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Autore: Hal_cyon    04/09/2017    2 recensioni
[Omegaverse, Fantasy, Elf & Human]
“Avrei dovuto ucciderti” mormorò l’elfo mentre l’attirava a sé.
“Avrei voluto che lo facessi.”
Perchè solo la morte poteva liberarli dalle loro nature di preda e predatore, dal bisogno che li legava.
Eppure l’odio non era che un sussurro in confronto a quel richiamo selvaggio.
Il regno è nelle mani del popolo elfico, che con la sua magia domina incontrastato riducendo la razza umana in schiavitù.
Le Omega della specie sottomessa sono le uniche in grado di procreare, motivo per cui vengono confinate nell'isolamento del Santuario ed "inibite" per tenere a bada il periodo del Calore.
Quando una di loro si ribella alla crudele usanza spetta al consigliere della regina disporne la punizione, ma l'Alpha radicato in lui ha altri piani per la mortale.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I - Hate me.

Il Var’Celen non amava l’insubordinazione.
Era qualcosa di sconosciuto all’interno della comunità elfica, e di caldamente sconsigliato in quella umana.

Osservò le giovani donne in piedi davanti a lui, tutte a capo chino ed ammantate nelle vesti nere tipiche delle Sacerdotesse di Ranyra,
così lunghe da trascinarsi a terra. Non osavano alzare lo sguardo né proferire parola.
Poteva sentire l’odore della paura spargersi nell’aria, ed era nauseante.

“Sapete di essere semplice bestiame per noi. Siete in vita perché lo vogliamo, ma potremmo cambiare idea.”

Iniziò a camminare tra le fila di Sacerdotesse, assicurandosi di mettere bene in mostra il profilo della spada affilata che pendeva dal fianco.
I tremiti ed i singulti si fecero man mano più udibili nel silenzio.

“Ora ditemi, dove si nasconde l’ultima di voi?”

L’ultima di trenta Omega umane rinchiuse nella sconfinata Moonbright, sulla vetta di un monte scosceso e dimenticato.
Il Santuario di Ranyra era l’unico che gli elfi avevano risparmiato per un puro fattore estetico - le mura bianche del mausoleo catturavano
magnificamente la luce - concedendo agli umani di pregare quella divinità con moderazione, sempre consapevoli che la Natura fosse la vera signora
ed andasse venerata in quanto tale.

Quelle femmine erano fattrici eccellenti, secondo la loro specie. Partorivano eredi forti, in salute, destinati a divenire grandi guarrieri,
e gli elfi non potevano permettere che la feccia proliferasse oltre.

Come ogni luna nuova, il Var’Celen si era recato al Santuario per somministrare alle elette gli inibitori, sostanze create con l’uso della magia che impedivano alle creature di andare in calore ed attirare attenzioni indesiderate.
Lo scopo principale era quello di renderle sterili, ovviamente, motivo per cui i maghi di Narawen sperimentavano mese per mese nuove formule.
Su alcune avevano effetto, su altre il processo si innescava con lentezza, creando invece una sorta d’immunità.

Ucciderle sarebbe stato più facile, ma quella pace illusoria stipulata con il Consiglio di Goldcrest impediva agli elfi di utilizzare metodi violenti e drastici, purtroppo.

L’Alpha sospirò quando fu chiaro che nessuna avrebbe aperto bocca.
La mano si posò sul pomello della spada mentre sostava davanti ad una stolta adepta impaurita, invisibile sotto il drappo nero.

“Saremo costretti a strapparvi la verità con i nostri metodi, e credetemi, implorerete pietà per -”

Come una freccia in pieno petto, l’odore fu così forte ed improvviso da farlo indietreggiare, mozzando le ultime parole in un rantolo a denti stretti.
Una scia dolce, quasi stucchevole, pregna di umori. La sentiva distintamente nel naso, nei polmoni, nelle viscere, nel bassoventre.

I Beta che piantonavano l’ingresso del mausoleo persero la loro compostezza, annusando l’aria irrequieti.
Le Sacerdotesse si strinsero le une alle altre ed iniziarono a bisbigliare preghiere nell’assurda lingua umana.

Dov’è.

L’elfo, schiavo dell’istinto più primordiale, lasciò la stanza in un fruscìo di vesti, troppo veloce per essere fermato anche dai suoi stessi subordinati.
Sapeva che un’Omega era lì, tra quelle mura, e lo stava chiamando a gran voce.
La traccia olfattiva che prima gli sfuggiva ora era chiara quanto una lanterna nel buio.
Si muoveva ai piani superiori, vicina al tetto scoperto dell’edificio, convinta che un paio di mura potessero salvarla dall’ispezione del Var’Celen.

Dove si nasconde.

Non era mai accaduto che una Sacerdotessa rifiutasse l’inibitore, che disobbedisse ad un ordine diretto della Regina e del popolo elfico.
Voleva morire, non c’era altra spiegazione.

Trovata.

Il tintinnio dei campanelli che portava alle caviglie risuonò per il corridoio, e poi su, lungo la scalinata in pietra che conduceva alla terrazza.
In pieno inverno era una pazzia recarvisi senza gli indumenti adatti, per quanto l’intera struttura fosse un ammasso di rovine e non isolasse mai davvero
dai venti gelidi della montagna. Alla povera fuggitiva non importava molto, vista l’urgenza di sottrarsi all’ispezione.

Gli stivali dell’elfo affondarono nelle tracce fresche dell’adepta, l’impronta dei piedi nudi nello strato di neve che si era raccolto dove solo un colonnato proteggeva dalle intemperie, disposto a cerchio lungo il perimetro del terrazzo.
La statua di Ranyra troneggiava nel centro, mozzata dalla vita in su, ed al suo fianco una figura ammantata vi si aggrappava come fosse una zattera in mezzo al mare in tempesta. Si reggeva a malapena sulle gambe, il respiro affannato una condensa nell’aria.
Aveva il capo scoperto, la pelle scura dei mortali di Goldcrest, e capelli così lunghi e spessi da sembrare cordame attorcigliato.

Nonostante il vento spirasse con prepotenza, il Var’Celen continuava ad inalare boccate di quel profumo irresistibile, e lo stava facendo impazzire.

Era concentrato su di lei, la inchiodava con lo sguardo lì dove si trovava. Sentiva un ringhio costante ribollire in gola, fuori dal suo controllo, e la voleva.
Sarebbe morto se non l’avesse posseduta in quel preciso istante, in barba al freddo e la tormenta che iniziava ad imperversare.
Non provava più nulla che non fosse desiderio, rispondeva solo alle membra che pulsavano in attesa di scontrarsi contro quel corpo che - lo sapeva -l’avrebbe accolto nel suo calore.

La Sacerdotessa crollò sulle ginocchia, ma non distolse lo sguardo.

“Stai lontano.”

Osava impartire ordini, sfidarlo apertamente. La natura di Omega le imponeva di cercare qualcuno che alleviasse le sue sofferenze, che la ingravidasse come la fattrice che era, e invece non faceva altro che rannichiarsi e prendere le distanze, strisciando via.

“Ti ho detto di stare lontano!” gridò di nuovo, mentre l’elfo avanzava a zanne scoperte.

Quando solo un paio di passi li separarono poté scorgere il colore di quegli occhi terrorizzati - un verde chiaro, quasi trasparente -
e le gocce di sudore che imperlavano l’incarnato cotto dal sole della sua terra natìa.
Aveva la bellezza di un’animale selvatico, e l’odore dei suoi sogni più proibiti.

Accoppiarsi con un’umana era contro la legge, un motivo di scherno tra gli alti ranghi dove lui era amato e rispettato.
In realtà, il solo fatto di rispondere al calore di un Omega della razza nemica rappresentava un’anomalia.

E allora perché?

Il suo corpo reagì prima che l’elfo ebbe modo di capirne le intenzioni, imprigionando la ragazza in una gabbia di mani e gambe che non si sarebbero scostate per nulla al mondo.
Era sordo alle proteste, cieco ed affamato. Strappò la tunica con le unghie affilate e poi, una volta tastata la carne bollente sotto di lui, cominciò a farsi spazio tra le ginocchia frementi della Sacerdotessa. Se esisteva ancora una parte senziente l’aveva messa a tacere. Pensava solo a quanto fosse invitante la curva della spalla, quel punto dove il collo pareva implorarlo di essere morso e marchiarla a vita.
Era assurdo che fosse accaduto al consigliere della regina, un elfo inflessibile e dotato di un’autocontrollo ai limiti del possibile, eppure voleva farla sua.

Nel momento in cui la punta fredda della lama si conficcò nel suo fianco, il Var’Celen pensò che fosse uno scherzo dei sensi, annebbiati dal desiderio.

Poi il coltello scese in profondità, e il dolore fu più forte del bisogno.
 



Alma sentì il calore del suo sangue inondarle il ventre, sciogliere la neve sparpagliata attorno ai loro corpi.
Non riusciva a smettere di tremare, ma nel momento in cui il pugnale si era fatto strada nelle vesti dell’elfo aveva capito di potercela fare,
e così era andata avanti, fino a che l’impugnatura era stata l’unica cosa visibile sul corpo del dannato Var’Celen.

Ad ogni ispezione, quando lui la costringeva a bere quel liquido demoniaco, Alma pensava ai mille modi in cui avrebbe potuto sfigurare la perfezione del consigliere. Durante le notti febbrili passate a delirare per il dolore, piegata su sé stessa, immaginare la lama di un coltello in mezzo a quegli occhi ferini era l’unica cosa a procurlarle un po’ di sollievo.

Ora l’Alpha si contorceva come carta sul fuoco, imprecava nella lingua traditrice del suo popolo, e dovette trattenersi dall’infierire.

Non c’era tempo.

La strada verso le scale era spianata, conosceva tutti i passaggi segreti per sgusciare via dal Santuario senza essere vista, ma il Calore era arrivato all’improvviso e le metteva i bastoni tra le ruote. Aveva il fiato corto, le gambe instabili, un fuoco inestinguibile tra le gambe che pregava di essere spento.

Odiava quello che era, quello che implicava.

Raccolse il rimasuglio di vesti e sputò sulla figura agonizzante che aveva osato attaccarla, sperando che il freddo avrebbe terminato l’opera al suo posto.
Meritava una morte lenta ed agonizzante, la stessa sofferta dalla povera gente tra cui era nata.
Gli elfi giocavano a fare gli dei, li dimezzavano con strane pozioni e li costringevano a vivere nella paura, eppure non erano immortali.
Si sarebbe premurata di dimostrarlo, una volta tornata a Goldcrest.

Ai piani inferiori le voci terrorizzate delle sorelle si mescolavano agli ordini delle guardie reali. Il Santuario non era mai stato così chiassoso prima di allora.

Alma scese i gradini in fretta, insensibile a qualsiasi cosa stesse calpestando per il gelo che le mordeva i piedi, finché la luce di una torcia fu visibile in fondo allo stretto corridoio privo di finestre. L’edificio era stato costruito per venerare una divinità e dare rifugio ai pellegrini abbastanza coraggiosi da sfidare Moonbright e le sue insidie, ma dopo gli anni della guerra contro il popolo elfico erano comparsi passaggi segreti e nascondigli che lo rendevano più simile ad un labirinto. Alma ne conosceva ogni anfratto, lo aveva scoperto e memorizzato durante il periodo di sacerdozio forzato.
Una spinta alla pietra sotto alla torcia ed una botola conduceva al piano inferiore, nelle stanze private della Matrona.
Da lì bastava scostare il letto per calarsi nelle profondità dei sotterranei, con una scala di corda scricchiolante che l’umidità aveva reso instabile.
La ragazza l’aveva usata solo una volta, e implorò che non la lasciasse cadere nel vuoto fino al canale di scolo.

Notò con sommo piacere che il Calore si stava facendo man mano più sopportabile, ora che l’Alpha era distante. Riusciva a procedere spedita, vedeva con chiarezza la galleria che conduceva fuori, dove il canale ghiacciato si riversava nella pianura. Sapeva che una volta finito il periodo del bisogno il freddo l’avrebbe consumata fin dentro le ossa, e non importava. Per allora avrebbe raggiunto Wintervale, dove gli umani si sarebbero prodigati in parole rassicuranti e pasti caldi. Era al sicuro tra la sua gente, lontana dalla prigione in cui gli elfi avevano stipato lei e le altre povere Omega.

Uscì a carponi dall’apertura del canale, strisciando nell’acqua congelata con circospezione.
Quelle creature diaboliche volavano sul dorso di Evren grandi quanto l’intero edificio, potevano stanarla facilmente se non prestava attenzione.

Alma recise i campanelli che portava alle caviglie per fare meno rumore possibile, appostata nell’ombra. La presa attorno al pugnale era diventata una sorta di rigor mortis, la mano faticava a rispondere, e si ferì nel tentativo di tagliare quegli stupidi ornamenti da appestati imposti dalla legge.

Alzò lo sguardo verso la distesa bianca ed intoccata attorno a lei, fino a dove il limitare della foresta - una macchia scura nella tormenta - segnava l'inizio delle pendici ed un nascondiglio sicuro dalle creature volanti degli elfi.

Una cinquantina di passi e l'avrebbe raggiunta.

L’ingresso del Santuario si trovava sul lato opposto, dove le guardie sorvegliavano i portoni d’entrata. Per il momento non ne vedeva nessuna, ma la sua scomparsa doveva aver allarmato gli elfi, ed era solo questione di tempo prima che circondassero la struttura.

Correre. Correre a perdifiato e gettarsi nell’intreccio di alberi era l’unica opzione possibile.

Era esausta, consumata dallo stupido desiderio che stava attirando chissà quanti occhi su di lei, ma la libertà era a soli cinquanta passi da lì.

L’eco di un corno riecheggiò nella valle. Lo stridìo degli Evren le scosse le membra e infilzò i timpani da parte a parte.

Adesso. Adesso o mai più.

Si gettò nella neve di petto, scavando ed inciampando nelle insidie che celava. A volte sprofondava, a volte un rialzo inaspettato la tirava su, dandole la falsa speranza di aver accelerato il passo. I primi alberi parevano attenderla a rami spiegati, curvi verso di lei, rassicuranti quanto i cancelli di Goldcrest ogni volta che rincasava, da bambina.

Li aveva rivisti nei suoi sogni tante volte, come aveva visto l’ombra di un Evren su di lei mentre si allungava per sfiorarli.

L’incubo prese forma.
La creatura scese in picchiata, una saetta caduta dal cielo in un turbine di neve ed aghi di pino.
Il piumaggio era candido quanto l’ambiente intorno ad essa, distinguibile solo per il nero che si espandeva sulle estremità delle quattro ali.

Gli occhi di rapace incatenarono Alma, pregni di promesse di morte.

“Pensavi davvero di riuscire a scappare?”

Non osò voltarsi. Temeva ciò che avrebbe visto.

Gli spasmi arrivarono con lui, talmente violenti da farla crollare.

Odiava la parte che agognava al maledetto elfo traditore, al modo in cui il suo corpo reagiva adesso che un Alpha era vicino.

La violenza con cui le tirò i capelli avrebbe dovuto farle male, invece dovette trattenersi dal mugolare di piacere.
L’unica soddisfazione fu vedere che anche l’altro stava soffrendo a suo modo per quella vicinanza, il respiro affannoso e le pupille così strette da distinguersi appena nelle iridi purpuree.
Una criniera di capelli albini si riversò sul viso di Alma quando l’elfo l’attirò a sé, un ringhio basso a far vibrare il petto di entrambi.
Poteva distinguere ogni cicatrice, ogni tatuaggio strisciato sulla pelle chiara, il timore reverenziale che incutevano i canini affilati a pochi centimetri
dalle sue labbra.

Quella bestia che tutti adoravano, il Var’Celen eletto dalla regina, ai suoi occhi non era che uno scherzo della natura.
Il verso di protesta si perse nella tormenta quando le loro bocche s’incontrarono, mentre cercavano di mordersi a vicenda e prevalere uno sull’altra.
Voleva ucciderlo. Voleva che la possedesse nelle ombre della foresta fino a spegnere il fuoco che la consumava.
Le sua mani erano ovunque, s’infiltravano tra la stoffa strappata e scendevano fino ai fianchi, assicurandosi che fossero abbastanza vicini per poter premere la protuberanza tra le gambe contro il punto che bruciava più di tutti. Dov’era il pugnale? Perché non riusciva a prendere le distanze e ridurlo a brandelli come aveva sempre sognato di fare?

La lingua dell’elfo incontrò la sua, e quando sentì il profilo di qualcosa di tondo e liscio cadervi sopra fu troppo tardi.
La saliva ridusse la pillola in una poltiglia dolciastra, che Alma tentò di sputare scrollandosi di dosso il corpo marmoreo del Var’Celen.
Non l’aveva ancora ingoiata, ma le orecchie fiscihiavano e la vista si riempiva di piccoli punti neri.

Prima del muro di tenebra, vide l’espressione vittoriosa del nemico sopra di lei, parole sussurrate nel linguaggio umano a sfiorarle l’orecchio.

“Prega di non svegliarti mai, Omega.”

 


‹ Note dell'Autrice  
Buonasera e grazie per essere passati a leggere! Affronto per la prima volta questa tematica, quindi se notate incongruenze o errori fatemelo sapere.
Ho sempre amato le divergenze tra elfi e umani nei vari fantasy letti, quindi perché non metterci un po' di pepe ed Omegaverse per incasinare il tutto?
Lo so, sono un genio.


EDIT: Ecco pronta la Mappa di Wild Call.  Copyright a me medesima.

Spero che vi piaccia, e grazie ancora per la visita! 


Omegaverse in Wild Call: come funziona?

Elfi

- Alpha (F & M): hanno il pieno controllo della magia già in giovane età, un intelletto superiore ed un'innaturale lunga vita.
Assumono posizioni di comando all'interno della guardia reale.
- Beta 
(F & M): Elfi "standard". Non vivono a lungo quanto gli Alpha, raggiungono sempre la maturità verso i cinquantanni.
Sono considerati anziani al raggiungimento dei duecento, controllano discretamente la magia.
Alcune femmine possono generare figli, ma è considerato un avvenimento raro.
- Omega (F): le più belle e desiderabili della specie. Attraggono naturalmente la magia, sono venerate ed altamente rispettate nel regno.
Vengono promesse ad Alpha potenti e generano eredi destinati a comandare.
Omega (M): non potendo procreare hanno meno importanza delle femmine della specie, ma la magia scorre forte in loro.
Spesso divengono potenti stregoni o guaritori, ed alcuni sono visti come progenie stessa della Natura.


Umani

Alpha (F & M): come gli Elfi, anche gli umani di questa classe divengono inevitabilmente potenti condottieri o personaggi di grande acume.
Non vivono a lungo quanto i nemici, ma risentono meno dell'avanzare dell'età. 
Beta 
(F & M): I comuni esseri umani. Le donne sono sterili, salvo rari casi. I bambini nati da madri Beta vengono chiamati "Appesi",
in bilico tra la vita e la morte fino al momento del parto.
Omega (F): le uniche in grado di generare figli, quindi fondamentali alla continuità della specie. Ne nascono poche, e vengono prontamente vendute a dei patroni degni di ingravidarle prima del raggiungimento della maturità sessuale. Non avendo alcuna magia a proteggerle sono molto vulnerabili durante il Calore.
Omega (M): i reietti della società. Sono soggetti gracili ed effeminati che a volte i signori accolgono per pietà (o svago) all'interno delle loro corti.
Per una donna Omega partorire un maschio della stessa classe è segno di debolezza o scarsa fertilità.

 
   
 
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