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Autore: chelsearoseeify    11/09/2017    3 recensioni
Era l’ultimo giorno di lezione e poi non lo avrei più visto.
Tutte le fantasie, tutte le idee, tutti sogni che diventavano stranamente reali quando mi voltavo a guardarlo, dopo quel giorno sarebbero stati tutti vuoti, tinti di un grigio che sapeva di malinconia.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Soffio

Era l’ultimo giorno di lezione e poi non lo avrei più visto.
Tutte le fantasie, tutte le idee, tutti sogni che diventavano stranamente reali quando mi voltavo a guardarlo, dopo quel giorno sarebbero stati tutti vuoti, tinti di un grigio che sapeva di malinconia.
L’applauso degli studenti dopo le ultime parole del professore invase la stanza, mentre la gente si alzava per tornare a casa, i miei occhi lo cercarono ancora.

Basta. Era l’ultima volta, dovevo dimenticarlo.

Mi alzai in piedi e camminai tra le sedie per raggiungere l’uscita.
Passandogli di fianco gli sorrisi e gli sussurrai un ultimo, timido e imbarazzato ‘ciao’ a cui mi rispose con un breve sorriso abbassando gli occhi.

Aveva degli occhi spettacolari.

Quattro mesi di corsi, il massimo che eravamo riusciti a fare era salutarci.
Ma era giusto così, doveva andare così.

Per strada, minuti dopo, lo scorsi dall’altro capo del marciapiede che si dirigeva nella mia stessa direzione.
Sapevo che stava andando a prendere il tram, lo faceva sempre. Erano tanti gli studenti fuori sede in una città così grande.

L’ultima volta che lo avrei visto.

Bello, alto, spalle larghe, passo veloce. Camminava come se non ci fosse nessuno intorno a lui, distaccato, inconsapevole del mondo che lo circondava.

Quando lui però oltrepassò senza fermarsi la banchina dove la gente era in attesa del prossimo tram in arrivo, il cervello mi si spense, blackout.
Dove stava andando?
Dopo qualche centinaio di metri lo vidi imboccare le scale che lo avrebbero portato alla fermata della metropolitana.

Accidenti, la mia fermata.

Scesi la scalinata anche io, con il cuore a mille.
Cercavo di mantenere un passo stabile, ma le domande affollavano la mia mente.
Passai l’abbonamento sul lettore e attraversai il tornello.

Aspettava la mia stessa metro, ovviamente.
Tra tutte le volte che sarebbe potuto succedere, proprio l’ultimo giorno.

Mi appoggiai alla parete fredda e respirai a fondo.
Ero certa che avrei cercato di salire sul suo stesso vagone, non c’era nulla di male.

In fondo era l’ultima volta, l’ultima volta.

L’ultima volta e poi sarei potuta tornare alla mia vita tranquilla, senza il pensiero di quel ragazzo che mi riempiva le giornate. Neanche avessi avuto sedici anni.

La metro arrivò con il solito fastidioso fischio e la folata di vento che scompiglia i capelli.
Dopo aver lasciato scendere i passeggeri a bordo entrammo nel vagone.
Lui si sedette ed io cercai di mettermi vicino, in piedi, nel suo campo visivo.

Avrei dovuto scegliere un vagone diverso e smetterla con quella stupidaggine.
Una parte di me mi ripeteva che ero un’idiota, che dovevo andarmene e smetterla di sperare che lui mi guardasse perché oramai l’occasione l’avevo persa; l’altra, d’altro canto, mi ricordava che effettivamente la strada per tornare a casa era esattamente quella che stavo facendo ed era stato lui ad insediarsi nella mia routine, non io ad aver cambiato le cose.
Mi chiesi cosa sarebbe successo se fosse sceso alla stazione centrale, magari per prendere un treno come me.

Passavano le fermate e così le mille idee che avevo in testa.
Volevo voltarmi e chiamarlo. Volevo sedermi vicino e parlargli. Volevo prendergli il volto tra le mani e baciarlo.
Chissenefrega di tutto il resto, in quel momento ero sola.

Alla fermata della stazione le porte si aprirono e lui non accennò ad alzarsi.
Che cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato?

Mentre le porte mi si chiudevano davanti al naso, mi resi conto di aver appena dimostrato a me stessa quanto effettivamente fossi idiota.
I miei piedi erano rimasti incollati al pavimento del vagone senza muoversi di un millimetro.
Avevo perso il mio treno di proposito, pur di capire a quale fermata sarebbe sceso.

Mi vergognai.

Se non fossi stata in un vagone pieno di persone, probabilmente una testata al vetro l’avrei data.
L’unica cosa che mi consolava era che solo io, per ora, ero consapevole di quello che stava accadendo.

Dopo qualche secondo per riordinare le mie poche idee confuse decisi che sarei scesa alla fermata della stazione successiva, per prendere un treno che, sebbene più lento, mi avrebbe comunque riportata a casa.

Notai che vicino a lui si erano liberati due posti.
Non pensai a lungo.
A quel punto la frittata era fatta.
Mi sedetti di fianco a lui, senza dire una parola.

Avevo caldo, sapevo di avere le guance in fiamme e di non avere la forza o le idee per pronunciare una sola sillaba, ma non mi importava.
Lo sentii irrigidirsi, ma non fece nulla.

Sbirciai il suo cellulare e vidi che stava ascoltando della musica.
Rap? Davvero? Oddio, bene, io detestavo il rap, sarebbe stato molto più facile dimenticarlo poi.
Lo sentivo respirare in mezzo al casino del vagone, sentivo il mio respiro, profondo e accelerato che mi rimbombava nelle orecchie.
In quei secondi cominciai a rivalutare il rap, aggrappandomi a qualche canzone che avevo sentito e che non mi era sembrata poi così male.
Volevo sciogliermi lì, sul sedile, perché sapevo di non essergli indifferente e sapevo che mi sentiva respirare così come io sentivo respirare lui.

Mi chiesi che cosa sarebbe successo se gli avessi appoggiato una mano sulla gamba, a pochi centimetri dalla mia.
Non mi risposi.

Provai a muovere la mano, ma era immobilizzata.
Oh, fantastico.

Mossi un dito.
Beh, meglio che nulla.

Ero appoggiata allo schienale del sedile, lui invece era piegato in avanti, i gomiti sulle ginocchia e il capo chino sul cellulare.
Gli guardavo la schiena, le spalle larghe e i fianchi stretti che si muovevano al ritmo del respiro.
Si passò una mano tra i capelli.
Lo faceva spesso. Mi ero sempre chiesta se fosse un gesto automatico o se fosse per nervosismo o vanità.
Fece un respiro profondo e si appoggiò al sedile, seduto nella mia stessa posizione, la sua spalla che sfiorava la mia.
Ero come fuoco, imbarazzata, agitata, nervosa.
Avrei voluto baciarlo.

La voce registrata, metallica e incolore annunciò l’arrivo alla mia ultima via di fuga.
Era la mia fermata.

Fine dei giochi.


Sarei potuta rimanere lì, seduta a fare avanti e indietro tra le fermate, per delle ore se solo lui avesse deciso di non muoversi.

Forza alzati e vattene da qui prima che tu possa ripensarci.

Mi alzai e scesi senza voltarmi indietro. Non so con quale forza.

Uno.
Due.
Poi mi voltai.

Lo vidi scendere dal vagone, camminando in mezzo alla folla, dirigendosi verso i binari dei treni al piano superiore. Non aveva visto che direzione avessi preso.

Mi fermai a guardarlo mentre si allontanava.
Lo vidi cercarmi con gli occhi tra la folla senza trovarmi e sentii il cuore sprofondare nel petto.

Gradino dopo gradino, passo dopo passo scomparve alla mia vista.

Non sapeva dove fossi andata e mi aveva cercata.
Mi aveva cercata!

Il peso che sentii sullo stomaco a pensare che davvero quella era l’ultima immagine di lui che avrei potuto ricordare mi fece inumidire gli occhi.

Rimasi lì, interdetta, a pensare.
Una lacrima scappo e rotolò lungo la guancia accaldata.

Era ora di tornare a casa, dal mio fidanzato.
   
 
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