Migliore
Gli
ultimi residui di legna bruciavano
nel camino con un crepitio che ben presto sarebbe scemato. La luce
emanata non
era più quella brillante del fuoco appena acceso e per
continuare a leggere era
stato costretto a recuperare un vecchio mozzicone di candela dal fondo
di un
cassetto della credenza. Ora il grande stanzone che fungeva allo stesso
tempo
da cucina e sala pranzo era per metà avvolto in un debole
bagliore aranciato,
ma non c'era modo di contrastare la fredda aria di metà
dicembre. Un brivido
gli corse lungo la schiena e l'uomo si strinse ancor di più
nella pesante
giacca di lana che indossava.
Silenzio, penombra e gelo. L'atmosfera
rispecchiava in modo preciso il suo stato d'animo. Sentendo gli occhi
bruciare,
Grisha Jaeger abbandonò sulle ginocchia il giornale che
stava leggendo e si
stropicciò le palpebre da sotto gli occhiali, premendovi le
dita ghiacciate. La
giornata era stata intensa e non poté fare a meno di
ripercorrerla con il
pensiero. Quella mattina era uscito molto presto per raggiungere una
coppia di
anziani che viveva a ridosso del Wall Rose e con cui aveva concordato
un
appuntamento settimane prima. Li aveva ricevuti direttamente in casa e
aveva
domandato loro perché non avessero chiesto l'aiuto di un
medico di Trost, visto
che avrebbe potuto essere da loro in un'ora al massimo. Si era sentito
rispondere che non si sarebbero fidati di nessuno che non fosse stato
"il
salvatore dei poveri", colui che aveva trovato la cura per l'epidemia
che
aveva decimato la popolazione all'interno del Wall Maria. E
così aveva
affrontato circa tre ore di viaggio per adempiere al suo compito,
impiegandone
altre quattro per tornare a Shingashina. Una volta in città,
aveva fatto il
giro dei suoi pazienti ed era rientrato a casa solo nel tardo
pomeriggio. Aveva
trovato Carla seduta di fronte al camino, concentrata sul suo lavoro a
maglia,
e aveva mangiato qualcosa che gli era stato lasciato in caldo mentre
sua moglie
lo informava della breve visita di cortesia che il signor Hannes e
consorte le
avevano fatto poco prima di pranzo. -Dato che mancano poco
più di dieci giorni
a Natale, ne hanno approfittato per portarci dei doni. Hannes non sa
ancora
come ringraziarti per aver salvato sua moglie dalla malattia e alla
fine si è
risolto nel regalarti una bottiglia di vino. Molto nel suo stile, non
trovi?-.
La bottiglia era stata sistemata nella
credenza senza essere aperta. D'altronde Grisha non impazziva per
l'alcol,
anzi, cercava di starne alla larga il più possibile; dal
canto suo, Carla aveva
già in mente di utilizzare quel vino per aromatizzare carne
e dolci, se il
marito era d'accordo. Grisha aveva acconsentito con un cenno della
testa e poi
si era preoccupato di recuperare il quotidiano che veniva consegnato
porta a
porta ogni mattina. La sua lettura era stata interrotta solo dalla cena
e poi
era ripresa senza alcun disturbo o quasi. Quando si era fatto ormai
tardi,
Carla aveva messo da parte i ferri, utilizzati per tessere una
copertina di
lana, si era alzata dalla poltrona su cui era rimasta seduta per far
compagnia
al marito e in silenzio era scivolata dietro Grisha.
-Sono un po' stanca-, gli aveva detto
in un sussurro. Si era sporta dalle sue spalle, cingendogli il collo
con le
braccia e depositandogli un bacio sulla guancia, appena ruvida per la
barba che
non rasava da un paio di giorni. Era rimasta in quella posizione per
una
manciata di secondi, giusto il tempo di trasmettergli il calore di cui
lui
sentiva bisogno e di lasciar scorrere lo sguardo sulla pagina di
giornale che
attirava tutta l'attenzione del marito. -Caos nella capitale?-, aveva
domandato. Lui non aveva risposto e Carla, stanca di aspettare, aveva
sciolto
il suo abbraccio con uno sbadiglio. -Salgo al piano di sopra. Vuoi che
ti
aspetti?-.
-No, cara, non preoccuparti. Riposa,
ne hai bisogno-.
Grisha sapeva perfettamente che la
moglie era rimasta ad osservarlo ancora per un lungo minuto prima di
decidersi
a salire le scale. Lo sapeva perché era tipico di Carla
attendere una sua
replica tenendo le mani sui fianchi, imbronciata. Sembrava proprio una
bambina
troppo cresciuta quando gli metteva il muso. Certo, lui avrebbe fatto
bene a
non contrariarla o comunque a concederle un po' più
d'attenzione, ma ora anche
i gesti più semplici gli risultavano estremamente
complicati. C'erano momenti
in cui non riusciva nemmeno a guardarla negli occhi. Proprio come aveva
appena
fatto.
Il pensiero di averla infastidita o di
aver urtato i suoi sentimenti gli fece riaprire le palpebre. Per un
paio di
secondi tutto fu sfocato, poi la vista tornò limpida.
Lanciò ancora un'occhiata
al giornale che teneva in grembo e trattenne un sospiro. Non era tanto
il caos
nella capitale a preoccuparlo, quanto la politica ambigua di Re Fritz.
Ma di
questo non poteva parlarne né con Carla né con
altri.
Il titolo dell'articolo che lo aveva
spiazzato riguardava il Corpo di Ricerca. Sotto al sommario,
incorniciato dalle
tre colonne che costituivano il pezzo, c'era un piccolo ritratto del
suo amico
Keith Shadis, da dieci mesi nominato Comandante della Legione
Esplorativa. Non
si erano più visti dal giorno delle nozze di Grisha e non si
erano mai scritti.
O meglio, le lettere di Grisha non erano state seguite da alcuna
risposta. Ora,
secondo il contenuto dell'articolo, il ruolo di Shadis barcollava
così come
l'esistenza del corpo armato di cui era a capo. Lo smantellamento della
Legione
Esplorativa era impensabile per Grisha, che vedeva negli uomini e nelle
donne
che combattevano i Titani il simbolo della lotta contro la monarchia
che lui
stesso voleva rovesciare; allo stesso tempo, però,
costringere le truppe alla
ritirata rientrava perfettamente nel piano di non belligeranza
perseguito dal
Sovrano delle Mura. Esattamente come gli aveva riferito il Gufo nel
giorno in
cui la sua vita aveva avuto un secondo, nuovo inizio.
Volse gli occhi al camino: della legna
non rimaneva altro che carboni incandescenti in parte nascosti dalla
cenere. Il
fuoco si era estinto e con lui anche l'ultima possibilità di
scaldarsi. Un
altro brivido gli scosse la schiena e Grisha, alzandosi,
ripiegò il quotidiano
per abbandonarlo subito dopo sulla seduta della poltrona. Si
avvicinò al tavolo
e afferrò il mozzicone di candela, illuminando il pavimento
davanti a sé per
evitare di inciampare nei gradini che si apprestava a salire. Una volta
al
piano superiore, spinse pian piano la porta della propria camera da
letto e si
preparò per la notte, evitando il più piccolo
rumore che potesse disturbare il
riposo di Carla, già nel pieno del sonno.
Infilò rapido la camicia da notte che
sua moglie gli aveva sistemato ai piedi del letto e con accortezza
scivolò tra
le coperte. Si stese sulla schiena, restando a fissare il soffitto buio
con gli
occhi spalancati, e per un momento fu convinto che le sue pupille
assomigliassero a quelle di un gatto a caccia nell'oscurità.
Questa breve immagine,
però, durò solo un istante. L'attimo successivo
le tenebre della notte
evocarono altri, terribili ricordi e il cuore di Grisha intraprese una
folle
corsa.
Silenzio, buio e gelo. Probabilmente
doveva essersi assopito – o forse si era costretto a dormire
per evitare di
pensare – ma all'improvviso la quiete era stata rotta dallo
scatto di una
serratura in lontananza e dal seguente cigolio delle grate che si
aprivano. Lo
stridio di pesanti stivali di gomma lo aveva allarmato ed era
immediatamente
balzato in piedi, quasi a voler farsi trovare pronto ad affrontare
qualsiasi
minaccia. Il rumore dei passi si era avvicinato sempre di
più e alla fine due
uomini in divisa si erano fermati davanti alla sua cella, aprendola e
strattonandolo via. Grisha ricordava di aver cercato di sfuggire alla
loro
presa, ma non c'era stato niente da fare. Lo avevano condotto lungo un
corridoio fiocamente illuminato da torce e aveva avuto l'impressione
che non
avesse mai termine; trascorso un tempo di cui aveva perso qualsiasi
cognizione,
era stato chiuso in un'altra stanza buia. Lì era stato
legato a una sedia e gli
avevano estorto tutte le informazioni in suo possesso attraverso una
lenta e
dolorosa tortura che si era consumata, ancora una volta, tra penombra e
gelo.
Il silenzio non esisteva più: nella stanza echeggiavano solo
le sue urla.
Nel suo letto di Shingashina, Grisha
chiuse gli occhi e strinse le palpebre fino a sentirle doloranti,
sperando di
ricacciare indietro il passato che lo tormentava. Fu inutile. Stavolta
fu una voce
a scavare nei meandri della sua mente.
"Sono loro. Sono dei traditori. Vogliono restaurare
l'inferno di Eldia"
Grisha
lottò contro l'impulso di
urlare. Lo avrebbe fatto per coprire il suono di quelle parole di
bambino, di
quelle parole che lo avevano condotto alla rovina, ma poi avrebbe
svegliato
Carla e allora come si sarebbe giustificato? Non
ne poteva parlare né con lei né con altri.
La voce tuonò più forte e con lei
emerse il viso tondo di un bambino. Il suo
bambino.
"Perché, Zeke? Perché mi hai
fatto questo?"
"Io ti
odio. Tu sei un diavolo
e i diavoli devono morire"
Ti
odio. Gli aveva detto proprio
questo, quando la polizia di Marley li aveva fatti confrontare? Grisha
riportò vivida
alla mente la scena da lui vissuta. Sempre tenendolo legato alla sedia,
avevano
fatto entrare il piccolo Zeke nella stanza delle torture. Aveva da poco
compiuto sette anni e da qualche mese era stato selezionato come
recluta
dell'esercito marleyano proprio come escogitato da Grisha. Zeke, suo
figlio,
avrebbe riportato Eldia in trionfo. Ma qualcosa era andato storto e la
famiglia
Jaeger era stata arrestata, così come tutti coloro che
aspiravano alla
restaurazione dell'antico impero. Legato mani e piedi, Grisha aveva
parlato con
il bambino che da simbolo di speranza si era tramutato in vessillo di
rovina.
Zeke era rimasto impassibile nel vedere suo padre sporco e sanguinante;
Grisha
aveva perfino avuto l'impressione che il piccolo avesse sogghignato
nell'osservare la sua sofferenza.
"Perché?"
"Io ti odio"
Sì, lo aveva
detto davvero. Lo odiava
e Grisha allora non era riuscito a capire perché. Ma adesso,
circondato ancora
una volta dal silenzio, dal buio e dal gelo del suo letto, il dottor
Jaeger
comprese.
-Perdonami-, disse
in un sospiro che
gli sfuggì dalle labbra, -sarei dovuto essere un padre
migliore-.
Sentì il
cuore colmo di rimpianto e il
senso di colpa, che mai lo aveva abbandonato, tornò a
lacerare la ferita non
ancora rimarginata. Quanto era stato stupido? Fino a quel momento aveva
creduto
che fosse stato Zeke a tradirlo, ma in realtà era stato lui
per primo a tradire
suo figlio. Aveva tradito la sua fiducia, lo aveva esposto a mille
pericoli, lo
aveva gettato in prima linea credendo che fosse la cosa giusta da fare.
Non si
era mai fermato un istante a pensare che, forse,
Zeke poteva non essere d'accordo con il suo folle piano. Non aveva
considerato
l'idea che, forse, suo figlio non
volesse diventare carne da macello per una presunta causa
più grande. Ecco come
Grisha Jaeger lo aveva tradito. La pena per un simile crimine non
poteva essere
inferiore a quella che aveva scontato e che stava ancora scontando.
-Perdonami-,
ripeté, ora con le
lacrime agli occhi. -Perdonatemi-, disse pian piano al silenzio, che
nel buio
aveva assunto le sembianze di una donna molto diversa da quella che ora
dormiva
al suo fianco. -Sarei dovuto essere un padre, un marito e un uomo
migliore. Ho
sbagliato tutto-.
Si portò
le mani sul viso e si nascose
dietro le dita. Lacrime salate gli bagnarono i polpastrelli e Grisha le
lavò
via, cercando di calmare gli spasmi causati dal pianto. Gli furono
necessari
parecchi minuti prima di poter riprendere a ragionare con
lucidità. Quando fu
certo che non sarebbe incappato in una nuova crisi, si girò
a sinistra, lì dove
riposava sua moglie.
Carla dormiva
tranquilla, ignara del
suo dolore. Stesa sulla schiena, il torace si alzava e si abbassava a
ritmo del
suo respiro regolare; solo allora, strizzando gli occhi nel buio,
Grisha si
accorse che teneva le mani incrociate sul grembo, a protezione del
tesoro che
già da sei mesi stava crescendo in lei.
Provò un
misto di tenerezza e pietà
per quella piccola donna che aveva sposato da meno di un anno. Le
voleva un
bene profondo, ma non l'amava. Aveva tentato di alimentare il proprio
affetto
per farlo evolvere in amore, ma non ci era riuscito. Lo aveva sempre
saputo,
d'altro canto: non avrebbe mai potuto amare nessun'altra all'infuori di
Dina,
la sua prima e unica, vera moglie. Dina che lo aveva sempre capito, che
aveva
il suo stesso modo di vedere le cose, che lo aveva aiutato a tradire il
loro
unico figlio. Dina che adesso vagava fuori da quelle dannate Mura,
intrappolata
in sembianze tanto orribili quanto era stata bella in vita.
Carla era
completamente diversa e
forse per Grisha era stato meglio così. Provava un forte
senso di colpa anche
nei suoi confronti, perché l'aveva sposata al solo fine di
portare a termine la
missione che gli era stata affidata dal Gufo. Ancora una volta si stava
servendo di altre persone per raggiungere uno scopo più
grande. Ancora una
volta si disse che sarebbe dovuto essere un uomo migliore.
La fissò
a lungo fino a spostare di
nuovo gli occhi sul suo ventre prominente. La gravidanza stava
procedendo senza
alcun problema ed era ormai giunta al sesto mese. Anche la nascita di
quel
secondo figlio doveva essere annoverata tra i crimini che aveva
perpetrato fino
a quel momento? Grisha non seppe darsi una risposta o forse non volle
trovarla.
Un nuovo sentimento lo spinse, però, a tendere il braccio
destro verso il
grembo di Carla e, incontrata la mano della donna, vi pose sopra la
propria. Si
tirò su a sedere mantenendo vivo quel contatto e
avvicinò la testa al pancione.
-Stavolta sarò un padre migliore. Te lo prometto-.
Doveva aver parlato
con tono troppo
alto o forse aveva lasciato cigolare le molle del letto nel momento in
cui si
era messo a sedere. Qualunque fosse stato il motivo, Carla schiuse a
fatica le
palpebre e si accorse del tocco di Grisha, che trasalì
vedendola sveglia.
-Che stai
facendo?-, domandò lei, la
voce impastata dal sonno. -Sei salito adesso a dormire?-.
-Ho fatto tardi,
sì-, confermò lui,
senza smettere di domandarsi se Carla avesse sentito o meno
ciò che aveva
detto. -Sta crescendo sempre di più-.
-È vero.
E non sai quanto mi fa
faticare!-.
La risata stanca
della donna lo
rassicurò e sentì l'ondata di panico scemare.
Tirò un impercettibile sospiro di
sollievo, poi riprese a parlare: -Se sarà maschio, il suo
nome sarà Eren-.
Carla
guardò il marito. Non riusciva a
distinguere bene la sua espressione, ma nella semioscurità
le parve che ci
fosse un accenno di sorriso a distendergli le labbra. -Eren?-,
ripeté,
perplessa. -Cosa significa?-.
-Non lo so. Ma
è la scelta giusta-, si
limitò a risponderle.
-Non ho mai sentito
un nome simile. Tu
dove...?-.
-È come
se provenisse da un sogno. Fa
pensare alla libertà-.
Un momento di
silenzio si frappose tra
i due, ma ben presto fu Carla a interromperlo: -Se ti piace, per me va
bene. Ha
un bel suono. Però, se dovesse essere femmina,
sarò io a scegliere il nome,
d'accordo?-.
Grisha
assentì con un cenno del capo,
subito rafforzato da un "Sì" pronunciato con affetto.
Lasciò
scivolare la mano dal ventre di Carla e si chinò sul suo
viso per darle un
bacio a fior di labbra, augurandole la buona notte. La vide richiudere
gli
occhi e lui stesso riprese posto sotto le coperte, cercando riparo dal
freddo.
"Eren",
pensò ancora.
"Anche tu sarai migliore".