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Autore: Cheonefer86    08/09/2017    1 recensioni
Per leggere questa storia bisogna necessariamente leggere “Black Smoke” e “Dark Lovely Sea” di cui è continuo e fine (e se volete anche “I rumori della lontananza”, anche se non è necessario visto che è soltanto un brevissimo intermezzo che completa il quadro).
Severus se n’era andato lontano dal suo passato e da Harry, lo aveva fatto perché la loro storia era difficile e non voleva rovinargli ancora la vita.
E come ogni anno Halloween tornava per riportarlo indietro nel tempo, nel dolore dei ricordi, ma sarebbe sempre stato così, o qualcosa sarebbe cambiato?
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Potter, Minerva McGranitt, Nuovo personaggio, Ron Weasley, Severus Piton | Coppie: Harry/Severus
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A Bitter Journey to Life'
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Per leggere questa storia bisogna necessariamente leggere “Black Smoke” e “Dark Lovely Sea” di cui è continuo e fine (e se volete anche “I rumori della lontananza”, anche se non è necessario visto che è soltanto un brevissimo intermezzo che completa il quadro).

Come sempre, buona lettura ;)

 

 

Night Soul

 

La casa era vuota, ancora calda.

Severus sfogliava il giornale, svogliato, le gambe accavallate e una tazza di caffè che ogni tanto sorseggiava, anche quello svogliatamente, tanto che ormai era diventato freddo. E imbevibile.

Fece una smorfia e l’allontanò da sé, piegando accuratamente il giornale fece un’altra smorfia: come al solito niente d’interessante.

Perché si ostinava a farselo recapitare?

Forse perché voleva mantenere un qualche contatto con ciò che aveva lasciato o forse, semplicemente – anche se non era disposto ad ammetterlo – perché cercava un nome tra quelle righe. Un nome soltanto.

Si accontentava di quello, anche se ogni giorno il suo inconscio sperava di vedere un volto, una foto per spiare un istante della sua vita, come andava avanti.

Perché gli sarebbero rimaste soltanto quelle fotografie da guardare e riguardare fino a consumarle con gli occhi, immaginando di essere al suo fianco o anche solo vicino per poterlo sfiorare da un momento all’altro, per immaginare tutta una vita giorno dopo giorno.

Soltanto pezzi di carta di tutti i suoi desideri, da tenere o strappare come il ricordo di quel sorriso e di quello sguardo di speranza.

Scosse la testa prepotentemente mentre riscaldava il caffè, senza, però, berlo: se n’era andato proprio per non cercare nulla di lui, aveva deciso di cominciare una nuova vita altrove perché nella sua vecchia esistenza non riusciva più a starci, e respirava a malapena nel sapere di non poterlo avere accanto per sempre.

Era scappato perché pochi attimi non gli bastavano più.

Riprese il giornale, senza aprirlo, soltanto tra le mani a fissare la prima pagina, lì dove la data faceva bella mostra di sé.

31 ottobre.

L’anno lo lesse e basta mentre sfilava una sigaretta dal pacchetto, non gli sembrava importante tenerlo nella mente, era solo l’ennesimo tempo passato inutilmente, vuoto di speranze e di quei piccoli momenti felici della vita, di quella guerra che combatteva ormai solo dentro se stesso, mai dimentico di quelle maschere che ancora continuava a cucirsi addosso con un grosso ago che faceva male.

31 ottobre.

Indugiò ancora su quei numeri e su quelle lettere, aspirando a lungo un po’ di nicotina, e gli sembrò di andare a fuoco. Di esser bruciato da dentro da fiamme invisibili e senza fumo che, però, lo asfissiavano comunque.

Erano passati anni di niente, eppure quel giorno continuava a distruggerlo come una lenta agonia che si presentava all’improvviso rendendolo arido e folle di dolore. Ed era pura follia continuare a torturarsi per un passato che non poteva più cambiare e cui aveva cercato di porre rimedio in ogni modo. E lo aveva fatto.

Aveva sacrificato persino la sua vita per quegli istanti andati d’insensatezza, eppure era lì.

Ancora lì.

E guardava pagine piene di parole e foto. Piene di una vita fa.

Una lenta tortura che gli lambiva il corpo e la carne e poi ancora più in profondità fino a sentirsi corroso e inutile. Inesistente.

Si alzò di scatto dalla poltrona portando con sé il giornale e quei caratteri che come lame continuavano a perforargli la carne, e lo gettò nel camino che ardeva flebile, aspettando che le fiamme si alzassero e ne consumassero fino all’ultimo angolo, fino all’ultimo tratto d’inchiostro che continuava a dolergli come un marchio appena fatto.

E la sentiva la pelle che si carbonizzava all’istante. Ne sentiva l’odore.

E il dolore.

Mentre continuava a fissare le fiamme che si erano fatte meno intense, qualcosa lo distrasse, un leggero bussare alla porta che si fece via via più forte per poi interrompersi: forse era qualche abitante del paese che voleva qualcosa, ma in quel momento non aveva alcuna voglia di ricevere visite.

Si voltò di nuovo verso il camino, la sigaretta stretta tra le labbra, e aspettò che chiunque fosse se ne andasse, come ormai avevano imparato a fare quando non apriva subito la porta, ma il rumore riprese, più deciso.

Era un tocco che conosceva fin troppo bene. Un tocco che si era lasciato anch’esso alle spalle come tutto ciò che riguardava la sua vecchia vita.

Aveva davvero creduto di dimenticare semplicemente la sua vecchia esistenza?

Ci aveva sperato, ma quella speranza era scoppiata come tutte quelle che aveva avuto fin dalla sua infanzia, quando ancora aveva pochi anni e molti sogni.

Poteva provare ad ignorare il rumore, la persona al di là della porta, ma sapeva che era del tutto inutile.

«Severus, lo so che ci sei.»

Il mago trasse un profondo sospirò per cercare di scrollarsi di dosso la cenere asfissiante di quel giorno, si staccò dalla pietra del camino che aveva stretto con troppa intensità fino a farsi dolere le dita e gettò il mozzicone tra la legna, poi diresse i passi verso l’ingresso, fermandosi con la mano a pochi attimi dalla maniglia, esitante e quasi timoroso. E aprì.

«Minerva.» Lo disse deciso, ma con tono flebile, come se volesse mantenersi distaccato.

Erano passati appena pochi mesi dall’ultima volta che l’aveva incontrata, eppure gli sembravano secoli, come se la persona che in quel momento gli era davanti, era qualcuno che non conosceva, che non aveva mai visto, ma i suoi capelli erano raccolti nella stessa crocchia di sempre e il mantello verde appuntato sul petto era quello che le aveva visto indossare spesso.

«C’è puzza di nicotina qui dentro.»

«Come mi hai trovato?» fu l’unica cosa che gli parve sensato chiedere, ignorando l’affermazione della donna.

«Grazie al tuo abbonamento a La Gazzetta del Profeta

«Ah.» Quel giornale era inutile, pieno d’insensatezze e di futili speranze, e aveva sempre saputo che un giorno o l’altro gli avrebbe causato problemi, ma pensava più a complicazioni emotive e sentimentali, non a visite che non voleva ricevere.

Era stato stupido, doveva ammetterlo, se loro sapevano come raggiungerlo, poteva scoprirlo chiunque, era ovvio.

Quello era un buon motivo per smettere di riceverlo, si disse mentre fissava la strega sfilargli accanto, sorridente e malinconica.

«Cosa ci fai qui?»

L’anziana donna dapprima non rispose, si guardava intorno forse in cerca di qualcosa o forse di niente, scrutava ogni angolo della stanza, di quello che poteva vedere, come se volesse trovare pezzi di lui tra le pareti, di un lui che non conosceva, o almeno non conosceva più. Poi voltò soltanto il viso per fissarlo, mentre il corpo rimaneva immobile: «Non rispondi alle mie lettere.»

«Ho scelto di non avere più alcun contatto col passato.»

Stavolta Minerva girò tutto il corpo, piegando la testa continuò a fissarlo, curiosa e forse triste, poi la vide sorridere, un sorriso appena accennato, ma c’era, come quelli che riservava a Dumbledore e alle sue idee insensate. «E La Gazzetta del Profeta ti arriva per sbaglio, giusto?»

Colpito da quelle parole, cercò di passare oltre, di mostrarsi ancora una volta impassibile e con una maschera sul volto, forse era una nuova o ne aveva scelta una dal suo repertorio, ne aveva così tante nel suo catalogo che ormai neppure le distingueva più. «Minerva cos’è che vuoi, esattamente?»

«Oggi è Halloween.»

«Se sei venuta a dirmi questo, potevi benissimo risparmiare il viaggio. Lo so che giorno è. Perfettamente» e dolorosamente, avrebbe aggiunto volentieri, ma poi cosa sarebbe cambiato? Dentro di sé e fuori?

Voleva solo dimenticarsene. Nient’altro.

Era chiedere troppo?

Non era giusto che gli fosse permesso di voltare finalmente pagina? Di lasciarsi tutto alle spalle?

Non aveva sofferto abbastanza? Non aveva espiato più di quanto fosse stato necessario?

Voleva solo andare avanti. Nulla di più.

Eppure Minerva era lì davanti a lui, a ricordargli ogni cosa; il suo viso si era trasformato in un’onda del passato che gli si era abbattuta nuovamente addosso.

Era andato oltre Lily, oltre tutto, e lo aveva fatto grazie ad un altro paio di occhi verdi, e poi aveva perso anche loro. E oltre quelli non era ancora riuscito ad andare, inutile negarlo. Inutile mentire e raccontarsi favolette a cui neppure i bambini ormai credevano più.

E lui, alle favole, aveva smesso di credere da tempo. E persino ai sogni. O alla felicità.

Se avesse potuto bruciare le inquietudini e i dolori come poco prima aveva bruciato il giornale, tutto sarebbe stato più semplice.

E lui sarebbe potuto essere un nuovo se stesso. Costruirsi persino una nuova immagine del suo essere.

Niente più spia, niente più traditore, niente più Mangiamorte. E niente più assassino.

Soltanto Severus. Nulla di più.

Severus con il proprio bene e il proprio male, con le sue ombre e con tutto quello che di bello aveva da offrire. Nient’altro.

Smettila di sognare ad occhi aperti, Severus.

L’anziana strega si avvicinò, lentamente, e allungò una mano per sfiorargli il viso e sorridergli piena di apprensione e di quel sentimento di maternità che spesso aveva sentito provenire dal suo corpo. «Vi amate, lo so, ma è una situazione che vi porterà a farvi del male. Solo che ve ne farete ancora di più stando lontani.»

Snape s’irrigidì e poi vacillò appena, sgranando gli occhi si allontanò dalla strega, come se lo avesse colpito con uno schiaffo invece che con delle parole. «Tu… come…» e cercò di riprendersi, di infilarsi nuovamente la maschera e smentire quelle parole, ma sapeva che ormai i suoi gesti lo avevano tradito ed era troppo tardi per tornare indietro.

«Avete lo stesso sguardo vuoto e addolorato. Lo stesso bagliore di amor perduto.»

«Non è la stessa cosa.» Il mago raddrizzò il corpo, lievemente irritato per quel paragone: lui era l’amante, il terzo incomodo, qualcuno con cui rompere la routine coniugale, non poteva per niente paragonare le loro condizioni e, anzi, equipararle così facilmente.

«Severus...» la strega fece un passo indietro, e poi un altro, e andò a sedersi sulla poltrona dov’era stato lui fino a pochi minuti prima, quasi stanca di lottare contro tutte le complicatezze della vita, e di quelle che le persone si creavano inutilmente. «Non puoi incatenare l’amore attraverso i contesti che lo compongono. Non può essere razionalizzato.»

«Minerva, con tutto rispetto, ma non ho alcuna voglia di perdere tempo in discorsi filosofici. I contesti, come li chiami tu, hanno una certa importanza, soprattutto dove ci sono una famiglia e una persona che può distruggerla. Non puoi parlare semplicemente di contesti.»

«Se lui non fosse sposato, cosa faresti?»

«Sarebbe diverso. Tutto diverso.»

«Quindi vivresti con lui? Sareste felici?»

«Forse o forse no. Ma lui è sposato.»

«Vedi, questo è un contesto senza valore, perché vi amate, ed è questo che conta.»

«Minerva, sei impazzita, per caso? Ti è successo qualcosa quando me ne sono andato?» Snape si mosse appena, la testa che vagava per la stanza per guardare qualsiasi cosa che non fossero gli occhi dell’anziana strega nascosti dietro gli occhiali squadrati. «Non posso credere che tu lo stia dicendo davvero. Che ci creda davvero a queste parole.»

«Il mio primo amore era un Babbano che non ho voluto sposare per non fare la stessa vita di mia madre rimpiangendo il vivere senza magia, e di mio padre che ha dovuto mentire per anni per nascondere la nostra “condizione”, venendo meno al suo essere un uomo di Dio. E ho continuato a tenerlo nel cuore finché non è morto.» Minerva pronunciò una parola dopo l’altra senza neppure prendere fiato, senza distogliere lo sguardo da lui, fissandolo con decisione, quasi non sbattendo le palpebre, e si torturava le dita come se il ricordo ancora l’addolorasse.

Severus smise di guardare la stanza e fissò gli occhi in quelli della strega, storse un po’ la testa prima di parlare: «Se volevi sostenere la tua tesi, avresti dovuto scegliere un esempio diverso» e la donna per un attimo sorrise, quasi iniziò a ridere senza, però, smettere di torturarsi le mani. «Se fosse stato un mago, lo avresti sposato, e la tua teoria sui contesti va piuttosto a farsi fottere, Minerva.»

«Lo so.»

«Lo sai?» drizzò la testa alzando un sopracciglio, curioso, e in attesa che dicesse altro. «Comincio a fare fatica a seguirti, sinceramente.»

«Non guardarmi come se fossi Albus!» Snape spostò di nuovo la testa, all’indietro, non capendo cosa volesse intendere: non la stava guardando in nessun modo, tantomeno non come guardava quel vecchio pazzo quando sputava un’insensatezza dietro l’altra. «Lo stai facendo di nuovo.»

«Non ti guardo come Albus. Tu non sei Albus» andò per un attimo a sistemare un ciocco di legno che era caduto in un angolo, e lo fissò per alcuni istanti mentre si accendeva un’altra sigaretta. «Fortunatamente» aggiunse, continuando a guardare le fiamme che si ravvivavano, sputando fuori un po’ di fumo nero prima di buttarla quasi intatta. «E non voglio parlare di Albus Dumbledore, perché avrei molte cose da dire su di lui» e si voltò brandendo l’attizzatoio come se quel nome gli avesse tirato fuori anni e anni di rabbia.

«Beh, Severus, l’hai detto tu che non sono lui, quindi metti giù quell’affare, per Godric!»

«Oh… scusa.»

«Comunque nemmeno io voglio parlare di lui, anche se avrei molto da dire.»

Snape si allontanò lasciandola sola per un paio di minuti, quel nome lo aveva turbato più di quanto avrebbe ammesso, come se già l’essere il 31 di ottobre e l’essere solo non fossero stati abbastanza.

«Tieni» e le porse un bicchiere che riempì non appena l’anziana strega l’ebbe afferrato.

«Whiskey. Alle nove di mattina. Sei serio?»

«Se devo continuare a scambiare confidenze d’amore con te, credo che mi serva. E che serva anche a te.»

Mandarono giù una sorsata e poi si ritrovarono entrambi a ridere, e continuarono a parlare come due vecchi amici che si rivedono dopo anni e si raccontano storie della loro vita. Beh, più lei di Severus che per la maggior parte del tempo ascoltava bevendo il liquore.

«Tutto mi sarei aspettata nella vita, tranne parlare di questo con te.»

La bottiglia era ormai finita, anche se in realtà aveva bevuto più lui della McGonagall, e alle dieci del mattino non era una cosa positiva.

Non il 31 di ottobre.

Non a parlare – a sentir parlare – di Harry Potter.

«Senti, Severus» la strega si fece all’improvviso seria, bevendo l’ultimo sorso di liquore che ancora aveva nel bicchiere, guardandolo spegnere l’ennesima sigaretta. «È vero, è sposato, e questo complica tutto, ma non lasciare che questo distrugga quello che provate l’uno per l’altro, non sei mai stato uno che si arrende. O si nasconde.»

«Ti sbagli, Minerva, io mi sono nascosto per anni. Ho nascosto una grossa parte di me dietro un muro di nero e di niente, dietro un cumulo di maschere che mi hanno soltanto fatto odiare.»

«E allora cambiala questa cosa. Smettila di nascondere te stesso e di nascondere i tuoi sentimenti, non l’hai già fatto abbastanza?»

«Già,» ma quella parola gli uscì più amara di quanto volesse, e forse voleva proprio che fosse così, che in tre sole piccole lettere e un tono di rassegnazione, fossero riassunte tutte le delusioni che avevano attraversato la sua vita.

«Lui ti ama.»

«L’amore a volte non basta. È soltanto una parola che si dice o l’aggrovigliarsi di due corpi in poche notti l’anno.»

«Torna a casa, Severus. Torna a casa con me, e lotta affinché non sia più soltanto una parola. Mi fa male vedervi così.»

«A me vedi poco.»

«Ma vedo Harry e so che quello che vedo in lui è anche in te.»

«Non voglio che soffra, che perda tutto. Non voglio far soffrire Ginny Weasley o la sua famiglia.»

«E credi che dividere la vita con qualcuno e amarne un altro non faccia soffrire entrambi? Le menzogne fanno soffrire, Severus, dovresti saperlo.»

Snape sospirò sentendosi l’animo sconfitto e pesante, e tornò davanti al camino per stringerne la pietra ancora una volta, quasi con disperazione, come se aggrappandosi ad esso, non sarebbe scivolato nella realtà di quelle parole e di tutta quella situazione.

Perché si era dovuto innamorare proprio di lui? Di tutte le persone possibili proprio di quel dannato moccioso cui aveva rovinato la vita.

E se proprio il destino gli avesse riservato quell’amore, perché non glielo aveva messo davanti agli occhi prima? Appena pochi mesi per evitare che tutto si complicasse ancora.

Non c’è mai niente di facile per te, vero, Severus? Non c’è mai niente di facile nella vita.

«Non so che fare, Minerva,» ma continuava a scrutare i colori delle fiamme, sperando che prima o poi si facessero talmente alte da divorarlo completamente. «Lui è il Ministro della Magia.»

«E allora?»

«Allora?!»

«Già, allora. Non è mica il Papa, ed esiste il divorzio.»

«Sei molto brava a semplificare le cose» e sorrise, abbassando la testa e le spalle come se qualcuno lo avesse caricato di un improvviso ed invisibile peso, e se lo sentiva addosso davvero, se lo sentiva da tempo a spingerlo sempre più a terra fino ad ascoltare ogni passo in lontananza, ogni voce e ogni singola emozione che lui sentiva di non poter vivere.

«Sono venuta qui per questo!» e ridacchiò facendogli sentire che tutto poteva essere davvero così semplice. «Torna a casa» ripeté ancora una volta, facendosi di nuovo seria, convinta e sperando di convincere anche lui, con tutto l’amore di cui era capace e con tutto il bene che, nonostante in passato lo avesse messo in discussione, era ancora lì, adesso come allora e come sempre.

Si alzò dalla poltrona e lo raggiunse vicino al camino, lì dove il volto era rivolto a terra a guardare quel pavimento che si dilatava e si restringeva, e le mani ancora schiacciate sulla pietra, e ne prese una tra le sue segnate dal tempo, da quelle pieghe e vene che disegnavano tutta una vita, e la strinse, forte, sentendola fredda nonostante il mago stesse davanti al fuoco.

«Severus…» il mago alzò appena il volto per guardarla. «Non chiuderti nuovamente in te stesso. Non lasciare nuovamente scorrere la vita e basta,» poi si drizzò, scostando le mani dal camino e da quelle dell’anziana strega, osservandola appena prima di allontanarsi da lei, dalle sue parole, e da tutto quello che significavano. Dalla realtà che emanavano come un profumo troppo forte e nauseante.

«Hai paura di ferire gli altri, lo capisco, ma così continui a ferire soltanto te stesso. E gli altri finirete per ferirli comunque mentendo.»

«Non dipende soltanto da me, Minerva. Non conta solo quello che voglio io.»

«Dovresti chiedergli cosa vuole lui, cosa vuole davvero.»

«Il volere non basta.»

«Volere è potere, te l’hanno mai detto?»

«Non ho mai amato queste frasi fatte, perché nella realtà non si adattano ad ogni cosa. Le situazioni cambiano. Le persone cambiano.»

«E tu? Tu sei cambiato? Vuoi cambiare, Severus? O vuoi continuare ad essere una pagliuzza d’oro nascosta sotto strati e strati e strati di stoffa nera e mura impenetrabili?»

Snape osservò il mondo fuori la finestra, quella porzione di casa dove si vedeva un bosco che si estendeva fin dove non lo sapeva, non si era mai spinto fino là, e in quel momento pensò che gli sarebbe piaciuto immergersi in un groviglio di rami dove c’era soltanto il rumore degli animali e null’altro.

Si girò alcuni secondi verso di lei, poi tornò a scrutare quello che c’era all'esterno: voleva continuare ad indossare una maschera dietro l’altra o voleva cambiare davvero? O meglio, essere quello che era davvero?

Fissò per un attimo il suo riflesso sul vetro, quel volto più scavato del solito e così triste, come poche volte si era visto, e lo sfiorò, disegnandone con l’indice ogni contorno, ogni ruga, e ogni dolore invisibile, e ogni angolo che gli aveva toccato e baciato, sentendosi per un attimo le sue mani sulla pelle e le sue labbra umide che gli sussurravano parole che non ricordava più.

Lui era già cambiato. Lo sentiva nei battiti nel petto. Nei sogni che poteva davvero realizzare. E nelle paure di perdere quell’amore che mai aveva provato.

Era cambiato più di quanto avrebbe ammesso, nel profondo, ma non aveva comunque abbandonato il suo vecchio se stesso, quella parte razionale e timorosa, quella parte di buio che sempre lo avvolgeva come una fitta nebbia. Forse non era davvero cambiato, forse, semplicemente, aveva tirato fuori quello che dentro aveva sempre avuto, quei pezzi che avevano sempre composto il suo essere, ma che aveva relegato nel punto più profondo della sua stessa anima.

Era cambiato. Era se stesso. Era un assetato che si era tirato fuori dal pozzo.

“Non conosco chi sono in realtà. Probabilmente non l’ho mai saputo.”

«Torna a casa.» Minerva lo disse per la terza volta, senza essersi spostata di un pollice, lì, davanti al camino, che lo guardava perdersi in riflessioni e in quell’altrove oltre la finestra, e lo ribadì per la quarta volta mentre dal mantello tirò fuori un piccolo sacchetto di cuoio e lo posò sul tavolino che riluceva colorato dalle fiamme. «Quando vuoi, ma per favore, torna» e senza aggiungere nient’altro, camminò verso la porta ed uscì. Semplicemente.

Neppure Snape disse nulla, e nemmeno la guardò mentre si chiudeva la porta alle spalle, sentì solo il rumore, soltanto passi che pian piano svanivano.

Prese il sacchetto che gli aveva lasciato Minerva McGonagall senza neanche vedere cosa contenesse, se lo infilò in tasca e uscì anche lui.

 

*

 

Aveva sempre amato il fresco dei suoi Sotterranei, l’umidità che gli si appiccicava addosso, eppure, in quel momento, mentre camminava, cercava ogni angolo riscaldato dal sole, andava qua e là per le stradine sperando di trovare un po’ di calore che gli dissipasse i pensieri e gli sciogliesse quelle sensazioni che gli stringevano l’anima.

Sapeva, però, che non poteva essere così semplice.

Il proprietario di un’erboristeria lo salutò, era un anziano mago che più volte aveva ascoltato i suoi consigli, migliorando alcuni infusi e pozioni, anche se molte di più erano state le cose che aveva imparato lui stesso da quell’uomo, piante del posto che non conosceva e antichi distillati che risalivano a ricette tramandate per secoli.

Aveva ascoltato ogni sua parola con molto interesse, appuntando di tutto, e preso semi che l’anziano mago gli aveva regalato «per quando tornerai a casa», spiegandogli come andavano coltivati nei minimi dettagli.

Ricambiò il saluto senza dire una parola, muovendo appena la testa, e continuò a camminare costeggiando alcuni edifici dall’architettura tipicamente medievale, fino ad una lunga discesa che portava all’entrata del paese. O all’uscita, in quel caso.

Proseguì, passo dopo passo, fino alla zona più rurale, là dove foreste si perdevano nel buio e sentieri s’inerpicavano sopra colline e rocce aprendo panorami che spesso gli avevano calmato lo spirito distogliendo ansie e ricordi.

Prese una strada sterrata coperta di foglie di tanti colori, le sentiva scricchiolare sotto i piedi, e dov’era passato vedeva il rosso confondersi con il marrone e poi con il giallo, e perdersi tutti tra la terra umida. Ne sentiva il profumo, e anche di quelle lievi sporcature di verde che s’intravedevano qua e là come piccole e flebili speranze che tentavano di uscire.

O come minuscoli riflessi di un paio d’occhi che faceva fatica a dimenticare.

E quel giorno dannato glieli ricordava entrambi. Gli ricordava il dolore di quelli che aveva contribuito a far spegnere per sempre e di quelli che amava e non poteva avere accanto a sé.

Tirò un calcio ad un sasso, rabbioso, mentre un leggero vento si alzava e gli s’insinuava sotto la stoffa, dalla nuca fin su tutta la schiena, facendolo rabbrividire appena.

Quando tornerai a casa...

Già, quando? Ci sarebbe tornato?

Anche Minerva glielo aveva chiesto e richiesto quella stessa mattina, quasi implorato, e se n’era andata ascoltando il suo silenzio dopo averlo invocato un’ultima volta, e lui non aveva saputo rispondere a lei come all’anziano erborista: cosa avrebbe dovuto dire?

Stava bene lì, aveva trovato persone gentili e simpatiche che spesso si facevano gli affari propri, persone con cui parlare o con cui non dire niente, cui non importava niente di lui, del suo passato e di cosa avesse fatto. Lì era semplicemente lui, e nessuno lo giudicava per quello, quindi perché tornare in un luogo dove c’era ancora chi lo guardava con odio e disprezzo?

Dove ogni giorno avrebbe visto il film di una vita che desiderava ma che non avrebbe mai potuto avere?

Scalciò un altro sasso e poi ancora uno e altri, finché ne trovava sulla strada nascosti tra le foglie.

Quel bosco aveva un’entrata? Si chiese. Era proprietà di qualcuno? Severus non lo sapeva, si limitava a guardare da una parte all’altra alla ricerca di qualche spiraglio tra la vegetazione e le recinzioni ai lati della stradina.

«Sai, Severus, io sono vecchio d’età,» si voltò e vide l’anziano erborista con una bacchetta bianchissima tra le dita che muoveva un po’ tremante, fin quando tra gli alberi non iniziò a formarsi un arco. «Ma tu mi sembri così vecchio dentro.»

Quelle parole non gli fecero per nulla piacere, ma rimase in silenzio, non voleva mancargli di rispetto, anche se quella mattina sembravano tutti avere qualcosa da dirgli, qualcosa di non richiesto, si affrettò a pensare: non aveva mai amato le intromissioni nella propria vita.

«Andiamo» e con un gesto della mano lo esortò a seguirlo sotto quell’apertura che si era creata tra i rami, ma Snape esitò per qualche secondo, era andato lì per rimanere da solo, e invece si ritrovava per la seconda volta in quella stessa mattina con qualcuno che non aveva alcuna intenzione di rimanere muto, ma, anzi, di continuare a ficcare il naso nei propri affari.

L’anziano lo guardava, perplesso, mentre lui rimaneva immobile a pensare se andarsene per conto proprio o seguirlo.

Alla fine decise e l’erborista sorrise, compiaciuto, mentre Snape trattenne a stento una smorfia.

«Non sono vecchio dentro.» Dopo aver camminato per dieci minuti nel completo silenzio, Severus lo ruppe, volendo ribattere a quelle parole perché lui non si sentiva per niente in quel modo.

«Certo che lo sei. Non parli mai, sei sempre in casa e anche quando esci sei sempre immerso nel tuo mondo.»

«Questo vuol dire essere riservati, non vecchi. Amo la solitudine. E il silenzio. Non ci trovo nulla di male.»

«Vivi nel tuo limbo di routine e banalità, di piccole cose che conosci e non ti fanno paura.» L’erborista continuava a parlare, come se non avesse ascoltato neppure una sillaba che aveva pronunciato, oppure, semplicemente, facendo finta di non aver capito, perso nel suo discorrere.

«Siete tutti così esperti della vita, che sapete tutto di quella degli altri, eppure continuate ad avere rimpianti, dolori per cose fatte o non fatte nel passato. Liste di errori compiuti. Tutti così sapienti delle vite altrui. E tutti così arroganti nel voler indirizzare le vite degli altri.»

Al diavolo il rispetto, al diavolo tutto, chi era quell’uomo per dirgli chi lui fosse e cosa dovesse fare? Non sapeva niente di lui. Niente!

«Arroganti, forse. Sapienti, assolutamente no.» Nonostante tutto, l’anziano continuava a sorridere bonario, e quello lo irritava a tal punto che gliele avrebbe strappate quelle labbra. «Proprio perché abbiamo sbagliato tanto nella vita che possiamo essere così arroganti con i giovani che abbiamo davanti.»

Sembrava un ragionamento molto sensato, tentò di convincersi: i loro errori potevano essere insegnamenti per gli altri, ma lui continuava a mal sopportare quelle intromissioni, soprattutto perché della propria vita non conosceva niente e non conosceva niente di lui, di quello che era stato, di quello che provava, di ogni singolo frammento che lo componeva.

«Allora, dimmi» parlò all’improvviso, fermandosi dopo che per un po’ avevano ripreso a camminare, «Cos’è che dovrei fare esattamente?» la sua voce, però, continuava a tradire irritazione, e se ne accorse anche l’anziano erborista che gli sorrideva ancora, facendo finta di niente.

«Torna a casa» gli rispose. «Questo non è il tuo posto. Qualunque sia il motivo che ti ha fatto fuggire, affrontalo e basta.»

«Io non sono scappato,» ma poteva davvero affermare il contrario?

Lo aveva chiesto lui, era vero, aveva voluto provocarlo, ma quelle parole lo avevano in un certo senso disturbato perché avevano lo stesso significato di quelle che aveva pronunciato Minerva non molto tempo prima.

«Sto bene dove sto» parlò, cercando di mantenersi calmo. «E me ne vado da qui, magari dove non incontrerò nessun altro con le stesse intenzioni di dirmi cosa devo o non devo fare» e si voltò, allontanandosi da quella porzione di bosco senza aggiungere nient’altro e senza più ascoltare l’anziano erborista che lo pregava di restare.

Proseguì sui propri passi facendosi strada tra gli alberi che si facevano sempre più fitti, ogni tanto si aiutava con la bacchetta, ma mai si era guardato indietro, soltanto avanti, verso una meta che neppure lui conosceva.

Continuò ad arrampicarsi, abbassandosi e scavalcando spesso grossi rami che spuntavano dal terreno, ma quell’aria umida e quegli odori lo invasero così tanto che avrebbe camminato per giorni interi sentendosi avvolgere completamente dal buio che veniva scalfito appena dai raggi del sole.

Le foglie rosse erano così cupe e sanguigne che sembravano cuori pulsanti e gli sembrava persino di sentirne il battito e lo scorrere di quel fluido cremisi e caldo.

Per un attimo tornò ad altre foglie rosse e ad altri passi tra una foresta, a quella casa che odorava di tutto quello che aveva sempre voluto e che per un attimo gli era sembrato di possedere, lì tra le braccia di Harry, a quando lo aveva supplicato di fare l’amore con lui e di strappargli il cuore dal petto e tenerselo, farlo per sempre suo, e in un modo o nell’altro lo aveva fatto, l’aveva preso perché lui aveva voluto donarglielo completamente, anche se faceva male da respirare appena.

All’improvviso si sentì stanco, le gambe pesanti che gli dolevano in più punti, ma era niente in confronto al vuoto che si sentiva dentro, a quel profondo buco che lo stava inghiottendo inesorabilmente.

Che cosa avrebbe dovuto fare?

Si gettò ai piedi di un grosso albero, esausto, e si lasciò abbracciare dalle foglie e dalla terra, e dai molteplici aromi che si sprigionavano tutto intorno, e provò a riconoscerli, uno ad uno, per cercare di distrarre la propria mente e, soprattutto, di acquietarsi l’animo che sentiva sfilacciarsi come una vecchia coperta.

Un piccolo uccello era appollaiato su di un ramo e lo fissava, piegando ogni tanto la testa da una parte e poi dall’altra, non ne riconobbe la specie, o forse non voleva impegnarsi a farlo, ma soltanto starsene lì a farsi guardare. A farsi beccare così nel profondo da far fuoriuscire tutto quello che aveva al suo interno, e marcire lì, nella carne e nello spirito, mentre altri banchettavano con i suoi resti.

«Che hai da guardare?» L’uccello si spostò appena a sinistra. «Che dovrei farei secondo te? Hanno tutti detto la loro, tu che ne pensi? Forse la tua risposta è migliore delle altre» e si ritrovò a ridacchiare per quell’assurda situazione: no, non stava bene se era finito a parlare con gli animali. Non stava bene per niente, pensò, continuando però a ridere mentre lo guardava con espressione che sembrava interrogativa.

Volò su un ramo più basso e più vicino, e continuava a fissarlo sempre muovendo la testa, poi aprì il becco e iniziò a cinguettare, anche se era più un suono stridulo il suo, quasi fastidioso, tanto che avrebbe voluto cacciarlo via, ma qualcosa lo spinse a rimanere immobile e studiarlo mentre graffiava l’aria tutta intorno e si avvicinava ancora.

Poi, all’improvviso, smise di emettere suoni e volò via, lasciandolo di nuovo solo.

«Questa sarebbe la tua risposta?» ma il bosco rimase in silenzio come un muro crollato in più parti che faceva filtrare la luce del sole.

In quel momento, però, si scoprì nuovamente a non volere il calore dei suoi raggi sul volto né sulla pelle, voleva di nuovo sentire tutto il freddo sotto gli abiti impregnati di umidità. Solo per qualche minuto, come se nulla fosse cambiato e lui si trovasse ancora una volta nelle sue stanze al Castello con il camino perennemente spento, o a pezzi nella solitudine della Foresta Proibita.

Soltanto per un po’.

Chiudere gli occhi, raggomitolarsi su se stesso e lasciarsi trasportare dal passato secondo dopo secondo, farsi avvolgere e contemplare ogni pezzo di vita che gli scorreva davanti.

Riaprì gli occhi subito dopo, di scatto, ormai stanco di ancorarsi ancora a quello che era stato, al dolore delle sue scelte e al rimpianto di quello che avrebbe potuto fare – o non fare.

E continuò a tenerli aperti, spalancati e vigili, mentre prendeva il sacchetto di cuoio che le aveva lasciato Minerva.

Se lo rigirò a lungo tra le mani, non sapendo cosa contenesse né che cosa avrebbe dovuto farne, lo guardava, semplicemente, da un lato e poi dall’altro, ispezionandone ogni cucitura come se si aspettasse un tranello da un momento all’altro, ma era Minerva che glielo aveva dato, come poteva anche solo pensare che volesse condurlo in una trappola?

Sospirò, riflettendo su quanto quei pensieri fossero idioti, neanche l’essere stato una spia costantemente in pericolo, avrebbe potuto giustificare qualsiasi sospetto verso l’anziana strega. Come diavolo gli era venuta in mente una cosa simile?

Se fosse stata lì, lo avrebbe sicuramente rimproverato o, cosa più probabile, gli avrebbe lanciato contro qualche fattura. Quel pensiero lo fece ridere e gli riportò alla mente tutti i loro battibecchi per il Quidditch, a quanto quei momenti spensierati lo avevano aiutato a rimanere a galla e a non soffocare nella sua stessa oscurità.

Iniziò ad allentare i lacci che chiudevano il sacchetto e in pochi istanti una nuvola grigiastra sembrava farsi strada dall’interno fino alle sue dita, per poi farsi bianca e addensarsi in una piccola pergamena che si srotolò da sola, senza che lui l’avesse neppure sfiorata.

Era vuota, bianca come il fumo che l’aveva generata, e Severus non ne capì il significato, la guardava e basta, poi sorrise e la toccò appena.

Pian piano, lettera dopo lettera, la carta iniziò a riempirsi di linee nere eleganti che si ergevano dal nulla come torri medievali fin quando comparve in fondo un nome, strappandogli un altro sorriso.

 

Sei un’anima notturna, Severus, ma ti prego di non lasciar andare quella luce che brilla così intensamente dentro di te.

Di non lasciare andare la tua vita.

 

Rilesse ancora una volta quelle poche righe, poi, semplicemente rigirò il sacchetto, facendo scivolare il suo contenuto: non appena quello che sembrava un anello toccò la sua mano, iniziò a vorticare su se stesso, poi sparì.

   
 
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