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Autore: BlueButterfly93    12/09/2017    3 recensioni
(REVISIONE STORIA COMPLETATA)
MIKI: ragazza che, come il passato le ha insegnato, indossa ogni giorno la maschera della perfezione; minigonna e tacchi a spillo. È irraggiungibile, contro gli uomini e l'amore. Pensa di non essere in grado di provare sentimenti, perché infondo non sa neanche cosa siano. Ma sarà il trasferimento in un altro Stato a mettere tutta la sua vita in discussione. Già da quando salirà sull'aereo per Parigi, l'incontro con il ragazzo dai capelli rossi le stravolgerà l'esistenza e non le farà più dormire sogni tranquilli.
CASTIEL: ragazzo apatico, arrogante, sfacciato, menefreghista ma infondo solamente deluso e ferito da un'infanzia trascorsa in solitudine, e da una storia che ha segnato profondamente gli anni della sua adolescenza. Sarà l'incontro con la ragazza dai capelli ramati a far sorgere in lui il dubbio di possedere ancora un cuore capace di battere per qualcuno, e non solo..
-
Lo scontro di due mondi apparentemente opposti, ma in fondo incredibilmente simili. Le facce di una medaglia, l'odio e l'amore, che sotto sotto finiranno per completarsi a vicenda.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ubriaca d'amore, ti odio!'
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Capitolo 26

A mali estremi, bevi e rimedi!







MIKI

"Io ci sarò sempre per te. Ricordalo, Miki!"

Quella frase.

Quella voce. La sua voce aveva pronunciato davvero quella frase.

Quel tono che suonava di promesse.

Per quale motivo aveva dovuto rendere tutto ancora più complicato? Quella notte avevamo litigato per l'ennesima volta. Anche quel giorno -come nei cinque mesi passati- mi aveva derisa, illusa, sotterrata con le sue parole. E alla fine era uscito di scena con quella frase. 

Con otto parole e trentadue lettere aveva di nuovo rapito il mio cuore e inciso su di esso il suo nome. 

Non gli avevo chiesto niente semplicemente l'avevo ignorato realmente, a differenza delle nostre precedenti litigate avevo tirato fuori il coraggio di andare contro il mio cuore. Non mi fidavo di lui. Eppure solo con uno sguardo aveva capito ogni cosa della tempesta in corso all'interno della mia anima. Quel giorno dimostrò di conoscermi meglio di quanto potessi mai immaginare. Aveva capito che, fermi, davanti al Colosseo stessi pensando al mio passato, alla mia infanzia, a quelle immagini che non avrei mai potuto cancellare, ed aveva ben pensato di distrarmi. Per quale motivo lo faceva se non gli importava niente di me? 

Più i giorni passavano e più i dubbi aumentavano. E in quel viaggio a Roma fu tutto amplificato. Insieme trascorrevamo quasi tutte le giornate ed entrambi stavamo scoprendo e subendo i pregi, i difetti dell'altro. Quello poteva esser visto come un bene dalle persone normali, ma per noi forse lo era un po' meno. 

Eravamo un grande punto interrogativo, incertezza, non eravamo né carne e né pesce. Né vino e né acqua. Né aria né terra. Ed il passare quel tempo insieme stava rovinando il briciolo di amicizia che nei mesi si era creata tra noi, tra l'altro l'unica cosa certa, confermata da entrambi e a conoscenza di tutti. Perché bastava la nostra vicinanza a scatenare reazioni istintive nei nostri corpi; bastava che fossimo soli, nella stessa stanza, nello stesso luogo e lui per me diveniva sorgente in un deserto. Indispensabile per sopravvivere era baciarlo, respirare il suo respiro. E purtroppo non era solo attrazione fisica. Ma nonostante quell'aspetto fosse ovvio, i baci, le carezze, gli sguardi, le piccole attenzioni, quelli erano un segreto persino per noi diretti interessati. 

Quella notte, dopo il tuffo nella fontana di Trevi, avevo cercato di strappare dalla bocca di Castiel qualcosa di più, ma fu inutile. Era sempre vago nelle risposte e lunatico nei comportamenti, un mix che mi rendeva solo maggiormente confusa. 

Ma stavo per scoppiare. E lo avrei fatto una volta per tutte. Intorno a me quella volta avrei portato distruzione o liberazione. Erano due le possibilità e per scoprire la risposta avrei dovuto rischiare; ero pronta. Prontissima a prendere o lasciare.

«Perché?» sbottai all'improvviso interrompendo il silenzio, mentre eravamo entrambi sui nostri rispettivi letti.

Era sera, dopo cena e nessuno dei due si era deciso a parlare ancora. Quel pomeriggio, quando lui mi aveva rivolto quella promessa, non avevo risposto ed ero riuscita a non calcolarlo per tutto il resto della serata fino a quel momento, quando scoppiai.

«Perché mi fai questo?» continuai mentre sentii il rumore delle molle del suo letto, segno che l'avesse abbandonato. Non potevo guardarlo a causa di quello stupido séparé piantato per volere della direttrice il giorno del nostro arrivo a Roma.

«Castiel...» lo chiamai non ricevendo alcuna risposta da parte sua. Mi alzai dal letto decisa a voler vedere con i miei occhi cosa stesse facendo. Odiavo quando non ricevevo l'attenzione richiesta, l'odiai soprattutto in quel momento, perché quel discorso stava per divenire di fondamentale importanza per il nostro rapporto futuro.

Quando uscii dal mio lato di stanza e quindi sorpassai quel maledetto separé, mi venne addosso qualcosa o meglio qualcuno, ed era ovvio chi fosse. Non c'era nessuno in quella stanza, oltre noi due. Alzai lo sguardo e li ritrovai. Ritrovai quegli occhi magnetici con il potere di calmare ogni mia tempesta interiore, quegli occhi esprimevano le parole che Castiel non riusciva ad esprimere, o meglio, esprimevano ciò che m'illudevo volessi esprimessero. La riproduzione dei miei pensieri di quei minuti sembrarono quasi giochi di parole, ma con quelli avevo ammesso la verità. Nei suoi occhi ritrovavo la pace ma nello stesso tempo i suoi demoni, la tempesta, i dubbi, le illusioni. Soprattutto le ultime. Ogni volta mi ero illusa che lui provasse qualcosa oltre la semplice amicizia, il semplice divertimento o vendetta. A volte avevo visto la realtà, a volte no, ma la verità era che avrei voluto vedere gli stessi sentimenti provati da me per lui. E se gli occhi, i suoi occhi grigi, non erano stati in grado di darmi certezze, per una volta le parole lo avrebbero fatto al posto loro. Quella volta ero pronta a scoprire la verità. Quella volta ero pronta a raccontare la mia verità. Era giunto il momento della nostra resa dei conti. Quella volta per davvero. 

Il viaggio a Roma, le giornate intere passate accanto a lui mi avevano suscitato un coraggio interiore evidente. Avevo estremamente bisogno di chiarezza, di vedere tutto o bianco o nero. Di sapere una volta per tutte cosa eravamo e chi saremmo potuti diventare. Era ormai certo che non fossi contraria ai sentimenti, o meglio che non fossi contraria a quelle sensazioni che solo lui era in grado di farmi provare. E avevo bisogno che lui sapesse.. che lui parlasse.

«Perché prometti? Dici: "ci sarò sempre per te", quando sai che non potrà essere vero?» iniziai.

«Ora hai anche il potere di predire il futuro? Non sapevo di questa tua dote. Interessante!» mi prese quasi in giro come era solito fare. Ma quella volta non l'avrebbe avuta vinta. Avevo bisogno di sapere, di parlare.

«Castiel, sono seria. Non ne posso più di te che continui ad illudermi»

«Non abbiamo firmato nessun contratto, per cui... se non sopporti ciò che sono quella è l...»

«Adesso basta, cazzo. Smettila!» alzai il tono di voce sorprendendolo «Conosco il tuo gioco. Fai lo stronzo ed il sarcastico per cercare di cambiare un discorso che non vuoi affrontare. Continui a volermi allontanare da te, ma non ci riesci. Ti conosco ormai!»

«Mi spiazzi. In così poco tempo... Sembra quasi tu mi conosca meglio di mia mamma o di Deb-»

Bloccai nuovamente il suo discorso soprattutto per il nome di persona che si stava accingendo a pronunciare. Ero egoista. Volevo non pronunciasse più il suo nome con quel tono di voce. Volevo cancellasse ogni ricordo doloroso o bello di lei. Volevo fosse mio una volta per tutte. Mio, mio, mio. Non m'importava più se avessi dovuto gettare nella spazzatura anni e anni di convinzioni, stereotipi, principi sull'inesistenza dell'amore e soprattutto sull'impossibilità d'innamorarmi o di stare insieme ad una persona. "Non sono stata creata per questo", dicevo. Ma come potevo esserne sicura se non ci avevo mai provato? Avrei dovuto soffrire ma tentare, provare sentimenti, delusioni, cadere, rialzarmi... E solo dopo le mille batoste sarei stata in grado di dire di non essere in grado di provare quel sentimento, o che nessuno si sarebbe potuto innamorare di me. In quel momento non potevo saperlo. Non ci avevo mai provato.

Ed era con Castiel, l'unico ragazzo capace di smuovermi, di farmi uscire dagli schemi, era con lui che avrei potuto, voluto tentare. Avrei potuto vedere finalmente la luce o avrei potuto vedere il buio; solo vivendo lo avrei scoperto. Volevo lui e volevo lo capisse una volta per tutte. Ero stanca delle mezze misure, stanca di nascondere i miei sentimenti, stanca di nascondere la voglia di appartenergli, di essere totalmente sua. E poi... e poi caspita, quanto desideravo che lui fosse mio, mio e di nessun'altra. Non volevo ci fosse più in mezzo nessuna Debrah, Ambra, qualsiasi altro nome o conquista di una sera. Volevo essere io l'unica per lui. Volevo che le sue labbra si toccassero solo nel pronunciare la lettera "M" del mio nome e non sulla "B" o su qualsiasi altra lettera di una donna qualunque.

«Castiel, ferma! Sono pronta» sospirai pronunciando a bassa voce quelle parole. Sembravo una matta evasa dal manicomio. 

Corrugò le sopracciglia «A fare?»

«Sì, sì sono pronta. Posso farcela, me la sento» respirai rumorosamente senza guardarlo. Inspiravo ed espiravo come durante un'attività sportiva. Sembrava quasi mi stesse prendendo un attacco di panico.

«Ehi, ma ci sei? Ce la fai?» passò una mano davanti al mio volto come per volermi svegliare da quello stato di trance. Non poteva sapere per quale motivo improvvisamente stavo avendo quelle reazioni, non gli rivolgevo la parola da parecchie ore ormai e quel mio nuovo comportamento, sicuro non fece passare i suoi dubbi sulla mia sanità mentale.

«Sì-sì-sì» ammisi ansiosa.

E fu inevitabile sentire le mille farfalle nello stomaco che iniziarono a svolazzare felici e libere, finalmente. Da mesi le avevo costrette a restare chiuse in gabbia, da giorni appena spiccavano il volo Castiel continuava ad ucciderle e seppellire con i suoi comportamenti ambigui e rudi. Ma da quel momento non l'avrebbe più potuto fare, sarebbe uscita fuori la verità. Le farfalle sarebbero state libere di volare nel mio stomaco, i brividi sarebbero stati in grado di presentarsi sulla mia pelle senza problemi non appena Castiel si fosse avvicinato a me, non appena mi avesse toccata o baciata. Tutte quelle sensazioni sarebbero state libere insieme ai miei sentimenti.

«Castiel, tu mi... t-tu mi p-pia-piaci. Sì, mi piaci. Molto!» gracchiando sganciai la bomba che tenevo ormai da troppo tempo in corpo. Se non l'avessi lanciata il più presto possibile sarebbe potuta scoppiare da un momento all'altro lasciandomi ferita.

«Che?» spalancò gli occhi e per un attimo credetti gli stessero uscendo dalle orbite. Era sorpreso e forse più che altro incredulo per le mie parole.

«Hai sentito! Tu per me non sei un semplice amico, probabilmente non lo sei mai stato... Io... I-io provo un'attrazione per te. Una gra-grande, incredibile attrazione. E mi piaci, mi piaci per quello che sei. Ma so anche che tu probabilmente non provi e non proverai mai queste cose per me. Lo hai anche detto più di una volta. Però io dovevo dirtelo, non potevo più tenerlo per me. Questi giorni a Roma mi hanno fatto scoppiare, stavo marcendo nei dubbi, nelle insicurezze e marcivo anche tra le tue braccia, sulla tua bocca in quei pochi momenti che mi hai concesso perché cavolo, è difficile starti dietro. Un attimo prima mi baci e l'attimo dopo mi allontani; un attimo prima mi dici di non essere nessuno per te e l'attimo dopo prometti di starmi sempre accanto. Cazzo Castiel, sei peggio di un terremoto, di un tornado, non mi fai mai capire nulla. Eppure più passa il tempo, più mi piaci. Pensa, mi piace persino il tuo carattere di merda, o... o i tuoi capelli lunghi, rossi e orribili. Mi piacciono tutti questi aspetti che ho sempre odiato in una persona solo perché sono tuoi. Tu rendi i difetti, perfetti. E credimi, credimi Castiel, ho provato a farmela passare... Tu non hai idea di quante volte ci ho provato. Ho cercato di convincermi che fosse solo attrazione fisica quella provata nei tuoi confronti, ho provato a reprimerla perché non avrebbe potuto portare da nessuna parte, ma alla fine mi sono accorta di non poterlo fare. Più i giorni passavano, più tu mi allontanavi più io ti volevo. E non era un capriccio. Io ti volevo e ti voglio con ogni fibra del mio corpo. Voglio te, il tuo fisico, il tuo essere ed il tuo carattere. Voglio te per come sei, senza cambiare nulla. Certo, ci sarebbero delle cose da rivedere...» sorrisi e presi fiato ripensando ai suoi continui sbalzi d'umore improvvisi «ma ti vorrei ugualmente anche se non riuscissi a cambiare, vorrei che fossi solo mio e di nessun'altra. Perché caspita, quando sei con un'altra io impazzisco. Per non parlare poi di quella Debrah» mi passai le mani sul volto e tra i capelli esasperata «Dio... quando eri con lei, i-io, io vi avrei strangolati volentieri entrambi. Odiavo il fatto che ti trasformasse, ti annullasse. Tu con lei non eri Castiel, eri Debroh» sorridemmo entrambi per la mia pessima battuta «vabbè era per dire che... eri il suo cagnolino, la sua marionetta, ti gestiva, ti condizionava in base ai suoi modi di pensare ed io non riuscivo proprio a vederti in quelle condizioni. Io voglio che tu sia te stesso e voglio che tu lo sia con me. Sarò anche egoista nel dire queste cose perché sto rovinando una specie di amicizia contando il fatto che, anche se tra di noi andrà male, dovremo ugualmente stare a stretto contatto ancora per un po'... Ma credimi non potevo più trattenermi. La fontana di Trevi e tutti i retroscena, in un solo giorno mi hanno cambiata, mi hanno smossa dalla situazione di stallo su cui mi ero agiata e quindi ora eccomi qui. Mi dichiaro ad una persona a cui non frega e probabilmente non fregherà mai nulla di me; potrei risultare ridicola ma io sto meglio. Sono sollevata. Ora mandami pure a quel paese se vuoi e...» avevo pronunciato quelle ultime frasi tutte d'un fiato e con un linguaggio confuso, mi sentivo quasi stupida.

Bloccò la mia dichiarazione proprio nella parte finale avvicinandosi lentamente e pericolosamente a me. Non c'impiegò più di qualche secondo vista la già nostra vicinanza. Si piegò per arrivare alla mia altezza e senza parlare, mi baciò. Non era mai stato bravo con le parole o forse non aveva voluto esserlo fino ad allora. Spesso usava i gesti per trasmettere i suoi pensieri ed in quel momento ovviamente trasmetteva qualcosa di positivo. Insomma, non mi avrebbe baciata se non fosse stato d'accordo col mio monologo di poco prima, giusto? Ed ero stata pessima, pessima nel dichiararmi. Svolazzavo come le mille farfalle nel mio stomaco da un argomento all'altro senza filo logico, avevo parlato con l'emozione, l'ansia e il sentimento che provavo per quel disastro di ragazzo, e non con la testa. Ero stata completamente sincera per una volta, senza più nascondermi. E stavo bene, tremendamente bene tra le sue braccia. Avevo smesso di sentirmi in colpa, di sentirmi sbagliata, fuori posto. Il mio posto era proprio lì, accanto a lui e nessuno avrebbe potuto più levarmi da quel luogo meraviglioso che erano le sue braccia. E lui, nonostante tutto aveva afferrato quel discorso, aveva compreso la tempesta che mi provocava perché altrimenti non mi avrebbe baciata in quel modo.

Il bacio si fece sempre più intimo quando mi strinse al suo corpo. Sentii le sue mani grandi premere sulla mia schiena come per trasmettermi la sua intenzione di non volermi più lasciare andare. "Io non scappo da nessuna parte" avrei voluto urlargli, ma fui talmente egoista da non voler staccare le labbra dalle sue neanche un secondo per rassicurarlo. E non parlai. Era giusto così.

Non riuscii neanche a tenere gli occhi chiusi, volevo ammirare il suo volto, avrei voluto sigillare con gli occhi ogni attimo di quel momento per poterlo ricordare per sempre. E così fu. Contemplai i suoi occhi socchiusi, il suo naso appuntito schiacciarsi contro il mio per la troppa vicinanza, le nostre bocche che collidevano e provocavano quello schiocco inevitabile, le sue guance leggermente arrossate, l'espressione rilassata del suo volto. Tutto. Memorizzai ogni piccolo particolare come meritava.

Ce ne avevamo messo di tempo, eppure eccoci lì ancora concentrati in qualcosa d'instabile ma che sarebbe potuta divenire certezza con sole poche sillabe. Sarebbe bastato anche solo un accenno di testa, una parola, una frase. Il nostro rapporto necessitava di un ultimo piccolo slancio, gradino, mattone e tutto si sarebbe risolto una volta per tutte o in bene o in male. Ma se l'input iniziale avevo deciso di concederlo io -stremata dai vari avvenimenti- in quell'attimo tutto sarebbe dipeso da lui. Toccava a lui fare la mossa seguente; dare la botta finale.

E quella arrivò.

Si staccò improvvisamente dalla mia figura come gli avevo visto e sentito fare mille altre volte e...

«Scusa, devo andare...» disse semplicemente con tono fermo senza far trapelare emozioni.

Voltandosi prese la sua giacca di pelle nera poggiata su una sedia presente nella stanza. Subito dopo s'incamminò verso la porta senza rivolgermi più alcuno sguardo.

Si fermò sull'uscio e senza voltarsi utilizzò la stessa voce atona di prima per dirmi semplicemente «Buonanotte!»

Poi uscì fuori dalla stanza definitivamente e solo quando chiuse la porta in modo da non poterlo più vedere, mi accorsi di quello che era appena accaduto. Mi aveva lasciata lì, ancora una volta nel dubbio. 

Ero incredula, incapace di muovermi, i primi istanti non fui capace neanche di sbattere le ciglia. Quel comportamento era troppo persino per lui. Non avrebbe dovuto permettersi.  

In quell'occasione aveva esagerato, mi aveva umiliata come mai nessuno si era permesso di fare prima d'allora. Ero così tanto di poco conto per lui da non meritare neanche un rifiuto, una risposta a quei sentimenti rivelati? Avrei tanto voluto rincorrerlo, schiaffeggiarlo, chiedergli spiegazioni, sbatterlo cento volte con la testa al muro in quel corridoio di hotel; ma tutto quello che feci fu restare immobile, incredula dinanzi a quel gesto contraddittorio. Fissai quella porta che solo pochi istanti prima aveva nascosto da me il corpo di quel ragazzo dannato, e mi lasciai cadere sul pavimento insieme alla mia sconfitta. 

Avevo perso. L'avevo perso. Ma come potevo perdere qualcuno che non mi era mai appartenuto? Ancora una volta gli avevo offerto il mio cuore e lui l'aveva calpestato come se fosse un inutile fiore appassito. Ancora una volta mi aveva umiliata. Anche in quell'occasione mi aveva dimostrato di volere un'altra o almeno di non volere me. Davanti a quella convinzione le prime delle mille lacrime mi solcarono il volto, in un pianto liberatorio. E con le lacrime avrei tanto voluto liberarmi anche di lui e di tutti i sentimenti provati fino a quel giorno nei suoi confronti.

Dopo circa trenta minuti trascorsi nel pianto e nella disperazione, improvvisamente cambiai le mie intenzioni. Ero delusa, arrabbiata. Non avrei voluto più trattenerlo, fargli cambiare idea. Volevo solo liberarmi di Castiel, del sapore delle sue labbra, dell'odore della sua pelle, dei brividi provocati dalla sua vicinanza, delle farfalle nello stomaco che mi faceva provare anche solo respirando. Non era giusto, non era lecito provare tutte quelle emozioni non corrisposte. Lui non mi voleva, non provava neanche la minima attrazione nei miei confronti perché... perché altrimenti mi avrebbe sollevata, sbattuta al muro, consumata proprio ora che ne aveva la possibilità; perché io gliel'avrei lasciato fare. Avrei sbagliato visto i risultati, ma l'avrei fatto ugualmente pur sapendo di commettere un errore. E invece no, lui non lo aveva fatto. Mi aveva baciata per compassione, come aveva fatto tutte le altre volte evidentemente. Eppure mi ero illusa, mi ero illusa anche quella volta che il nostro ultimo bacio -nostro fino a pochi minuti prima- significasse qualcosa di diverso, ma lo era stato solo per me, povera stupida. Sicuramente aveva intuito già tempo prima, già prima di me, i miei sentimenti nei suoi confronti e ne aveva approfittato quando gli andava. Si era servito della mia bocca quando aveva sete; di me, della mia persona quando era solo. Faceva schifo quel dolore, quel peso sentito al centro del petto e dello stomaco. 

Più il pianto aumentava, più il dolore cresceva. Non riuscivo a fermarmi, mi sentivo vuota, erano persino sparite quelle mille farfalle sentite nello stomaco fino a poco prima. Come dapprincipio aveva sepolto di nuovo quei poveri insetti; probabilmente però non sarebbero rinate, non per lui, perché io non avevo più intenzione di farmi riavvicinare da lui. Da quel momento sarebbero cambiate molte cose, sarei cambiata io nei suoi confronti. Non ci sarebbe più stata quella Miki che assecondava i suoi capricci o la sua arroganza. Miki sarebbe esistita senza Castiel. Quella volta lo avrei fatto per davvero. Me lo giurai. Nessuno mi avrebbe mai più infranta come era già capitato in passato.

Con quella nuova convinzione mi alzai improvvisamente dal pavimento, afferrai una piccola borsa dalla valigia con alcune monete, indossai il cappotto ed uscii in punta di piedi dalla stanza d'hotel. Era quasi mezzanotte, l'ora del coprifuoco era vicina e probabilmente Stefania quella volta mi avrebbe scoperta, ma non m'importò. Avrei fatto di tutto per farmi espellere da quel liceo, di tutto pur di non dover stare a contatto con lui. Era l'unica soluzione. L'unico modo per tenerlo a distanza era di non rivederlo mai più. Perché vederlo equivaleva a cedere prima o poi ed io non avrei voluto. Non quella volta.

Avevo bisogno di bere, di dimenticare per qualche ora gli avvenimenti recenti, e soprattutto di dimenticare una testa rossa, Castiel. Così iniziai a girovagare per le strade conosciute di Roma in direzione di un locale. Avrei solo dovuto trovare un posto meno conosciuto che mi avesse venduto alcolici. Ero minorenne e i bar con maggior affluenza non vendevano da bere ai minori; ma quelli che guadagnavano poco, quelli avrebbero venduto qualsiasi bevanda anche ad un bambino di dieci anni. Camminai un bel po' di minuti, andai dritta verso quel locale di cui Ciak mi aveva parlato mesi prima, dove -quando aveva voglia di bere- andava lui. Trascorsi altri cinque minuti di cammino, lo trovai.

Il locale, come immaginavo, non si presentava bene. Non aveva neanche un'insegna, un nome. Già dall'esterno si percepiva l'odore acre di fumo e alcol, un misto tra entrambi che rendeva l'aria di quel posto pesante. Appena misi piede all'interno di esso, non potei fare a meno di esprimere il mio disgusto con una smorfia e di tapparmi il naso per qualche secondo. Il locale era semivuoto e composto per la maggior parte da uomini sulla sessantina; era presente solo qualche donna che apparentemente mi sembrò facesse lo stesso ex lavoro di mia madre. Le mura di quel posto erano bianche e presentavano qualche crepa di qua e di là; dello stesso colore era anche la pavimentazione. Non vi era alcun abbellimento, anzi mi stupii e mi chiesi come facesse ad essere ancora in attività. Solitamente posti del genere, sporchi e mal ridotti venivano chiusi da ispettori sanitari. Ma non era compito mio ed ero troppo distrutta emotivamente per pensare anche all'aspetto del locale.

Quindi mi limitai ad osservare superficialmente la parte restante del bar, giusto per poter individuare un posto dove potermi accomodare indisturbata e appena l'individuai, mi andai a sedere. Era uno sgabello, difronte al bancone di legno dove un addetto versava da bere.

«Ehi ragazzina, ti sei persa?» mi domandò subito un uomo dietro al bancone. Probabilmente era il barman di quel posto.

Iniziò a fissarmi con uno strano sguardo sul volto, ma non mi preoccupai neanche di quello. Ero divenuta impassibile persino davanti ai campanelli d'allarme. Quell'uomo avrebbe potuto persino portarmi nel retro del negozio per approfittare di me ed io non me ne sarei accorta, o meglio non sarei stata in grado di oppormi, di difendermi. La mia reazione davanti al rifiuto di Castiel poteva apparire esagerata agli occhi degli altri, ma per me non lo era per niente. Ero fragile sin dalla nascita, a causa del mio passato, ed anche un minimo dolore per me era quadruplicato. Eccolo il motivo per il quale non avrei voluto affezionarmi a nessuno. Ecco perché non avrei voluto andare oltre all'amicizia con uno come il rosso. Ma era accaduto, ed era inutile piangere sul latte versato ormai. Sin da quando avevo deciso di rivelargli i miei sentimenti sapevo di correre il rischio di un'eventuale rifiuto o di una reazione strana da parte sua. Potevano accadere due cose e purtroppo era accaduta la cosa peggiore, la parte negativa e oramai avrei dovuto accettarne le conseguenze.

 I primi giorni avrei sofferto terribilmente, ma quella sera non volevo proprio pensarci. Volevo solo bere alcol fino a stare male, annebbiare la mia mente e non pensarlo. Potevo riuscirci. Dovevo riuscirci. Seppur il mio cuore fosse già stato disintegrato da lui e seppur non avessi potuto più impegnarmi ad eliminare il suo nome da lì, perlomeno avrei potuto farlo con la mia mente perché Castiel avrebbe smesso di essere costantemente presente nella mia testa. Per forza.

«Ti è morto il gatto per caso, ragazzina?»

Adesso basta! Quell'uomo aveva pronunciato quel nomignolo per la seconda volta. Lo stesso nomignolo che utilizzava lo stronzo del rosso dal primo giorno. Quell'appellativo nascondeva tanti avvenimenti, belli e brutti ma anche troppo dolorosi per essere rievocati. Nessuno avrebbe dovuto mai più chiamarmi in quel modo. Nessuno si sarebbe dovuto permettere. Nessuno.

«Smettila. Di. Chiamarmi. Ragazzina.» digrignando i denti e sbattendo le mani sul bancone iniziai a guardarlo fisso negli occhi. In quel momento dovevo avere di sicuro il residuo del trucco intorno agli occhi e le occhiaie scure, dovevo sicuramente avere le sembianze di una ragazza appena uscita da un film horror. Ma non m'importò. In passato, mesi prima non sarei mai e poi mai uscita di casa in quelle condizioni; per fortuna non ero più quella ragazza. Avevo levato qualche maschera, anche più di una e non m'interessava più avere un'immagine perfetta. Quella sera avevo persino indossato abiti diversi, avevo abbandonato i miei tacchi e le mille minigonne per indossare jeans e scarpe da ginnastica. E non me n'ero pentita.

«Ok, ok calma!» gesticolò con le mani come per farmi calmare «cosa posso portarti da bere? Offre la casa». Improvvisamente utilizzò un tono diverso senza essere derisorio o malizioso. Non poteva perdere tempo con una ragazzina problematica e pazza come me. E aveva ragione.

«Qualcosa di forte. Fai tu!» davanti a quelle mie parole mi guardò perplesso, ma acconsentì e si mise all'opera.

Avevo bisogno di qualcosa di potente, forte; di qualcosa che mi facesse dimenticare lo stato di abbandono insistentemente presente da qualche ora sulla mia pelle, sui miei vestiti, nel mio cuore. 

Tutti finivano per abbandonarmi. Ero così pessima?

Ancora purtroppo avevo la mente lucida ed inevitabilmente la mia mente riprodusse il pensiero di un solo nome: Castiel. Quanto era stato contraddittorio neanche riuscii a determinarlo. Un'ora prima prometteva eterna vicinanza ad una ragazza disastrata; un'ora dopo dimostrava abbandono ad una ragazza speranzosa e poi distrutta a causa sua. Volevo dimenticare quelle ultime ore, scordare la forma del suo volto e della sua bocca, il suo colore di capelli e persino il suono della sua voce. Dimenticarmi del suo carattere e dei suoi nomignoli. Scordare i suoi occhi e i suoi problemi, dimenticarmi di lui e dei nostri momenti... o forse no.

"A mali estremi, bevi e rimedi."


 


CASTIEL

Affannavo. Respiravo. Soffocavo. Riprendevo fiato. Mi agitavo.
Era quella la sessione di azioni che il mio corpo si era abituato a compiere mentre qualcuno aveva deciso di dichiararsi proprio quel giorno. E quando arrivai al limite della sopportazione, uscii da quella stanza asfissiante con una banale scusa. Non ne potevo più. La verità, quella verità mi era stata sbattuta in faccia senza alcun preavviso e soprattutto non era nei piani di nessuno che Miki iniziasse a provare quell'interesse nei miei confronti. Non avevo mai fatto qualcosa di buono, ma lei continuava a starmi dietro facendomi sentire la persona più buona e più desiderata. Insisteva a difendermi ed io non volevo; insisteva a provare qualcosa per me ed io non volevo. Non ero il ragazzo giusto per lei, forse non lo era nessuno ma io più di tutti non lo ero. Avevo già tanti, troppi pensieri per la testa, stavo per uscire da una storia finita male e non ero in grado d'iniziarne un'altra. Volevo storie di una notte, ragazze con cui svagarmi e Miki non era la ragazza adatta al genere di persona che cercavo io. Inizialmente pensavo lo fosse, cercavo le sue labbra quando ne avevo bisogno, era perfetta. Ma poi, con il passare dei mesi mi ero accorto che quando la cercavo non avevo un bisogno fisico di labbra; ma semplicemente delle sue labbra, della sua vicinanza. E non andava bene. Per quel motivo appena toccavo le sue labbra, appena la sfioravo, appena percepivo la sua vicinanza scappavo, la lasciavo sola. Sapevo di sbagliare, di ferirla ma ero certo che l'avrei distrutta maggiormente se fossi rimasto. La storia con Debrah aveva segnato cicatrici nel mio cuore duro e non potevano essere risanate da nessuno; nemmeno da lei, nemmeno da Miki.

Eppure quando uscii da quella stanza non ebbi un respiro di sollievo, anzi i pesi si facevano presenti in tutto il corpo, aumentavano ogni secondo di più. Così, d'istinto mi ero voltato ad osservare la porta che nascondeva forse l'unica persona con un affetto reale nei miei confronti. Mi avvicinai sempre più e poggiai le mani su quel masso di legno quando sentii il suo pianto. L'avevo ferita, ma non potevo restare. Non avrei dovuto baciarla, non avrei dovuto illuderla... Eppure lei era così perfetta nella sua speranza, nella sua dichiarazione, nei suoi dubbi; e quando esordì quel discorso sul fatto che io volessi un'altra, non avevo più occhi e testa per nient'altro se non per le sue labbra. Volevo zittirla, farle capire di non essere lei la colpevole, lei andava bene così com'era. Il problema ero solo e soltanto io... Perché se per provare la felicità bisognava accettare la sua controparte, il dolore, allora preferivo un apatico distacco dalle emozioni. Il dolore, il mal d'amore era inciso sulla mia pelle e non volevo doverne provare ancora.

I miei demoni interiori non potevano essere uccisi dalla luce dei suoi occhi. Lei non ci sarebbe riuscita. Ed io non potevo permettermi di spegnerla, di sporcarla, d'invaderla, di distruggerla più di quanto già non lo fosse a causa del suo passato.

"Allora, dove sei? Io sono già qui" recitava il messaggio inciso sullo schermo del mio cellulare. Quel testo aveva distolto la mia attenzione da Miki. Era Debrah. Poco prima, quando ero sul letto, nella stanza, aveva mandato un ulteriore messaggio dov'era riportata la necessità urgente di parlarmi. Avevo acconsentito subito, sembrava seria quando aveva aggiunto si trattasse di Miki. Pensai fosse un qualche discorso collegato a sua madre.

Così decisi di non perdere altro tempo e a malincuore, guardando per l'ultima volta quella porta che all'interno nascondeva Miki, mi allontanai dalla mia ipotetica rovina per andare ad incontrarne un'altra, vecchia e ancora più grande. Ci eravamo dati appuntamento in un locale non di mia conoscenza, ma Debrah sapeva dare talmente bene le indicazioni che riuscii a trovarlo senza problemi. Non era molto distante dal centro di Roma, in una via poco illuminata e frequentata. Il locale non aveva insegne e l'interno era ancor meno curato dell'esterno. Ma non feci molto caso all'aspetto o all'arredamento di quel posto; avevo altre priorità. Subito cercai con gli occhi Debrah e non fu molto difficile trovarla. Era seduta in un tavolo nascosto -com'era sua abitudine in tutti i luoghi pubblici di cui si vergognava- nella stanza adiacente all'entrata del locale. Avremmo potuto parlare indisturbati lì, quello sicuramente. Vista l'ora tarda la stanza era vuota; i pochi clienti rimasti erano accanto al bancone nella stanza principale.

«Ce ne hai messo di tempo ad arrivare...» appena mi vide iniziò lamentandosi del mio evidente ritardo. Ci eravamo dati appuntamento per le undici di sera ed io ero arrivato a mezzanotte.

«invece di lamentarti, piuttosto ringrazia il fatto che io sia venuto. Avrei dovuto darti buca, come minimo!» risposi infastidito, ormai da me avrebbe potuto ricevere solamente quel tono.

«Sai anche tu che non avresti potuto evitare di venire» ribatté lei ovvia e tranquilla.

Non le risposi. Entrambi sapevamo a cosa alludeva e aveva ragione, purtroppo.

«Se non ti dispiace ho già ordinato anche per te. Tra qualche minuto dovrebbero arrivare due birre» concluse, ed io risposi solamente fissandola con un'espressione contrariata, senza aprire bocca. Odiavo che gli altri ordinassero al posto mio. Amavo la birra, ma non era scontato il volerla bere anche quella sera.

Fece cadere il discorso senza aggiungere altro, si schiarì la voce e subito andò dritta al punto. Conosceva la mia tendenza di spazientirmi facilmente davanti ai lunghi giri di parole e per una volta evitò. «Comunque...» si zittì per qualche secondo «quando stavamo insieme non mi sembravi così impiccione, sai Castiel?» non sopportavo la sua voce. 

Mi chiesi com'era stato possibile stare insieme a lei tutto quel tempo. Due anni prima la amavo, ero persino incantato dalla sua voce stridula. Non avevo idea a cosa stesse alludendo con quelle parole e stavo per perdere la pazienza. L'osservai con espressione dura ed anche se di aspetto non era cambiata -restava pur sempre la solita bella ragazza- non mi fece alcun effetto da quella distanza minima. Solamente tre mesi prima rimpiangevo il fatto che mi avesse lasciato per due anni e mezzo, mentre in quel momento ero persino pentito di esser tornato insieme a lei subito dopo il suo ritorno, sebbene ad un certo punto fossi stato costretto.

Un uomo sulla cinquantina irruppe nella stanza e lasciò le due birre sul nostro tavolino.

Il cameriere uscì subito dalla stanza, ma Debrah non proseguì il suo discorso. Attendeva una mia eventuale risposta prima di continuare. Ma io non volevo dargliela vinta, così senza mostrare neanche un minimo di curiosità alle sue parole, iniziai a bere la mia birra. 

Capendo che l'attesa fosse inutile, proseguì: «Fotocopiarsi così, per curiosità, il diario di una ragazzina stupida è davvero da poppanti. Come hai fatto a cadere così in basso, eh Castiel?» rise di me. 

Come lo aveva scoperto? Le volte in cui aveva messo piede in casa mia, potevano essere contate su un palmo di mano; tutte le volte ero stato attento a non farla girovagare per casa.

A meno che...

«Oh no, non assumere quell'espressione perplessa» si finse dispiaciuta «non rovinare questo bel faccino, altrimenti come farà senza di esso Rabanne, per la nostra pubblicità?» aggiunse poi, sfiorandomi il volto.

Tolsi subito in malo modo le sue mani da me e presi le distanze poggiandomi alla sedia scomoda di quel tavolo: «Cosa diamine stai farneticando?» quasi urlai per il nervosismo. 

Odiavo non avere la situazione sotto controllo, odiavo non essere a conoscenza dei suoi discorsi. Non avevo in programma nessuna pubblicità con lei. Con Miki avrei dovuto girare lo spot pubblicitario per il profumo "Ivré", ma ancora nessuno dei due aveva ricevuto la chiamata dalla segretaria di Rabanne per stabilire i dettagli e il giorno delle riprese.

A meno che...

«Ebbene sì, tu convincerai Rabanne a cambiare la modella per la pubblicità del profumo: da Micaela Rossi, alla qui presente Debrah Duval. Fallo ed io non dirò a quella mocciosetta che tu hai una copia del suo diario segreto strappalacrime» incrociò le braccia e sorrise diabolicamente dopo aver proposto il suo ricatto. 

Debrah avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di tentare di sfondare nuovamente nel mondo dello spettacolo, avrei dovuto rendermene conto prima di quel giorno. Infondo era per quel motivo se lei era tornata insieme a me due mesi prima, se lei mi aveva lasciato due anni e mezzo prima. Il successo. Cosa ci sarà di così bello in quello? Io volevo diventare qualcuno nel mondo della musica, vero, per essere ricordato nonostante il passare degli anni, dei secoli, esser ricordato come una persona da stimare, un grande musicista; e quell'aspetto non aveva nulla a che vedere con il motivo di Debrah. Lei lo faceva per ricchezza, avidità ed egocentrismo. Ma io Castiel Black, non potevo ancora una volta cedere ai suoi ricatti, assecondare i suoi piani, non potevo esser reso vittima degli scleri di una pazza. Quella volta avrei trovato un modo per uscirne senza far scoprire a Miki la verità. Dovevo solo pensare a qualcosa, ricevere aiuto da qualcuno. 

Forse avrei fatto solamente un favore a Miki sollevandola dall'ingaggio di modella, a lei non importava niente, ma come avrei potuto convincere Rabanne? Quell'uomo era irremovibile una volta prese le sue decisioni; e lui era apparso talmente entusiasta di me e Miki che neanche il Papa in persona avrebbe potuto fargli mutare idea. 

E se invece Miki avesse scoperto la mia copia del suo diario, come avrebbe reagito? Di sicuro non bene. Avrei tradito la sua fiducia, avrei rischiato di perdere una volta per tutte persino la sua amicizia, avrei perso lei senza più possibilità di remissione. Non potevo rischiare così tanto. Seppur non avessi potuto darle di più in quel rapporto che bramava con tanta voglia, non avrei mai e poi mai permesso a nessuno di allontanarla da me. Esclusi l'eventualità di far scoprire a Miki la verità e pensai ad un'altra possibilità. Poi ad un tratto mi ricordai di un'ulteriore aspetto, quello più importante... Debrah avrebbe vinto a prescindere, i ricatti erano il suo mestiere, il suo punto forte.

«Vedrò cosa posso fare. Ora se permetti sono stanco. Buon...»

Interruppe il mio saluto e «Castiel, Castiel, Castiel... piccolo e tenero Castiel, non ti sembra di dimenticare qualcosa?» cantilenò ed io di rimando digrignai i denti davanti a quel suo tono di voce furbo.

Sapevo saremmo arrivati a quel punto prima o poi, a quel discorso, a quel fatto. A quel segreto. Era inevitabile.

La guardai quasi arreso davanti all'evidenza. Non potevo neanche ribellarmi a quegli appellativi stupidi e a quei toni che stava utilizzando dall'inizio della conversazione. E lei lo sapeva bene.

«Se non tornerai ad essere il mio ragazzo i contenuti di quel video, che tu conosci sicuramente bene ormai, saranno mandati alla prima stazione di Polizia o ai Carabinieri di Parigi, e non credo ti faranno pettinare le bambole quando sarai convocato da loro» deglutii ed ingoiai il boccone amaro.

Le parole che più temevo erano arrivate. Da un mese e mezzo attendevo un ricatto del genere. Da due mesi, ogni essere umano di mia conoscenza si chiedeva il come ed il perché mi facessi trattare come un cane da lei; come facessi a stare insieme a lei. Eccoli lì i motivi. Erano tutti rinchiusi in un video.

«E poi pensa... oggi mi sento buona; se accetterai di soddisfare tutte le mie richieste, Miki riavrà una mamma» spalancai subito gli occhi davanti alle sue parole «farò di tutto per farle riappacificare. Lo sai, ottengo tutto quello che voglio. Sempre».

Iniziai a sudare freddo. Ecco di cosa era capace la manipolatrice Debrah Duval. Scavava le parti profonde di ogni persona e trovato il punto debole, lo utilizzava come arma per ottenere quello che voleva. Così aveva fatto con me. Aveva scavato, trovato e distrutto il mio punto debole: Miki. Dovevo immaginarlo.

Ma ancora non aveva terminato «e soprattutto: dovrai essermi fedele. Non pensare che io sia stupida. So bene cosa accade con quella mocciosa ogni volta che siete insieme. Dal mio ritorno non c'è stata una volta in cui mi hai pensata mentre baciavi lei. Ed io aspettavo il momento giusto per agire. Ed eccolo arrivato» rise di nuovo. Odiavo quella sua risata diabolica e cattiva. 

Non faceva parte della ragazza dagli occhi di ghiaccio, conosciuta tre anni prima. Il volere costantemente fama e soldi l'avevano accecata e trasformata in una macchina da guerra. Ed io, mentre ancora parlava, iniziavo a pensare un modo, un piano per uscirne.

«Ah! Un indizio: più terrai Miki lontana da te, più avrai possibilità di riuscire».

«Sei una lurida stronza» a quel punto non riuscii a trattenermi. La guardai con aria di sfida e in modo duro. Non mi avrebbe mai più tenuto in pugno, non potevo permetterglielo. Non più.

Rise con ancora più gusto; ma non c'era niente da ridere «Io ancora non riesco a concepire come tu abbia fatto ad innamorarti di una come lei, insomma...»

«I-o, io non... io non sono innamorato di nessuno» intervenni scottato da quella sua insinuazione.

«Sì sì come no. Comunque, stavo dicendo: insomma, lei non è niente di speciale. Si veste come le prostitute, molto peggio di me quindi» iniziò a tenere il conto dei suoi punti di vista; «di aspetto è una banale ragazza, non ha nulla di particolare; è bastarda di padre, ha un passato schifoso e neanche la madre vuole sapere nulla di lei. È una poveraccia in tutto e per tutto e tu, invece, sei l'unico che continua a sbavarle dietro. Neanche con me l'hai mai fatto così incessantemente!» terminò con un'espressione e tono di voce disgustato.

Forse aveva visto un altro film. Non era Miki quella descritta nei minimi particolari, non ero io quello che insinuava.

Debrah era malvagia. Più di quanto ricordassi.

Interruppe i miei pensieri una voce maschile in lontananza che via via si faceva sempre più vicina «Dai su vieni con me, ci divertiremo!» 

«Brutto stronzo, non mi sci-toccare» strascicò le parole una voce femminile.

Quella voce...

«Miki» inconsciamente quasi urlai. Mi alzai di scatto dalla sedia facendola cadere sul pavimento.

Cosa ci faceva in quel posto malandato? Per quale motivo sembrava ubriaca? 

Cazzo!

Debrah sussultò per il tonfo improvviso provocato dalla sedia caduta, Miki spalancò gli occhi e restò immobile davanti alla porta, una volta entrata nella stanza secondaria di quel bar. Un uomo, intravisto dietro al bancone appena arrivai nel locale, le stringeva il polso mentre cercava di trascinarla chissà in quale stanza per chissà quale scopo. Rabbrividii al sol pensiero.

«Er..erra proprio da immaginarscielo» rise istericamente una volta individuata la presenza di Debrah accanto a me.

Ebbe la forza di strappare la sua mano dalla presa dell'uomo e di avvicinarsi come una furia verso di me. Mi puntò il dito contro e iniziò ad insultarmi, a modo suo.

«T-tu» il suo indice puntato sfiorava il mio petto «tu s-sei un lurido basc-bastardo. Mi hai bac-ciata e us-usata ancora una volta. S-stronzo p-puttaniere!» parlava a rallentatore e biascicando.

Era ubriaca, non c'erano più dubbi.

Ubriaca, bellissima e incredibilmente sexy nei suoi jeans aderenti e scarpe da ginnastica. Aveva cambiato abbigliamento, le stava benissimo. 

Le donavano persino i capelli spettinati e il trucco colato.

E poi... poi quell'espressione incazzata, mi faceva impazzire ogni secondo di più. 

Era buffa. Buffa e perfetta. Dopo la sua dichiarazione, dopo esser venuto a conoscenza del suo interesse verso di me, risultò difficile trattenermi.

Se solo fossimo stati soli, io e lei...

«E p-poi ttu. S-sei sempre in mezzo alle p-palle, Debbrah dai mille cass-cazzi» avanzò verso Debrah -che invece stava ancora comoda sulla sua sedia senza impaurirsi minimamente- con uno sguardo minaccioso e puntò il suo indice verso lei. Fu difficile trattenere le risate dopo le sue parole e dopo la dimostrazione della sua goffaggine.

Miki; vulnerabile e fragile da ubriaca, forse per la prima volta se stessa. 

Cercava di essere forte, di fare la scontrosa, ma ai miei occhi tutto era tranne quello. I suoi occhi; ero riuscito ad osservarli per poco, emanavano una luce strana quella sera. Forse, quella sera imparai ad apprezzarli realmente, forse addirittura ad adorarli, a leggerli. Occhi neri che nascondevano un mare dentro. Mai visti prima d'allora.

«Sapessi tu quanto sei in mezzo alle palle... Ma tranqui tesoro; uscirai presto di scena, finalmente!» rispose infastidita Debrah sfoderando uno dei suoi sorrisi finti e prendendo le parole di Miki sul serio. Non aveva senso dell'umorismo.

«Ok! Vi lascio s-soli piscioni... pisccionscini-piccioncini. Bye bye!» alzò la mano a mo' di saluto e s'incamminò verso l'uscita del locale, barcollando.

Il barman era rimasto incredulo -confuso e scocciato per la serata conclusasi in bianco- per tutta la scena.

Mentre seguivo con gli occhi Miki, mi voltai verso Debrah: «se hai finito con i tuoi ricatti del cazzo, io andrei» e mostrai col pollice l'uscita del locale dietro di me.

«Certo! Corri pure dalla principessina sul pisello finché puoi. Tanto il vostro tempo sta per scadere..» se non avesse inserito battute di pessimo gusto, non sarebbe stata sé stessa.

«Sempre simpatica come una spina nel culo!» sorrisi falsamente.

«E tu sempre delicato come un ippopotamo», imitò il mio sorriso.

Poi si schiarì la voce e proseguì: «ti do un giorno di tempo per decidere sul da farsi. Sei stato informato su tutto. Mandami un messaggio con scritta la tua risposta. Buonanotte!» aggiunse il saluto sarcasticamente.

«Oh come sei gentile a concedermi TUTTO questo tempo», la derisi.

«Sempre a sua disposizione Signor Black» mi fece l'occhiolino ed io a quel punto non risposi più.

Mi voltai e m'incamminai verso l'uscita del bar per inseguire Miki. Avrebbe potuto combinare guai in quelle condizioni, la testona.

«Miki, Miki... Ehi» corsi verso di lei una volta individuata al di fuori del locale. Le luci dei lampioni offrivano una scarsa illuminazione, ma non fu difficile individuarla vista la sua camminata da ubriaca, lenta e barcollante.

Restai dietro di lei quando nell'udire il suo nome si girò, mi guardò male e cercò di aumentare il passo per distanziarmi. Non rispose, sembrava nervosa. Era comprensibile visto i precedenti di neanche due ore prima in quella stanza d'hotel.

«Ehi Miki, ferma!» la bloccai trattenendola da un braccio, altrimenti non si sarebbe fermata.

«Oh insciomma, ma c-che vuoi? Lasciami in pace! Torna da Debrah» sembrava un'ubriaca disperata. Non spiccicava bene la parola, ma riuscii a comprenderla ugualmente.

«Perché hai bevuto?», non era mai stata quel genere di ragazza.

Come risposta rise sguaiatamente, si liberò dalla mia presa, indicò la mia figura col suo dito indice e voltandosi come se nulla fosse proseguì la sua camminata. Mi aveva fatto capire di essere io la causa della sua ubriachezza. Per la prima volta nella mia vita mi sentii in colpa. Era giusto visto il male recatole.

«Voglio che arrivi sana e salva all'hotel, fermati per piacere», la raggiunsi e cercai di afferrarle nuovamente il polso per fermarla. Visti i suoi sbandamenti improvvisi, una macchina l'avrebbe potuta investire.

«Se... come se a te fregasscie qualcosa di me! E poi io non torno in hotel né s-stanotte, né mai. E s-sce ci tieni a saperlo non tornerò neanche in Francia con te». Cercò di parlare meglio e quasi ci riuscì.

Fui sorpreso della sua convinzione e forza. «Bene. E dove credi di andare?»

«Scemplice. A casa mia...» a quelle parole cambiò direzione ed io la seguii.

«Non credo sia una buona idea, ragiona Miki», cercai di farla ragionare.

«Ah no? E su coscia dovrei ragionare? Su quanto sono s-stronzi tutti i maschi della terra?»

«Non sono tutti stronzi. Non puoi basarti solo su una persona per insinuare questo» mi sembrava quasi di star parlando con una bambina. Come se lei non sapesse come funzionava il mondo. 

«Io mi baso s-su tutti gli uomini con cui ho avuto a che fare fino ad oggi. Tu scei lo stronzo numero DUE nella mia lista» indicò il numero due con le dita. Che tenera!

"Ehi un attimo, tenera? Castiel Black che considera qualcuno tenero? No, non è possibile. La birra deve avermi fatto male".

«Ah sì? E chi è lo stronzo che mi ha battuto?» sorrisi, m'infilai entrambi le mani nelle tasche anteriori dei pantaloni pensando a quel dialogo insensato che stavamo avendo. Lei era giustificata viste le sue condizioni, ma io no. Avevo bevuto una sola birra avrei dovuto essere normale.

«Quello che tutti chiamano padre» disse con evidente sofferenza ed io tornai improvvisamente serio. Non aggiunsi altro, non ci sarebbe stato bisogno.

Trascorsi quindici minuti di cammino lento e silenzioso, Miki decise di parlare. Sembrava essersi ripresa un po'. Forse l'aver pensato a suo padre l'aveva risvegliata dallo stato di trance provocato dall'alcol.

«Sai? Mi picchiava quando tornava a casa ubriaco. Una volta, mi ha persino rotto addosso due bottiglie di birra. Mi sono rimasti dei piccoli segni sul corpo, ma grandi cicatrici nel cuore...» s'interruppe emettendo un grande sospiro e rimandando indietro le lacrime evidenti sui suoi begli occhi grandi. 

Deglutii senza sapere come poter consolare su una storia come la sua. Non ero bravo in quel genere di cose.

«Durante i due anni in cui lui era ancora vivo, eravamo soli, Teresa ci aveva già abbandonati. Lui non tornava mai a casa, ma quando tornava riversava tutta la sua frustrazione su di me. Nonostante il fatto che l'avesse quasi costretta a farla prostituire, Luis... mi-mio p-padre, amava ancora Teresa...» si fermò per qualche secondo per prendere fiato e si sedette sul pavimento sporco di un marciapiede; io la seguii a ruota rapito dalla sua voce rotta, dal suo racconto tremendo. I suoi racconti, le sue parole erano leggermente confusi a causa dell'alcol ancora in circolo nel suo corpo.

«Lui mi diceva sempre che le somigliavo molto, troppo per i suoi gusti e questo secondo Luis era un buon motivo per picchiarmi a sangue. In me vedeva lei; per punire lei, puniva me. Ovviamente mi costringeva a non raccontare a nessuno quello che faceva, mi costringeva a non poter andare all'ospedale e mi medicavo sola. Ero persino diventata brava, nonostante fossi piccola. A nove anni festeggiai quando fu trovato morto per strada. Era il minimo dopo tutto, no?» e fu a quel punto che scoppiò a piangere, inevitabilmente. Si era trattenuta per troppo tempo.

«Qua-quando ero ridotta troppo male a causa dei graffi o tagli, mi assentavo anche una settimana da scuola. Avevo raccontato a tutti di avere le difese immunitarie basse e di beccarmi qualsiasi influenza o virus in giro in quel periodo. Nessuno dubitava delle mie bugie, neanche Ciak.» nel pronunciare quel nome, abbassò il volto ed un sorriso amaro le si formò sul suo bel viso. Le faceva male aver perso anche lui, l'unica persona con cui poter condividere i soli momenti belli della sua infanzia.

«Ed ora guardami...» si mostrò.

Ed io la guardai come mi aveva chiesto di fare. Dio se la guardai... era perfetta nelle sue imperfezioni. Bella da togliere il fiato anche con il trucco colato sul suo viso dolce, e le occhiaie sotto i suoi meravigliosi occhi.

«Sono esattamente come lui» rise amaramente «bevo a causa di sentimenti non corrisposti. Bevo per un ragazzo che non mi vuole, m'intossico di alcol per dimenticarlo esattamente come faceva lui. Lui beveva per esser stato abbandonato dalla donna amata, lei non lo voleva, lui sì. Un po' bizzarro, vero? La storia si ripete. Forse c'è stato il tramando di generazione in generazione o qualcosa del genere. Alle persone normali si tramanda l'eredità e a me la sfiga nelle faccende di cuore, ovvio» terminò ridendo ancora amaramente, e incredula iniziò a muovere la testa orizzontalmente a destra, poi a sinistra a mo' di negazione. Quei collegamenti strani erano la testimonianza dei pensieri annebbiati causati dall'alcol.

Mi sentii chiamato in causa, inevitabilmente. In quel momento avrei tanto voluto rivelarle la verità, ma non potevo. Non dopo i ricatti di Debrah, non potevo trascinarla nei miei guai. Non lo meritava.

E per scolparmi... «Ma no, tu non sei dipendente dall'alcol. Hai bevuto una sola sera e questo non vuol dire che diventerai, per forza maggiore, un'alcolizzata. Io non te lo perme...» bloccò la mia ennesima promessa.

«Sì, certo. Smettila con le false promesse. Ora» mi rimproverò. Pur essendo in quello stato cercava di mettermi a tacere. Glielo lasciai fare.

Dopo un colpò di tosse, continuò: «Comunque... nonostante questo, sai cosa mi rimprovero?» si bloccò ancora una volta per sospirare, raccogliere le mille parole presenti nella sua testa e farle uscire fuori.

Inconsapevolmente stava ancora una volta versando in me la fiducia datami dal primo giorno. Era l'alcol a parlare, mostrando forse la parte più sincera di lei. Quella sera fu una delle poche volte in cui mi ritrovai a ringraziare il cielo per non aver bevuto molto; mi sarei ricordato ogni sua confessione, ogni suo lato, aspetto o sfumatura che avrebbe mostrato. E lo stava facendo con me.

Quando fu pronta a proseguire, lo fece fissando un punto vuoto dall'altra parte della strada: «Il fatto che, pur avendo subito queste violenze anche a causa sua, a causa di una mamma sconsiderata, lei un po' mi manca. Mi manca dall'altro giorno, da quando per puro caso era lì a cenare, nello stesso nostro hotel. Mi manca da otto anni, da quando se n'è andata. Mi manca perché una volta era dolce, era la mamma migliore che potessi desiderare, prima di tutto... prima che iniziasse a prostituirsi. Mi manca semplicemente perché è la mia mamma. E mi sento una stupida, diamine, una stupida perché provo sentimenti contrastanti per lei. La amo infondo, ma più di tutto la odio, la odio per quello che mi ha fatto, perché si è rifatta una vita senza pensarmi, ha fatto un'altra figlia e a lei le dà tutto l'amore che meritavo di ricevere io. Perché l'ha fatto, perché eh Castiel? Me lo spieghi tu? Perché io non capisco... io... Io... Ahhh!» urlò per la frustrazione, rabbia e confusione di quei sentimenti, di quei comportamenti commessi da sua mamma. Poggiò il suo viso sulle mani in segno di disperazione.

E seppur non riuscii a rispondere verbalmente a quelle domande indirette, decisi di agire senza farle sapere niente. Agii in silenzio. Approfittai della sua posizione e dei suoi occhi chiusi per prendere il cellulare e comporre un messaggio senza esser scoperto da lei.

 

A: Debrah

Accetto!

 

Inviai senza pensarci due volte. Aveva promesso di risolvere la situazione tra Miki e Teresa se solo avessi accettato di giocare con le sue regole, così mi aggrappai a quella speranza per avere la forza d'iniziare l'ennesima battaglia. Le parole di Miki mi avevano scombussolato ed era giunto il momento di ricambiare tutto il bene che lei aveva fatto per me.

Da quel momento in poi, dopo aver fatto riappacificare Miki e Teresa, avrei dovuto solamente trovare delle prove che avrebbero potuto scagionarmi da quel dannato video. Le avrei trovate. Fosse stata l'ultima cosa fatta in vita, ne sarei uscito vincitore. Non potevo sottostare ai voleri e capricci di una pazza come Debrah.

«Io n-non... io non volevo farmi vedere da te in queste condizioni. Mio Dio sono patetica, io davvero scu...»

«Sta' zitta e vieni qui» bloccai il fiume di parole uscente dalla sua bocca, mi alzai da quel marciapiede scomodo e mi posizionai davanti alla sua figura togliendo le sue mani ancora poggiate sul viso e poi afferrandole per sollevarla da terra.

Quando fummo finalmente l'una di fronte all'altro la strinsi forte tra le mie braccia. Non riuscivo a pronunciare parole di conforto, non era nella mia indole, il massimo che riuscivo a fare era quello. Sperai le potesse bastare. Averla lì a un centimetro dalla mia pelle, tra le mie braccia, fece aumentare i battiti del mio cuore involontariamente. L'abbraccio finì ed iniziammo a guardarci negli occhi, ma io non potevo cedere, non quella volta. Se lei fosse stata cosciente non mi avrebbe permesso quella vicinanza, e dovevo rispettarla. 

Così mi limitai a sfiorarle gli zigomi con entrambi le mani e subito dopo mi allontanai da quella vicinanza proibita.

«Torniamo in hotel, cerchiamo di evitare almeno un dramma».

 

***

 

MIKI

Delle pesanti fitte alla testa stavano disturbando il mio sonno, cercavo di aprire gli occhi ma quelli erano troppo pesanti e brucianti per poter essere sollevati. Contrapposto a quel piccolo disturbo era il piacevole calore e peso che sentivo sul corpo. Pensandoci, le coperte non erano mai state pesanti e calde in quel modo, come quel giorno. Non ci feci caso e mi girai di lato per posizionarmi maggiormente comoda. Ma dopo essermi voltata, sentii il naso solleticarmi da qualcosa. Ecco, appena trovata la scusante per svegliarmi definitivamente.

Saltai dal letto per lo spavento e il fastidio, pensai a tutte le possibilità plausibili e cercai d'individuare l'oggetto che aveva provocato il mio solletico.

Aprii di scatto gli occhi e accanto a me trovai la risposta a tutti i miei dubbi.

Iniziai ad urlare come una matta e l'oggetto in questione si spaventò, saltando anch'egli dal letto e tappandosi le orecchie. 

«Ma che cazz...» pronunciammo entrambi all'unisono, scombussolati.

Le urla avevano peggiorato il mio dolore di testa e mettendo entrambi le mani ai lati delle tempie, iniziai a massaggiarle per cercare di alleviare le fitte.

Mi sentivo frastornata e confusa. Per quale motivo Castiel stava dormendo nel mio letto e non nel suo? Cos'era successo la sera prima? Avevamo dormito insieme? Ma soprattutto... solo dormito? Avevo ceduto a lui dopo il suo rifiuto? Gli avevo donato la mia verginità? Cavolo!

Cercai di ricordare.

E ricordai solo la mia visita ad un locale che offriva da bere anche ai minorenni.

Mi sforzai e oltre alla mia lunga bevuta di alcolici, ricordai l'uomo antipatico del bar che ci provava spudoratamente con me, ad un certo punto voleva persino portarmi in uno stanzino per "concludere". La testa iniziò a pulsare nuovamente e decisi di rimandare a dopo la ricerca della verità, continuai a massaggiarmi le tempie.

«Aspetta! Dovrei avere una pillola per la sbornia» parlò, tornato in sé, Castiel.

«NO! Io da te non voglio niente!»

«Ah sì? Ieri non sembravi pensarla così», sorrise maliziosamente.

«C-che... C-come?» non riuscivo neanche più a parlare.

"Non mi dire che..."

"Cosa ho combinato ieri? Vuoi vedere che... Oh mio Dio!" 

Spalancai la bocca non appena rievocai ricordi e immagini sfumate relative alla sera precedente. Non ero stata capace a mantenere la promessa fatta a me stessa, neanche da ubriaca. Ero patetica. Avevo ancora una volta aperto il mio cuore ad una persona che non lo meritava. 

Iniziai a picchiarmi sulla testa per rimproverarmi. 

«Non la fare così tragica, ora. Eri solo ubriaca e avevi bisogno di una spalla su cui piangere»

«La fai semplice tu. Avevo... Ho bisogno di una spalla sia nei momenti di ubriachezza e sia nella quotidianità. Qualcuno che ci sia sempre e non solo a convenienza. È palese che tu non sei e non puoi essere quella spalla. Quindi sì, se permetti la faccio tragica perché ho sbagliato totalmente persona. Non avrei dovuto fidarmi e confessarmi con te!» dal mio tono di voce si capiva palesemente la mia irritazione. Stavo di nuovo, per l'ennesimo giorno, perdendo la pazienza verso il rosso. 

Ovviamente Castiel mi guardò serio e pensieroso per qualche secondo e poi distolse lo sguardo spostandolo verso la porta senza degnarmi di una risposta.

«Preparati alle sue urla» disse mostrando la porta. Evidentemente avevano bussato ma non avevo sentito. Ero talmente intontita da sentire persino la voce di Castiel quasi ovattata. Avevo davvero esagerato nel bere la sera prima.

Lo guardai aggrottando la fronte per trasmettere la mia confusione, me ne pentii subito dopo visto il peggioramento del dolore di testa provocato dal movimento brusco.

«Ah giusto, tu russavi come un animale in calore» si ricordò poi sogghignando.

«Che? Come fanno a russare gli animali se sono in calor... Ehi... ma io non russo!» incrociai le braccia fingendomi offesa.

«Rimandiamo le spiegazioni a più tardi» sorrise scherno «fatto sta che la Lamberto ci ha scoperti fuori dalla stanza, ieri notte. Io ti portavo in braccio; ah a proposito... sei pesantuccia e dovresti perdere qualche chilo tra l'altro. Comunque.. mentre cercavo di aprire la porta sbuca lei da non so dove...»

«Insomma volete aprire o devo chiamare i vigili del fuoco?» interruppe il discorso del rosso, Stefania, strillando e bussando alla porta rumorosamente.

Per la confusione misi le mani tra i capelli, disperata. Per quale motivo Castiel la notte prima mi aveva trasportata in braccio? Ma soprattutto perché mi ero fatta sfiorare da lui senza opporre resistenza?

«Mentre dicevi cose senza senso a causa del sonno e dell'intontimento dovuto dall'alcol, ti sei addormentata sulla mia spalla. Per tua informazione eravamo seduti sul marciapiede in mezzo alla strada..» continuò Castiel ignorando Stefania che bussava ininterrottamente. Se avesse proseguito in quel modo, la porta sarebbe caduta.

«Comunque alla fine sono riuscito ad inventare che non eravamo usciti, ma che eravamo sul terrazzo dell'hotel, all'ultimo piano... La befana se l'è bevuta» sogghignò fiero di esser stato convincente per la menzogna raccontata.

«E allora perché dovrebbe rimproverarci ora?» chiesi cercando di fare chiarezza nella mia testa confusa.

«Perché ovviamente il terrazzo è una zona vietata per coloro che alloggiano nell'hotel»

Perfetto. Avevo tutto più chiaro dopo il racconto del rosso. Quell'aspetto però non toglieva il fatto che ce l'avessi con me stessa per la sera precedente. Era bastato un po' di alcol per farmi ricadere nelle braccia più comode ma sbagliate, per me.

Lasciandomi sola nei miei pensieri, Castiel aprì velocemente la porta della stanza. Rivelò una Stefania piuttosto rossa dalla rabbia.

«Cosa stavate facendo voi due, qui, soli? Ci avete impiegato un'ora prima di aprirmi».

«Guardi che non abbiamo chiesto noi di esser messi in camera insieme» disse ovvio Castiel.

«Non è stata una decisione presa da me. Fosse stato per me vi avrei messo in stanze e piani separati... E poi cosa vuoi dire con quella risposta? Quello che ho pensato, è vero? Vi avevo elencato le regole, rimproverati, ma voi state continuando a trasgredirle...»

«No-no-no, noi n-non stavamo facendo niente di quello che pensa. Io stavo semplicemente ancora dormendo e Castiel era nel bagno» dissi velocemente, cercando di giustificare la situazione.

«Va bene, sembra piuttosto sincera signorina Rossi. Mi fiderò di lei anche questa volta» affermò guardandomi di sbieco. Dovevo starle particolarmente simpatica visto che appena inventavo una scusa lei non ritardava a credermi. Buono a sapersi!

«Gra...»

«Ora che anche lei è sveglia, la informo che è severamente vietato l'accesso al pubblico sul terrazzo dell'hotel. La prossima trasgressione, di qualsiasi genere, avrà ripercussioni sull'andamento del vostro anno scolastico corrente. Detto questo, adesso sbrigatevi... dobbiamo partire per il terzo giorno di visita guidata!»

Da quel giorno in poi avrei dovuto prestare maggiore attenzione alle uscite dopo il coprifuoco. Non volevo ripercussioni sul mio anno scolastico.

 

***


Dopo aver fatto una doccia e colazione, partimmo per l'itinerario di quel terzo giorno. 

Come prima tappa giungemmo nell'area di Città del Vaticano. Minuscola città ma ricca di opere d'arte e di storia da raccontare. A mio parere quella era da sempre una delle zone più pacifiche di Roma. Vero, la parte della Basilica era molto affollata, circondata e visitata da turisti, ma nonostante quell'aspetto regalava a chiunque la visitasse, una certa pace interiore. Già, a chiunque tranne che a Castiel evidentemente. Da quando avevamo messo piede in quella città partendo dai Musei Vaticani, non aveva fatto altro che sbadigliare e protestare con smorfie davanti ai racconti di storia e religione della signora Lamberto. Si vedeva lontano un miglio che il ragazzo non fosse di religione cattolica. Come facesse a non restare esterrefatto dalla bellezza degli affreschi coprenti tutte le pareti del museo, restava un mistero. Non bisognava professare per forza la religione cattolica per apprezzare quel posto. Era davvero incredibile. Quelle mura raccontavano secoli e secoli di storia. 

Una volta fuori dai musei vaticani proseguimmo per la Basilica di San Pietro, altro pezzo di storia italiana e di tutto il mondo. Adiacente vi era la piazza omonima della Basilica, da entrambi i lati chiusa da lunghi corridoi coperti e sorretti da colonne che, visti dall'alto con un elicottero, sembravano quasi simboleggiare lunghe braccia. Infatti, quando avevo visitato quella Piazza da piccola -in visita guidata con la scuola elementare- la maestra mi aveva raccontato un aneddoto che mi restò impresso, ma non mi ero mai informata per capire se quello fosse reale oppure no. La maestra mi disse che quei corridoi, formati da tante colonne, erano stati costruiti circolarmente e attaccati alla Basilica appositamente per simboleggiare un abbraccio di Dio rivolto ai fedeli, a tutte le persone visitanti la Piazza. Quello era visto quasi come un simbolo religioso dai credenti, un simbolo per far sentire i fedeli ancora più vicini a Dio e alla religione cattolica.

Dopo aver visitato gli interni della Basilica, bellissima e lussuosa, ricca di oro e anch'essa di affreschi, ci spostammo verso il Tevere per visitare Castel Sant'Angelo. Nato come mausoleo sepolcrale e trasformatosi poi nei secoli in fortezza e in temuta prigione, nei tempi recenti aveva iniziato a conservare, al suo interno, alcune stanze con strumenti di tortura e un museo delle armi. Attraversando il Tevere passando sul Ponte Sant'Angelo giungemmo poi al Campidoglio, sede del Comune di Roma. Ponte Sant'Angelo, in sé, era già uno spettacolo. Sembrava non avere nulla di particolare eppure era un posto molto visitato e magico con i suoi dieci angeli a circondarlo e come sfondo il Tevere a sottostarlo. Negli anni era stato luogo di scene romantiche di film e anche per quel motivo preso d'assalto da molte ragazze della mia età o anche più piccole.

«Tzè che idiozia questi lucchetti. Credono davvero che chiudendo questi cosi e gettando la chiave nel fiume, il loro schifo di amore durerà per sempre?!? Che stupidi!» si lamentò pessimista Castiel. Aveva parlato proprio lui che per amore aveva calpestato il suo carattere forte sotto i piedi, era divenuto schiavo e si era quasi ucciso. Dopo la delusione doveva essere difficile per lui credere di nuovo in quel sentimento, eppure non appena Debrah era tornata, non ci aveva impiegato molto per cadere nuovamente nelle sue grinfie. 

Tra le altre cose, non avevo ancora capito se dopo il suo arrivo a Roma stessero o meno insieme. Non li avevo avvistati neanche una volta insieme, in quei giorni, tranne che per quel piccolo inconveniente nella mia vecchia casa. 

Per quei piccoli particolari non risposi alla sua precedente osservazione sull'amore, ma lo guardai di sbieco e proseguii a camminare senza fermarmi come invece aveva fatto lui.

Castiel dopotutto aveva ragione. Era uno spettacolo brutto da vedere. Ma se non avessero rovinato il panorama del posto, non sarebbe stata un'idea pessima. Quel giorno non vi erano molti lucchetti. Qualche anno prima invece il ponte Sant'Angelo ed il ponte Milvio -dall'altra parte- soprattutto, avevano le ringhiere piene zeppe di lucchetti con impressi i nomi dei presunti innamorati.

Riattraversando il fiume giungemmo sulla terrazza del Gianicolo dove terminammo la giornata di visita guidata; uno dei punti in cui si poteva ammirare al meglio la Capitale. Mi rilassai alla vista silenziosa e panoramica della mia ex città. Vista dall'alto appariva come una terra antica senza segreti o misteri. Dall'alto la città sembrava quasi dormire, per la prima volta. Non si sentivano i clacson delle auto, le urla o le voci di migliaia di turisti, e non si sentiva nemmeno il suono del fischietto del vigile urbano. Era tutto perfetto. Non esistevano né Debrah, né Teresa, né più Ciak e né i mille drammi che da sempre popolavano la mia vita. Persino Stefania restò ammaliata dalla bellezza di quella veduta; a testimoniarlo fu la sua quietezza improvvisa e faccia da ebete rivolta verso la città eterna.

E inevitabilmente lo sguardo si spostò verso l'enigma più contorto della storia: Castiel. Il sole stava calando e i raggi riflettevano sulla capigliatura del rosso, rendendo i suoi capelli quasi dello stesso colore del sole. Persino la luce del sole sembrava inchinarsi davanti a quella personalità forte e lineamenti del viso decisi. I suoi occhi, poi... i suoi occhi anche a distanza s'intravedevano luminosi e particolarmente belli da mozzare il fiato. Per un attimo quasi cedetti alla sensazione di voler vedere ancora meglio, di volermi avvicinare al nemico. Si trovava alla mia destra, a pochi metri di distanza da me. Era stato anche lui rapito dalla bellezza di Roma dall'alto, peccato però per me... la mia attenzione ad un certo punto si era spostata verso tutt'altra visuale. Il volto serio e luminoso di Castiel con sfondo la vista dell'intera Roma erano uno spettacolo irripetibile. 

Roma era ai suoi piedi: un'intera città, inchinatasi a lui, faceva da sfondo alla perfezione della sua figura. Ma se avessi voluto sopravvivere altri tre giorni a Roma, avrei dovuto resistere senza cercarlo, chiamarlo o parlargli in maniera intima. Ce l'avrei fatta quella volta, vero?

-

La stessa sera ero davvero molto stanca, avevo deciso di non mettere piede al di fuori della mia stanza di hotel. E poi... non avrei potuto permettermi sanzioni disciplinari a scuola. Non sarebbe stato complicato, non sarebbe stata la fine del mondo stare dentro per altre tre sere, compresa quella corrente, ce l'avrei fatta.

Improvvisamente e stranamente il suono e la vibrazione di un messaggio mi distolsero dalla possibilità di sonnecchiare.

Presi il cellulare che si trovava sul comodino.

Prima di aprire il contenuto cercai d'interpretare il mittente, ma sullo schermo apparvero solo delle cifre a testimonianza che quel numero non fosse salvato nella mia Rubrica. 

Curiosa e assumendo un'espressione di stupore aprii in fretta il messaggio.

 

Da: 9371689214

Non mi stai simpatica, questo era già chiaro. Se non fossi stata obbligata a scriverti, non lo avrei fatto. Ma devo parlarti urgentemente. Raggiungimi nella stanza n.89, alloggio nel tuo stesso hotel. Non darmi buca...

Debrah Duval!

  
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