la sua immaginazione, oppure la stanchezza, ma tanto bastò a instillare in lui la speranza di poterlo ancora salvare. Con grande fretta quindi si tolse lo zaino e tirò fuori il kit medico comprato dallo stryxis, pur sapendo di non avere né il tempo né le capacità di medicare quelle ferite così gravi. Così, con l’unica siringa disponibile, aspirò da una boccetta una dose generosa della droga di cui venivano imbevuti i cerotti.
– Cos’è quella? – Domandò il pilota mentre osservava la scena compiersi. Ma il Capitano scacciò dalla mente tutti gli avvertimenti che la logica gli stava suggerendo così come evitò di rispondere a Sean per non demordere. Spinto solo da un impulso irrazionale, iniettò la sostanza nel corpo dell’amico, sebbene pentendosene quasi subito. Aveva visto Sophiex sanguinare e anche Blade sembrava esausto, la battaglia era stata dura e quella sostanza poteva essere l’unico appiglio per sopravvivere ancora, e lui l’aveva sprecata sul cadavere di Xerath.
– Perché lo hai fatto? – Chiese Sean, in tono quasi deluso. Passarono tuttavia lunghi istanti senza che entrambi riuscissero a staccare gli occhi dal corpo, incapaci di accettare la morte. Immersi nella loro personale metabolizzazione del dolore, trasalirono per lo spavento quando il volto morto di Xerath aprì gli occhi. Con un tremito di paura, i due arretrarono istintivamente di un passo, fissando sgomenti l’espressione ora divenuta agonizzante dell’amico. All’improvviso, gridando sguaiatamente, lo psionico tentò di alzarsi ma senza successo, allora cominciò a contorcersi come una larva nella polvere, urlando:
- BRUCIA! BRUCIA! -
Terrorizzati, sollevati e confusi allo stesso tempo, Xanatov e Sean restarono impietriti a guardare, mentre Xerath si sollevò faticosamente in ginocchio, sempre urlando. D’un tratto suoi occhi persero ogni vitalità, divenendo completamente neri, mentre dalla sua bocca ancora spalancata smise di uscire anche solo un respiro. Il tempo parve fermarsi, la cenere addirittura rallentò la sua caduta fino a restare sollevata in volo fino a che, come spinta da una forza innaturale, ricadde verso il cielo da cui era venuta. E con lei, presero a volteggiare anche le macerie, dalla polvere fino ai mattoni, sempre più forte e più velocemente. Il Capitano ed il pilota non seppero più nemmeno come reagire, finché il panico non li colse quando anche loro cominciarono a cadere lentamente verso l’alto. Xerath si era infine alzato in piedi ma sembrava tutto fuorché padrone di sé stesso. Si agitava in preda al dolore, senza trovare pace, come se fosse avvolto da fiamme che solo lui poteva sentire.
– SPEGNILO! SPEGNILO SUBITO! – Urlò lui, con una voce che non sembrava più nemmeno la sua. Allora si gettò a terra, i palmi premuti contro le tempie come a contenere la testa prossima ad esplodere, altro sangue sgorgò dal suo naso e dalla bocca mentre i suoi occhi viravano improvvisamente dal nero pece ad un rosso talmente brillante da emanare luce propria che, intensificandosi, esplose infine in un’ondata di energia.
I due spettatori, al momento aggrappati a dei ruderi per non cadere in cielo, vennero travolti da un flutto carminio, rovente come il fuoco alimentato della pura energia psionica. Un dolore bruciante li avvolse, stordendoli al punto di allentare la presa, fino a che non persero del tutto l’appiglio. Rapidamente e senza preavviso, l’onda di energia si placò in un istante, mentre anche la gravità tornava al suo corso normale. Con un tonfo poco agile, gli astanti si rovesciarono a terra, increduli, storditi e spaventati. Anche Xerath era a terra, distante solo pochi passi, ed una quarta figura invece li osservava eretto. Jun, nonostante sembrasse smarrito e spaventato quanto loro, brandiva a due mani una stanga di metallo arrugginita e osservava intensamente lo psionico. Dopo qualche istante, puntellò a terra la sbarra e vi si appoggiò, malfermo.
– Appena in tempo. – Disse il cacciatore di taglie con affanno.
– In tempo per cosa!? – Urlò di rimando Sean mentre si rimetteva in piedi, aiutato dal Capitano. Xanatov osservò il cecchino, o meglio, il suo fianco scoperto, dove la ferita mortale aveva lasciato posto ad un lembo di pelle rossastro, liscio, pulito, forse cauterizzato. Armatura e indumenti erano ancora strappati e sporchi, ma la ferita comunque non c’era più. Lo psionico aveva già dato molte volte dimostrazione di saper plasmare il warp al fine di curare la carne martoriata, anche se mai era stato in grado di un prodigio del genere.
– In tempo per cosa!? – Domandò ancora il pilota, fuori di sé per lo spavento.
– Sarà meglio che il vostro amico continui a dormire per un po'. – Rispose soltanto Jun. Le micro-cuffie presero a trillare, trasmettendo l’impazienza del resto dell’equipaggio di sapere cosa fosse successo ma, troppo stanchi e scossi per parlare, i tre si caricarono lo psionico in spalla e si incamminarono verso la chiatta.
– State tranquilli. – Trasmise il Capitano – Va tutto bene. Vi raggiungiamo subito, tutti e quattro. 
 
***
 
Quando il Capitano, Sean e i due redivivi arrivarono alla chiatta, il resto del gruppo era ancora all’opera al suo interno. Scalare il fianco della piattaforma non fu facile, soprattutto con Xerath a peso morto, ma sapendo che i rinforzi dei soldati nemici sarebbero potuti arrivare in qualsiasi momento, la piccola squadra trovò l’energia sufficiente. L’ingresso al relitto era, di fatto, un foro artificiale posizionato nei pressi della torretta mitragliatrice, che, per altro, ardeva ancora. Il foro evidenziava quella che, chiaramente, doveva essere stata la traiettoria della cannonata laser che aveva abbattuto il cargo. I grigi, autentici maestri del riciclo e della riparazione, avevano saputo sfruttare ogni parte ancora integra del relitto, così come sfruttavano rottami e macerie per la costruzione di accampamenti e, probabilmente, anche di armi e armature. L’interno del cargo mostrava ancora meglio la loro natura di artisti della sopravvivenza, seppur sempre in chiave bellica: munizioni, placche per armatura, armi bianche e strani meccanismi erano depositati nelle stanze ancora accessibili, così come erano stati anticamente stipati gli oleosi barili di carburante che ancora riempivano in parte il magazzino interno. Non lontano da lì, all’interno di una stanza che doveva essere stata la cabina di pilotaggio, Xanatov trovò i propri compagni, riuniti attorno a Zero, a sua volta alle prese con un cogitatore mezzo demolito, ma la cui foggia tipica imperiale era ancora riconoscibile.
– State bene? – Chiese candidamente Medea quando li vide arrivare.
– Siamo stati meglio, ma non possiamo lamentarci. – Rispose suo fratello, lieto di vederli e dell’interesse.
– Sophiex! – Chiamò Sean avvicinandosi invece alla sorellastra – Come stai? – Le chiese.
La guerriera era l’unica a non essere curiosa degli affari del tecno-prete: se ne stava infatti in disparte, seduta su un cumulo di roba vecchia a massaggiarsi il fianco e la gamba doloranti. Scura in volto, riviveva di continuo il momento in cui aveva visto la morte ghermirla. L’ascia del grigio avrebbe potuto tranquillamente spezzarla in due, lo sapeva bene; fortunatamente, la parete metallica su cui aveva sbattuto aveva anche limitato notevolmente l’impatto, lasciandola solo ferita e tramortita. Era viva per miracolo, ma non riusciva a rallegrarsene. Infatti, lei riusciva a vedere solo il fallimento: la strategia, le circostanze, gli errori. Scoccò quindi al pilota un’occhiata più eloquente di mille ingiurie, bloccandolo così sul posto, per poi tornare a leccarsi le ferite in solitudine.
Sean, nonostante fosse rattristato e ferito dall’atteggiamento irritabile di Sophiex, non amava comunque lo scontro, di qualsiasi tipo fosse. Sebbene anche lui, così come la sorellastra, conoscesse da vicino la violenza e la vita militare, il suo animo non era mai stato indurito al punto di rifiutare i propri compagni, vera e unica famiglia che avessero conosciuto in vita loro. Per l’ennesima volta, il pilota si chiese cosa le fosse successo durante quegli anni cruciali in cui erano stati divisi, anni e vicende di cui avevano raramente parlato. Ogni ricordo legato alla loro madre biologica sembrava intriso di dolore, per non parlare delle storie legate ai loro rispettivi padri, ormai persi o lontani. Così Sean, ormai abituato, sospirò e si voltò, accontentandosi di vederla viva, ma lasciandola sola.
La sua attenzione si rivolse quindi alla animata discussione che vedeva Irving e Medea su due fronti evidentemente opposti. A quanto pare Zero era davvero riuscito ad estrarre delle informazioni dal vecchio cogitatore, ma, come prevedibile, erano danneggiate o incomplete. Uno spirito macchina normale sarebbe morto per molto meno, per cui era già una fortuna che rispondesse agli impulsi del tecno-prete, ma anche così poteva non essere sufficiente. Ad ogni modo, il Navigatore ed il Siniscalco avevano un carattere molto simile, e questo complicava da sempre i loro rapporti, professionali o personali che fossero. Entrambi parevano fermi sulle proprie supposizioni, in assenza di riferimenti oggettivi, e la loro interpretazione era parimenti ben argomentata e difendibile.
Dal momento in cui si conobbero la prima volta, a bordo della prima nave affidata dai Van Vendigroth al neo Capitano Xanatov e al Siniscalco Medea, sua sorella, fu chiaro che non sarebbero mai andati d’accordo. Troppo cortesi ed educati per cedere alla volgarità, gelidamente disponibili coi subalterni e decisamente assertivi nei loro campi professionali (tanto da rasentare spesso la superbia, stando a sentire le voci alle loro spalle), finivano sempre col pungolarsi, nel costante tentativo di prevalere l’uno sull’altra con lunghe argomentazioni e aperti dibattiti. Sean non aveva il minimo desiderio di farsi coinvolgere in quell’alterco, anche perché l’argomento esulava dal suo addestramento ma, soprattutto, dal suo interesse.
Dall’altra parte della sala, il pilota non mancò poi di notare anche Jun e Blade, finalmente riuniti, ora impegnati in una fitta conversazione privata; fingevano interesse per delle vecchie carte ma era chiaro che stessero parlando di tutt’altro. Entrambi si erano dimostrati validi alleati, guerrieri pronti e preparati e la loro motivazione era forte, eppure era ancora presto per considerarli parte della squadra. L’ equipaggio di Xanatov Van Vendigroth non era solo un assemblaggio di talenti o professioni, era una vera e propria famiglia, forgiatasi tale in anni di condivisioni ed esperienze. Chissà se anche loro due ne sarebbero stati parte, prima o poi? Chissà cosa aveva in serbo il destino, per tutti loro?
Con questi stanchi pensieri in testa, il pilota si accomodò accanto al Capitano, a sua volta seduto a terra accanto a Xerath, privo di sensi.
– Non si smentiscono mai, vero? – Disse Sean per rompere il ghiaccio.
– Già. – Rispose un po' assente Xanatov.
– Tutto bene? – Domandò il pilota.
– Sì, sì certo. – Replicò l’altro – Sono solo preoccupato. Siamo a un passo dal nostro obiettivo, ma ho come la sensazione di correre non verso la salvezza, ma verso… non lo so. Qualcos’altro.
Sean si prese un momento per tentare di capire a cosa alludesse l’amico, poi volle condividere a sua volta la sua perplessità:
- Hai visto Jun? Cioè, lui e Xerath sono praticamente esplosi con la torre e poi sono precipitati a terra, erano sfracellati in un bagno di sangue, e ora? Zoppica appena. Cosa è successo? Cosa abbiamo visto, secondo te?
Il Capitano smise di fissare lo psionico steso a terra e guardò dritto negli occhi il compagno:
– Sinceramente? Non ne ho idea. – Ammise sconsolato – Ma, per quel che mi riguarda, sono contento siano vivi. Al resto penseremo quando sarà il momento.
Il tono della discussione tra il navigatore e Medea salì all’improvviso, attirando l’attenzione generale.
– Allora andrò io direttamente! – Tuonò Irving, lasciando la sua interlocutrice momentaneamente senza parole.
– Certo che è un rischio, non ho mai detto il contrario! È stato già un miracolo trovare questo cogitatore funzionante, non intendo sprecare nemmeno la più piccola delle possibilità. Io posso vedere attraverso lo spazio, non attraverso il tempo, ma anche senza questa dote persino uno stupido capirebbe che se questo piano non funziona, siamo morti! – Continuò lui fuori dai gangheri.
Il Capitano si alzò in piedi e con il volto corrucciato si apprestò infine al suo ruolo, avvicinandosi ai due per emettere un giudizio. Persino lui non aveva seguito tutta la discussione, nondimeno sapeva che la scelta finale, per quanto rischiosa, toccava a lui.
– Capitano. – Lo chiamò sua sorella, appellandosi direttamente al suo titolo per sottolineare l’ufficialità con cui doveva essere gestita la situazione – I dati di carico della piattaforma ci sono, il cogitatore ha risposto all’input del tecno-prete, ma sono incompleti o corrotti. So che abbiamo rischiato moltissimo per arrivare fino a qui e so che sono stata io ad alimentare la vostra speranza, tuttavia, questa strada è un vicolo cieco e non ho paura di ammettere il mio errore.
– Cosa vuol dire? – Domandò placido il Capitano – Spiegati meglio.
– Significa che correre alla torre di controllo con questi dati è completamente inutile. – Rispose lei – Non sono sufficienti, o addirittura sbagliati. Però sono ancora convinta che si sia un modo per aprire l’area di carico nella piazza, dobbiamo solo escogitare…
- Ce li faremo bastare! – S’intromise Irving. Medea lo pugnalò con lo sguardo, aprì la bocca pronta al contrattacco ma il fratello la fermò subito, provocandole un moto di sdegno per essere stata zittita.
– Tu cosa ne pensi? – Chiese il Capitano al Navigator. – Penso che lei stia ragionando troppo dentro lo schema Imperiale. I dati non sono incompleti. Se io fossi un pirata spaziale me ne fregherei dei protocolli, mi farei bastare delle coordinate precise ed una chiave di cifratura elementare! Guardati intorno, il pianeta è morto e i grigi non hanno nemmeno il più vago sospetto di essere seduti su un tesoro, non sanno nemmeno cosa sia una torre di comunicazione! – Asserì ancora lui con sicurezza.
– Tu continui a sottovalutarli! – Urlò lei di rimando - Vuoi farci ammazzare? Hai visto anche tu di cosa sono capaci, sono più intelligenti di quanto tu creda e hanno tutte le possibilità a favore! Sanno che siamo in una situazione disperata e non stanno aspettando altro che un nostro errore per farci fuori tutti. Dobbiamo essere pazienti e imprevedibili! – Lo rimproverò ancora lei.
Entrambi sciorinarono nuovamente le loro migliori argomentazioni, ma ormai la pazienza del Capitano e dell’equipaggio era finita, così Xanatov li interruppe, mantenendo sempre la calma e un tono di voce conciliante, ma autoritario.
– Irving, cosa intendevi prima, dicendo che saresti andato tu direttamente? – Domandò lui al navigatore. L’attenzione di tutti era concentrata sull’esito della discussione. Il morale dell’equipaggio stava scendendo così rapidamente che oramai persino sperare era diventato faticoso.
– Significa che forse ho la possibilità di arrivare alla torre di comunicazione senza attirare l’attenzione. Voi non dovreste fare altro che tenervi pronti a correre, mentre io inserisco personalmente i dati nei sistemi di controllo. – Rispose il navigatore, ermetico.
L’equipaggio, chi più, chi meno, sentì di dover partecipare mostrando gli individuali punti di vista, ma non c’era più tempo ed il Capitano aveva comunque già deciso.
– Ascoltatemi tutti. – Annunciò infatti lui – Noi vogliamo vendicarci di Wade, giusto? Salvare i superstiti, recuperare quello che resta della Bastimentum 11 e magari lasciare il sistema, vero? Vi garantisco che non c’è niente che più vorrei che sparare in gola a quel bastardo, seriamente, però c’è un tempo e un luogo per ogni cosa. Sapete tutti benissimo che siamo allo stremo delle forze. Siamo a corto di munizioni, rifornimenti e anche di risposte. Abbiamo sfidato la morte e fino ad ora abbiamo vinto, ma non possiamo andare avanti sperando solo nella fortuna o in una benedizione. Sono d’accordo con Medea, ce l’abbiamo messa tutta per arrivare fin qui, ognuno di noi, per questo non dobbiamo perdere la testa proprio adesso. Wade forse ci ha sottovalutato, ma i grigi sanno il fatto loro e non mi aspetto nessuna pietà. Dovremmo riposarci, pazientare e calcolare la prossima mossa… tuttavia, non possiamo permettercelo.
L’equipaggio intero serrò i ranghi attorno al Capitano: lo avevano seguito in capo alla galassia e, nonostante il fato avverso, non lo avrebbero di sicuro abbandonato ora, quali che fossero i rimproveri o i sentimenti personali riguardo l’intera faccenda. Eppure, sentivano le schegge della paura conficcarsi nelle viscere, forse troppo saturi di orrore e stanchezza per proseguire.
– Irving, non so quale asso tu abbia nella manica, ma se senti di potercela fare, io mi fido di te. – Dichiarò il Capitano – Sappi però che, ai miei occhi, hai già dato ampiamente prova del tuo valore e, anzi, se mai potessimo veleggiare nuovamente nell’empireo, la tua assenza sarebbe per noi tutti una condanna alla deriva. Per questo ti chiedo di svelarci il tuo piano, perché preferirei morire io stesso piuttosto che lasciare il mio equipaggio senza la guida del Navigator. – Continuò Xanatov, aprendosi con franchezza ed onestà. Gli altri presero a mormorare tra di loro, senza però distogliere l’attenzione, ormai pronti a qualsiasi cosa. Il navigatore allora rispose:
– Il piano, se così si può chiamare, è davvero semplice. Non so cosa mi sia successo in queste ore, forse è il pianeta stesso ad avere qualche influsso su di me, però sento qualcosa, un maggior contatto con la realtà, o meglio, con le possibili realtà. Mi sento strano, ora sono qui, ma potenzialmente potrei essere anche in altri luoghi, e credo di poter sfruttare questa cosa a mio vantaggio. Sia chiaro, io non sono né un veggente né un cartomante, sono un cartografo, calcolare rotte e possibilità è l’unica cosa che so fare, ed è quello che farò. Indovinerò la rotta migliore tra questo nascondiglio e la torre di comunicazione, e quando ciò accadrà, voi dovrete essere pronti a seguirla. Tutto qui.
Il silenzio dominò tra loro per qualche istante, poi il pilota fece una semplice osservazione:
– Praticamente sarà come quando viaggiamo attraverso l’empireo: tu calcoli la rotta e i punti di salto, mentre noi preghiamo il Dio-Imperatore che ce la mandi buona, giusto? – Disse, forse serio.
E nonostante il dramma della loro situazione, un lieve sorriso distese i volti degli astanti. Seppur ardua, forse furono un poco confortati dall’idea di affrontare una sfida conosciuta, piuttosto che le minacce oscure di Goetia. Con o senza nave, si prospettava quindi un ultimo viaggio insieme.
– Ognuno ai propri posti! – Annunciò allora il Capitano, quasi felice di poterlo dire un’ultima volta.  
 
Il gruppo aveva recuperato più materiale possibile dal magazzino, anche se in realtà poco sarebbe stato davvero utile. Ebbero modo almeno di ricaricare i fucili dei grigi che, seppur rozzi, erano decisamente meglio che una Requiem scarica. Accodati alle spalle del Navigatore, procedettero in fila attraverso le antiche camere del relitto, sbucando infine all’interno di una delle loro tende da campo, costruita proprio a ridosso di uno squarcio a livello del terreno. Con tutti e tre gli occhi aperti, Irving batteva la pista, anticipando il movimento della squadra di qualche metro e descrivendo un percorso fatto di brevi tappe tra un nascondiglio e l’altro. Alle loro spalle, una squadra di rinforzo dei grigi era già all’opera in mezzo al campo di battaglia; acuti cacciatori quali erano, non gli sarebbe stato difficile seguire le tracce degli assalitori, ragion per cui, nella fuga dalla camera del cogitatore, l’equipaggio era stato ben accorto a coprire i segni del proprio passaggio e, dove possibile, a occludere la strada percorsa. Tutti sapevano che i soldati alieni non avrebbero mai abbandonato la loro ricerca, ma contavano di guadagnare abbastanza vantaggio da attuare il proprio piano, minimizzando i rischi. Dovettero inoltre tener conto del fatto che la loro mobilità di gruppo era compromessa: Zero e Sophiex zoppicavano ancora, mentre Blade, affaticato, era comunque l’unico ad avere abbastanza forza da trasportare Xerath a peso morto, nascondersi e pure strisciare nella cenere. Avanzarono così, parallelamente alla strada maestra, godendo di ogni rifugio possibile per evitare di essere visti dai successivi rinforzi nemici, che scorrevano verso l’accampamento distrutto. L’equipaggio riuscì con successo ad avanzare per molti minuti senza destare sospetto, potendo stavolta contare su una certa conoscenza del nemico, piuttosto che sulla mera fortuna: l’esercito dei grigi si era dimostrato un nemico potenzialmente formidabile, ma, d’altra parte, la mancanza di strumenti sofisticati e, soprattutto, la loro grande impulsività, li rendevano una forza abbastanza prevedibile. Fu così che l’equipaggio percorse il tragitto dall’accampamento laterale fino al vero cuore delle forze nemiche: bianchi edifici in rovina circondavano un’ampia piazza, della quale gli ultimi barlumi di civiltà, come antiche statue o monumenti, erano usati come sostegni per capanne e tende. I piccoli rifugi coprivano in pratica tutto lo spazio calpestabile, costituendo una vera e propria baraccopoli gremita di grigi indaffarati. A giudicare dai lavori, non diversamente dal primo avamposto anche qui tutto lasciava pensare alla fortificazione; probabilmente in vista o di un assedio o, per lo meno, di una prolungata permanenza. A questo punto delle cose, considerando il massiccio dispiegamento di forze, l’equipaggio scartò definitivamente l’ipotesi che la fortificazione della città fantasma fosse stata pensata per contrastare solo loro. Come se non bastasse, da quella posizione limitrofa alla piazza, la squadra infine scoprì di cosa erano veramente capaci gli indigeni di Goetia.
Seguendo la loro linea di visuale, a distanza di qualche centinaio di metri, riuscirono a vedere persino l’enorme barricata posta a difesa della strada maestra, dal lato opposto della piazza. O almeno, quella che pensarono fosse una barricata; alta come un edificio a cinque piani, interamente coperta da barriere di metallo e impalcature, ospitava un numero altissimo di soldati che sciamavano su e giù, molti dei quali stavano inoltre armando decine di torrette mitragliatrici, installate su tutti i livelli. Già impressionati da quella terribile e devastante architettura, tutti i presenti trasalirono spaventati quando la struttura si sollevò e mosse addirittura qualche passo. Enormi zampe uncinate intelaiate di metallo, sollevarono senza sforzo apparente l’intera costruzione. La cosa più terrificante però, fu l’agile movenza dell’intero organismo mentre ruotava su sé stesso: nemmeno la sacra tecnologia imperiale, preservata e reiterata nei millenni dal Culto dell’Omnissiah, avrebbe potuto produrre una macchina di distruzione tanto grande ed efficiente, impiegando solo le primitive risorse disponibili su Goetia. Come poteva allora esistere quella cosa? Le menti agili dell’equipaggio produssero in quei pochi istanti una moltitudine d’ipotesi, ma, con gli occhi ancora sgranati e fissi, l’unica, terribile, verità si mostrò senza timore: quella cosa era viva. Un immane organismo vivente, usato come base semovente per una torre d’assedio, era imprigionato sotto strati e impalcature di metallo arrugginito. I suoi occhi luminosi, nascosti dalle barriere, furono infine visibili mentre completava la rotazione.
– Io vado. Voi tenetevi pronti. – Disse, semplicemente, Irving.
La squadra riscosse la propria attenzione dal terribile spettacolo per ascoltare il Navigatore.
– Saremo pronti. – Replicò il Capitano.
– Se sarai in difficoltà, diccelo. Potremo distrarli anche da qui. – Lo rassicurò Jun, accennando alle armi in pugno. Entrambi però sapevano benissimo che niente sarebbe stato d’aiuto: una volta fuori, Irving sarebbe stato solo. Diede allora un fugace sguardo attorno e partì, seguito solo dalle silenziose benedizioni dei propri compagni.
Irving mosse qualche cauto passo nella cenere, strisciando dietro ogni muro e con gli occhi sempre aperti. La sua affinata percezione lo aiutò a sorpassare furtivamente un altro drappello di soldati, mantenendo inoltre l’attenzione anche alle alte torri e agli edifici: i cacciatori grigi potevano essere sempre in agguato, pronti a fargli saltare la testa con tiro di precisione. Si trovò a costatare di nuovo come fosse davvero incredibile che quelle creature riuscissero a vedere così bene anche attraverso la fitta pioggia di cenere; anche se, in fondo, era un pensiero ridicolo per persone della sua stirpe.
Innumerevoli generazioni di mutazioni genetiche, controllate e guidate da ricchissime e riservatissime famiglie nobili, le Navis Nobilite, coltivavano una delle risorse più preziose dell’Imperium: i Navigatori. Unici mutanti autorizzati dall’Adeptus Terra e dall’Inquisizione stessa, erano benedetti dalla possibilità, unica nel suo genere, di vedere attraverso l’immaterium senza esserne corrotti. Senza il loro ausilio, ogni sorta di nave spaziale avrebbe potuto azzardarsi solo a brevi traslazioni di pochissimi anni luce, completati per giunta alla cieca. L’esistenza di queste grandi famiglie era quindi vitale per l’intera umanità: senza il viaggio spaziale, consentito dalla loro conoscenza dei flussi warp, un Impero di scala galattica sarebbe stato mera fantascienza. Il mercato dei Navigator era quindi tra i più floridi e, come per ogni altro mercato, non mancavano competizione, rivalità e anche truffe. Nel corso dei millenni, infatti, non poche Casate furono distrutte, dall’interno o dall’esterno, da guerre, tradimenti, sventure o azzardi nella ricerca sull’inestimabile gene Navigator.
Irving, nascosto sotto una pila di macerie, sfruttò ancora il suo dono, impiegando il terzo occhio per mappare mentalmente l’area attorno a sé. Non era in grado di percepire la vita, ma poteva sentire la presenza degli edifici, del terreno sotto la coltre di cenere e degli spazi vuoti tra gli ostacoli. Solitario e concentratissimo, avanzava furtivo, seguendo un itinerario pensato appositamente per essere seguito dalla propria squadra. Quando ebbe percorso all’incirca un kilometro, infatti, li chiamò attraverso la micro cuffia per dare il via libera. La prima parte del tragitto era quindi tracciata attraverso le rovine che costeggiavano la strada principale e ora, mentre il gruppo seguiva le sue orme, avrebbe dovuto intrufolarsi nella baraccopoli vera e propria, fino a raggiungere la torre. Purtroppo però, da nessuna prospettiva era stato possibile identificare con chiarezza quale potesse essere. La ragnatela di cavi, tende e tetti di lamiera impedivano la visuale sottostante, lasciando all’intuito il compito di indovinare quale delle cuspidi visibili celassero la torre di comunicazione. L’unico indizio valido era la descrizione fatta da Medea: in assenza d’altro, Irving se la sarebbe fatta bastare. Con i sensi all’erta e il fiato corto per l’ansia, abbandonò il proprio nascondiglio per avvicinarsi alle baracche. Pur senza vederli, poté subito sentire alcune voci non lontane da lui, così si nascose e attese finché un gruppetto di grigi, intenti a trasportare casse di materiale, gli passarono vicino. Poi impiegò ancora il terzo occhio per orientarsi nel dedalo di viuzze e passaggi che la baraccopoli aveva creato, nel caos della sua espansione. Nonostante fosse un’impresa impossibile memorizzare ogni anfratto, il Navigatore non poteva certo concedersi il lusso di vagare e sperare solo nella fortuna: per trovare la torre, era obbligato a mappare l’area ad ogni occasione, nel tentativo di cogliere le antiche geometrie del luogo. Ad ogni modo, provò ad accantonare la preoccupazione per non risvegliare il panico, godendo almeno del fatto che, sotto le varie tende, la cenere cadente non lo infastidisse più. Il manipolo di grigi si era infine allontanato, così Irving scattò lesto dalla sua posizione, attraversò una stradella larga pochi metri e si infilò nuovamente in una viuzza. Adottando la stessa strategia, riuscì per qualche minuto a non incappare in vicoli ciechi né, grazie all’Imperatore, in soldati appostati. La cenere a terra era già ampiamente smossa e la consistenza attutiva ogni passo; il Navigatore acquistò quindi un po’ di fiducia nelle sue possibilità ma non riusciva a calmare i battiti del cuore che pareva volesse sfondargli lo sterno a martellate. La torre, al momento, non era ancora in vista, così proseguì la ricerca sempre più all’interno, finendo in una minuscola piazza di pochi metri quadrati. Da quella posizione, avrebbe potuto scegliere una nuova direzione per la ricerca ma, appena arrivato, forse con troppo coraggio, proseguì senza accertarsi di essere solo. Dal centro della piazzetta si diramavano molte strade possibili e, per puro caso, la sua attenzione fu attratta da un movimento lungo una di quelle: una pattuglia di due soldati stava proprio per raggiungere la sua posizione. Senza tempo per ragionare, Irving si guardò intorno, scartò l’ipotesi di prendere una strada a caso e preferì nascondersi in una delle tante tende, delle quali gli ingressi si raccordavano su quello spiazzo. Sollevò così il pesante telo che chiudeva l’uscio del rifugio più vicino e vi entrò in fretta. L’interno puzzava di pelle conciata ed era buio e silenzioso. Così come il Navigatore aveva visto i soldati, anche loro avrebbero dovuto vederlo, eppure negli istanti successivi non sentì nessun suono d’allarme. Restò fermo, zitto, nascosto nell’ombra del magazzino e atterrito al punto di non respirare per non fare rumore. Ma dal fondo della stanza, un rumore arrivò comunque: un verso aspro, cavernoso, ma lungo solo poche sillabe. Era la voce di un grigio. Quando Irving realizzò di non essere solo, era ormai troppo tardi: un soldato uscì da un pertugio nascosto tra gli scaffali, trovandosi così faccia a faccia con l’infiltrato. Il Navigatore represse con grandissimo sforzo un urlo di sorpresa, mentre tutta la sua agitazione interiore venne scagliata attraverso il terzo occhio, ancora scoperto. La mente della creatura fu così rapita dall’abisso scuro che si celava dietro quello sguardo di ghiaccio, interrompendo così ogni contatto col mondo esterno, paralizzandolo. L’intruso si sforzò di prendere qualche lungo respiro per calmare i battiti selvaggi del cuore e magari ragionare con più chiarezza. Tese quindi l’udito verso l’esterno: non si era sentito nessun grido o suono d’allarme, ma questo non voleva dire che fosse al sicuro. Ad eccezione di un ovattato tramestio lontano, non percepì comunque nulla di rilevante. La sua attenzione allora fu dedicata al prigioniero inconsapevole: il soldato indossava solo delle brache di pelle scura, lasciando nudo il torso grigio e scaglioso, attraversato solo dalla cinghia consunta del fucile a tracolla. In mano reggeva ancora quella che pareva una scodella, o forse una grande conchiglia aperta o addirittura il carapace di un grosso insetto, mentre nell’altra aveva una fiaschetta piena di liquido. Nonostante le mutazioni sgradevoli della creatura, Irving vide per la prima volta l’umanità nascosta dietro i suoi tratti mostruosi: era un soldato, non così diverso dai miliardi e miliardi presenti nella galassia, intento a mangiare il suo rancio in un momento di pausa. Il Navigatore indugiò, inorridito ma curioso, sui suoi lineamenti duri, sulle file di denti piccoli e affilati, su quegli occhi vitrei infossati in un cranio spesso. Era un mostro, un alieno, o magari un mutante?
Per un breve istante, la sua memoria fu rapita da un ricordo antico ma ancora vivido. Era molto giovane, ed era nella magione della sua famiglia. Il fuoco avvampava e divorava ogni cosa, mentre squadre di Arbites arrestavano ogni membro della sua famiglia, i quali, terrorizzati, non osavano opporre resistenza. Ricordò suo padre, a terra, ferito a morte, biascicare qualcosa a proposito della purezza della loro razza di Navigatori, del loro Sacro gene e anche del proprio destino, come patriarca, di migliorarlo. Solo dopo l’arresto, il giovane Irving aveva capito che i laboratori e gli esperimenti della sua famiglia erano proibiti: si era parlato addirittura di eresia. Ricordò quell’uomo, chiuso in una veste nera come il suo sguardo, che aveva interrogato tutti i pochi sopravvissuti all’arresto, lasciandone poi liberi ancor meno. Irving sapeva di non essere del tutto umano, non come le altre persone, ma pensava fosse normale, per quelli della sua razza; la realtà, invece, fu molto più brutale. Il Sacro gene della sua famiglia era stato violato, modificato, forse corrotto, per volontà del suo stesso padre, condannando così tutta la discendenza all’esilio e alla degenerazione. Da sempre Irving sapeva di avere un mostro dentro di sé, qualcosa di ancora più orribile dell’occhio d’onice che scrutava dalla sua fronte, qualcosa che, in qualche modo, rivedeva anche nel soldato di fronte a sé. Lo odiò. Lo odiò in maniera così intesa e ardente da estrarre immediatamente la pistola per infilargliela in bocca, pronto a fare esplodere quel volto così mostruosamente perturbante. Un rumore però lo costrinse a voltarsi di scatto: due grigi, fucili spianati, irruppero nella tenda. Allora Irving urlò, come aveva fatto rarissime volte in passato, travolgendo gli attaccanti con un impeto di feroce e orrida collera che li fece barcollare. Il Navigatore aprì il fuoco sui due, assaporando la loro paura mentre percepiva il mostro uscire, finalmente, allo scoperto; dapprima un formicolio al volto e alle mani, poi lo strappo e il dolore bruciante. La pelle del volto e delle mani aveva ceduto, lasciando esposta la carne sottostante, gonfia, mentre i muscoli, contratti allo spasmo, stiravano le vertebre e piegavano le ossa. I due soldati morirono prima di essersi resi conto di cosa stesse accadendo, poi fu la volta di quello paralizzato; prima di fuggire, infatti, il mostro con tre occhi gli aprì la gola con un morso.   
Il tempo a sua disposizione era quindi finito. Gli spari avrebbero attirato presto altri soldati, in pochi minuti sarebbe stato completamente accerchiato e ovviamente ucciso, nella migliore delle ipotesi. Così corse fuori, imboccando la strada che aveva già scelto in precedenza, non più curandosi della furtività ma acuendo la sua percezione al massimo: doveva assolutamente trovare la torre. Riuscì però a percorrere ben poca strada prima di incontrare degli ostili, il confronto a fuoco fu inevitabile. Le detonazioni degli spari riempirono l’aria, così come il rumore dei proiettili che foravano le lamiere e rimbalzavano attorno alla sua posizione. Irving sapeva che non avrebbe mai potuto vincere la battaglia, decise quindi di sfruttare la sua nuova capacità: nascosto dietro un container, concentrò la sua visione spaziale, delineando quali sarebbero state le strade percorribili oltre a quella che aveva già scelto. Sfogliando le possibilità non intraprese, individuò un vicolo poco distante che, se lo avesse imboccato, lo avrebbe messo al sicuro dal fuoco nemico e, contemporaneamente, avvicinato a quello che aveva identificato come uno dei possibili obiettivi. Con un grande sforzo, forse più fisico che mentale, soffiò le proprie energie vitali attraverso il terzo occhio, producendo un velo d’ombra che lo avvolse e lo inghiottì per intero. Dopo qualche istante, il buio svanì e il Navigatore si trovò esattamente dove avrebbe voluto trovarsi, ma affannato come se avesse corso di scatto e leggermente disorientato. Comunque soddisfatto del risultato, si rimise in cammino verso la cuspide più vicina, sperando che la descrizione di Medea fosse affidabile.
 
–Irving! – Lo chiamò Xanatov attraverso il comunicatore, ma senza ottenere risposta.
L’equipaggio aveva rispettato la decisione iniziale, attendendo paziente il via libera prima di incamminarsi ma, a metà tragitto, il rumore degli spari li aveva raggiunti.
– Irving, va tutto bene!? – Chiamò ancora il Capitano, preoccupato.
La squadra intanto procedeva lentamente: feriti, stanchi e malconci, strisciavano nella cenere, pregando il Dio-Imperatore che nessuna pattuglia li scoprisse.
– Xanatov. – Lo chiamò invece Jun, dall’alto di un cumulo di rottami. – Guarda là. – Disse, con tono perplesso, indicando un punto avanti a loro, ma ben oltre la baraccopoli. Lo sguardo degli astanti si spinse di nuovo all’orizzonte, verso la gigantesca creatura da incubo che pareva attenderli, trovandola invece voltata di spalle e intenta a percorrere la via maestra che conduceva fuori dalla piazza principale, allontanandosi. Con sguardi interrogativi, la seguirono nel suo tragitto, fine a che la sua mole, più lontana, consentì loro maggiore visuale. All’apparenza, al confine ovest della città era in atto una battaglia. La cenere cadente rendeva quasi impossibile distinguere quello che sarebbe stato comunque molto difficile osservare naturalmente su quella distanza, eppure lampi di esplosioni, movimenti di truppe e persino l’eco di raffiche d’arma da fuoco li raggiunsero inequivocabilmente, lasciandoli più stupiti che mai.
– Ma che cosa sta succedendo? – Domandò Sean sbigottito.
– Dobbiamo sbrigarci. – Intervenne Medea – Una coincidenza del genere non capiterà una seconda volta.
Sempre più perplessi e quindi indecisi se il misterioso diversivo fosse una fortuna o un’altra minaccia, comunque non poterono far altro che camminare, sperando che la situazione reggesse un altro po'.
La voce del Navigatore improvvisamente proruppe dalle micro-cuffie:
– Sto bene, ma dovete sbrigarvi. – Li avvertì il compagno.
– Cosa sta succedendo? – Gli domandarono loro preoccupati.
– Ho avuto degli incontri spiacevoli, ma ho avuto fortuna. Mi sto avvicinando al bersaglio più vicino, ma non potrò più parlare fino a che non avrò trovato la torre, chiudo. – Disse, perentorio, e chiuse subito la comunicazione.
– Maledizione! – Inveì sottovoce il Capitano, senza più nascondere la grande angoscia che lo aveva assalito.
– Starà bene. – Lo consolò sua sorella, poggiandogli una mano sulla spalla. Xanatov la guardò negli occhi, desideroso di potersi aggrappare anche lui alla forza di qualcun altro, una volta tanto, ma entrambi si conoscevano troppo bene e da troppo tempo per potersi mentire. Il volto di lei, infatti, era teso a fermare un pianto preoccupato e molto personale, intimo e disperato, tanto da far apparire vuota qualunque parola di conforto. Si concessero allora un momento di debolezza, ma uno soltanto, prima di rimettersi in cammino, alla guida di quello che sembrava un viaggio attraverso l’inferno.
 
Non era la torre di comunicazione. Irving aveva raggiunto un’antica statua, aveva sperato con tutto il suo essere che sotto la coltre di tende e lamiere ci fosse nascosto il proprio obiettivo, ma non fu così fortunato. Anzi, costernato, si concentrò immediatamente sulla visione aumentata del terzo occhio per trovare il bersaglio successivo, tuttavia, fu un errore. Colpevole la fretta, l’ansia e la fatica, aveva sottovalutato ancora la capacità venatoria dei soldati grigi, che invece lo avevano raggiunto molto prima del previsto. Quando se ne accorse, però, loro lo avevano già sotto tiro: i colpi lo raggiunsero al torace e alle gambe, travolgendolo con l’urto e col dolore. Sotto il costoso abito, l’armatura riuscì con difficoltà ad assorbire l’impatto, ma almeno impedì ai proiettili di trapassarlo, anche se fu comunque scaraventato a terra e ferito. Non era morto sul colpo, e questo lo doveva solo alle grandi insistenze di Sophiex affinché tutto l’equipaggio stretto indossasse sempre l’armatura, anche durante i noiosi viaggi intra-sistema della Bastimentum 11. Il suo coraggio non fu però resiliente come la corazza che indossava. Terrorizzato, annaspò nella cenere lurida per rialzarsi, mentre i versi spaventosi dei grigi si facevano più vicini. Travolto dal panico, Irving fuggì con l’unico intento di allontanarsi dalla minaccia, per cui imboccò la prima strada disponibile e corse a perdifiato; ma i cacciatori non aspettavano altre che un’opportunità come quella. Dopo avergli dato solo qualche metro di vantaggio, alla successiva svolta, il Navigatore venne colpito duramente dal calcio di un fucile. Rotolò a terra, stordito, e prima che anche solo potesse vedere il proprio aggressore, una serie di altri colpi lo raggiunsero: pugni, calci, mazzate. I grigi avevano quindi deciso di giocare un po’ con lui, prima di dargli il colpo di grazia, ma dalla violenza con cui venivano inferti i colpi pareva che il successivo potesse essere tranquillamente l’ultimo.
Era finita. Sapeva di correre un gran rischio affrontando quella sfida da solo, eppure non aveva rimorso. Il suo equipaggio, quelle persone, erano l’unica famiglia gli fosse rimasta, le uniche persone a non vederlo come un mostro mutante, come un reietto o peggio: sotto il comando del Capitano Xanatov Van Vendigroth, tutti avevano diritto a un’opportunità, a forgiarsi una nuova vita e a sperare di poter cambiare il proprio destino. Steso a terra, le braccia aperte e coperto di cenere e sangue, Irving si concesse un sorriso segreto, contento di non aver sprecato la sua vita inutilmente, ma per il bene di quelle persone. Un soldato però gli calpestò il torace, riportandolo alla crudele realtà, mentre la bocca di un fucile baciava con rabbia la sua. Il suo ultimo pensiero, ironicamente, fu per Medea, la quale, più degli altri, si sorprese ad aver dispiacere ad abbandonare.
Il suo duplice sguardo, offuscato, rassegnato, indugiò un momento sul volto mostruoso del proprio assassino. Allora, e solo allora, la vide. Esattamente alle spalle del grigio, incombente sui container e sulle tende, la torre di comunicazione apparve. Silenziosa, osservava la drammatica scena, immobile. Un moto di rabbia incredula lo colse, sdegnato della beffa di morire ad un passo dal proprio obiettivo, ma ormai era troppo tardi. Il grigio premette il grilletto.
 
La compagnia restò stabilmente sulle tracce evidenti del Navigatore, riuscendo così ad evitare le pattuglie fino al confine della baraccopoli. Con le armi in pugno, formarono un piccolo perimetro difensivo, in trepidante attesa del via libera. Il passo seguente del piano era molto semplice: attendere il successo di Irving o farsi strada sparando. Nessuno osò più muoversi dalla propria posizione né tantomeno parlare, pregando intensamente per la sicurezza del Navigatore, sempre che l’occhio vigile del Dio-Imperatore potesse comunque raggiungerli in quell’angolo morto della galassia. Dopo alcuni minuti, lunghi e pesanti come ore, accompagnati solo dal rumore di spari vicini e lontani, all’improvviso Sean si guardò attorno stranito.
- Che succede? - Gli domandò infastidita la sorella.
- Dov'è? - Chiese lui. - Che fine ha fatto?
- Di cosa stai parlando Sean? - Chiese Xanatov.
- Dov'è Jun!? - Domandò allarmato il pilota.
Allora anche gli altri se ne accorsero: Jun era sparito. Confusi, si guardarono attorno cercandolo con lo sguardo, senza però osare muoversi. L’unico a non dare segni di preoccupazione fu il suo compagno Blade, a cui tutti, per forza di cose, si rivolsero subito dopo.
– È andato a fare il suo mestiere. – Disse semplicemente il soldato.
 
Era ancora vivo. Il grilletto era scattato, lo aveva sentito bene; eppure il colpo non era partito. La sua bocca era stretta ancora attorno alla canna del fucile, ma niente di più. Il grigio corrucciò ancora di più la mostruosa smorfia del proprio volto: poi sollevò l’arma, rendendosi conto con rabbia che si era inceppata. Attorno a loro, gli altri soldati emisero dei versi che potevano essere interpretati come risate, e Irving represse il desiderio di gioire a sua volta. Lo vide come un segno del destino, o addirittura come una vera e propria intercessione divina, un miracolo. Il fuoco della speranza riprese ardore dentro di lui, alimentando il soffio vitale, che venne poi interamente canalizzato all’interno del terzo occhio: un’ultima possibilità era tutto ciò di cui aveva bisogno. Il buio s’irraggiò da lui come la luce da una fiamma, inghiottendolo senza lasciare traccia alcuna. Esterrefatti, i soldati furono colti dallo spavento, così imbracciarono nuovamente le armi pronti a sparare a vista, ma il nemico era svanito. Tuttavia, se avessero avuto l’accortezza di guardare verso l’alto, e non dietro tende e ripari, invece, avrebbero potuto facilmente vedere il Navigatore a pochi passi da loro, appeso come un lenzuolo ad una corda di sostegno. Sfruttando una forza e un’agilità infuse unicamente dalla disperazione, Irving scalò la corda fino a raggiungere un’alta balaustra della torre. Da lì s’intrufolò all’interno attraverso una finestra rotta, per poi calarsi di sotto, quasi alla cieca per via del buio. Prima che potesse adeguarsi all’oscurità però, un terribile olezzo lo stordì fino alla nausea. Non aveva mai sentito, prima d’allora, una cosa del genere, e non ci fu comunque bisogno di grande intuito per capire che il tanfo fosse di carne in decomposizione. Dovette appoggiarsi alla parete rugginosa per non far cedere le ginocchia, tuttavia lo stomaco non resse alla stessa maniera. Irving non mangiava né beveva da molte ore, così la bile gli bruciò la gola, sostituendo con il proprio sapore acido quello terribile e onnipresente della cenere. Quando si riprese, lo scenario apparve anche peggiore delle sue paure: corpi umani seminudi e imbrattati di sangue incrostato erano appesi a catene come vacche al macello. Il pianterreno della torre era una semplicissima stanza rotonda, alta un paio di metri, con una lunga scala a parete che serpeggiava di piano in piano, attraverso delle botole, fino in cima. La morte, di fronte a lui, era terribile quanto affascinante, incantandolo e disgustandolo alla stessa maniera. Camminò rasente alla parete per raggiungere la scala ma non poté distogliere lo sguardo nemmeno per un istante. I brandelli della divisa che ancora erano appiccicati ai corpi indicavano senza errore la loro provenienza e forse era quel dettaglio a rivoltargli lo stomaco e l’anima più di tutto il resto: erano il suo equipaggio. L’uroboro tipico dei Van Vendigroth era ancora distinguibile, come fortunatamente non erano i loro volti. Irving non fece neppure grandi sforzi per riconoscerli, sarebbe stato ancora peggio, anche se ben notò, invece, i segni delle torture subite dai poveruomini. Quasi sopraffatto dall’orrore, il Navigatore si costrinse a distogliere lo sguardo e a riguadagnare il controllo di sé: ad un passo dalla meta non erano più ammessi errori. Estrasse quindi la pistola laser e salì, quatto, ogni gradino, fino alla prima botola sul soffitto. Questa era quasi saldata dalla ruggine e oppose una certa resistenza, ma infine cedette e così fecero anche le altre due successive. Per qualche incomprensibile motivo, i grigi non avevano colonizzato quello spazio e Irving fu davvero lieto di esserseli lasciati alle spalle, almeno per qualche minuto. Quando infine raggiunse la cima, stentò a credere di avercela fatta. La cuspide della torre offriva poco riparo alla vista e poco posto per manovrare, tuttavia gli strati di tende sottostanti erano una protezione sufficiente a fargli prendere fiducia ed esporsi, percorrendo la lunga e stretta pedana che lo avrebbe condotto ai comandi. Un tempo forse una cupola di vetro aveva coperto l’operatore delle comunicazioni ma ora il vuoto lo circondava. Ad ogni modo, incurante di ogni pericolo, si apprestò ai comandi:
– Ce l’ho fatta. – Enunciò attraverso la micro-cuffia.
Lunghi istanti trascorsero, poi un boato d’esultanza esplose attraverso l’auricolare:
– Irving! Sia lodato l’Imperatore! Sei alla torre? Ci sei riuscito? Dannazione, ci hai fatto morire a star qui in attesa! – Risposero tutti insieme gli altri, inondandolo di un calore che quasi, quasi, lo commosse.
– Sì, sono alla torre di comunicazione. La descrizione era accurata, Medea. – Le concesse – Ci sono alcune leve e uno schermo nero, lo spirito macchina sembra morto. – Aggiunse – Zero, cosa devo fare? – Domandò al tecno-prete.
– Prima di tutto bisogna onorare lo spirito per poterlo destare dal sonno. Segui i sacri condotti della linfa elettrica, cerca il… - Zero sciorinò una descrizione tanto accurata quanto complessa dell’organo meccanico di alimentazione che avrebbe dovuto cercare, ma Irving non riuscì ad ascoltare standosene con le mani in mano, così toccò il vetro nero e la scocca in cui era contenuto, senza sapere cosa fare ma impaziente di farlo. Incredibilmente, lo schermo ebbe un guizzo di luce verde e delle stringhe orizzontali di codici apparvero.
– È sveglio. – Comunicò al tecno-prete.
– Improbabile. – Rispose lui, interrompendo la spiegazione. – Senza il rito di saluto, può significare solo che è sempre stato sveglio. Vedi dei codici? – Domandò imperturbabile il prete rosso di Marte.
– Si! Ed è incredibile! – Ribatté il Navigatore – La maggior parte delle coordinate sembrano essere già inserite, è assurdo!
– Quindi i dati presi dalla chiatta saranno sufficienti? – Domandò Medea, col fiato sospeso per l’ansia.
Irving rievocò alla memoria le stringhe ottenute dal cogitatore della chiatta, le inserì nella sezione delle autorizzazioni e spronò lo spirito macchina a compiere il suo servizio, ringraziandolo poi con la formula tipica gradita agli spiriti dei comandi manuali.
– Lo scopriremo presto, mia cara. – Rispose lui dopo qualche istante, in tono volutamente provocatorio.
– Così scopriremo chi aveva ragione. – Incalzò.
– Noi ci muoviamo, allora. O la va o la spacca. – Ordinò Xanatov alla squadra.
Lo schermo si accese infine di verde. Con un sussulto, la torre vibrò dalle fondamenta e un suono lungo e lamentoso straziò l’aria: una sirena stava strillando a piena voce, rimbombando su tutta la piazza. Il Navigatore temette che la torre potesse crollare da un momento all’altro e che il suono avrebbe di certo attirato l’attenzione di chiunque nel raggio di chilometri, così si voltò di scatto pronto a scendere di sotto per mettersi al sicuro. Invece, si trovò di fronte a un soldato grigio pronto a impalarlo con la baionetta del fucile; spaventato a morte, non poté che seguire con gli occhi la lama pronta a sventrarlo, senza riuscire a reagire. Il sangue esplose in tutte le direzioni, eppure, per la seconda volta, non morì. Il grigio crollò in ginocchio, la testa ridotta a un grumo annerito e fumante.
– Mi ringrazierai dopo. – Disse Jun attraverso la micro-cuffia. – Prendi un’arma e dai un po' di copertura ai nostri amici là sotto. – Ordinò lui.
Sbalordito, Irving si guardò attorno: a qualche decina di metri da lui, abbarbicato su un vecchio muro di cinta, il cacciatore di taglie lo salutò con una mano mentre con l’altra reggeva il fucile laser, puntato verso le stradine sottostanti. Seguendone la traiettoria, capì infine cosa doveva fare.
L’equipaggio stava correndo in mezzo alle tende e ai container, freddando ogni nemico rapidamente e senza rallentare, aiutati intensamente dai colpi chirurgici di Jun che aprivano loro la strada. Un altro sussulto scosse la torre, così finalmente il Navigatore ebbe la conferma finale: a pochi metri dalla torre, verso il centro della piazza, una gigantesca porzione quadra del pavimento sprofondò, demolendo inarrestabile tutte le costruzioni postume realizzate a ridosso e inghiottendone altrettante. La teoria del Siniscalco si era rivelata corretta: il pavimento mobile della zona di scarico si stava inabissando per lasciare spazio all’atterraggio della chiatta orbitale.
– Funziona! – Urlò – Dritto di fronte a voi! Correte ci siete quasi! – Li spronò concitato, pronto a sua volta a saltare nel vuoto per raggiungerli.
Erano a un passo dalla salvezza, ma non erano ancora fuori pericolo. I soldati grigi ancora presenti sulla porzione in movimento del pavimento si accalcarono per fuggire, lo stesso però non fecero quelli di là del varco che, sbigottiti dalla situazione assurda, spararono a qualsiasi cosa. Fortunatamente, la grande distanza impedì alle loro rudimentali armi di essere davvero efficaci, consentendo all’equipaggio di calarsi o saltare di sotto in relativa sicurezza: per quanto quel letterale salto nell’ignoto potesse ritenersi sicuro. Il Navigatore osservò dall’alto la scena con una certa soddisfazione, poi, una volta visti tutti sulla chiatta discendente, mostrò il suo nuovo talento, scomparendo dalla cima della torre ed emergendo accanto a loro attraverso un’ombra. L’equipaggio era esausto, ma lo accolsero come un eroe e poterono finalmente tirare un sospiro di sollievo. Il Navigatore si avvicinò spavaldo al Siniscalco e disse:
- Avevo ragione io, dopotutto.
Medea affondò i suoi occhi magnetici in quelli di Irving e, sorridendo, rispose:
– Una volta ogni tanto, capita anche a te.
 
***
 
La piattaforma calò lentamente in un condotto verticale, provocando un forte rumore sferragliante che rendeva difficile persino parlare. L’enorme pozzo quadrato era, infatti, ritagliato a misura del piano di carico e le sue pareti metalliche, punteggiate di luci spente, scorrevano a soli due metri dal bordo.
L’intero equipaggio, intanto, si era radunato nei pressi di un cumulo di rottami, per consentire a Jun, e a chiunque ne avesse la forza, di stare come vedetta; la prudenza, infatti, non era mai troppa.
La piazza di carico aveva una superficie imponente e un gran numero di rifugi, costruiti inavvertitamente su di essa, si erano inabissato con loro, portandosi probabilmente dietro anche qualche grigio sprovveduto o troppo lento per fuggire. I compagni però, feriti ed esausti, non avevano la minima intenzione di affrontare l’ennesimo scontro a fuoco, almeno non prima di aver capito dove fossero finiti, così restarono nascosti in silenzio. Inoltre, durante tragitto, fortunatamente, Xerath riprese infine conoscenza e, ancor più fortunatamente, non sembrò aver perso il senno. Stordito e decisamente confuso, si comportò come se gli avessero appena sparato dalla torretta mitragliatrice e fu molto sollevato nel vederli tutti ancora vivi. Diversamente dal solito, però, vedendo le ferite altrui, non insistette per plasmare l’Immaterium affinché guarissero, ma si limitò a costatare con piacere che nessuno corresse gravi rischi immediati. Ad un certo punto però, Xanatov cominciò ad accusare di nuovo stanchezza e anche capogiri: la droga da battaglia stava quindi esaurendo il suo effetto, presto avrebbe riscosso il suo credito sul fisico già debilitato del Capitano e degli altri che ne avevano fatto uso.       
La piattaforma continuò imperterrita la sua discesa, inoltrandosi sempre di più nelle profondità terrestri, fino a essere inghiottita dall’oscurità sottostante. Il tunnel verticale li aveva scortati per alcune decine di metri, attorno a loro invece ora si apriva un ambiente molto più spazioso, illuminato fiocamente solo dalla luce ambientale della superficie, ormai lontana. Si trovarono così all’interno di quello che sospettavano essere un impianto di stoccaggio, ahimè, però, completamente vuoto. Le enormi pareti lisce, chiaramente artificiali, creavano un ambiente a base rettangolare, grande almeno quattro volte la piattaforma stessa, al centro del quale un alloggiamento apposito avrebbe sistemato lo spiazzo di carico a livello del pavimento. Una volta a terra, i rombanti meccanismi fermarono la discesa e poi si spensero, lasciando che il silenzio tornasse sovrano. La squadra poté così osservare meglio l’ambiente circostante; il pavimento era tappezzato da una serie di nastri trasportatori e di binari sgombri, coperti però da uno spesso strato di sporcizia, a dimostrazione che nessuna creatura fosse scesa lì sotto almeno da qualche decennio. Le pareti erano anch’esse incrostate di vecchio sudiciume e segni di attrito dell’usura, soprattutto a ridosso dei portelloni sigillati che le chiudevano centralmente. La compagnia prese coraggio, accese delle luci portatili e cominciò a esplorare il luogo, muovendosi compatti e circospetti. Cosi notarono che solo tre delle pareti, le due lunghe e una corta, avevano quei portelloni degni di un’aviorimessa; la quarta parete aveva invece solo due piccole porte, distanti tra loro una quindicina di metri, peraltro divelte entrambe dal muro e giacenti a terra, in pezzi. Oltre questi varchi, fu possibile vedere solo una passerella di metallo, stretta ma all’apparenza robusta, sovrastare strani impianti meccanici completamente immobili e silenti. Il Capitano si fece coraggio e superò una soglia, testò la resistenza della pedana e poi, con un cenno di approvazione, guardò i propri compagni per invitarli a salire a loro volta. I due passaggi corsero paralleli qualche metro, svoltarono entrambi ad angolo retto per poi unirsi e proseguire in una sola direzione, lungo un corridoio dal soffitto molto basso e pieno di tubazioni di ogni tipo. La passerella metallica scricchiolò e cigolò esageratamente sotto il loro peso: tanto immersi com’erano nel silenzio e nel buio, che a nessuno piacque l’idea di attirare l’attenzione in maniera così palese, seppur fosse di fatto inevitabile. Sotto di loro, ganci e catene pendevano per metri, lambendo da vicino quegli ignoti macchinari sopiti, o addirittura morti, senza però dar loro una possibilità di scendere per indagare. La passatoia proseguiva quindi attraverso un tunnel basso e stretto, composto quasi interamente da tubazioni per lo più parallele, interrotto ogni tanto da una soglia metallica, vuota, dotata di cardini spezzati, come se un tempo avesse avuto una porta o un cancello agganciato. Anche in assenza di minacce reali, la loro guardia non si era comunque affievolita; seppur intontiti dalla stanchezza, non si sarebbero fatti cogliere impreparati da niente e da nessuno. Questa almeno era la loro intenzione. Camminavano tutti in fila indiana, con Xanatov in testa e Jun di retroguardia. Sophiex insistette per essere direttamente alle spalle del suo duce, pronta a crivellare qualsiasi minaccia osasse ghermirlo. La guerriera biasimava da sempre la sua avventatezza, sia come amico sia da Capitano, sia come mercante sia da combattente, ma sapeva anche che se Xanatov si sentiva così sicuro di sé, era anche perché sapeva di potersi fidare ciecamente dei propri compagni. Lei per prima era sempre stata più che pronta a sacrificarsi per la sua incolumità, e mai sarebbe venuta meno al suo ruolo; così, al suo fianco, sarebbe scesa all’inferno se lui lo avesse desiderato. Ciò nondimeno, le vicende degli ultimi giorni parevano aver preso la sua determinazione un po’ troppo alla lettera.
Ad un certo punto, Xerath disse:    
- Ho sentito qualcosa. – Usando volutamente un tono pacato per non spaventarli.
La fila si fermò immediatamente, posando sguardi interrogativi sullo psionico e lungo il tunnel, alternativamente.
- Cioè? – Chiese Jun, appena i cigolii della passerella si quietarono.
- Io non ho sentito nulla. – Aggiunse il cacciatore di taglie.
- Li ho percepiti. – Rispose lui, indicandosi la testa come riferimento ai suoi sensi psionici.
- Oltre i tubi e sotto di noi ci sono degli altri condotti, forse per la ventilazione. Qualche piccola forma di vita che va e viene. – Spiegò lo psionico.
– Dei ratti? – Suppose candidamente Sean.
- No. – Rispose secco Xerath. – Un momento ci sono, quello dopo non ci sono più. Non ho detto che si muovono. – Asserì.
– Era troppo sperare di poter stare al sicuro per un poco, vero? – Commentò sarcastica Medea, esplicitando il pensiero di ognuno. Xanatov, spossato come gli altri dal continuo stato di pericolo, tagliò corto dicendo:
- Xerath, avvisaci nel momento in cui queste cose si muovono verso di noi. Voi camminate ma state pronti a sparare, perché da qui non possiamo certo tornare indietro.
Dopodiché si voltò e riprese il cammino come se niente fosse, sperando che nessuno avesse notato quella flebile nota di paura che gli aveva stretto la gola. In quel momento sperò, se fossero dovuti morire ammazzati per qualche altra minaccia sotterranea, di avere almeno una morte veloce, così da poter riposare senza troppi tormenti.
La luce delle torce fendette il buio ancora per qualche lungo minuto, fino a che non illuminarono un’ampia parete di metallo che avrebbe chiuso loro la strada da li a qualche metro. Continuarono lo stesso e si lasciarono l’angusto tunnel di tubazioni alle spalle per entrare in un ambiente dal soffitto molto alto ma non più largo di una decina di metri. La passerella era quindi l’unico collegamento tra due pareti verticali distanti solo pochi metri: voltandosi, videro il tragitto dei tubi aprirsi a ventaglio e correre in alto, tanto in alto da perdersi nell’oscurità. Di fronte a loro, invece, una porta di metallo chiusa fermò il loro determinato avanzare. Xanatov non se ne preoccupò eccessivamente, poiché potevano tutti contare su una potenza di fuoco sufficiente a demolirla, se fosse stato necessario per proseguire. La mancanza generale di energia creava, infatti, tutti i presupposti perché fosse l’unica soluzione, tuttavia il Capitano volle fare un tentativo. D’altra parte, anche la piattaforma aveva avuto bisogno di energia, per cui era lecito pensare che qualche spirito macchina fosse ancora vivo, così si avvicinò alla porta e cercò tentoni una qualsiasi interfaccia. La curiosità distrasse per un momento l’attenzione generale, anche se, fortunatamente, Xerath non mancò il compito assegnatogli e allertò subito i compagni:
- Arrivano! Ce ne sono anche di più grandi e arrivano da sotto di noi. Devono esserci dei tunnel di servizio che attraversano le pareti. – Dichiarò a gran voce.
Tutti si ridestarono e puntarono luci e armi in ogni direzione, travolti nuovamente e dolorosamente dall’adrenalina. Tutti, tranne Xanatov, i cui occhi restarono incollati alla porta.
– Non è possibile… - Bisbigliò lui.
– Capitano? – Chiese Sophiex perplessa. – Che succede? – Gli domandò di rimando.
– Non è possibile! – Disse ancora lui, scioccato.
– Si stanno avvicinando ancora! – Avvertì Xerath.
– Capitano! – Chiamò Sean a gran voce. – Sophiex! Cosa sta succedendo lì davanti!? –
La guerriera tenne le armi puntate alle pareti ma distolse la guardia per osservare ciò che Xanatov stava guardando, e ciò che vide le fece mancare il fiato e strabuzzare gli occhi.
– Oh mio Dio… Cosa significa? Come è possibile? – Domandò lei, sconvolta.
– Cosa sta succedendo!? – Gridò Medea dal fondo della coda, impaurita quasi più dal silenzio di suo fratello che dalla minaccia invisibile dietro le pareti. All’improvviso, una luce si accese e proruppe dalla porta stessa, investendo Xanatov e mostrando a tutti con chiarezza ciò che l’aveva sconvolto. Il disegno luminoso di un uroboro era comparso sul metallo della porta, ma non un semplice serpente che si morde la coda, era invece esattamente l’uroboro dei Van Vendigroth, distinguibile senza errore dalle due V gemelle contenute nelle spire tonde della creatura leggendaria, lo stesso simbolo che ornava le divise degli equipaggi dell’intera flotta familiare e le navi stesse. Ma come se non bastasse, la luce si spense d’improvviso quando la porta scivolò senza rumore all’interno della parete metallica, mentre una voce registrata diceva, con tono accogliente:
– Bentornato, Capitano Bauer.
Paralizzati dallo stupore, alcuni istanti passarono senza che una parola fosse pronunciata né un muscolo mosso, fino a che dei rumori zampettanti riempirono il silenzio, echeggiando nei condotti sotto di loro e non solo. Inoltre, al di là dell’uscio aperto, la passerella continuava il suo cammino nel buio profondo e cigolava ritmicamente, proprio come se qualcuno, o qualcosa, vi stesse camminando sopra. Xanatov e Sophiex puntarono immediatamente le luci e le armi in quella direzione, ma prima ancora di poter inquadrare la minaccia, un arco voltaico balenò verso di loro, illuminando a giorno il corridoio. Il flash li accecò dolorosamente, eppure, complici la tensione e l’istinto di sopravvivenza, non ebbero bisogno della vista per schivare il colpo efficacemente, buttandosi pancia a terra. Ad ogni modo, il ronzio elettrico permase anche dopo la scarica e quando la loro vista si schiarì, videro la saetta blu sopra le loro teste ritrarsi lentamente oltre la porta, trascinando con sé niente di meno che un servo-teschio, anzi, lo riconobbero, il servo-teschio dello stryxis Ler’en. Infine la folgore si spense e una figura longilinea, avvolta in pesanti drappi luridi, apparve sulla soglia della porta. La sua voce metallica, molto nitida, li avvertì:
– Benvenuti. È molto pericoloso là fuori, se vorrete seguirmi vi porterò al sicuro. – Disse la creatura. Il Capitano si rimise in piedi e lo squadrò da cima a fondo: il volto era un’accozzaglia di parti meccaniche e le mani scheletriche, che reggevano saldamente il servo-teschio disattivato, erano anch’esse completamente artificiali.
– Chi sei tu? – Domandò spontaneamente Xanatov, tanto stupito e vulnerabile da non avergli neppure puntato l’arma contro.
– Sono il vostro servo. Presto avrete tutte le risposte, ma non qui e non ora. Gli abomini si sono svegliati, per cui dovrete seguirmi. Poi parleremo. – Rispose l’automa con una parvenza di empatia. Il Capitano si voltò e cercò lo sguardo di tutti i membri dell’equipaggio, vecchi e nuovi. Tutti mostrarono coraggio e non ci fu bisogno di parole, poiché se la strada è una sola, non può essere la strada sbagliata. Lo seguirono.
 
 
   
 
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