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Autore: AThousandSuns    06/09/2017    4 recensioni
Questa storia partecipa a contest "Back to school" a cura di fanwriter.it
Andrew ha un grosso problema: il bullo della scuola.
Jaime non ha la minima intenzione di stare a guardare mentre qualcuno viene pestato.
«Fingere che non esistano non li farà sparire» sussurrò con aria annoiata «ora che hai reagito sarà solo peggio».
Andrew sospirò rassegnato: «Ormai ho imparato a incassare».
«Oggi non hai solo incassato, però» gli fece notare l’altro.
«Non so davvero cosa mi sia preso» Andrew scosse la testa.
«Forse ti dà più fastidio vedere qualcun altro prenderle piuttosto che essere tu a subire» gli disse con un ghigno scaltro sul viso.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Iniziativa: Questa storia partecipa al contest “Back to School” a cura di Fanwriter.it!
Numero Parole: 2811
Prompt/Traccia: A e B non si conoscono fin quando non finiscono in detenzione insieme e si danno appuntamento lì regolarmente.
 
 
«Ehi, riccioli d’oro! Ma dove scappi?» e lui che pensava di avercela quasi fatta. Andrew accelerò il passo, ma Tyler lo raggiunse comunque.
Lo afferrò per la spalla e lo costrinse a voltarsi, come faceva sempre: «Non ho i soldi del pranzo, oggi».
Tyler gli rise in faccia sprezzante, Jonah e Henry alle sue spalle a fargli da ombra; Andrew capì che non aveva scampo: «Credi di essere furbo? Guarda che non mi serve un motivo per farti nero».
Andrew non ne dubitava, così strinse i denti e si preparò al pugno allo stomaco che sarebbe arrivato da lì a poco. Chiuse gli occhi e, inaspettatamente, sentì una voce dietro di sé: «Piantala di fare il coglione, Ward: non ci serve una dimostrazione».
«Tu non ti immischiare» intimò Tyler alla voce.
«Altrimenti?» lo sfidò lo sconosciuto «chiami le tue damigelle e fai nero anche me? Dai, vediamo che sai fare».
Andrew decise di non voltarsi preferendo tenere d’occhio la vera minaccia ma ringraziò mentalmente il ragazzo che gli stava salvando la pelle: Tyler lo fissò per un attimo ma tornò a rivolgere lo sguardo sul punto dietro Andrew, con suo enorme sollievo.
«Scusa, non volevo toccare il tuo ragazzo: non sapevo che a voi messicani piacessero i biondi magrolini».
Prima che Andrew potesse rendersene conto venne spinto da parte e la sua visuale venne invasa da un ragazzo dai capelli scuri che indossava una giacca di jeans logora. Lo osservò colpire Tyler con un gancio destro scaraventandolo a terra, ma prima che potesse accanirsi su di lui Jonah gli bloccò un braccio e Henry lo colpì con un gancio al fianco. Lo sconosciuto si chinò per il dolore ma non cadde; Henry cercò di fargli perdere l’equilibrio ma l’altro fu più veloce e colpì anche lui allontanandolo. Jonah lo strattonò tentando di dargli un calcio mentre Tyler si rialzava. Andrew sentì il cuore martellargli nel petto mentre senza pensarci su troppo, con mani tremanti, afferrava la cartella che conteneva le sue tavole per il progetto di arte e con tutta la forza di cui era capace la scagliò contro il viso di Tyler che ricadde all’indietro. Guardò i suoi disegni svolazzare in aria prima di posarsi a terra, incredulo per il suo stesso gesto.
Fu così che finì in detenzione assieme al ragazzo che l’aveva difeso, separati da Tyler e i suoi scagnozzi.
Andrew sapeva che avrebbe dovuto preoccuparsi di come suo padre avrebbe reagito: rischiava la sospensione nonostante non avesse dato inizio alla lite. Già se lo immaginava, tutto impettito con le braccia conserte e quel modo di guardarlo dall’alto in basso: tutto ciò di cui aveva bisogno era un pretesto per allontanarlo dalla sua passione più grande, l’arte. E lui gliel’aveva appena fornito. Gli avrebbe detto di crescere, smetterla di fantasticare e prendersi le sue responsabilità, di pensare al suo futuro e ad una vera professione che potesse garantirgli di vivere tranquillo, come faceva sempre. Peccato che lui non volesse affatto finire rinchiuso a fare la muffa in un ufficio come il suo vecchio.
Non voleva proprio pensarci in quel momento. Guardò distratto il professor Lerman e si chiese cosa avesse fatto per finire a fare la guardia agli studenti indisciplinati: quella era una punizione per loro tanto quanto per lui.
Si rese conto che avrebbe dovuto ringraziare lo sconosciuto per avergli dato una mano: tutti gli altri si limitavano a girarsi dall’altro lato. Osservò di sottecchi il ragazzo che l’aveva aiutato, seduto ad un banco di distanza da lui. Non sembrava minimamente preoccupato di essere lì ed Andrew immaginò che quella non fosse la prima volta che finiva in detenzione. Era già al secondo anno e realizzò che l’aveva visto solo di sfuggita, probabilmente a lezione d’inglese.
Lo studiò mentre faceva dondolare pigramente la sedia, lo sguardo distratto e le dita che tamburellavano impazienti sul banco.
Il ragazzo si voltò verso di lui e si accorse che l’altro lo stava fissando; Andrew però non riuscì a distogliere lo sguardo da lui e il suo compagno di sventura si spostò al banco più vicino.
«Fingere che non esistano non li farà sparire» sussurrò con aria annoiata «ora che hai reagito sarà solo peggio».
Andrew sospirò rassegnato: «Ormai ho imparato a incassare».
«Oggi non hai solo incassato, però» gli fece notare l’altro.
«Non so davvero cosa mi sia preso» Andrew scosse la testa.
«Forse ti dà più fastidio vedere qualcun altro prenderle piuttosto che essere tu a subire» gli disse con un ghigno scaltro sul viso.
Lui, sorpreso da quell’affermazione, raddrizzò la postura: «Mi chiamo Andrew, comunque. Grazie del salvataggio».
«Sono Jaime» gli porse una mano così Andrew la strinse; aveva una presa salda e sicura, proprio come aveva immaginato: «Dovrei essere io a ringraziarti, non sono sicuro che sarei riuscito a tenerli a bada tutti e tre».
«Inizi sempre scazzottate che non puoi finire?».
Lui rise: «Solo quelle che ne valgono la pena».
Lerman li richiamò al silenzio prima di tornare al suo pc ed Andrew rimuginò sull’ultima frase di Jaime.
La voce bassa del ragazzo lo riportò alla realtà: «Anche tu al secondo anno? Se non sbaglio seguiamo entrambi il corso della Potter».
«Sì, esatto. È strano che non ci siamo incontrati prima».
Jaime alzò le spalle: «Sto ripetendo l’anno» disse con quel suo tono indolente.
Avrebbe voluto chiedergli qualcosa in più, ma il vice preside entrò in aula: «Andrew Davis? Tuo padre è qui».
Andrew si lasciò scappare un gemito frustrato sotto gli occhi divertiti di Jaime: «Buona fortuna».
«Mi servirà» bisbigliò lui.
Mentre si avviava verso l’uscita poteva sentire gli occhi di Jaime seguirlo e prima di oltrepassare la soglia si voltò; il ragazzo gli rivolse quel ghigno divertito che Andrew stava imparando a riconoscere e tentò di ricambiare con un sorriso appena accennato e poi si costrinse ad uscire.
 
 Entrando in classe per la lezione della Potter individuò subito i capelli biondi di Andrew, ora che ci faceva caso. Gli rivolse un cenno e il ragazzo rispose con un sorriso timido, l’unico di cui sembrava essere capace.
Jaime si sedette nel posto accanto a lui gettandogli un ultimo sguardo e aprì il libro svogliatamente: con quegli occhi blu e il viso pulito avrebbe potuto fare strage di ragazze. Forse era un po’ mingherlino, ma nulla che del sano esercizio fisico non potesse sistemare.
E invece se ne andava in giro con le spalle incurvate e lo sguardo basso, come se avesse paura del mondo intero. O forse solo di quel gran pezzo di idiota di Tyler Ward.
Doveva piacergli l’inglese, visto quanti appunti prendeva: Jaime si sforzò di imitarlo, se non si fosse impegnato non sarebbe mai uscito da lì. Immaginò di passare una vita intera al liceo: un vero incubo.
La campanella suonò prima di quanto pensasse e gli studenti si alzarono: Jaime notò subito il modo goffo e rigido in cui si mosse Andrew.
«Tyler?» gli chiese accennando col mento al suo busto.
«Sono caduto e inciampato» mentì, ma era palese non ci credesse nemmeno lui.
«Sul pugno di Tyler?».
Andrew alzò gli occhi al cielo ma sorrise appena e Jaime la considerò una vittoria, per quanto piccola.
«Se non vuoi risolverla da solo dovresti almeno dirlo a qualcuno» gli disse casuale mentre uscivano dall’aula.
«Lo sai di chi è figlio?».
Jaime fece spallucce: «Non mi interessa il gossip».
«Dovrebbe; non gli faranno nulla: i suoi sono pieni di soldi e lui è uno dei migliori giocatori della scuola, è intoccabile».
Jaime gli diede una pacca sulla spalla: «Questo lo dici tu».
Andrew lo guardò con quei suoi occhi chiari e circospetti: «Aspetta, che vuoi fare?».
Jaime si allontanò a grandi passi e si voltò allargando le braccia: «Vado a lezione».
Gli costò un’altra ora di detenzione: un equo prezzo da pagare per la soddisfazione di prendere Tyler a pugni. Non era poi molto forte senza i suoi amichetti; d’altra parte Jaime aveva imparato presto a difendersi e a mettere al proprio posto gli stronzi nati con la camicia come Tyler.
Si consolò pensando che il liceo presto sarebbe finito e c’era un mondo intero ad attenderli oltre quelle mura, sempre che fosse riuscito a diplomarsi tra una punizione e l’altra. Però quell’istinto era più forte di lui e vedere certe cose gli faceva prudere le mani, specie quando tutti, adulti compresi, preferivano chiudere gli occhi ed ignorare il problema. E solamente perché Ward senior era uno degli avvocati più illustri in città; ebbene sì, alla fine aveva fatto le sue ricerche.
Una volta conclusa l’ora Lerman si risparmiò la predica e Jaime lo salutò con un cenno: aveva come l’impressione che si sarebbero rivisti presto.
Si bloccò all’uscita quando vide Andrew dall’altra parte del corridoio seduto a gambe incrociate, la schiena poggiata contro gli armadietti.
Teneva in una mano un album da disegno e nell’altra un pastello; altre matite erano posate sul pavimento accanto a lui; Jaime mosse un passo nella sua direzione ma si fermò a studiare la sua espressione assorta e il modo in cui stringeva le labbra, tutto concentrato sul suo disegno: sembrava quasi un’altra persona mentre scarabocchiava sulla carta.
Una ciocca di capelli gli ricadde sulla fronte e lui fece uno scatto con la testa tentando di liberarsene; alzò lo sguardo e vide Jaime impalato nel mezzo del corridoio deserto. Si affrettò a raggiungerlo mentre Andrew sistemava le sue cose: «Le notizie viaggiano veloci» si giustificò «non avevi detto di volerti diplomare? Se continui così ti farai espellere».
Si incamminarono verso l’uscita e Jaime notò per la prima volta che Andrew era alto quanto lui e se ne sorprese; capì che la sua postura quasi intimorita lo faceva sembrare più basso: «Infatti non ho più intenzione di dare pugni per conto tuo. Dovresti imparare a difenderti: chi sono, la fata madrina?» forse quella era una causa persa. Ma Jaime adorava le cause perse, in più ad Andrew avrebbe fatto comodo un amico: non sembrava un tipo abituato a socializzare. Non che Jaime andasse pazzo per le persone, ma Andrew gli piaceva, con quell’aria da cucciolo smarrito: qualcuno doveva pur insegnargli a difendersi, no?
«La violenza non è la soluzione» ribatté Andrew deciso «nemmeno io voglio essere espulso».
Jaime ignorò le sue proteste: «Ti mostro solo un paio di trucchi».
«Dici sul serio?».
«Certo, ho insegnato qualche mossa a mia sorella minore e ora come ora anche lei potrebbe batterti».
«Grazie tante» sbuffò l’altro al suo fianco.
«Se eri in cerca di complimenti hai sbagliato persona» rispose Jaime semplicemente.
«L’avevo intuito; forse la cruda verità è quello che mi ci vuole» rifletté.
«Ho tanti difetti, hermano*, ma la verità è l’unica cosa che sentirai uscire dalla mia bocca».
Sulle labbra di Andrew affiorò un sorriso appena accennato: «È un buon inizio» tornò improvvisamente serio «non so nulla di come si fa a pugni».
«Non saprei, sei stato forte l’altra mattina».
«Incosciente più che altro» sospirò «era un complimento quello?».
Jaime gli rivolse un’occhiataccia: «Non ti ci abituare».
Andrew ridacchiò: «Dove stiamo andando?» gli chiese mentre uscivano.
«Al campetto: non credo ci sia qualcuno, oggi non è giorno di allenamento».
«Dubito che dovremmo esserci noi, allora» gli fece notare.
«Tranquillo, non finiremo in detenzione per essere entrati nel campo».
E invece finirono in detenzione per essere entrati nel campo.
«Castillo, devo iniziare a riservarti il posto?» lo accolse Lerman il mattino seguente.
«Non è colpa mia se questo liceo ha regole idiote».
«Forse hai ragione: ma le regole restano regole, anche quando non ci piacciono».
Jaime si limitò ad un’alzata di spalle e si sedette al solito posto: «Ti ho fatto di nuovo finire qui» gli disse con tono apparentemente casuale: in realtà non voleva che ce l’avesse con lui per quella storia.
Andrew tirò fuori il suo album: «Questo posto comincia quasi a piacermi».
«Non esagerare adesso» ribatté Jaime sollevato da come aveva preso la faccenda.
Il ragazzo gli sorrise: «Ho detto quasi».
Jaime gettò un’occhiata sullo schizzo in corso d’opera: «Disegni?» gli chiese con malcelato interesse.
«Mia madre dice sempre che ho cominciato a disegnare ancor prima di camminare: sto cercando di trovare la mia tecnica».
«Io sono negato per queste cose».
«Con la pratica chiunque può imparare le basi» gli rispose Andrew «ad ognuno il suo talento: io so disegnare, tu sai fare a botte».
«Vedremo dove ci portano questi talenti».
Andrew aggrottò le sopracciglia: «Che vuoi dire?».
«Non ne capisco molto di certe cose, ma mi sembri portato» rispose spontaneo.
«Umh, grazie» dalla faccia che fece non doveva essere una cosa che sentiva spesso, ma poi gli sorrise «un altro complimento?».
Jaime sbuffò: «Intendo dire, avrai pensato di combinarci qualcosa nella vita, o è solo un passatempo?».
«Non è affatto un passatempo» dichiarò «ma non credo che mio padre approverebbe».
«E allora? Si tratta della tua vita».
«La fai semplice, tu» Andrew si rabbuiò.
«Dimostragli che si sbaglia: il rispetto va guadagnato» e lui ne sapeva qualcosa.
Per un po’ l’altro stette in silenzio, come a rimuginare su quello che Jaime gli aveva detto. D’un tratto gli chiese: «E tu invece? Cosa farai del tuo talento?».
«Accademia militare».
«Sul serio?» lo guardò con un’espressione a metà tra il sorpreso e l’adorante; quegli occhi limpidi spiazzarono Jaime per un secondo. Ma che diavolo gli prendeva?
Distolse lo sguardo da Andrew: «Certo. Devo solo uscire da qui».
«Mancano due anni, se non conti questo».
«E se la smetto di finire in detenzione» puntualizzò.
«Dovrai insegnarmi a difendermi, ma lontano dal campo scolastico».
Jaime scosse la testa ridendo.
 
Andrew osservò i lividi sulle sue nocche: c’erano giorni in cui gli faceva male anche tenere in mano una matita e disegnare, ma continuava ad esercitarsi a tirare pugni e schivare quelli di Jaime. Si era rivelato un buon insegnante: non parlava molto, ma dava peso ad ogni parola ed Andrew apprezzava questo suo lato.
E poi aveva notato il modo in cui se ne andava in giro: non gli importava granché di ciò che pensavano di lui tutti gli altri e lo ammirava per questo; a volte desiderava possedere un millesimo della sicurezza di Jaime. Avrebbe potuto essere un bullo, realizzò, e invece passava quasi tutti i pomeriggi con lui ad insegnargli il modo più corretto di tirare un pugno o un calcio, e schivare o parare un colpo. A volte passavano ore senza che si scambiassero una parola, a spezzare il silenzio c’erano solamente i loro respiri affannati per lo sforzo; altre volte ridevano per cose senza senso e altre ancora affrontavano argomenti più seri. Anche il padre di Jaime era un uomo piuttosto rigido, ma aveva avuto una reazione entusiasta per la decisione del figlio riguardo all’accademia.
Da un lato Andrew faticava a capire perché Jaime ci tenesse tanto; dall’altro sapeva esattamente cosa si provasse ad avere un sogno, una passione che avrebbe potuto portarli lontano da lì. Forse era questo tutto ciò che volevano davvero.
Jaime dal canto suo non aveva fatto altro che incoraggiarlo a disegnare, anche se Andrew faticava ancora a trovare un suo stile; lui gli ripeteva che l’avrebbe trovato, però non doveva gettare la spugna. Andrew non aveva la minima intenzione di farlo.
Stava bene in sua compagnia, anche se certe volte Jaime lo guardava in un modo indecifrabile che lo faceva rabbrividire, ma non era certo una brutta sensazione. Eppure era sicuro che gli piacessero le ragazze: certo, una cosa non escludeva l’altra… Ma la verità era che Andrew non avrebbe avuto il coraggio di fare il primo passo. Perciò lasciava che gli sguardi di sottecchi e le parole non dette rimanessero sospesi tra di loro: in fondo, se avesse voluto, Jaime sarebbe stato abbastanza spavaldo da farsi avanti, no?
Quando, dopo qualche settimana di quiete, Tyler tornò alla carica spalleggiato come sempre da Jonah ed Henry, Jaime non era al suo fianco: sfruttando la loro sorpresa, riuscì a colpire sia Tyler che Jonah prima che potessero reagire. Mentre un paio di studenti intervenivano nel tentativo di separarli, Andrew pensò solamente a come avrebbe reagito Jaime. Sarebbe stato contento del fatto che i suoi insegnamenti stavano dando i loro frutti.
Finì in detenzione mentre aspettava che il preside rientrasse da chissà quale riunione e convocasse i suoi: suo padre sarebbe stato furioso.
Sentì la porta aprirsi e si preparò alla sua imminente fine, ma fu Jaime ad entrare, il suo solito ghigno stampato sul viso: «Dica la verità, professor Lerman: le sono mancato».
«Come faremmo senza di lei, signor Castillo» Lerman resse il suo gioco.
«Che ci fai qui?» gli sussurrò Andrew una volta che Jaime si fu seduto.
Il suo ghigno divenne un sorriso vero, uno di quelli che gli faceva sudare i palmi: «Pensavi davvero di stare in detenzione senza di me? Ti lascio solo due minuti e guarda che succede».
«A proposito, non voglio più finire qui dentro».
Jaime rise: «Lo dici sempre».
No, quella non sarebbe stata l’ultima volta. E no, non gli dispiaceva affatto.
 
*fratello in spagnolo
   
 
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