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Autore: Desma    10/09/2017    3 recensioni
Cliantha Pumpkinseed ha vissuto i primi diciannove anni della sua vita nel tepore e nella protezione dell'amore dei genitori, ma, ora che è rimasta sola, per guadagnarsi da vivere lavora come cameriera alla taverna Il Puledro Impennato nella sua città d'origine, Brea. Il pessimo ambiente di lavoro e i fantasmi di una felicità brutalmente interrotta la stringono come un cappio, ma l'incontro con uno speciale ospite della taverna le darà l'occasione di cambiare le carte in tavola.
Dal capitolo 3:
(...)-E sia, ragazza, ma ricorda che i nani sono poco inclini a dimenticare il male subito, così come il bene ricevuto. Se anche solo una sillaba scivolerà fuori dalla tua bocca, saprò per certo da chi tornare a riscuotere i danni. Sono stato chiaro?
-Limpido- rispose Cliantha.
Questa storia ripercorre i fatti narrati ne Lo Hobbit, appoggiandosi all'interpretazione cinematografica di Peter Jackson; non ha alcuna pretesa, ma solo la speranza di intrattenere e di spronarmi, con la pubblicazione, a mantenere un ritmo di scrittura il più regolare possibile (compatibilmente con gli impegni scolastici).
Genere: Avventura, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bilbo, Gandalf, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimer: La proprietà dei personaggi originali della Terra di Mezzo che verranno citati in questo testo non mi appartengono, ma sono il frutto della geniale mente di John Ronald Reuel Tolkien e del riadattamento cinematografico di Peter Jackson, di cui verranno citati alcuni momenti chiave.




A parlare delle cose belle e dei giorni lieti si fa in fretta,

e non è che interessi molto ascoltare;

invece da cose gravose, emozionanti o addirittura spaventose

si può trarre una buona storia, o comunque un lungo racconto.


J.R.R. Tolkien






Dale, 2770° anno della Terza Era


-Coraggio Cliantha- la incitò Alyssa -Sbrigati!

La sera stava scendendo velocemente e i fuochi appiccati dalla bestia ancora ardevano implacabili tra le strade, dentro gli edifici in pietra che non erano ancora crollati e nei giardini delle ricche case della città alta, la più colpita dalla furia del mostro.

-Madre- la chiamò la bambina, correndo nella sua direzione, saltando i detriti di pietra, legno e mattone che intasavano la via -Arrivo.

Portava con sé una sacca colma di tutto quello che era riuscita a prendere dalla loro casa, minacciata dalle fiamme che, dalla città alta, si stavano estendendo verso quella bassa, non fortificata e abitata dalle classi meno agiate.

Non vi era stato modo di prevedere una simile catastrofe, soprattutto in quegli anni di prosperità che la ricchezza di Erebor aveva portato, e ora che si era abbattuta su di loro, distruggendo le loro abitazioni e facendo piovere fiamme dal cielo, chi non era perito tentava la via della fuga, portandosi via quanto poteva. Alyssa, temendo che oltre dalle fiamme della bestia la vita dell’unica figlia e la propria sarebbero state minacciate anche dai sopravvissuti disperati, desiderava uscire il prima possibile dai confini della città.

-Sei riuscita a prendere tutto?- le chiese, sollevando la sua sacca e mettendola dentro al carretto in cui avevano caricato i loro averi. L’animale attaccato al carro, un grosso cavallo da tiro dal manto grigio, era stato bendato, ma l’odore di fumo lo metteva in allarme e i suoi zoccoli battevano nervosamente il selciato della strada.

-Io credo di sì- rispose, incerta, la bambina, dai cui occhi iniziarono a scendere lente delle grosse lacrime e il labbro le tremò.

Il cuore di Alyssa si strinse in una morsa davanti all’immagine della sua adorata bambina sconvolta dalla paura: -Tesoro mio- le sussurrò ad un orecchio, mentre la stringeva forte a sé -Andrà tutto bene. Siamo ancora vive e insieme e la mamma ti porterà in un nuovo posto, lontano e bellissimo. Va bene?

-E i miei amici?- chiese Cliantha tra i singhiozzi.

-Forse li ritroveremo lungo la strada- cercò di incoraggiarla la madre, spingendola a salire sul davanti del carro, per poi afferrare le redini del cavallo e condurlo a piedi.

Il cammino che Alyssa dovette intraprendere per portare la sua famiglia al sicuro fu molto più lungo di quanto si era immaginata: sotto alle zampe e al fuoco del drago, diversi edifici erano crollati, chiudendo le strade e rendendo impossibile il passaggio del carro, costringendola a imboccare vie secondarie. La paura che qualcuno dei suoi concittadini le aggredisse per impossessarsi del carro o del cavallo fece scorrere il tempo più lentamente, facendola sobbalzare al minimo rumore.

Per loro fortuna, nella confusione e nel caos della fuga, nessuno sembrò curarsi di loro e, finalmente fuori dai confini di Dale, la folla si disperse nelle piane tagliate dal fiume o dentro al Bosco Atro o, chi possedeva una barca, lungo le correnti del Flutti.

Alyssa poté tirare un sospiro di sollievo e, tolta la benda al cavallo, si sedette accanto alla figlia, spronando l’animale al trotto.

-Dove andremo adesso, Madre?- chiese la bambina, infilandosi sotto al suo braccio e accoccolandosi sul suo seno.

-Lontano- rispose lei -Dove saremo al sicuro- prese le redini con una mano sola e con l’altra accarezzò la testa coperta di folti capelli biondi di Cliantha, lasciandole un bacio sulla tempia.

-E dov’è questo posto?- insistette la bambina.

Alyssa emise un lungo sospiro: era stanca e provata, le immagini delle fiamme che scendevano dal cielo come l’ira degli dei e del ventre squamato del drago che sorvolava le loro teste continuavano a ripresentarsi nei suoi occhi ad ogni sobbalzo delle ruote. Non era in grado di sostenere le domande insistenti della figlia, ma, dall’altra parte, sapeva che Cliantha era scioccata tanto quanto lei e non voleva metterla ancora più in difficoltà, così rispose: -Dove più ci piacerà. Ci fermeremo solo quando avremo trovato una terra che ci faccia sentire a casa, che ne dici?

Ma l’unica risposta che la donna ricevette fu il leggero russare della figlia, che, stremata dalle emozioni, era crollata sulla sua spalla e dormiva un sonno pesante e inquieto.

Alyssa ringraziò il Cielo di quel regalo e continuò a dirigere l’animale lungo la pianura.

Al calar del sole, la sua strada si incrociò con quella di un esodo di nani, molti dei quali feriti e malconci, scacciati anch’essi dalle loro case a Erebor, ormai nuova sontuosa tana del drago.

La donna arrestò il carro e osservò quella grande folla, da cui si ergevano molti lamenti: chi piangeva un amico o un parente, chi lamentava il dolore per una ferita e chi rimpiangeva la propria terra e le proprie radici, sradicate da un avido usurpatore.

Alyssa dovette fare del proprio meglio per trattenere le lacrime che quel triste spettacolo le procurava: i nani erano sempre stati dei nobili e onesti vicini di casa per gli abitanti di Dale, che da generazioni avevano stretto con loro dei solidi patti di amicizia e commercio, e agli occhi della donna quella tragedia era stata una tremenda ingiustizia del fato.

Al sopraggiungere di una barella su cui un bambino nano senza più una gamba gridava di dolore, Alyssa non poté trattenersi dal scendere dal carro e corrergli incontro: -Aspettate- urlò ai due nani che sorreggevano la barella e che la fulminarono con uno sguardo carico d’astio -Sono una guaritrice- disse Alyssa quando li ebbe raggiunti -Lasciate che lo aiuti!

-Chi sei, donna?- tuonò una voce alle sue spalle, bloccandola prima che potesse toccare il bambino.

Alyssa si voltò e vide il nano che le aveva parlato: era giovane e vestito di abiti belli e di buona fattura, lunghi capelli corvini, impastati di sangue, gli scendevano lungo l’ampia schiena muscolosa e il suo viso era disegnato da lineamenti nobili e armoniosi.

-Sono Alyssa Pike- si presentò, accompagnando le parole a un inchino, dato che nel nano aveva riconosciuto il principe di Erebor -Sono una guaritrice e sono fuggita da Dale. Nel mio carro ho il necessario per impedire che il bambino sviluppi un’infezione o muoia dissanguato. Permettetemi di aiutarlo, mio signore.

Il principe la squadrò da cima a fondo, con il piglio severo di un capo, e le domandò: -E cosa vorresti in cambio del tuo servizio, Alyssa Pike?

-Nulla, mio signore- rispose quella -Non chiederei nulla a chi ha perso tutto.

Quella risposta sembrò colpire il nano, che si offrì di aiutarla nell’operazione e la seguì quand’ella condusse lui e i nani che trasportavano il suo paziente al carro.

-Madre…- chiamò Cliantha, svegliata dai rumori dei passi dei nani che si avvicinavano e dai lamenti del bambino.

-Va tutto bene, tesoro- la rassicurò Alyssa, correndo a frugare tra le cose nel carro per prendere l’occorrente per l’intervento -Prendimi l’olio di rosmarino dalla sacca, per favore.

La bambina annuì e aiutò la madre a prendere quanto chiesto, sotto gli occhi sorpresi del principe: -Ora tenetelo fermo, per cortesia- chiese Alyssa, imbevendo di olio un panno di lino, mentre i tre nani obbedivano alle sue indicazioni.

Quando il bambino fu saldamente immobilizzato, la donna espose la ferita e la strofinò con il panno bagnato d’olio; le urla di dolore del piccolo furono così forti da far vacillare per un istante il cuore del principe e i suoi occhi corsero alla bambina che, al fianco della madre, le preparava nuovi panni imbevuti di unguento. Il nano si sarebbe aspettato di vedere la piccola terrorizzata o sconvolta, ma quella non dava segno né di terrore né di turbamento, al contrario il suo volto era impassibile come una maschera di cera ed egli si fece coraggio e rinsaldò la presa sul paziente: se una bambina umana poteva resistere a quella scena straziante, anche lui avrebbe dimostrato la stessa fermezza.

-Tranquillo, piccolo- disse Alyssa, accarezzando la guancia leggermente barbuta del bambino -È quasi fatta.

La sua voce, tuttavia, tradì la tensione che provava per quello che sarebbe venuto dopo: le sue mani, infatti, ebbero un tremore quando estrasse da un vaso di coccio, accuratamente avvolto in una grossa pila di indumenti di lana, un oggetto affusolato e rilucente di una sinistra luce arancione che il principe, dopo qualche istante di incredulità, riconobbe come un coltello.

-Che cos’è quello?- chiese alla donna, ma quella non rispose e, silenziosa come un’ombra, appoggiò di piatto la lama rovente del pugnale sulla ferita aperta, che emanò subito un puzzo acre di carne bruciata.

Dopo un primo momento di folli grida, il bambino svenne e Alyssa poté terminare di cauterizzare lo squarcio senza il paziente si divincolasse. Quand’ebbe finito, con il volto pallido come un cencio e gli occhi cerchiati da profonde occhiaie, la donna ripose l’oggetto ancora rovente dentro il vaso e lo caricò sul carro, mentre i due nani, prodigatisi in ringraziamenti, tornavano tra la folla con il bambino sulla barella.

-Che cos’era?- ripeté il principe quando lui e la donna furono rimasti soli.

-Fuoco di drago- spiegò Alyssa, dandogli le spalle ancora intenta a sistemare le cose sul carro -Ho arroventato il coltello tra le fiamme di Dale. È una risorsa preziosa e lo terrà incandescente per giorni e giorni.

-Perché lo hai conservato?- domandò il principe, costringendola a girarsi e a guardarlo negli occhi, le cui pupille erano strette di rabbia e paura.

-Ero da sola con mia figlia- spiegò Alyssa, la cui voce aveva perso ogni intonazione -Avevo bisogno di sapere che avrei potuto difenderla e, all’occorrenza, accendere un fuoco per scaldarci.

Le dita del nano, che fino a quel momento avevano stretto in una morsa le braccia della donna, lasciarono la presa e scesero a sfiorarle le mani, che lei non ritrasse: -Dove siete dirette, tu e tua figlia?

-Non lo so... - ammise Alyssa, con la voce rotta, prossima a scoppiare in pianto, poi fu come se avesse avuto un’illuminazione e continuò a parlare: -Ho delle conoscenze a ovest, oltre le Montagne Nebbiose. Potremmo chiedere asilo lì.

-Allora verrai con noi- decretò il nano -I nostri passi ci conducono a Moria, ma potrai seguirci fino a quando le nostre strade non si divideranno e… che cosa fai?- tuonò il principe con quanto fiato aveva in gola, lanciandosi verso Cliantha che, come incantata dal coltello con cui la madre aveva operato, aveva aperto il vaso e vi stava infilando la mano sinistra.

Il principe afferrò la piccola e la strattonò lontano dall’oggetto, ma ormai era tardi e Cliantha urlava per il dolore della scottatura che si era procurata. Egli la strinse a sé nel tentativo di confortarla, ma il grido che quella piccola bocca emetteva non accennava a scemare; Alyssa intervenne, costringendola ad aprire le dita per valutare il danno, e sotto ai suoi occhi e a quelli del nano Cliantha mostrò una terribile piaga fumante a forma di triangolo che dal mignolo convergeva al pollice.

Brea, 2941° anno della Terza Era

La pioggia cadeva incessantemente da tutta la notte, trasformando le strade di terra battuta in trappole di fango appiccicoso, e non sembrava essere intenzionata a voler smettere. Le grondaie dei tetti vomitavano acqua incessantemente, creando, goccia dopo goccia, delle larghe pozze di fanghiglia diluita che macchiava i vestiti e inzaccherava le scarpe dei passanti che malauguratamente si trovavano nell’obbligo di dover camminare in strada.

Sfortunatamente per lei, Cliantha era una di questi e, mentre gli stivali affondavano nella palta fredda e viscida, con una mano stringeva il cappuccio del mantello sotto al naso, mentre con l’altra si teneva ai conci sporgenti delle mura delle abitazioni, trovandosi più volte a doversi aggrappare con entrambe le mani per evitare di scivolare.

Finalmente, dopo minuti di disagio tra il fango e l’acqua incessante, l’insegna della locanda presso cui lavorava come cameriera si stagliò contro il buio di quella mattina fredda alla luce di un fulmine e la ragazza venne accolta dalla sagoma del Puledro Impennato.

-Buongiorno- salutò, togliendosi il mantello zuppo e appendendolo all’attaccapanni accanto alla porta.

-Togliti gli stivali!- le urlò la signora Cactaceo da dietro il bancone, intenta a lucidare i boccali della birra, che poi disponeva sulle mensole alle sue spalle -Ho appena lavato il pavimento.

-Buongiorno Cliantha- borbottò tra sé la ragazza, mentre si sfilava gli stivali e li riponeva in un piccolo vano -Come stai stamattina? Hai fatto colazione?

-Che stai dicendo?- le urlò di nuovo il donnone, battendo la grossa mano grassoccia e rosa contro il legno di betulla.

Cliantha si alzò con studiata lentezza e le rivolse il più dolce dei suoi sorrisi: -Mi lamentavo del tempo, Dora.

La padrona del locale storse la bocca priva di metà dei denti, come se volesse dirle qualcosa, poi sembrò ripensarci e riprese a fare il suo lavoro: -Pensa a lavorare piuttosto che a lamentarti, non ti pago per fare quello che fa già il signor Cactaceo. Occupati delle stanze del piano di sopra e poi scendi a disporre la colazione per gli ospiti.

La ragazza emise un sospiro e andò nel retrobottega a prendere un paio di pantofole, uno spazzolone, un secchio per l’acqua e del sapone e salì le scale scricchiolanti che conducevano al piano superiore dove la locanda possedeva le stanze da letto degli ospiti e la camera privata dei padroni.

Le stanze si disponevano lungo un corridoio che attraversava longitudinalmente tutto l’edificio e si affacciavano su una balaustra che dava sulla sala principale del pian terreno, dove erano distribuiti i tavoli.

L’ultima stanza in fondo al corridoio, nascosta rispetto alla balaustra, era quella dei padroni da cui la ragazza, ogni mattina, sentiva il signor Angus Cactaceo russare come un vecchio trombone, smaltendo i postumi della sbornia. Cliantha ignorò, anche quella mattina, i fragorosi gorgoglii del padrone di casa e entrò nella prima stanza, vuota. Pulì il pavimento, rimosse la polvere dal comodino e dalla mensola della finestra, strofinò i vetri con energia e batté con foga i tappeti fuori dalla finestra. Rassettò e tirò a lucido ogni superficie e alla fine fece il letto con le lenzuola che la padrona aveva lasciato sul materasso.

Continuò così anche con le altre stanze non occupate e poi passò al corridoio, strofinando con lo spazzolone il pavimento di legno fino a quando la superficie non divenne uno specchio; conclusa anche quella mansione, la ragazza scese al piano inferiore e, riposti gli attrezzi per le pulizia, passò in cucina. La signora Cactaceo aveva finito di pulire i bicchieri e si trovava in cucina ad alimentare il fuoco che scoppiettava nel braciere della stufa in ghisa, sopra la quale grossi pentoloni di porridge e acqua per il tè bollivano.

-Il signor Cactaceo dorme ancora?- chiese la donna, con lo sguardo fisso nella luce arancione delle fiamme.

Cliantha andò alla credenza e iniziò a prendere piatti, tazze e bicchieri e a impilarli uno sopra all’altro sopra al piano di lavoro: -Sì- rispose -Quanti ospiti hanno chiesto la colazione?

-Quattro. Due il porridge, uno pane e marmellata e un altro carne secca e caffè.

La ragazza annuì, prese in fretta e furia la montagna di stoviglie che aveva accumulato e corse a disporli nella sala: non provava particolare simpatia per la signora Cactaceo, era una donna scorbutica, rozza e non mancava occasione di rinfacciarle quanto fosse stata generosa il giorno in cui aveva accettato di assumerla come cameriera nel suo locale dopo la morte di suo padre.

Tuttavia, nemmeno l’antipatia che Dora Cactaceo le infondeva, poteva impedirle di provare pietà per il modo in cui veniva trattata dal marito, un uomo pigro e violento con il vizio del bere.

Cliantha non poteva sopportare nemmeno di vederlo e il suo russare, per quanto fastidioso, era assai molto più tollerabile del suo puzzo di alcool e degli sguardi lascivi che le lanciava quando il caldo umido dell’estate la costringeva a indossare abiti che lasciavano le braccia scoperte.

Avrebbe voluto lanciargli una brocca sul viso rubicondo ogni volta che i suoi occhi acquosi e privi di intelligenza scorrevano sulla sua pelle o che la sua bocca marcia le parlava, il più delle volte chiedendole di raccogliergli qualcosa da terra o di versargli da bere.

Per sua fortuna, però, il signor Cactaceo trascorreva gran parte delle ore del giorno rintanato nel letto e Cliantha passava la notte nella casa dei suoi genitori.

-Non appena avrai messo da parte abbastanza per andartene, Cliantha- si ripeteva ogni sera la ragazza prima di coricarsi -Sarai libera di andare dove vorrai. Niente limiti. Niente vincoli.

E così trascorreva i suoi giorni nella locanda del Puledro Impennato, una delle più frequentate della città di Brea, al di qua (o al di là a seconda di chi lo raccontava) del Brandivino.

Anche quel giorno di acquazzone passò come gli altri, tra le pulizie, i servizi al tavolo, la lavanderia e le urla gracchianti della padrona di casa, fino a che scese la sera e venne il momento più animato della giornata, quello in cui gli uomini del posto vengono a bere per scaricarsi della fatica del lavoro e i viaggiatori entrano alla ricerca di un pasto caldo e di un boccale di birra fresco e schiumoso.

La pioggia battente, tuttavia, sembrava aver scoraggiato i più ad uscire in strada e la locanda era insolitamente tranquilla, fatta eccezione per gli habitué e gli ospiti delle stanze del piano superiore.

La signora Cactaceo si faceva in quattro per tenere l’umore alto e gioioso e invitare i suoi clienti a bere e la sua esperienza, acquisita con anni e anni di lavoro dietro a quel bancone, stava dando i suoi frutti, al punto che Cliantha aveva difficoltà a star dietro alle richieste di tutti e a portare nel minor tempo possibile a chi la birra, a chi il vino, a chi un piatto di zuppa.

Verso le nove della sera il campanello dell’ingresso tintinnò allegramente e il rumore dell’acqua che sgorgava dalle gronde entrò nell’ambiente rumoroso e ridanciano della sala principale: un nuovo cliente era arrivato a la signora Cactaceo corse alla porta per accoglierlo degnamente.

Cliantha era impegnata a spillare l’ennesima pinta di birra, quando il nuovo avventore fece il suo ingresso nel locale, ma lesse gli effetti del suo arrivo nei volti e negli sguardi degli altri clienti: molti di loro, infatti, notandolo, erano diventati più silenziosi, altri lo scrutavano di sottecchi attraverso il vetro dei loro bicchieri mentre fingevano di svuotarli e altri ancora bisbigliavano sommessamente tra loro, dicendosi chissà cosa.

Notando quello strano cambiamento, Cliantha attese che il nuovo venuto giungesse al bancone e lo studiò: la prima cosa che notò era che si trattava di un nano, cosa piuttosto insolita da quelle parti, ma non così rara da giustificare quella reazione. A giudicare dai capelli neri saltuariamente striati di argento e dalle sottili rughette che si diramavano dagli angoli esterni degli occhi, la ragazza dedusse che fosse prossimo a raggiungere la metà della sua vita, pur portando più che bene i propri anni, dato che la sua corporatura, nascosta sotto gli abiti da viaggio, sembrava armoniosa e atletica.

Il nano si avvicinò al bancone e con tono cortese e beneducato domandò un tavolo dove cui sedersi e mangiare.

-Naturalmente- rispose per lei la signora Cactaceo dall’ingresso, dove stava sistemando il mantello fradicio del nuovo arrivato -La ragazza vi ci porterà subito. Ehy tu!- urlò poi -Datti da fare!

-Da questa parte, prego- sospirò la ragazza, uscendo la sotto il bancone dopo che ebbe consegnato la birra all’uomo al banco e si fu asciugata le mani nel grembiule; il nano la seguì attraverso l’ampia sala e lei lo condusse ad un piccolo tavolo davanti al camino: -Stasera deve fare un gran freddo là fuori- disse Cliantha, smuovendo con una molla i ceppi dentro al camino -Così ve ne starete al caldo e vi asciugherete.

-Ti ringrazio- le sorrise il cliente, accomodandosi alla sedia.

La ragazza lo osservò per qualche istante: avevano attraversato la sala e gli occhi di tutti non li avevano lasciati per un secondo. Cosa c’era di così strano o di speciale in quel nano? A parte il fatto che avesse delle maniere molto più gradevoli di quelle di tutti gli altri clienti messi insieme. E anche degli occhi molto acuti e vivaci di un bel colore azzurro.

-Cosa posso portarvi?- domandò la ragazza.

-Cosa avete di caldo e pronto?- chiese quello di rimando -Sono molto affamato e stanco. Vorrei chiedervi anche una stanza per la notte se l’avete a disposizione.

-Sì ne abbiamo- rispose Cliantha -Se avete bagagli all’ingresso posso portarveli di sopra più tardi.

Il nano sorrise a quell’offerta, ma declinò: -Non sarà necessario, posso portarli da me. Cosa offre la cucina?

-Abbiamo della zuppa di zucca, delle salsicce alla griglia e della torta- elencò la ragazza, facendo la conta con le dita -Ma se vorrete aspettare qualche minuto posso prepararvi qualunque cosa desideriate.

-Andrà benissimo così, grazie. Da bere prenderò della birra scura, se ne avete.

-Ne abbiamo, ne abbiamo- rispose Cliantha, piacevolmente sorpresa dai modi cordiali di quel cliente insolito -Arriva tutto tra un momento.

Con l’ordine ben impresso in testa, la ragazza volò in cucina e preparò un vassoio con un bel piatto di zuppa fumante per la prima portata, che decise, data la gentilezza del suo cliente, di decorarlo con un rametto di timo e una spolverata di pepe; versò la birra scura dentro un boccale e prese il vassoio, pronta per portarlo al nano, ma prima che potesse uscire dalla cucina, la signora Cactaceo la bloccò, ostruendole la via con il suo grosso corpo: -Quello è uno che ha soldi- sibilò la donna, quasi temendo che il nano potesse sentirla -Vedi di dargli da bere e di spremerlo per bene.

-Il signore aspetta la zuppa- rispose secca la ragazza, scostando con il gomito il braccio della donna e oltrepassando la soglia della cucina, ma quella l’afferrò per il grembiule e la trattenne di nuovo: -Non farti abbindolare- le sussurrò a un orecchio e il suo occhio fece caso alla piccola decorazione che Cliantha aveva preparato sul piatto -Quelli gentili e carismatici sono i peggiori.

Finalmente l’artiglio della donna mollò la presa e Cliantha, scossa da quella breve ma inquietante discussione, poté tornare alle sue mansioni. Quando arrivò a portargli la zuppa, il nano si stava scaldando la schiena davanti al fuoco e, vedendola avvicinarsi, tornò al suo posto, già pregustandosi il calore di quella portata, ma Cliantha notò che, quando la sua mano si aprì per lasciare il piatto sul tavolo, gli occhi del nano indugiarono sul suo palmo e le sue sopracciglia si aggrottarono, creando dei profondi solchi nella sua fronte ampia.

A disagio, Cliantha ritrasse subito la mano e, dopo avergli augurato un buon appetito, si allontanò, turbata; dietro al bancone, impegnata a servire alcolici, i suoi occhi caddero spesso sulla porzione triangolare di pelle rossa e raggrinzita che dalla nascita marchiava il suo palmo sinistro. Era una piccola deformità che non la penalizzava in alcun modo, eccetto per il fatto che, chi se ne accorgeva, mostrava sempre un certo disagio, la fissava e, talvolta, ne restava addirittura disgustato. Una volta capitò persino che un cliente si fosse rifiutato di ricevere cibo o bevande da lei perché troppo nauseato dalla sua mano.

Con gli anni aveva imparato a conviverci e gli stessi avventori della locanda, quelli più abituali, ormai nemmeno la notavano più (e per forza, pensava malignamente la ragazza, dato che per la metà del tempo erano brilli), ma lo sguardo cupo che quel nano le aveva lanciato l’aveva fatta sentire esposta e deforme, esattamente come quando quel disgraziato aveva esternato il suo disgusto davanti a tutti gli altri clienti provando a indovinare a quale terribile malattia fosse stato dovuto.

Al momento di consegnare la seconda portata, un abbondante piatto di salsicce con contorno di patate saltate, Cliantha risolse indossando un guantone da forno, preparandosi a giustificarsi con la scusa che il piatto fosse molto caldo, ma al suo arrivo il nano non commentò e riprese a mangiare in silenzio, pensieroso.

Fu quando Cliantha ebbe portato il piatto della zuppa vuoto nell’acquaio che un secondo bizzarro cliente fece la sua comparsa nella locanda. Questa volta, però, la padrona sembrò conoscerlo, perché i suoi modi furono molto meno cerimoniali del solito e, quando le chiese di portargli un bicchiere di vino rosso, ella grugnì in risposta.

Era un viaggiatore con un lungo cappello a punta di colore grigio, abbinato al mantello di spessa lana del medesimo colore, sembrava molto anziano e la sua pelle era coperta di macchie e rughe, ma, nonostante il bastone da passeggio, sembrava essere ancora molto saldo sulle proprie gambe e il suo sguardo era lucido e intelligente.

Cliantha lo osservò attraversare la sala e, senza l’ombra di un’esitazione, sedersi al tavolo dove il nano consumava la seconda portata della sua cena. Si conoscevano? A giudicare dall’iniziale fastidio dipinto sul volto del nano, Cliantha dedusse che il vecchio non fosse esattamente desiderato e già si era messa in moto per invitarlo a prendere posto ad un tavolo libero, ma poi il viaggiatore disse qualcosa che cambiò le carte in tavola e ottenne la piena attenzione del nano.

Cliantha allora si arrestò e vide che il nano lanciava sguardi sospettosi verso gli altri avventori della locanda, intercettandone qualcuno che lo stava osservando; quella storia stava iniziando a insospettirla, ma sentiva di non saperne abbastanza, così, con la scusa del bicchiere di vino e della fetta di torta, si avvicinò silenziosamente al tavolo: -Mi sono imbattuto in alcuni sgradevoli personaggi mentre viaggiavo il Verdecammino- raccontava il vecchio, aspirando dalla lunga pipa che teneva in mano -Mi hanno scambiato per un vagabondo.

-Immagino che se ne siano pentiti…- ribatté il nano, la voce velata di ironia.

-Uno di loro portava un messaggio- continuò il vecchio, estraendo qualcosa da sotto il mantello e mostrandolo al nano, ma che Cliantha non riuscì a distinguere -È Lingua Nera questa: una promessa di pagamento.

-Per cosa?- chiese il nano.

-La tua testa.

Il cuore di Cliantha perse un battito e per poco non le scivolò il vassoio di mano: cosa diamine stava succedendo là dentro? Da quando a Brea, una piccola cittadina tranquilla e monotona, circolavano cacciatori di taglie? Prese un respiro profondo e fece del proprio meglio per sembrare disinvolta quando arrivò al loro tavolo in un momento di silenzio nella loro conversazione, poi, tenendo la mano sinistra ben nascosta sotto al vassoio, li servì con quanto avevano chiesto.

-Ora vado a preparare la vostra stanza- spiegò al nano prima di tornare al bancone -Vi procurerò una coperta in più.

-Non sarà necessario- rispose il nano, senza distogliere per un istante lo sguardo dal vecchio, che lo osservava serio formando volute di fumo con la bocca -Ho cambiato idea. Ripartirò subito. Portami il conto, per favore.

-Anche a me, grazie- si intromise il viaggiatore, sorridendole dolcemente -Sono solo di passaggio.

Cliantha annuì con la testa e si dileguò, ritornando un istante dopo con i loro conti, che i due onorarono; presi i loro mantelli, nano e viaggiatore si immersero nel temporale, svanendo nell’oscurità interrotta solo dai bagliori freddi e brevi dei fulmini che tagliavano il cielo.

-Non lo hai spremuto abbastanza- si lamentò la signora Cactaceo quando, venuta l’ora di chiusura, contava il denaro guadagnato, mentre Cliantha passava il pavimento con lo straccio, pulendolo dal fango degli stivali e dagli schizzi di birra -Hai perso l’occasione di avere un extra sulla paga.

Sottolineò il concetto chiudendo di scatto il cassetto dell’incasso e assicurandolo a doppia mandata con la chiave di ferro arrugginito che teneva in una tasca nascosta della sottana.




L’autrice: salve a tutti e grazie per essere arrivati alla fine di questo primo capitolo della mia storia! Spero che sia stato di vostro gradimento e che vorrete continuare con la lettura del prossimo, in caso contrario vi ringrazio per il tempo che vi avete dedicato e vi auguro di trovare una storia che possa toccare le corde del vostro cuore meglio di quanto abbia fatto questa.

Sono una scrittrice a tempo perso, ma lo faccio con passione e vorrei migliorarmi, perciò sarò ben lieta di accettare i vostri commenti e le vostre critiche costruttive, qualora vogliate esprimerle.

Alla prossima e un abbraccio,

Desma

Ps. I signori Cactaceo sopracitati sono i genitori del più famoso proprietario del Puledro Impennato. Nei tempi della storia la signora Cactaceo è ancora lontana dalla prospettiva della maternità.


   
 
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