Libri > Shadowhunters
Segui la storia  |       
Autore: WallisDennie    13/09/2017    6 recensioni
Magnus/Alec, accenni di altre coppie | ElisadiRivombrosa!AU | Earl!Magnus, Butler!Alec.
~
In seguito alla morte del padre, Alec Lightwood diviene maggiordomo alla tenuta Bane, preso a servizio per la sua onestà e per il carattere fedele e coraggioso. La contessa Bane lo considera quasi un figlio, ma un dolore pesa sull'anziana donna: il figlio Magnus, arruolatosi nell'esercito, è lontano da casa da ormai otto anni per dimenticare le ferite di un amore non corrisposto.
Sullo sfondo di un complotto ordito da nobili ai danni del re, il ritorno di Magnus scatenerà una catena di eventi che stravolgerà le vite di ognuno dei personaggi, ma soprattutto, il cuore di un giovane ragazzo dagli occhi blu.
Un amore pieno di insidie, forse impossibile, che li spingerà ad affrontare le paure, i pregiudizi e anche i sentimenti.
~
Liberamente ispirato alla serie televisiva di Cinzia TH Torrini, con i meravigliosi personaggi di Cassandra Clare, in un esperimento che mi ha fatto piacere scrivere.
Buona lettura!
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
 
 
Capitolo primo.





New Jersey, 1749.

Nella quiete mattutina della frazione di bosco tra Madison e Long Hill riecheggiò d'un tratto, sempre più incalzante, il suono degli zoccoli di due cavalli al galoppo.
Lontano dal percorso della strada sterrata, un cavaliere dedito alla fuga sbirciava il suo inseguitore, spronando l'animale ad allungare le distanze dall'altro.
Giunto in prossimità del sentiero, si lanciò oltre una siepe selvatica avvertendo la presenza dell'avversario affievolirsi sempre di più.
Si voltò un'altra volta: l'aveva seminato!
Con un sorriso, già pregustando la vittoria, sferrò un altro calcio all'addome dell'animale incitandolo a raggiungere al più presto il punto di traguardo e reclamare il premio.
Ma l'altro fantino non era affatto rimasto indietro. Bensì aveva cambiato direzione, dirigendosi nei pressi di un ponticello di pietra ombreggiato dalle fronde, deviando tra gli alberi.
In pochi minuti raggiunse la svolta del sentiero e scartando rapido di lato, si pose in testa al rivale di una ventina di metri.
Questi, per evitare lo scontro, dovette arrestarsi bruscamente e riprendere subito la corsa imprecando al vento.
Di nuovo secondo, Simon si ritrovò a sterzare di nuovo, quando il sentiero sfociò in un campo di mais. Ma l'avversario non si fermò e anzi si gettò senza riserve nel campo, sollevando un cumulo di foglie.
Da lì a poco le urla indignate delle contadine che raccoglievano pannocchie, giunsero alle orecchie di Simon, che trafelato e con i capelli scompigliati corse più che poté per aggirare l'immenso ostacolo.
Da lontano gli parve di sentire un rumore metallico, ma non ci fece troppo caso e alla fine raggiunse il cortile della tenuta, residenza dei conti Bane, dove era cresciuto e dove lavorava come stalliere. Arrestandosi di botto e con il fiatone, Simon scese da cavallo con la sua espressione vittoriosa, non vedendo l'avversario da nessuna-
« Sei decisamente troppo lento »
No! Non era possibile!
L'altro cavaliere era appoggiato al fienile, con il suo cavallo che tranquillamente si gustava il premio per la lunga gara, mentre con tutta tranquillità si sfilava i guanti da fantino.
L'espressione soddisfatta dipinta su quel sorriso roseo e negli occhi blu come il mare d'estate, i capelli neri come la pece appena scompigliati dal vento di fine primavera e il profilo forte di un ragazzo giovane e testardo, quanto gentile e coraggioso.
« Hai barato! » obiettò prontamente Simon, sforzandosi di non far tremare troppo la voce per la fatica.
Tutto il contrario di Alec, che ancora lo guardava tranquillo e apparentemente per nulla affaticato.
D'altronde Simon era un ragazzo dedito più ai libri, che ai cavalli.
Un controsenso, visto il suo lavoro. « Hai attraversato il campo, accorciando il percorso! » aggiunse, aggrottando le sopracciglia scure come i capelli.
« Non era vietato nel regolamento »
« Non era nemmeno citato nel regolamento! Era dato per scontato che bisognava seguire lo sterrato. Quindi sei squalificato! » Alec alzò gli occhi al cielo.
« Allora anche tu, visto che hai tagliato dai cespugli » disse il ragazzo dagli occhi blu, carezzando la criniera di Lux. “Che nome assurdo”, aveva sempre pensato.
Simon divenne rosso in volto.
Alec, allora, gli sorrise gioviale e gli fece un cenno con la testa.
« Dai Lewis, torniamo a lavoro. » detto questo, prese le briglie di Lux e lo riportò nella stalla.





Tenuta della famiglia Bane.

Dopo aver lasciato il cavallo, strigliato e spazzolato, Alec si ritirò nella sua camera.
Era meno lussuosa delle altre stanze del castello, ma era accogliente.
Molti dei servitori dormivano in una stanza comune, ma da quando era stato preso a lavorare alla tenuta dopo la morte di suo padre, tre anni prima, la gentile anziana contessa lo aveva preso a cuore, tanto da donargli una stanza tutta per lui.
Lavorava alla villa da poco dopo quel tragico giorno, quando Robert Lightwood, suo padre, aveva avuto un malore improvviso mentre lavorava nei campi e si era spento nel cuore della notte tra le braccia della moglie Maryse.
Alec dovette inviare una lettera alla sorella Isabelle, allora cameriera di una dama nella città di Newart, addolorandola.
In seguito, Alec si assunse i doveri del padre, andando a lavorare nei campi al posto suo, mentre la madre si divideva tra il lavoro alla tenuta Bane e il prendersi cura del figlio minore, Max, che dalla morte del padre aveva cominciato a soffrire di attacchi di asma improvvisi.
In quella difficile situazione, tuttavia, giunse come una calda brezza estiva, la contessa Bane che lo portò dai campi alla tenuta, assumendolo come maggiordomo personale e dando un laudo compenso non solo a lui e a sua madre, ma anche al piccolo Max, invitandolo ad aiutare uno dei giardinieri con l'innaffiamento dei fiori, permettendo a Maryse di lavorare ed occuparsi del bambino senza affaticarsi troppo.
Alec si era affezionato sinceramente alla nobile contessa, offrendosi di leggere per lei i suoi libri preferiti e facendole compagnia.
Perso nei pensieri e osservando le luci del mattino riverberarsi sulle pareti chiare, Alec prese dallo scrittoio accanto alla finestra un foglio di carta, calamaio e inchiostro.
Doveva scrivere alla sorella, Isabelle, chiedendole notizie sul corso che frequentava a Trenton per diventare infermiera.
Ma prima che potesse intingere il pennino, la porta si spalancò.
Alec scattò in piedi, trovandosi davanti il volto di pacata bellezza, incorniciato dai capelli perfettamente acconciati di Catarina Bane, figlia minore della contessa, che lo scrutava irrigidita in una smorfia di scontento.
Tra le mani stringeva il ventaglio, un atteggiamento che ad Alec ricordava molto sua sorella quando da piccola faceva i capricci.
Chinò lo sguardo a quel pensiero, pronto a formulare la solita frase di cortese buongiorno.
« Che non succeda mai più, sono stata chiara? » pronunciò la contessa, severa come sempre. « Tu sei il maggiordomo di mia madre, non un vagabondo che prende un cavallo che non gli appartiene per sollazzarsi per i boschi. » aggiunse, squadrandolo da capo a piedi con un'ombra di disapprovazione.
Alec non ricordava di aver mai visto un accenno di gentilezza nei suoi confronti.
Il ragazzo indossava dei pantaloni smessi, sporchi di fango in alcuni punti.
« Bene, perfetto. » indicò le macchie con la punta del ventaglio. « Adesso il tuo nuovo divertimento consiste nell'insudiciare tutta la tenuta, vanificando tutti gli sforzi degli altri servitori come te. »
A questo punto un sorriso di scherno le si dipinse sul volto.
« Perché te lo ricordi di non essere altro che un servo, vero? » si avvicinò. « Non vorrei che a forza di indossare gli abiti di mio fratello tu ti convinca di essere quello che non sei »
Alec alzò di poco lo sguardo.
« Contessa, io- » cercò di spiegare.
« Silenzio! » lo interruppe Catarina. « Non ti ho chiesto di rispondermi. Il fatto che mia madre si sia intenerita nell'adottarti, come fossi una cane randagio, non inganna me. » proseguì. « Io non mi lascio incantare dal tuo bel faccino. Forse dovrei rispedirti nei campi, a spaccarti la schiena come meriteresti. »
Alec, nonostante si sforzasse, non riusciva a capire perchè la contessa ce l'avesse tanto con lui.
Decise di rimanere in silenzio, in attesa del permesso per parlare.
« E ricordati, tu sei qui solo per la benevolenza di mia madre. Se fosse per me, saresti con tua madre e tuo fratello a patire la fame. Ci siamo intesi? »
« Si, contessa. » pronunciò con un filo di voce.
« E adesso ricomponiti, mia madre ti sta aspettando. »
Alec si cambiò in tutta fretta, volendo evitare ulteriori lavate di capo.
Si diresse poi nella biblioteca, luogo preferito dell'anziana contessa. Era un luogo tranquillo, con grandi librerie di legno ricolme di tomi su quasi ogni argomento, vetrate colorate e una terrazza colma di fiori che dava sull'immenso giardino da cui si poteva anche scorgere l'entrata.
Da quel balcone, Alec aveva sbirciato le carrozze dei nobili giungere alla tenuta durante feste e ricevimenti.
Era anche una delle stanze preferite di Alec, seconda solo alla grande serra, in cui le specie più incredibili di erbe, piante e fiori venivano accuratamente accuditi dai servitori. Un piccolo angolo di paradiso, quando il sole si destava dal suo sonno o si ricongiungeva con la notte.
La contessa era comodamente adagiata sulla sua sedia a dondolo, avvolta dalla sua coperta di fiori ricamati. Scrutava l'orizzonte, avvolta da chissà quale pensiero.
Alec si schiarì appena la voce, destando l'attenzione della donna che volgendo il capo nella sua direzione distese il volto in un dolce sorriso, contagiando anche il ragazzo che rispose con un altro sorriso.
« Buongiorno, contessa » disse, accennando un inchino. « Avete dormito bene? »
« Caro Alexander » la contessa era l'unica che lo chiamava con il suo nome completo. « L'età si fa sentire ogni giorno di più, ma almeno ci sei tu a portare un po' di luce alle mie giornate »
La contessa tese una mano nella sua direzione. Alec si inchinò dinnanzi a lei e la donna gli carezzò appena la guancia. Poi il ragazzo prese posto dinnanzi a lei, prendendo dal comodino il libro iniziato la mattina prima.
« Sei stato nei boschi stamattina? » Alec la guardò, abbassando appena lo sguardo.
« Si, contessa. Mi dispiace di avervi fatta aspettare »
Al contrario della figlia, la contessa sorrise comprensiva.
« No, devi divertirti. Vorrei poter avere la forza di fare anch'io delle lunghe passeggiate. » aggiunse, con una punta di malinconia.
Alec non conosceva molto la contessa, ma era certo che da giovane fosse una donna piena di forza e desiderosa di correre, esplorare, vedere ogni cosa.
« Sono certo che siete stata una grande amazzone »
La contessa rise, di cuore.
« Non ero male, in effetti. » lo guardò con dolcezza.
Poi il suo viso gentile si adombrò di nuovo. « Vorrei che mia figlia fosse più gentile con te »
Alec la fissò sorpreso.
Prima che potesse aprire bocca, la contessa lo anticipò.
« So che ti riprende spesso. Ma non devi temere nulla, così come tua madre e il tuo caro fratellino. » si sistemò meglio sulla sedia. « Qui si fa solo quello che decido io. Il resto sono solo parole »
Rincuorato, Alec le sorrise.
« Vi va di continuare la lettura di ieri? »
« Sì. » volse nuovamente lo sguardo verso fuori, così lontano che Alec non riuscì a raggiungerlo. « Se solo mio figlio tornasse a casa » sospirò.
Il figlio della contessa, il conte Magnus Bane, si era arruolato otto anni prima nell'esercito del Clave, prima per un lungo addestramento a Brooklyn e in seguito per delle lunghe missioni al nord del paese.
Non si ricevevano spesso suo notizie e quando giungevano erano trafelate e poco dettagliate. Sua madre soffriva della sua assenza, era evidente.
Non era solamente preoccupata per lui, per la sua salute, ma anche per la tenuta.
Il conte era l'unico che sarebbe stato in grado di occuparsi di tutte le faccende che la contessa madre era troppo stanca per dedicarvisi con il giusto impegno.
E Catarina era troppo concentrata sul buon nome della famiglia e sul riprendere la servitù, per occuparsi in maniera considerevole anche delle faccende economiche.
« Ah, ragazzo mio » disse sconfortata la contessa, con voce lieve. « Qui va tutto in rovina » sospirò, quasi impercettibilmente, la tristezza nello sguardo ma ancora di più, un'amara consapevolezza.
Quindi era quello lo sguardo di chi sta perdendo le speranze.
E Alec si chiese se la contessa si stesse rivolgendo a lui, con quelle parole, o al lontano figlio.
Con questi pensieri, apri la pagina dove aveva lasciato il segno e continuò a leggere.


Tornato nella sua camera, dopo aver concluso tutti i suoi doveri, Alec si tolse le vesti preparandosi per andare a dormire. Scostò le coperte, posando un ginocchio sul comodo materasso.
Ma d'un tratto si ricordò che doveva ancora scrivere alla sorella, pertanto raggiunse lo scrittoio, doveva aveva lasciato la lettera non ancora scritta.
Intinse il calamaio nell'inchiostro, ma poco prima di posare il pennino sulla carta, si arrestò.
Improvvisamente il volto dell'anziana contessa le si parò dinnanzi agli occhi, il viso malinconico che tanto l'aveva colpito.
E dopo qualche minuto, strinse il pennino e lo passò sulla pagina bianca.
Ma non scrisse ad Isabelle.





Accampamento militare, High Peaks.

Le spade si incrociarono, veloci. Soldati impegnati in un duello assestavano ogni colpo con precisione, il suono delle lame riecheggiava tra le pareti del cortile.
Uno dei quattro ebbe la meglio e con un salto costrinse tutti gli altri ad arretrare.
I tre giovani militari si arrestarono qualche istante, per riprendersi, ma il quarto, scattante e impulsivo, non era tipo da esitare.
« Disciplina » tuonò la voce del conte Magnus Bane.
Gli occhi verde chiaro, dal taglio orientaleggiante, socchiusi in uno sguardo fiero, certo della vittoria, si puntarono su ciascuno degli uomini, intimidendoli. Sotto il ciuffo di capelli scuri che ricadeva sulla fronte, il volto ombroso e attraente era tranquillo e concentrato.
Riprese a duellare con uno degli allievi e subito passò al secondo.
« Un ufficiale non ha bisogno di ricevere ordini, sa già quello che deve fare » detto ciò sorprese il terzo, con uno scatto in avanti, facendolo cadere a terra. « Sempre » sorrise, guardandolo dall'alto.
Il secondo gli si buttò addosso cercando di colpirlo, mentre il primo gli si pose davanti spalleggiando il compagno in difficoltà.
« Ottimo, ottimo » sorrise Magnus, rendendo omaggio con un gesto della mano al primo soldato. « Lavoro di squadra, regola numero uno »
Il primo soldato, più sicuro di sé, si spinse in avanti cercando di colpirlo frontalmente, ricevendo una steccata sul fianco e finendo anch'egli a terra accanto al terzo.
« Regola numero due: l'importante è non crederci troppo » continuò il conte, puntandogli la spada al lato del viso e avvicinandosi al soldato.
« E regola numero tre » aggiunse, sottovoce.
Il secondo soldato, con un grido, prese la spada con due mani facendo per colpirlo alla schiena.
Ma Magnus, scattante, scansò via con l'elsa della propria spada quella del soldato, facendolo capitolare accanto agli altri.
Ora i tre lo guardavano, ansanti e sbalorditi.
« Mai dare le spalle al vostro nemico » esordì alla fine, scoprendo i denti bianchi e una smorfia compiaciuta.
« E non dimenticate » pronunciò in fine, destreggiandosi con la spada davanti ai loro sguardi attoniti, mostrando una tecnica e un rigore praticamente perfetti, fino a puntarla loro contro a un solo palmo dal naso.
Lo sguardo dei tre soldati, ancora a terra, si alzò raggiungendo quello compiaciuto e fiero del conte. « Lealtà! »
Il conte rinfoderò la sua arma, guardandoli alzarsi a fatica.
In quell'istante, il secondo ufficiale del reggimento e fece il suo ingresso nel cortile.
I quattro soldati si misero immediatamente sull'attenti.
« Riposo » disse il nuovo arrivato, un uomo sulla trentina, non molto più vecchio del conte, con dei capelli scuri ben curati e un aspetto asciutto ma forte e determinato. « Conte Bane » al suo nome, Magnus fece un passo avanti.
« Buongiorno, tenente Blackthorn »
« Vedo che state istruendo le nuove reclute, molto bene » passò lo sguardo sui tre soldati. « Mi dicono che avete fatto richiesta di congedo »
Magnus, sorridendo nostalgico, annuì con decisione.
« Sì, ho ricevuto una lettera da mia sorella » rispose, ricordando la lettera che qualche giorno prima gli era giunta.
Catarina gli aveva scritto pregandolo di ritornare, asserendo che la sua lontananza si faceva sentire più che mai alla tenuta e, soprattutto, nel cuore di sua madre. « Manco ormai da troppo tempo e la salute di mia madre è peggiorata »
Il tenente annuì lentamente, stringendo appena le labbra.
« Perché me lo chiedete? » il tenente lo guardò con attenzione.
« Siete stato convocato nell'ufficio del capitano » rispose il tenente, ricevendo lo sguardo sorpreso del conte. « Oh, non preoccupatevi » aggiunse l'altro « Non è niente di grave, mi hanno solo chiesto di accompagnarvi. Se volete seguirmi » e si incamminò senza aspettarlo.
Magnus lo seguì immediatamente e insieme raggiunsero l'ufficio del capitano Rollins, un uomo nobile d'animo ma anche molto orgoglioso, verso il quale Magnus nutriva un profondo rispetto.
Purtroppo il suddetto capitano era venuto a mancare da pochi giorni, a seguito di uno sfortunato incidente durante una ronda.
Alcuni dicevano che erano stati dei cospiratori contrari al nuovo governo ad aggredirlo nei boschi, insieme a cinque soldati di fanteria. Altri dei semplici briganti di passaggio.
Il capitano era riuscito a tornare all'accampamento, aiutato da uno dei suoi soldati anch'egli ferito, ed era stato assistito in infermeria per tre giorni. Ma le ferite erano troppo gravi.
Dopo aver bussato alla porta e aver annunciato il conte, il tenente si ritirò con un cenno del capo e sparì oltre il corridoio.
Il tenente Blackthorn era un uomo singolare, impeccabile, con uno sguardo fermo e deciso in ogni situazione.
Magnus non lo temeva né lo apprezzava, eppure gli dava tutta l'aria di essere un uomo che ci pensava due volte prima di rischiare per altri. Ma in fondo, se era divenuto tenente, dovevano esserci dei buoni motivi.
Si chiese perché e, soprattutto, chi lo aveva convocato e con queste domande aprì la porta.
Si immaginava di trovarsi davanti il nuovo capitano delle guardie, promosso alla morte di Rollins, invece gli si parò davanti l'immagine di un'ampia gonna nera con ricami grigi e merletti rossi, due mani non più giovani a stringere con delicatezza un ventaglio sempre nero e un volto segnato dal tempo ma sempre elegante, nonostante le tracce di molte notti passate a piangere il defunto fratello.
Madame Dorothea Rollins lo guardava, sforzandosi di sorridere oltre il velo di rossore che le tingeva gli occhi gonfi.
« Conte Bane » lo salutò, allungando la mano che prontamente Magnus sfiorò con le labbra dopo aver accennato un inchino.
« Per servirvi, marchesa » rispose prontamente.
La donna si voltò, avvicinandosi alla scrivania del fratello, coperta da un sottile strato di polvere.
« Mi dispiace avervi fatto chiamare con così tanta urgenza » disse, sfiorando i bordi levigati del tavolo. « So che vi state preparando per tornare a casa » aggiunse, non guardandolo ancora.
« Si, madame »
« Non mi dilungherò, allora » detto questo, estrasse da uno dei ripiani della scrivania una lettera, con sopra il timbro in ceralacca spezzato della famiglia Rollins. « Vi ho fatto chiamare per questa » accennò alla lettera.
Sul volto di Magnus si dipinse un'espressione più confusa che incuriosita.
« E' di mio fratello » spiegò la marchesa, aprendola con delicatezza, quasi per accarezzare una delle ultime cose toccate dal capitano. « Dentro vi è un'altra lettera » spiegò i fogli e con la mano gli mostrò la seconda lettera in questione, che era stata posta all'interno della prima busta. « Come potete vedere è sigillata » proseguì, mostrandogli il secondo timbro della casata Rollins completamente intatto.
« Nella prima lettera, mio fratello mi ha pregata di consegnarvi questa » disse, porgendogli la piccola lettera, che Magnus si rigirò tra le mani con attenzione. « Inoltre » aggiunse, attirando su di sé lo sguardo del conte. « Mi ha chiesto di farvi leggere la prima lettera indirizzata me, perché possiate capire » e gli passò la prima lettera, aperta.
Magnus guardò un'ultima volta il volto teso della marchesa, prima di chinare il suo e cominciare a leggere.


Mia amatissima sorella,
so che questa sarà la mia ultima notte. Ti scrivo perché voglio che tu sappia la verità.
Sono stato un vile e uno sciocco, ho commesso delle azioni di cui non potrò mai fare ammenda.
Mentirei se dicessi che sono stato preda degli eventi.
Probabilmente sto mettendo in pericolo anche te, ma prima di pagare per ciò che ho fatto devo fare in modo di denunciare l'orribile crimine di cui faccio parte.
Che Dio solo possa giudicarmi, poiché non c'è perdono.
Uomini molto vicini a Sua maestà, il nostro re, stanno ordendo una congiura per ucciderlo, perchè contrari alle nuove riforme attuate a sfavore dei nobili. Questa setta segreta di cospiratori si fa chiamare Conclave Nero e un uomo molto potente ne è a capo.
Nella lettera che troverai all'interno di questa, ci sono i nomi di tutti i congiurati.
Sono spaventato, non posso fidarmi di nessuno.
Tutti i miei superiori sono corrotti e altri lo saranno presto.
Devo affidarti un difficile compito, mia cara sorella.
Ti prego, affida questa lista all'unico ufficiale di cui mi fido, che ha sempre dimostrato lealtà verso il nostro sovrano e che essendo stato sempre lontano dalla capitale si è salvato dalle menzogne del Conclave.
Il conte Magnus Bane è il primo per onore e giustizia. Se avessi vissuto più a lungo ne avrei riconosciuto tutti i meriti, come è giusto che sia.
Digli di portare la lista direttamente a Sua maestà e di non fidarsi di nessuno.
Nascondi la lettera e poi parti per la nostra tenuta estiva nel Maine, raccogli tutti i nostri oggetti più cari e mettiti immediatamente in viaggio per l'Inghilterra.
Il tuo pensiero è il più dolce, questa notte.
Addio, mia cara Dot.

Nell'anno del Signore 1749
Marchese Albert Rollins


Magnus lesse attentamente, gli occhi spalancati. Alzò, infine, lo sguardo verso la marchesa che con occhi lucidi lo fissava.
Segreti di stato. Una congiura. Salvare il re.
La marchesa si avvicinò al conte, gli prese una mano tra le sue.
« Seguite l'ultima volontà di mio fratello » lo pregò, la speranza negli occhi.
Magnus allora, ricambiò quello sguardo, con rispetto e determinazione.
« Lo farò » la donna sorrise e lo congedò.


Una volta nei suoi alloggi, Magnus estrasse la lettera che per tutto il tempo aveva tenuto nascosta nella giacca, e la posò sullo scrittoio. Poi cercò qualcosa in cui nasconderla e lo sguardo si posò sul libro bianco di sua madre, il suo preferito.
Lo aprì, trovando la tasca intenza e vi inserì la lettera.
Poi lo infilò di nuovo nella giacca, all'altezza del cuore.
Raggiunse il letto su cui stava la sua sacca e finì di preparare l'occorrente per tornare a casa.
Si addormentò sognando i giardini di Villa Bane, il profumo delle lenzuola pulite e, in particolar modo, il sorriso di sua madre.





Villa Bane.

Alec correva spedito tra i corridoi del palazzo, sollevando imprecazioni da parte delle povere cameriere che quasi non facevano cadere a terra le lenzuola pulite o l'argenteria appena lucidata.
Si precipitò nella stanza della contessa Bane, che se ne stava a letto leggermente ansante.
Accanto a lei, sua madre, Maryse Lightwood le stava servendo una tisana.
« Contessa » esclamò Alec, mentre correva al suo capezzale e le prendeva le mani tra le sue.
Con addosso lo sguardo di rimprovero della madre, Alec osservò il volto dell'anziana distendersi in un sospiro sollevato.
« Oh, mio caro Alexander » Maryse si alzò, facendo spazio al figlio. « Ho avuto un terribile incubo » Respirava a fatica, il volto pallido e gli occhi ancora frenetici.
Alec prese la tisana della madre e l'aiutò a bere.
« Come vi sentite, contessa? » chiese dopo che la donna ebbe bevuto un sorso. Il capo si rilassò sui cuscini bianchi, ricamanti con piccoli fiori gialli.
« Mi è mancato il respiro » rispose, gli occhi ora socchiusi per la stanchezza.
Alec fece per alzarsi. « Vado a chiamare il medico » Ma la presa debole della donna lo fece desistere.
« Ma no, ma no » pronunciò la contessa. « Il medico, per quanto sia bravo, non può curare la vecchiaia »
Alec si rattristò e gli occhi della contessa si puntarono su di lui, poi sorrise.
Maryse portò via il servizio da thè, chiudendo la porta e lasciandoli soli.
« Non preoccuparti, mio caro » lo rassicurò. E Alec pensò a quanto non fosse giusto, doveva essere lui a rassicurarla. E invece la contessa preferiva tranquillizzare lui, tanto gli era affezionata.
Alec le regalò un sorriso.
« Dovete riposarvi, adesso » disse, senza lasciarle le mani.
Lo sguardo della donna si spostò appena verso la finestra, osservando con la sua solita espressione malinconica il cielo.
« Ho sognato Magnus » sospirò. A quel nome, Alec schiuse le labbra, ripensando alla lettera che aveva scritto settimane prima e chiedendosi se fosse giunta a destinazione.
O se, invece, si fosse persa lungo il cammino.
« L'ho visto morto » aggiunse la contessa, la voce che tremava. « Il suo corpo, ferito alle spalle, su un sentiero nei boschi » Le labbra sottili della contessa si strinsero. « Tu credi alle premonizioni? » chiese, senza distogliere lo sguardo dal cielo.
« No, contessa » rispose allora lui, rassicurante. « Credo che a volte la paura stimoli la nostra immaginazione » proseguì. « Ma sono sicuro che vostro figlio sta bene e che lo rivedrete presto »
La contessa lo guardò con affetto, il respiro ancora debole.





New York, Palazzo reale

Nella stanza del consigliere del re, il marchese Jean-Philippe Belcourt, due uomini erano seduti per un colloquio.
Il primo, il consigliere, se ne stava seduto dietro una massiccia e finemente lavorata scrivania in legno, su cui erano posate carte e documenti di stato, un vecchio calamaio e tutto l'occorrente da scrittura.
Il consigliere era un uomo rigido, dal fisico appesantito e affaticato dagli anni, profondamente attaccato ai ricordi della sua carriera militare in Inghilterra, che lo aveva messo in luce davanti a Sua maestà in persona.
Portava i capelli corti e gridi, appena stempiato sulla nuca, e due grandi baffi ben curati. Lo sguardo attento, perspicace, scrutatore di ogni persona di cui si circondava. Belcourt era considerato l'uomo più potete dello stato e più vicino al re.
E mentre Sua Maestà era in viaggio dalla madre patria per raggiungere il paese, era lui ad occuparsi della politica, dell'economia e, ovviamente, della sicurezza del paese.
Ed è proprio per discutere di questo, che il consigliere Belcourt aveva concesso udienza all'uomo di fronte a lui.
Oltre la scrivania, stava un uomo molto simile a lui per nobili origini e autorevolezza, ma anche profondamente diverso per convinzioni e principi.
Ma questi non erano incombenza del marchese.
L'uomo, comodamente seduto sulla poltrona di velluto rosso, aveva un profilo affilato e deciso, dal fascino imperturbabile e sottilmente minaccioso, avvolto in abiti e eleganti ma non appariscenti, dai toni scuri come i suoi occhi.
Teneva i capelli perfettamente ordinati in codino, secondo la moda dell'epoca, e teneva sempre il volto pulito, sbarbato e asciutto.
Una maschera nuda, covo di segreti.
Il duca Valentine Mongerstern, governatore delle guardie reali, osservava il consigliere con un sorriso appena accennato.
« Il re è un uomo saggio » disse il duca. « Sono certo che riuscirà a fare in modo che queste dicerie su una congiura a suo discapito vengano messe a tacere » aggiunse, accavallando le gambe. « O al limite, che questi oppositori che si rintanano nell'ombra vengano giustiziati »
Il marchese sprofondò nella sua poltrona, evidenziando la sua bassa statura.
« Voi ritenete » disse, lo sguardo attento e la voce leggermente roca. « che questa congiura sia solo opera di dicerie? » chiese, con tono quasi di scherno.
Il duca spostò lo sguardo per la stanza.
« E' possibile »
Il consigliere fece per alzarsi e aggirò la scrivania, avvicinandosi alla finestra.
« Io non credo affatto » sbuffò. « Anzi, secondo me è una minaccia molto seria »
Il duca si ritrovò gli occhietti indagatori del consigliere di nuovo su di sé.
« Questi congiurati devono essere arrestati immediatamente »
Il duca si alzò.
« Avete la mia parola che farò tutto il possibile » disse, accennando a un inchino.
« Sarà meglio » gli intimò il consigliere, congedandolo con un cenno del capo.
Ma poco prima di uscire, il duca si voltò.
« Porgete i miei ossequi a Sua maestà nella vostra prossima missiva e riferitegli che la sua persona è al sicuro » Lanciò uno sguardo alla libreria che occupava un lato della stanza. « E portate i miei saluti anche a vostra moglie, la marchesa Belcourt. » e lasciò la stanza.
Passeggiando per il corridoio delle stanze del consigliere, si infilò non visto nella stanza adiacente, assicurandosi di non fare alcun rumore.
Richiuse la porta e si voltò sorridendo.
« Eccomi di nuovo da voi, mia signora »
In piedi accanto porta comunicante con l'ufficio del marito, una donna bellissima dal fascino altero, i lineamenti accesi incorniciati da una folta capigliatura nera, lo guardava con un sorriso malizioso.
La marchesa Camille Belcourt.
« Mio marito è un vero cafone, non trovate? » rise piano, per non farsi sentire. « Quando gli avete chiesto di salutarmi non ha speso neppure una parola » concluse, fingendo un tono indignato ma continuando a sorridere provocante.
« E' ovvio che non vi merita » rispose il duca Morgenstern, avvicinandosi a lei e passando lo sguardo sulla profonda scollatura del prezioso vestito rosso rubino.
« Fortuna che ho il piacere della vostra compagnia » ammiccò la donna, con una mano sul fianco.
Il duca le prese entrambe le mani, appoggiandosele sul petto, con fare galante.
« E io la vostra » aggiunse, contraddicendo quella facciata da gentiluomo quando le si scagliò sul collo morbido, baciandolo prepotentemente.
La marchesa ansimò, mentre il duce le cingeva la vita, azzittendola poco dopo.





Dintorni di Villa Bane.

Alec giunse al galoppo nel cortile di una piccola villa dall'aspetto malandato.
L'edera si arrampicava sulle pareti scrostate, dove erano appesi vari attrezzi di campagna e vecchi canestri di giunchi.
In un angolo vi era una catasta di legname e accanto alcune galline razzolavano libere sull'erba.
La pallida tranquillità del cortile era ben diversa dall'atmosfera ricca e fastosa del castello dei Bane, che sembrava non conoscere mai nuvole e temporali.
Ben diversa era la sensazione che lasciava addosso quella vecchia abitazione. Era era una quiete modesta, rassegnata, malinconica.
Dalla porta uscì una donna vestita di un semplice abito chiaro, senza fronzoli o decorazioni di alcun genere.
Il viso sottile, segnato dalla fatica e dai dispiaceri, si aprì in un sorriso.
« Alec! »
Il ragazzo dagli occhi blu smontò da cavallo, prendendo dalla sacca il fagotto con dentro le mele.
« Buon pomeriggio, Jocelyn » disse, porgendole il fagotto. « Simon mi ha chiesto di portarvi queste mele, sua madre le ha colte stamattina »
Jocelyn sorrise.
« Che pensiero gentile, vieni dentro e accomodati » disse, facendogli strada.
L'interno di quella casa rispecchiava la triste decadenza dell'esterno, ma nel suo piccolo era umile e accogliente.
La stanza era poco illuminata, con un tavolo, una cassapanca coperta di un tessuto ormai liso e qualche cesto di biancheria. Ricordi di tempi migliori, ormai appassiti.
Accanto a una delle vecchie finestre, una ragazza dai capelli rossicci leggeva un libro.
« Alec! » lo salutò la ragazza appena si accorse di lui, con un sorriso più luminoso di quello della madre.
La fanciulla si chiamava Clary Fairchild ed era dotata di una bellezza delicata, un carattere forte e deciso e uno straordinario talento nel disegno.
La madre era molto orgogliosa di questo, infatti molti dei suoi ritratti e dei paesaggi erano appesi su una parete della casa, altri nella sua stanza.
I Fairchild avevano umili origini, come i Lightwood, infatti le due famiglie si conoscevano ormai da molti anni.
Clary era stata la migliore amica di Isabelle, prima che questa partisse per diventare infermiera.
Erano cresciuti tutti insieme e ora Alec la andava a trovare spesso, insieme a Simon, quando ne aveva l'occasione.
Clary non lavorava alla Villa Bane, ma aiutava il padre adottivo, il medico del paese, raccogliendo le erbe e preparando gli infusi.
L'uomo, Luke Garroway, oltre ad essere l'unico medico dei dintorni era anche l'unico uomo in tutta la zona ad aver causato uno di quegli scandali che perdurano nella memoria non solo dei popolani ma anche dei nobili.
Luke, infatti, apparteneva a un'antica famiglia di nobili, i Garroway, stanziatisi da quelle parti quasi cento anni prima. La sfortunata vicenda che aveva fatto parlare tutti riguardava proprio Jocelyn.
La donna aveva preso servizio dai Garroway in seguito alla morte del marito, chiedendo ospitalità anche per la figlia appena undicenne Clary.
Durante quei primi mesi di lavoro, Jocelyn e Luke si erano innamorati e lui aveva insistito per sposarla e prendersi persino cura dell'allora undicenne Clary, riconoscendola come figlia. In risposta, i Garroway lo diseredarono e pur di non vederlo vendettero la villa di famiglia e si trasferirono a Cherry Hill.
E così Luke era caduto in disgrazia, perdendo tutti i suoi averi e il suo titolo, ma non era affatto pentito. Aveva messo in pratica i suoi studi di medicina ed era diventato medico, aiutando le persone che avevano bisogno di lui e disinteressandosi dell'opinione dei nobili.
L'unica famiglia nobile che era rimasta in buoni rapporti con lui erano proprio i Bane, nonostante i dissapori con la figlia della contessa, Catarina, che si era sempre mostrata gelida nei suoi confronti.
Del resto i Lightwood non avevano mai mutato opinione su di loro.
« Buongiorno Clary » si voltò verso Jocelyn. « Luke è in casa? »
Entrambe scossero la testa.
« Luke è fuori, a visitare il mugnaio » disse Jocelyn.
« Ma dovrebbe tornare a momenti, puoi aspettarlo qui! » insistette Clary, facendogli cenno di accomodarsi al tavolo. Jocelyn gli portò una tazza di limonata.
« E' successo qualcosa? »
Alec scosse la testa.
« No, ma sono preoccupato per la contessa »
Il viso delle due donne si incupì.
« Volevo chiedergli se poteva prescriverle un calmante, ha avuto degli incubi »
Lo sguardo di Clary si tinse di curiosità.
« Quali incubi? »
« Su suo figlio »
Jocelyn intervenne, curiosa anche lei.
« Il conte Magnus Bane? »
Alec annuì.
« Ha sognato di vederlo morto »
Entrambe si allarmarono, coprendosi la bocca con una mano.
« Era molto agitata » aggiunse, preoccupato. « Forse Luke potrebbe visitarla »
Jocelyn scosse la testa, un sorriso amaro ad adombrarle il volto.
« Luke non è il benvenuto alla tenuta » porto una mano a stringere quelle della figlia, con una carezza gentile ma sofferta. « Così noialtri, del resto »
Alec attirò a sé i loro sguardi.
« Non per la contessa » asserì, deciso. « Lei nutre molto rispetto nei suoi e nei vostri confronti »
« Lo stesso non si può dire della figlia » borbottò la ragazza.
« Clary! » la riprese la madre. « Non mancare di rispetto! »
La ragazza dai capelli rossi incrociò le braccia, sbuffando.
« Tanto non può sentirmi »
Alec sorrise tra sé e sé.
« Non è comunque educazione! »
Il cigolio della porta attirò l'attenzione di tutti.
« Cosa non è educazione? » Il sorriso allegro di Luke fece capolino nella stanza, insieme alla sua valigetta di pelle marrone, rattoppata in alcuni punti, e ai suoi abiti smessi.
L'unico segno del suo passato da nobile erano i modi gentili, la schiena ritta e composta e la sua profonda istruzione.
Tutti si alzarono in piedi.
« Luke, guarda chi è passato a trovarci! » esclamò Clary, indicando Alec.
« Ci ha portato un fagotto di mele » aggiunse Jocelyn, andando a salutarlo con un bacio delicato.
« Ma davvero? » chiese il medico, carezzando la testa di Clary e andando a stringere la mano ad Alec. « Le mele fanno molto bene alla salute, quindi grazie Alec »
« E' stato Simon a pregarmi di portarvele, vengono dal loro giardino »
Luke fece un cenno con il capo.
« Bene! Allora saranno ancora più buone! »
Alec sorrise nel vedere i tre abbracciati. In quei momenti sentiva la mancanza di suo padre e di sua sorella.
« A parte questo » disse ancora Luke, poggiando la valigetta sulla cassapanca e togliendosi il soprabito aiutato dalle mani gentili della moglie. « Cos'altro ti porta qui, Alec? Tuo fratello sta bene? »
Il piccolo Max, suo fratello. Il bambino, di appena dieci anni, soffriva di asma, causando non pochi dispiaceri alla madre e preoccupazione nel fratello.
« No, Max sta bene, grazie » rispose. « Sono preoccupato per la signora contessa »
L'espressione gioviale di Luke si fece subito seria.
« Ha avuto un altro malore? »
Alec scosse la testa.
« No, solo qualche incubo. Ma era molto agitata. »
Luke si diresse nell'altra stanza, dove teneva tutto l'occorrente del lavoro, ripresentandosi con una boccetta di piccoli steli di erbe.
« Falle prendere questa nella sua tisana serale, le distenderà i nervi e dormirà più tranquilla » disse, porgendo la boccetta ad Alec, che lo ringraziò.
Poi si diresse fuori, accompagnato da Clary, per sistemare la medicina nella sacca fissata alla sella di Lux.
« Hai avuto notizie? » chiese finalmente la ragazza, che aspettava di porre quella domanda da quando era arrivato.
Alec la fissò prima interrogativamente, poi capì a cosa si riferiva.
« Non ancora » strinse il laccio della sacca, fissandola bene alle giunture.
Clary spostò lo sguardo sul terreno coperto di erbacce, calciando via un sassolino.
« Forse si è persa » sospirò e detto questo si issò in sella e ripartì alla volta di Villa Bane.





Boschi di Long Hill.

Magnus conosceva quei boschi, amava esplorarli quando, appena adolescente, si univa alle battute di caccia dei nobili dei dintorni. Quegli alberi verdi, il vento che ne accarezzava le fronde, lo riportavano a casa. E finalmente, dopo otto anni, era quasi giunto al termine del suo viaggio.
Un nitrito attirò la sua attenzione.
« Te li ricordi anche tu, Presidente? » sorrise il conte, dando una pacca amichevole al cavallo, che in risposta nitrì più forte. « Siamo quasi arrivati »
Con l'emozione negli occhi, il conte riprese il suo tragitto, scuotendo appena le briglie.
Mentre la brezza di fine primavera si insinuava tenue tra i suoi capelli, Magnus ripercorreva con lo sguardo ogni spiazzo verde, ogni roccia, ogni ruscello, cercandovi ricordi d'infanzia e non rimanendone deluso.
Giunse a un sentiero nei pressi di una valle e una piacevole sensazione gli scaldò il cuore e gli sembrò di tornare bambino.
« Ah! » incitò il cavallo con un calcetto sul fianco e Presidente scattò, veloce come il vento.
Gli zoccoli battevano il terreno alzando le foglie, la criniera bianca in balia del vento.
A ritmo sempre più incalzante, il destriero si addentrò nel bosco lontano dal sentiero, costeggiando un fiumiciattolo che lui sapeva condurre a un ponte di pietra.
E nel momento in cui giunse proprio a quel ponte, pronto ad attraversarlo con un balzo, spuntò un altro cavallo che si impennò trovandosi davanti Presidente.
Questi nitrì con forza e alzandosi sulle zampe disarcionò Magnus, che cadde oltre il bordo di pietra, dritto nell'acqua.
Quando riemerse, era bagnato dalla testa ai piedi.
Le sue mani andarono subito al petto, dove stava la lettera, che fortunatamente l'acqua aveva risparmiato.
Il conte alzò lo sguardo, pronto a maledire entrambi gli animali, ma un lamento di dolore attirò la sua attenzione e il suo sguardo dinnanzi a sé.
Una figura, un uomo, era precipitato insieme a lui e stava cercando di tirarsi su.
A gattoni raggiunse il bordo del ruscello, tossendo acqua.
All'inizio Magnus vide solo una schiena, sulla quale una camicia bianca, avvolta in un gilet blu scuro, aderiva perfettamente. Le mani, forti e giovanili, si aggrappavano alle rocce.
E poi si voltò.
Era un ragazzo. Un bellissimo ragazzo.
Dalla pelle chiara, ma non nivea, la mascella pronunciata, il naso dritto e proporzionato a un viso praticamente perfetto, senza alcun segno di barba. Le labbra morbide e ben disegnate, sopracciglia scure e marcate, su cui ricadevano ciuffi neri ribelli.
E il fisico di un giovane scattante, orgoglioso, fiero. Muscoli di un corpo acerbo, nascosti dalla camicia o costretti nei pantaloni.
Ma ciò che più colpì Magnus, furono gli occhi: di un blu così intenso, così puro e così profondo da incatenarlo al suo sguardo e impedirgli la parola.
« Siete impazzito? » fu infatti l'altro a parlare. La sua voce non tradiva alcuna emozione, chiara e limpida. Il respiro ancora ansante.
Magnus si ricompose quando registrò mentalmente le parole che il ragazzo gli aveva rivolto, con evidente tono accusativo.
Questo fece nascere nel suo orgoglio una stilla di fastidio.
« Questo dovrei dirlo io a voi » rispose a tono il conte, indignandosi. « Siete comparso all'improvviso »
Il ragazzo dagli occhi blu aggrottò le sopracciglia, dando vita a un sorriso incredulo che svanì subito.
« Voi correvate come il vento » pronunciò, ansimando appena.
Magnus fece allora per alzarsi, aggiustandosi i calzoni zuppi.
« Grazie per il complimento » disse, con un sorriso ironico, porgendogli la mano.
Il giovane fissò prima la mano e poi lui, ora con il respiro più regolare.
Lo guardò ancora, poi chiuse le labbra in un'espressione tirata e con un respiro più profondo accettò l'aiuto da parte dell'altro ad alzarsi.
Nel farlo, strinse gli occhi dolorante e portò una mano alla spalla sinistra.
Poi si appoggiò a uno dei bracci del ponte, mentre il cavallo gli si avvicinava chiedendo una carezza.
A quel gesto, Magnus volse lo sguardo dietro di sé, trovando Presidente intento a brucare l'erba.
Allargò le narici, indispettito dalla totale noncuranza del suo amabile destriero.
Giratosi di nuovo, vide il ragazzo che lo fissava.
« Siete un soldato? » chiede il ragazzo, esaminando la sua divisa.
Magnus si aggiustò la giacca.
« Un ufficiale, per l'esattezza » spiegò.
Lo sguardo del ragazzo a quel punto, scese in basso verso i loro piedi immersi nell'acqua.
« Mi dispiace » disse. « Per la vostra divisa » specificò, con voce più decisa.
Magnus sbuffò, sistemandosi i capelli.
« In guerra si vede ben di peggio di una divisa bagnata » poi fece cadere nuovamente lo sguardo sulle vesti bagnate dell'altro, ancora attaccate al corpo. « Anche voi non siete messo bene »
Alec prese un lembo della propria camicia, che sgocciolò nella pozza d'acqua.
« Eravate diretto a Newark? » chiese ancora il ragazzo, uscendo dal fiumiciattolo, seguito dal conte.
Magnus attraversò il ponticello, richiamando Presidente con un fischio.
« No » rispose, afferrando le briglie. « Stavo tornando a casa »
Il ragazzo annuì.
« Voi, invece, siete dei dintorni? » L'altro annuì di nuovo, poi rimontò a cavallo sussurrandogli di stare buono.
Era strano, quel cavallo aveva qualcosa di familiare.


Alec passeggiava in groppa a Lux, scrutando ogni tanto lo straniero accanto a lui.
Indossava la divisa dell'esercito inglese: un tricorno ornato di rosso, pantaloni bianchi appena sgualciti dall'acqua e una giacca blu dai bordi scuri, con vari bottoni dorati sul petto. Portava una tracolla di pelle, posta di lato sulla gamba. Le mani erano stranamente ben curate, per un soldato, e stringevano con presa solida le briglie del cavallo bianco. Nascosta dal colletto della giacca, sembrava esserci una catenina. Aveva dei baffetti appena accennati che incorniciavano le labbra piene, il naso era longilineo ma non appuntito. Sinceramente, Alec non riusciva a scorgere tratti inglesi. A conferma di ciò, i suoi occhi, verdi come le foglie degli alberi baciate dal sole e dal taglio preciso e delineato, avevano qualcosa di orientale.
Il ragazzo dagli occhi blu alzò le sopracciglia, perplesso e proseguì guardando dritto di fronte a sé.
Non riusciva, tuttavia, a trattenersi da sbirciare quel bel viso di tanto in tanto, scrutando ogni particolare per saperne di più su di lui e da dove venisse. Ma soprattutto, dove era diretto.
Non capiva come era finito ad accompagnarlo per i boschi.
A quanto pare, entrambi dovevano andare nella stessa direzione.
« Dunque » esordì lo straniero, guardandolo con un sorriso curioso. « Come ho già detto, io sto tornando a casa » spiegò, fiancheggiando l'altro. « Ma voi che facevate in questi boschi? »
Alec schiuse appena le labbra, prima di rispondere.
« Ah, io, anch'io ero diretto verso casa, dopo una commissione »
Magnus fece saettare lo sguardo sulla bisaccia al fianco del cavallo del giovane.
« Capisco » annuì. « In città? »
L'altro negò con la testa. « No, poco distante da qui. Dal dottore del paese, per un infuso » Alec proprio non capiva perché glielo stava raccontando. Perché mai avrebbe dovuto interessargli?
« Ah » fece l'altro, spostando lo sguardo dritto lungo il sentiero. « Soffrite di un qualche male? »
« Insonnia » disse, voltandosi poi verso di lui. « Ma non per me » specificò.
Magnus sorrise di nuovo.
« Vostra madre? » tentò, ma 'altro negò subito.
« No, nessuno della mia famiglia » spiegò, poi un sorriso gentile si dipinse sul suo volto serio. A Magnus non sfuggì quel dettaglio. « Ma è una persona a cui sono molto affezionato »
Magnus arricciò le labbra, deciso a tentare di nuovo, ma con un sorriso malizioso stavolta.
« E' una fanciulla che corteggiate, allora » Non era una domanda, ma Alec assunse un'espressione prima basita e poi quasi divertita.
« Oh, no » si sforzò, ma non riuscì a trattenere un sorriso. E Magnus vide il tenue bagliore dei denti bianchi, perfetti. « E' una signora contessa, gentile e nobile d'animo » raccontò, con l'affetto negli occhi. « Ho molto rispetto verso di lei. »
Magnus sorrise.
« E' evidente »
Passeggiarono fino al divergere del percorso nel bivio che conduceva sul retro della villa o alla città. Da che i servitori non usavano l'entrata principale, posta lungo un viale alberato che sbucava nella strada che conduceva poi alla città, si era soliti andare a lavorare alla villa percorrendo una via secondaria.
Pertanto, Alec dovette fermarsi per imboccare la strada che portava alle scuderie e porgere a Simon i ringraziamenti della famiglia Fairchild, prima di rimettersi al lavoro.
« Temo di dovervi salutare » disse, allora, indicando la piccola stradina sulla destra. « Se proseguite lungo la strada troverete la città. » aggiunse, ipotizzando che il soldato dovesse raggiungere il comando per confermare il congedo, com'era solito.
« In verità abito nei dintorni, conosco la strada. » Era ancora tutto familiare. « Che dire, dunque? » aggiunse poi, porgendogli la mano.
Alec la strinse e ad entrambi, inaspettatamente, mancò il fiato. Gli occhi incatenati e i brividi che all'improvviso nacquero lungo la schiena.
Cos'era quell'improvvisa sensazione, in un semplice contatto di mani che si sfiorano appena?
Ma prima che si provasse anche solo a pensare di trovare una risposta, il contattò finì così come era cominciato, senza e con tutte le ragioni.
« Buon rientro. » aggiunse il soldato, nella mente un tepore che sembrava cullarlo.
« Altrettanto. » concluse l'altro, appena spaesato, che si allontanò velocemente da quella mano e da quello sguardo, imbarazzato più che confuso. E con un cenno della testa, si voltò, andandosene con il suo cavallo oltre gli alberi e sparendo in un fruscio di foglie.
E tutto quello che riuscivano a pensare, entrambi, era che non si erano nemmeno presentati.


Vedere quei giardini, gli alberi, gli imponenti cancelli che davano sulla villa, sulla sua casa, era un'emozione indescrivibile per Magnus.
Il suo volto parve riflettere il sole, distendendosi un sorriso di gioia.
Con un incitamento al cavallo, avanzò sul sentiero di ghiaia bianca, circondando la grande fontana sulla quale piccoli putti giocavano con le otri d'acqua, zampillando in giochi di luce che tante volte aveva ammirato da bambino.
Costeggiando le siepi in fiore, raggiunse finalmente l'ingresso della villa dove alcuni servi si affaccendavano nelle loro mansioni.
Alcuni di loro si fermarono, riconoscendolo, mandando a chiamare chiunque per accogliere la grande notizia.
Il signor conte era finalmente tornato a casa.
Candelieri, cameriere, giardinieri e stallieri si riversarono all'esterno della villa, chi dalle finestre e chi oltre le scale per vedere il giovane conte lasciare le briglie a qualche servitore e salire la scalinata.
Il primo pensiero, ovviamente, sua madre.
E tra chi lo salutava e lo sfiorava con sorrisi e parole accoglienti, ecco finalmente il momento tanto atteso. Quella stanza.
La biblioteca tanto amata da sua madre.
Abbassò la maniglia della porta vetrata con trepidazione e avanzò scorgendo su una delle poltrone una figura addormentata, avvolta in un elegante abito di damasco dai toni argentati, con vari merletti scuri qua e là.
Un girocollo di pietre con un medaglione al petto che lentamente si alzava e si abbassava, il volto dormiente segnato dalle labbra sottili e socchiuse, le sopracciglia che si muovevano con scatti appena percettibili, in un sogno che poco aveva di dolce.
Magnus si avvicinò, posò la mano su quella piena di anelli che custodivano i ricordi di una vita e vi si inginocchiò accanto.
« Madre » E come da un incanto, ella si ridestò. Socchiudendo gli occhi e mettendo a fuoco il volto fiero e dolce del suo amato figlio, il suo Magnus, finalmente a casa. E nello specchiarsi in quelle iridi di giada, così uguali alle sue, la contessa avvertì ogni dolore scomparire, come per magia.
« Magnus » pronunciò, nel timore che quel dolce sogno potesse dissolversi da un momento all'altro. « Oh, Magnus » ripeté, la mano che lentamente andava a incontrare la guancia del giovane uomo, suo figlio. « Sei veramente tu, sei qui »
Ed entrambi non resistettero oltre al cedere in un disperato e affettuoso abbraccio, così a lungo desiderato.
Persino i servitori, che sostavano fuori dalle porte, non riuscirono a trattenere un sorriso commosso.
« Sono qui » disse il conte, il respiro nascosto tra i capelli ben acconciati. « Sono tornato »
Quando si separarono, la contessa ordinò ai servitori di preparare il salottino da the, portare i dolci preferiti del figlio e di andare a chiamare anche sua figlia, per dirle che il fratello era tornato a casa.


Alec correva, facendo gli scalini a due a due, cercando di aggiustarsi i vestiti alla bene e meglio.
Appena tornato, aveva saputo da Simon che il conte Magnus Bane era tornato e che in quel momento si trovava nel salottino adiacente alla biblioteca, insieme alla madre e alla sorella.
Sempre composto e mai volgare, Alec si era lasciato scappare un'imprecazione al pensiero che mentre lui era incappato in un soldato maldestro, rovinandosi i vestiti che la contessa gli aveva dato, avrebbe dovuto trovarsi invece alla villa, a riceverlo come avrebbe dovuto fare un maggiordomo degno di questo nome.
Praticamente certo dei rimproveri che avrebbe dovuto subire dalla contessa Catarina e ancor più temendo la delusione negli occhi della signora contessa, il ragazzo correva come un forsennato, facendosi strada tra i domestici che trafficavano l'argenteria, le porcellane, i biscotti e i pasticcini.
Nel rischio di rovesciarsi addosso anche l'acqua per il thè che una ragazza trasportava con non poche difficoltà, Alec proprio non poté evitare di incappare in un cameriere che reggeva in mano una coppa di panna e, di conseguenza, ritrovarsi con una bella macchia sul taschino del gilet.
« Diamine! » imprecò ancora, fortunatamente coperto dal chiacchiericcio dei servi.
Prese un fazzoletto, tentando di rimediare al danno.
Venne poi raggiunto da uno dei camerieri.
« Che stai facendo? Muoviti, la signora contessa ha chiesto di te » e prima che potesse replicare in qualunque modo, Alec si ritrovò spinto verso il salotto, le porte che si richiudevano dietro di lui.
Immobile, rigido e incapace di pensare a qualsivoglia scusa, in particolare per il suo ritardo.
La contessa lo accolse con un ampio sorriso.
« Alexander, finalmente » disse la signora contessa, appoggiando la sua tazza da the sul tavolinetto di vetro, tra le altre due poltrone di velluto. Una delle quali occupata dallo sguardo severo e dalla ben marcata disapprovazione della contessa Catarina e l'altra...
No.
Non era possibile.
Sulla terza poltrona stava un giovane distinto, con i capelli neri e un'espressione sorpresa riflessa negli occhi verdi. Un uomo in divisa da ufficiale.
Alec schiuse le labbra ma non sapeva proprio cosa dire.
Il soldato dell'incidente del fiume...
« Alexander, ragazzo mio » ripeté la signora contessa, facendo cenno di avvicinarsi.
Alec parve riscuotersi dallo stato attonito che lo aveva gelato sulla porta e mentre le immagini di quel pomeriggio si ripresentavano davanti ai suoi occhi, e si decise ad avanzare di un passo o due, prima che il suo raziocinio lo spingesse a tornare indietro. « Voglio presentarti mio figlio » La contessa, al contrario, sembrava contenta come una bambina. « Magnus »
Magnus.
Quelle iridi giada che non l'avevano lasciato un momento, studiandolo con uno strano e perforante interesse, si fissarono ora sulla madre.
« In verità ci conosciamo già, madre »
Alec sentì il respiro venir meno.
Tutti i presenti si puntarono sul conte, chi confuso e chi allarmato.
« Davvero? » irruppe Catarina. « E quando ne avresti avuto l'occasione? » aggiunse, assottigliando gli occhi in direzione del ragazzo dagli occhi blu.
« Proprio questo pomeriggio »
Alec stava sudando.
Cosa avrebbero pensato se il conte gli avesse detto che si erano scontrati finendo nel fiume e che... Diamine! Lo aveva praticamente insultato!
La contessa Catarina avrebbe spinto la madre a licenziarlo e sua madre, Maryse, lo avrebbe ucciso sicuramente.
Torturandosi le labbra, Alec abbassò lo sguardo, inconsapevole che lo sguardo del conte si era fissato nuovamente su di lui.
« Che fortunata coincidenza! » esclamò allegra la signora contessa. « Alexander è una bravissima persona, sai, caro Magnus? Mi è stato molto vicino in tua assenza » aggiunse, guardando il ragazzo con dolcezza.
« Immagino » Alec alzò appena gli occhi, giusto qualche secondo per incrociare quelli del conte e tornare ad ammirare il parquet intarsiato.
Perché mi guarda così? In che razza di situazione mi trovo...
« Alexander » lo chiamò la contessa Catarina. « E' una grande forma di maleducazione non rivolgere il saluto a mio fratello, non ti pare? »
Alec sollevò lo sguardo, pronto a fare un inchino, quando la porta del salotto si aprì all'improvviso.
« Signora contessa » Uno dei camerieri fece irruzione, il fiato alla gola malcelato. « E' appena giunto un ospite, in visita per il ritorno del signor conte! »
Alec parve sospirare.
« Oh, che meraviglia! Caro Magnus, andiamo subito ad accoglierlo » detto questo, la contessa si fece prendere sottobraccio dalla figlia e varcò la soglia del salottino, seguita dal figlio che non mancò di scoccare un'intesa occhiata ad Alec prima di uscire dalla stanza.
Non si erano nemmeno sfiorati, ma Alec aveva avvertito una sorta di tensione nell'aria.


L'ospite in questione era Ragnor Fell, migliore amico e compagno d'accademia di Magnus. Avevano studiato insieme, ma poi il temperamento libertino e spregiudicato di Ragnor lo aveva allontanato dalle armi in favore di balli, locande e divertimenti vari.
Non era un uomo stolto e nemmeno una cattiva compagnia. Ragnor era semplicemente Ragnor, con i capelli lunghi avvolti nel codino infiocchettato, le giacche eleganti e un sorriso malizioso sul volto.
Guardare il volto del suo amico era per Magnus un ritorno ai tempi della giovinezza, degli scherzi e delle belle avventure.
Non c'era quindi da stupirsi se si salutarono con un caloroso abbraccio fraterno.
« Ma guarda chi si rifà vivo dal fronte! » esclamò il nuovo arrivato, puntandogli un dito contro. « Ti avevo già dato per morto! »
Magnus rise di cuore come non faceva da un pezzo.
« Ti piacerebbe! »
« Sei una canaglia, potevi scrivermi in questi anni! » assunse una finta espressione offesa. « E invece per avere notizie di quello scapestrato ligio al dovere del mio migliore amico devo farmi una cavalcata nei boschi e invadere la tranquillità della tua dolce dimora! »
« Ti fa bene un po' di esercizio, ti trovo più grasso! »
Ragnor si dipinse addosso la faccia più sconcertata che riusciva a fare.
« Grasso? » arretrò di qualche passo, sguainando la spada. « Come osate, prima ripresentarvi senza venirmi a trovare e poi offendere il mio onore? Avrò la vostra testa, messere! »
Catarina sbuffò, in modo molto poco signorile data la sua austerità.
« Mi chiedo se crescerete mai » disse, incrociando le braccia al petto.
L'attenzione di Ragnor si concentrò allora sulla sorella dell'amico e rinfoderò la spada.
« Dolce Catarina » si prodigò in un inchino generoso. « E' sempre una gioia per me ammirare il vostro profondo umorismo »
A porre fine a quella simpatica scenetta, intervenne la signora contessa.
« Via via, basta con questi discorsi da bambini » Ragnor la salutò baciandole la mano. « Caro conte Ragnor Fell, bentrovato »
« Altrettanto, contessa »
« Stavo pensando di organizzare una festa di bentornato per il mio caro Magnus » proruppe, una luce entusiasta sul volto sempre pacato.
« La trovo un'idea straordinaria, signora contessa! »
Magnus sorrise, per niente disgustato dall'idea.
Dopo tutto quel tempo al fronte, sentiva la mancanza dell'atmosfera festosa della villa, della musica e del buon cibo.
« E mi chiedevo » aggiunse la donna « Se potessi aiutarmi a organizzarla, con gli inviti ai nobili dei dintorni e il resto »
Anche a Ragnor si illuminarono gli occhi.
« Ne sarei onorato! »
« Perfetto, ma non esagerare come tuo solito » si raccomandò la signora contessa. « So bene cosa si dice delle tue feste, cerca quindi di... comprimere il tuo entusiasmo »
Ragnor accennò a un inchino anche a lei.
« Non preoccupatevi, sarà impeccabile » e detto questo avvolse un braccio intorno al collo di Magnus e se lo trascinò verso i giardini. « Forza, amico mio, voglio che mi racconti tutto della tua noiosa vita militare » aggiunse, le risate dei due che si facevano lontane.


Nel frattempo Alec era tornato nelle cucine, intento a cercare di ripulire il suo gilet con uno straccio umido.
« Lascia, faccio io » Maryse, sua madre. « Ho sentito dire da Catelyn, la cameriera, che la contessa vuole organizzare una festa per il ritorno del signor conte » disse, rivoltando il gilet e cominciando a strofinarlo.
« Bene »
Maryse prese il sapone da bucato, passandolo intorno alla macchia.
« Parteciperai? »
Diretta, come sempre. Ma in fondo le conversazioni con sua madre non erano mai troppo infiocchettate. Sempre diretti al punto, così erano i Lightwood.
« Non ne ho idea » rispose il ragazzo, appoggiandosi al muro. « Come sai non dipende da me » aggiunse, cercando di non prestare troppa attenzione alla linea delle labbra della madre che lentamente si increspava.
« Hai ragione » Alec guardava in basso, non per nascondersi stavolta, quando per pensare a tutt'altro che non fosse sua madre e le solite brevi conversazioni che avevano, fredde e spiazzanti. « Forse dipende dal fatto che la signora contessa si è talmente affezionata a te da vederti al suo stesso livello » E di nuovo sciacquò la macchia, che lentamente stava scomparendo. « E' piuttosto facile dimenticare la differenza tra quello che si è e quello che non si è »
« Madre » irruppe Alec, bloccando quella familiare conversazione. « So cosa mi vuoi dire, per l'ennesima volta »
« Davvero lo sai? Perché a me sembra che anche tu sia molto bravo a dimenticare »
« Io non dimentico, madre » si avvicinò e si riprese il gilet. « So chi sono e da dove provengo »
Si fissarono in silenzio per qualche minuto.
« Lo dico solo per il tuo bene »
« Grazie ma non ce n'è bisogno »
« Non sei uno di loro »
« Lo so »
Altro silenzio.
« Non sarai mai uno di loro »
« Lo so molto bene »
« Non pensare nemmeno per un momento di poter essere come loro »
« Non lo penso mai »
Un sorriso.
Non un sorriso affettuoso,non un sorriso gentile. Un sorriso amaro, era quello di Maryse Lightwood.
« Nemmeno quando indossi gli abiti di suo figlio? »
Il palmo aperto di Alec contro il muro, in un altro tentativo di concludere nel silenzio, così poco da lui quel gesto ma tremendamente necessario.
« Sai benissimo, madre, che non indosso questi abiti per scelta. Non dormo in quella stanza per scelta e non ho gentilezze in più per scelta. Non ho scelto io di lavorare qui, te lo ricordi? »
E qui Maryse non ribatté in alcun modo.
« Non credere di sapere quello che penso, perché ti sbagli se mi ritieni capace di vivere una vita che non è la mia. So benissimo qual'è il mio posto e non ho alcuna intenzione di cambiarlo. » concluse, prima di uscire dalle cucine, diretto in cortile.


Magnus e Ragnor aveva ritrovato la spensieratezza della loro amicizia in un duello con le spade.
« Mi mancava battermi con te » disse Magnus, rinfoderando la spada.
« Anche a me » sospirò l'altro, appena ansimante. « Sei migliorato »
« Sono sempre stato più bravo di te »
Ragnor rise di gusto.
« Sei sempre il solito presuntuoso » E insieme si incamminarono di nuovo verso la villa. « Ah, sarà stata dura per te negli accampamenti, senza il tuo migliore amico »
« In realtà ho trovato degli ottimi modi per passare il tempo »
Il sorriso malizioso di Ragnor fece capolino immediatamente.
« Eeeh, la vita militare! Comunque non era per me: due anni senza una donna? Impossibile »
« Non sei abbastanza di larghe vedute, amico »
« Oh no, lo sono eccome! Solo che non sono... aspetta, voglio trovare la parola adatta... ambizioso come te »
« Ambizioso? »
« Forse “profano” è più adatto » sorrise l'altro. L'interesse di Magnus indistintamente per donne e uomini non era mai stato un mistero tra loro. « Se lo sapesse tua sorella »
Magnus rise. « Chissà, forse lo sospetta »
« No, impossibile. Tu sei impenetrabile amico »
« Su questo puoi giurarci! » esclamò, scatenando altre risate.
Ma in seguito le parole di Ragnor lo avevano preoccupato.
Magnus non aveva nominato quanto era successo al campo, del marchese Rollins o di sua sorella. E, ovviamente, nemmeno della lettera. Sua madre lo aveva già avvertito dei dissapori tra i nobili e il re; ciò che gli aveva riferito Ragnor, però, lasciava intendere uno scenario ben più grave.
« No, davvero Magnus, resta qui » aveva detto il conte Fell. « I nobili sono
tutti scontenti. E se le cose vanno come penso, presto ci sarà da combattere più qui che sotto le bandiere del nord »
Mentre facevano ritorno al castello, Magnus aveva cercato di vederci più chiaro, ma Ragnor era stato tanto evasivo quanto perentorio e allarmante.
« Senza contare che Sua Maestà sembra più preso dai suoi viaggi che dai suoi doveri. Più tardi arriva e meglio è » aveva aggiunto. Magnus lo aveva fissato, incredulo.
« Ragnor sono un nobile, ma anche un soldato »
« Ah sì? Mi dispiace per te » aveva risposto il conte Ragnor, e gli aveva posato una mano sulla spalla, in un gesto più intimidatorio che affettuoso « perché prima o poi, potrebbe arrivare il momento in cui sarai costretto a scegliere da che parte stare »
Magnus nascose il suo turbamento alle parole dell'amico e quando Ragnor lo salutò, montando sul suo cavallo e lasciando la tenuta, il soldato si incamminò verso i giardini, sul retro della villa.
Erano dei luoghi ricchi di pace, con alberi rigogliosi e un piccolo laghetto.
Tante volte vi si era rifugiato quando sentiva, semplicemente, il bisogno di pensare indisturbato.
La piccola radura era rimasta esattamente come la ricordava: la luce che filtrava tra le foglie, il riverberarsi dell'acqua sui margini erbosi e il tenue canto degli uccelli.
Solo una cosa era diversa.
Magnus sentì il familiare suono di una spada fendere l'aria e i versi di qualcuno.
Quasi con cautela, avanzò oltre i cespugli che costeggiavano una zona del lago, per trovare accanto a un ginepro la scattante figura di un ragazzo che brandiva... un attizzatoio?
Borbottava, combattendo senza incertezze un nemico invisibile.
Era il ragazzo dagli occhi azzurri. Lo stesso del salotto.
Lo stesso del fiume.


Alexander brandiva l'attizzatoio come fosse stata un'estensione del suo stesso braccio, ma mancava di tecnica e probabilmente anche di una buona dose di accortezza.
« La vostra postura è sbagliata » il ragazzo si bloccò di colpo, a quella voce.
Sperò di sbagliarsi, ma voltandosi incontrò proprio gli occhi verdi e il sorriso beffardo del conte Magnus Bane. Per l'Angelo, ma avrebbe mai avuto pace quel giorno?
Indeciso su cosa fare, con il respiro ancora ansante, abbassò l'arma.
« Come dite? » Era talmente preso che non aveva nemmeno assimilato le sue parole.
« Dico » riprese l'altro, avvicinandosi. « che la vostra postura è sbagliata »
Avrebbe voluto rispondergli per le rime, in un qualche rispettoso e distaccato modo.
Ma lui era un conte.
Era il conte Magnus Bane e lui un semplice servo. Abbassò quindi lo sguardo, preparandosi una qualche scusa per andarsene.
« Non sono un soldato » rispose invece. Avrebbe dovuto defilarsi.
« E' evidente » Alec lo sentiva su di se, quel fastidioso sorriso. Basta, era il momento di ritirarsi.
« Io dovrei- » venne interrotto dalle mani del conte che presero dalle sue l'attizzatoio.
Un contatto appena percepibile, ma che era stata in grado di spezzare la frase del ragazzo.
Il conte si rigirò l'arma tra le mani, osservandola con finto interesse.
« Scelta d'arma interessante » cominciò. « E ditemi, siete già stato in grado di sconfiggere tutti i fantasmi dei dintorni con questo? » continuò, rivolgendogli un'occhiata derisoria. « Oppure vi limitate ad infilzare l'aria? »
Mi sta prendendo in giro?
Alec non poté fare a meno di aggrottare le sopracciglia scure, irritato.
Ma non disse niente.
« E' così siete ospite di mia madre. Devo dedurre che sia lei la contessa dall'animo gentile per la quale avevate richiesto l'infuso » aggiunse, guardandolo con curiosità. « Non siete di molte parole » all'ennesima provocazione beffarda, Alec si riprese l'attizzatoio.
« Scusatemi » disse. « Devo andare »
Se ci fosse stata la contessa Catarina, di certo lo avrebbe fatto gettare nel lago. Ma ad Alec non importava “come si sarebbe dovuto rivolgere a un nobile”, erano regole che non aveva mai capito ma che aveva dovuto accettare. Il che era ben diverso.
In ogni caso il suo unico pensiero, al momento, era andarsene.
Fece per voltarsi, dimentico di tutta l'etichetta che sua madre così fermamente gli aveva inculcato, ma di nuovo la mano del conte toccò la sua, avvolgendosi intorno al suo polso.
« Posso insegnarvi, se volete » Alec era confuso adesso.
« Io... Io non sono un soldato » ripeté, dopo un breve silenzio.
Magnus sorrise, alzando un sopracciglio in un'espressione divertita.
« Sì, questo l'avete già detto » gli lasciò il polso. « Ma ciò non vuol dire che non vogliate esserlo » Ora Alec era davvero confuso.
Cosa ne sapeva lui?
« Altrimenti perché affannarsi tanto, quando potreste impiegare in altro modo il tempo? » aggiunse, come a rispondere alla silenziosa domanda del ragazzo.
Gli occhi blu ricaddero sull'attizzatoio, appena arrugginito alle punte e imprigionato dalla mano del conte che – osservando con attenzione – riportava un anello all'indice con il simbolo della casata Bane.
Si ritrovò a concentrarsi sul quel dettaglio, mentre la sua mente andava sempre più in confusione.
Perché mai il conte gli aveva proposto una cosa simile? Non si insegna a combattere ai servi.
Non si insegna proprio nulla ai servi!
Che assurda situazione era mai quella?
« Se non vi interessa, basta dirlo » disse ancora l'altro, senza perdere il suo sorriso.
Magnus era divertito, questo era il termine più appropriato.
Il ragazzo non era molto loquace, eppure sembrava quasi imbarazzarsi davanti a lui.
Ma era anche misterioso e questa era una cosa che interessava molto Magnus.
« No, io... » si bloccò, di nuovo. Magnus dovette trattenersi dal ridere. Ma come poteva un ragazzo fiero e di bell'aspetto come quello, incespicare una frase e chinare sempre lo sguardo? « Voi... non dovreste riposarvi? » A quella domanda, Magnus inclinò il capo da un lato. Poi sorrise, scoprendo i denti bianchi.
« In effetti è stato un lungo viaggio » convenne, spostando la sua attenzione tra gli alberi. « Ho avuto modo, tuttavia, di prendermela con calma e ammirare i boschi in cui sono cresciuto » proseguì « Questo, ovviamente, prima del nostro incidente al fiume »
A quelle parole, Alec spalancò gli occhi, aprendo la bocca indeciso su cosa dire.
« Per quanto è successo, io... » cominciò, gli occhi felini dell'altro fissi su di lui ancora una volta. « Vorrei scusarmi, ancora » Sembrava allarmato, pensò Magnus.
« Sono tutto intero, niente di irreparabile » rispose il conte, come per tranquillizzarlo. « Anche io dovrei scusarmi, d'altronde ci siete finito anche voi in acqua »
Alec negò con la testa.
« Non ce n'è bisogno, davvero »
E con questo, Magnus gli fece cenno di incamminarsi insieme verso la villa. « Ditemi » riprese, poi. « Verrete domani ai festeggiamenti? » chiese, cercando di mascherare l'aspettativa di un'affermazione da parte del ragazzo.
« Non saprei » rispose Alec, sinceramente. « Dipende dalla signora contessa »
Interessante, pensò Magnus.
Giunsero all'ingresso del palazzo, dove un vecchio servo richiamò il conte per avvisarlo che sua madre voleva vederlo per discutere meglio della festa. Congedò il servo e si rivolse un'ultima volta ad Alec.
« Vorrà dire che mi assicurerò personalmente che mia madre vi inviti » e senza aspettare una risposta lasciò Alec con la sua espressione sbigottita ai piedi delle scale, diretto verso le stanze di sua madre.
Il ragazzo non sapeva davvero cosa pensare.
Perché mai tanti riguardi? Cosa si era perso?


Il giorno successivo, tutti i servitori erano all'opera per rendere fastosa e raggiante la tenuta dei Bane, in attesa dell'arrivo di tutti i facoltosi ospiti previsti per il pomeriggio.
Dalle cucine, che sprigionavano profumi deliziosi, alla sala da pranzo, che cominciava a risplendere in ogni angolo, tutti erano al lavoro.
Persino Simon si era svegliato all'alba per strigliare tutti i cavalli.
Il signor conte e la sorella erano andati in paese con la carrozza, per trovare dei bei abiti da festa.
Alec, invece, era intento a supervisionare i lavori dei giardinieri che non riuscivano a decidersi sulle composizioni floreali dei centrotavola.
Fu una mattina intensa ed Alec, arrivata l'ora di pranzo, era talmente esausto che non riuscì nemmeno a mangiare.
Si diresse alle scuderie e fece indossare le briglie a Lux, deciso a fare una passeggiata nei dintorni della tenuta, prima dell'arrivo degli ospiti.


Nel frattempo, la carrozza dei fratelli Bane era sulla via di ritorno.
Magnus era particolarmente annoiato.
Era felice di festeggiare il suo ritorno, ma passeggiare per ore per negozi insieme alla sorella era un'attività che l'aveva sempre tediato.
Lo stile di Magnus, fuori dalle armi, era stravagante e colorato. Quello della sorella era tremendamente monotono.
« Nostra madre ha invitato anche la mia amica Juliet, la ricordi Magnus? » chiese con un sorriso gioioso Catarina, indicandogli la lista degli invitati. « Ho sempre invidiato i suoi capelli »
Magnus alzò gli occhi al cielo.
« Oh! E guarda, verrà anche Stephanie Baker! » esclamò, tirandogli una manica dell'abito. « Non la vedo da secoli! Non vedo l'ora che sia stasera! »
Qualcuno mi salvi, penso il conte.
Giunti in prossimità del sentiero che conduceva alla tenuta, qualcuno sembrò rispondere alle sue preghiere.
Un giovane su un cavallo apparve dai cespugli, tagliando loro la strada. La carrozza traballò, sotto le imprecazioni del cocchiere.
« Ma cosa succede? » esclamò furiosa Catarina, all'indirizzo dell'uomo che guidava la carrozza. « Ma perché la gente è così sbadata? Attraversare all'improvviso in quel modo... »
Ma Magnus non la stava più ascoltando, concentrato sulla figura che si allontanava al galoppo.
Sì, doveva essere ancora lui.
E sorrise, incitando il cocchiere a ripartire. Il chiacchiericcio della sorella ormai lontano da lui.


Non c'era nulla che Alec amasse di più di una cavalcata tra i boschi.
Forse solo il tiro con l'arco, le poche volte che poteva praticarlo alle feste del paese.
Attività che lo facevano sentire libero.
Per questo il dover tornare alla tenuta gli pesava sulle spalle come una roccia. Ma non poteva fare altrimenti, era il suo lavoro. La sua vita.
D'altro canto lui non era mai stato il tipo da riposo pomeridiano o da lunghe chiacchierate nelle cucine o nei cortili insieme agli altri servitori. Alec era un ragazzo solitario, lo sapevano tutti, ma profondamente dedito ai suoi doveri.
Tranne per qualche piccolo ritardo.
Al rientro, il ragazzo si diresse sul retro per non disturbare nessuno e non rischiare di suscitare le ire della contessa Catarina, se l'avesse incontrata. L'entrata secondaria era situata dietro il giardino delle rose, ai margini di un piccolo labirinto di piante aromatiche e siepi. Gli alberi più alti ombreggiavano il piccolo percorso, rendendolo un luogo piacevole e silenzioso. Uno dei suoi posti preferiti.
L'entrata di servizio possedeva un largo corridoio che sulla destra accedeva alle scuderie. Scese con Lux il gradino e fece per legarlo al primo palo disponibile.
Fin quando una voce lo bloccò.
« Eccovi di nuovo »
Per l'Angelo, esclamò mentalmente il ragazzo. Il conte Bane stava dinnanzi a lui, un abito bluastro con ghirigori arabescati, di quelli non troppo fastosi - da the pomeridiano – e gli stivali neri eleganti fino a metà ginocchio e dei calzoni bianchi stretti. Irradiava un eleganza che mal si sposava con la semplicità delle stalle.
Un attimo, Alec si bloccò dall'ammirarlo, che cosa ci faceva lui laggiù?
« Signor conte »
L'altro alzò le sopracciglia, distendendo le labbra in una linea sottile.
« “Signore”! Mi fate sembrare più vecchio di quanto non sia » rise poi.
Alec finì di legare il cavallo.
« Non volevo offendervi » rispose, cercando di oltrepassarlo, ma il palmo aperto dell'altro disteso a mezz'aria lo fermò.
« Non mi avete offeso » dissero piano le sue labbra. Alec si costrinse a guardare oltre la sua spalla. « Vi ho visto, di ritorno dal paese »
La confusione di Alec lasciò il posto a una leggera ansia.
La carrozza!
Boccheggiò qualche scusa, ma l'altro – di nuovo – lo bloccò.
« Dunque vi vedrò stasera » aggiunse, compiaciuto. Alla fine sua madre era stata ben disposta a invitare il ragazzo, definendolo “un tesoro di persona, educato e gentile come pochi nobili”.
Alec, tuttavia, non ne era stato felice. Aveva cercato di inventarsi una scusa, ma quando quella mattina la signora contessa lo aveva fatto chiamare non aveva saputo negargli la gioia di quel sorriso che finalmente le era tornato sul volto, lievemente appassito dal tanto dolore sofferto.
« Sarà una serata splendida! » esclamò il conte, prima di girare i tacchi e andarsene da dove era entrato, il sorriso che non lo aveva mai abbandonato.
Alec non riusciva proprio a spiegarsi cos'era quella sensazione che lo bloccava in quel modo ridicolo ogni volta che il signor conte era nei paraggi.
La cosa lo rendeva dubbioso.
Ma ciò che lo spaventava era la sensazione di qualcosa che stava per accadere, qualcosa che scacciò ancora di più la sua voglia di partecipare ai festeggiamenti. E non da maggiordomo come si aspettavano tutti, ma come ospite.
Per l'Angelo, penso ancora, sono nei guai e non ne capisco nemmeno la ragione.


Ben presto il cortile della tenuta vennero invasi dalle carrozze di tutti i nobili dei dintorni.
I signori nelle loro giacche di damascato e nei cappelli a tricorno, le dame con i loro abiti opulenti e colorati, avvolte da piume e gioielli.
Le feste dei Bane erano sempre un grande evento e ad esse si adeguavano tutti i partecipanti.
Tutto sembrava brillare, persino gli occhi dei servitori che si spingevano tra i vestiti sfarzosi con i vassoi ricolmi di dolci e manicaretti vari.
Poco dopo, il ricevimento ebbe inizio.
Davanti all'ampia fontana erano state disposte lunghe tavolate imbandite, coperte da eleganti tovaglie gialle.
Ai piedi dello scalone d'ingresso, i musicisti rallegravano l'atmosfera e l'arrivo degli ospiti. Sul prato, sotto un baldacchino decorato in rosso e oro, la famiglia Bane riceveva gli ossequi degli invitati.
Magnus indossava un abito rosso scuro, simile a quello che aveva nel pomeriggio ma certamente più elegante e d'impatto. E svolgeva i suoi doveri di ospite in modo impeccabile, e con non poco entusiasmo.
Catarina esibiva un sorriso gioviale, in tinta con l'abito rosato e il collieur di perle bianche. Ma si guardava intorno impettita, riparata da un ombrellino bianco, pronta a sgridare qualche servitore se tutto non fosse stato al posto giusto e al momento giusto.
Nel frattempo gli ospiti continuavano ad arrivare, passeggiavano a piccoli gruppi fra i tavoli e conversavano amabilmente, accompagnati dalla musica suonata dall'orchestra e dalle risate dei ragazzini, che sfuggivano all'etichetta e agli sguardi severi dei genitori e si rincorrevano tra i tavoli.
Quando calò la sera, la facciata della Villa Bane si stagliò contro il cielo scuro, punteggiata dalla luce calda delle fiaccole e dagli arabeschi dorati degli zampilli delle fontane.
Gli invitati si erano spostati nel salone, dove il ricevimento procedeva fra chiacchiere mondane e discussioni politiche.
In tutto questo, Alec - con il suo abito blu scuro simile al nero che la signora contessa gli aveva fatto consegnare quella mattina - se ne stava in disparte, tenendosi il piu lontano possibile dai padroni di casa e, in particolar modo, dal conte Magnus.
Quell'uomo non lo convinceva, c'era qualcosa in lui che gli metteva soggezione, seppur non fosse in grado si spiegarne il motivo.
Il vociare si interruppe non appena venne annunciata solennemente l'entrata degli ospiti più attesi:
« Il consigliere di Sua Maestà, il marchese Jean-Philippe Belcourt e la marchesa Camille Belcourt ».
Gli occhi di tutti si spostarono sulla coppia, che fece il suo ingresso regale nel salone ammutolito.
Alec si ritrovò ad osservare la marchesa Belcourt, magnifica nel vestito grigio argentato, intenta a guardarsi intorno.
Poi lo sguardo del ragazzo seguì l'attenzione di lei, ora rivolta al conte Magnus che per la prima volta, in tutta la serata, non lasciava trapelare sul suo volto nemmeno l'ombra di un sorriso.
Che strano, si ritrovò a pensare.
Che non fosse in buoni rapporti?
« Villa Bane... Quanto tempo... » mormorò a occhi socchiusi Camille, avvicinandosi ai signori Bane insieme al marito.
Il conte Ragnor Fell, intanto, si era avvicinato all'amico per sussurragli all'orecchio.
« Non credo ai miei occhi » commentò Ragnor. « Hai invitato anche lei? »
« È stata un'idea superba di mia madre » disse Magnus, cercando di celare il più possibile la sua irritazione.
« È ancora molto bella » commentò l'amico, facendo scivolare lo sguardo sul volto felino, gli occhi scuri e profondi e, ovviamente, sulla notevole scollatura.
« Lo è sempre stata » rispose amaro Magnus « e purtroppo lo sa »
Nel frattempo, Camille e il marito avevano raggiunto la contessa e le stavano porgendo i loro ossequi.
« Certo » sospirò il conte Ragnor. « Se penso che l'hai avuta tra le tue mani...»
« Zitto Ragnor » esclamò Magnus. « C'è suo marito »
« Se è per questo, non sto dicendo nulla che il consigliere Belcourt non sappia già. » ribatté Ragnor, prima di lasciarle scivolare addosso un'altra occhiata. « A quanto si dice in giro, la tua Camille è uno spirito piuttosto "passionale", non so se mi spiego » ridacchiò. « Ah già, è vero, scordavo, tu la conosci molto meglio di me.»
Magnus gli diede una gomitata, azzittendolo. «Credevo di conoscerla. Credevo anche di amarla, se è per questo.»
Poi si arrese ai suoi doveri di ospite e andò a salutare i due illustri invitati.
Mentre baciava la mano a Camille, Magnus fece mostra di una formalità che contrastava con i sentimenti che lo turbavano, e che venne messa a dura prova dallo sguardo intenso e provocante della marchesa. Fu sua sorella Catarina a trarlo in salvo, annunciando l'inizio delle danze.
Sulle note di un quartetto d'archi, gli ospiti a poco a poco si divisero in coppie e raggiunsero il centro della sala.
Alec si fece largo ai margini della sala, dove stavano i bambini, per dirigersi verso uno dei corridoi vuoi, lontano dalle danze.
Per un attimo, così breve da chiedersi se fosse accaduto sul serio, incrociò lo sguardo del conte.
E poi attraversò una delle porte di legno pregiato, ritrovando un po' di respiro.
Dopo aver percorso qualche metro, giunse a uno dei finestroni che davano sui giardini.
Non seppe per quanto tempo rimase lì a fissare le fiaccole che illuminavano l'acqua zampillante della fontana, fatto sta che a un tratto, avvertì dei passi dietro di sé.
Voltandosi incontrò, di nuovo, gli occhi verdi del conte Magnus Bane.
Perchè si ostina a seguirmi? Cosa vuole da me?
Sospirò senza riuscire a trattenersi.
E il sorriso dell'altro, ovviamente, non mancò di ripresentarsi.
« Non sembrate sorpreso » giudicò l'altro.
Se voi la smetteste di pedinarmi...
« No » disse Alec, stavolta deciso a indurlo a lasciarlo stare. « Sono sorpreso di vedervi qui, quando tutti vi attendono nell'altra sala »
Tornate alla vostra preziosa festa, signor conte.
« Hanno tutti goduto a sufficienza della mia presenza » ribatté l'altro.
« Dubito che siate riuscito a salutare tutti gli ospiti presenti » tentò ancora Alec, nel tentativo di spingerlo a lasciarlo da solo.
Magnus parve ancora più interessato dalla sua risposta, tuttavia.
« Sono certo che mia sorella sia in grado di sopperire alle mie mancanze »
A questo punto fu Alec a sorridere, senza però guardarlo negli occhi.
« Ma non è lei la festeggiata »
« Mh » Magnus era sinceramente divertito. « Aveva ragione mia madre quando mi ha parlato della vostra ligia attenzione all'etichetta e all'educazione »
La contessa Bane gli aveva parlato di lui?
E poi cos'era quel tono insinuante? Che lo stesse prendendo in giro di nuovo?
« In ogni caso, anch'io come voi sento il bisogno di staccarmi dalla calca, ogni tanto »
No, Alec non voleva staccarsi dalla folla di invitati ma mettere più spazio possibile tra lui e il conte. Solo che sembrava un'impresa impossibile.
« La festa è in vostro onore » ritentò. « Dovreste andare a ballare » aggiunse, guardandosi le scarpe e sperando nella ritirata dell'altro.
« Avete perfettamente ragione »
Grazie al cielo!
Il ragazzo dagli occhi blu sollevò lo sguardo per incontrare una mano, tesa verso di lui, in attesa.
Confuso, alzò lo sguardo verso di lui.
« Mi concedete l'onore? »
Il respiro di Alec si bloccò in gola.


« Vi state... prendendo gioco di me? »
Magnus, la mano ancora a mezz'aria, sembrava perplesso. Quasi imbarazzato da se stesso.
« Gioco di... no! » negò, ritirando la mano. « Non mi prenderei mai gioco di voi »
Il ragazzo arricciò il naso, stizzito e... sì, deluso.
Perché i nobili era fatti tutti con lo stesso stampino.
Magnus sbatté più volte le palpebre.
« Non era mia intenzione offendervi » spiegò il conte.
« Ascoltatemi » lo interruppe, avvicinandosi di un passo. « Non so per chi mi avete preso, ma non sono uno stolto e nemmeno una fanciulla da invitare a ballare »
Era stato forse troppo brusco, irrispettoso nei confronti di un conte, ma quelle parole avevano fatto traboccare il vaso. Si rifiutò di ingoiare oltre tutte quelle provocazioni: in quel momento davanti a lui non c'era più il conte Magnus Bane, ma un semplice uomo.
Un uomo davvero impertinente.
« Non ho mai pensato che lo foste » ribatté l'altro, il sorriso scomparso e adesso solo una sincera serietà. « Entrambe le cose, dico » precisò, temendo di offenderlo di nuovo.
« Non sono un tipo da scherzi del genere »
Magnus sorrise.
« Questo è evidente »
« E non sono nemmeno di buona compagnia, quindi davvero » cercò le parole adatte. « dovreste tornare alla sala da ballo » e fece per andarsene, ma Magnus gli bloccò la strada appoggiando un braccio alla finestra.
« Sapete » cominciò il conte. « Ho viaggiato molto e ho conosciuto molti uomini sotto le armi » proseguì, il volto che sembrava avvicinarsi al suo. « Ma nessuno è mai stato in grado di impormi cosa fare » aggiunse, soffermandosi a pochi centimetri di distanza dal corpo del giovane dagli occhi blu. Alec si chiese se quella, in qualche modo, non fosse una minaccia.
« Inoltre » riprese il discorso, senza spostarsi da quella posizione. Il ragazzo davanti a lui sembrava sospeso, quasi incapace di respirare. « Sono convinto » La distanza con il suo viso si accorciava sempre di più. « che non sappiate affatto ballare »
Il ragazzo dagli occhi blu parve ridestarsi da quell'attesa, inghiottendo un lungo respiro. Le guance di un tenue colorito rosato.
Magnus sorrise tra sé e sé.
Scherzi, eh?
« Io... non- » balbettò, sconnesso.
E così come si era avvicinato, Magnus si allontanò. Uno spiffero d'aria si mosse contro Alec, che dovette spostare un piede per reggersi meglio sulle sue stesse gambe.
« Mentre ci pensate » continuò l'altro. « Potreste dimostrami che mi sbaglio »
Il suo sorriso accattivante spinse il ragazzo a incespicare nei suoi stessi pensieri, la bocca che si schiudeva più volte.
« Io, non... no » Ritrovò un minimo di coerenza, rilassando le spalle rigide.
« No, non ne avete intenzione o “no, non so ballare”? »
« P-Perché me lo chiedete? E perché dovrebbe importarvi? »
Una domanda legittima, non era mancanza di rispetto.
« Perché no? »
Una risposta di una semplicità disarmante.
« Cosa ci sarebbe di male? » chiese ancora. « Tutti ballano. Per certi aspetti, ballare è come combattere in un duello » proseguì. « Perché contro di voi potrei combattere ma non ballare? »
Perché si trovava in quella situazione, cosa aveva fatto di male? Alec lo sapeva,avrebbe dovuto darsi malato e non venire.
Dev'essere folle, pensò il ragazzo, sentendosi sempre più in trappola ad ogni minuto passato in sua compagnia.
« Due uomini non ballano tra loro » ribatté, piccato. Il conte alzò un sopracciglio, pronto a ribattere a sua volta.
« Allora battetevi con me »
Il ragazzo era esasperato. Si appoggiò alla finestra, improvvisamente stanco.
« Perché? » Avrebbe potuto rispondere “no” per l'ennesima volta, ma l'altro non si sarebbe arreso, lo sapeva.
Magnus gli si avvicinò di nuovo, poggiando le mani sul davanzale, ai fianchi del ragazzo. Il respiro che si infrangeva con il suo e gli occhi che si specchiavano in quelli blu dell'altro.
« Perché devo confessarvi » sussurrò, accorciando le distanze quel tanto che bastava perché i vestiti si sfiorassero senza toccarsi. « che sono molto emozionato all'idea di
avervi vicino» mormorò infine, le palpebre che si abbassavano.
A quel punto la musica si fermò, mentre le grida disperate di un uomo li raggiunsero dalla sala principale. Si distanziarono e dopo pochi secondi accorsero nella sala da ballo, dove un uomo chiedeva aiuto insieme a una ragazza dai capelli rossi.
Dei servi cercavano di trattenerli, mentre tutti i nobili sembravano ammutoliti o comunque disturbati dall'interruzione. Alec non impiegò che qualche secondo per riconoscere i nuovi arrivati.
« Luke! Clary! » Dimentico del conte accanto a lui, si fece largo tra la folla e raggiunse i due.
« Vi prego, aiutateci! » urlava disperata la ragazza. Non appena riconobbero Alec, questi ordinò ai servi di lasciarli andare. Stravolti, questi eseguirono. Luke si diresse al centro della sala, guardando tutti indistintamente.
« Vi prego! Mia moglie, Jocelyn, è sparita. Non la troviamo da nessuna parte » pregò Luke nell'aiuto dei nobili e dei loro cavalli, per cercarla.
Luke era molto conosciuto per la sua triste storia, essendo stato un nobile quelli che erano presenti erano stati suoi amici. E nonostante lo scandalo, nonostante l'allontanamento dai salotti nobiliari, era - in un gesto disperato – accorso alla villa per cercare la benevolenza di qualcuno di loro.
Catarina Bane impallidì e abbassò lo sguardo.
Il conte Ragnor sbarrò il passo a Fabrizio, che si era mosso per raggiungere i due, mentre tutti gli altri erano in silenzio e immobili.
« Lascialo stare, Magnus » disse a bassa voce. « Non complicare ancora di più le cose »
Luke non si perse d'animo, mentre Clary era stata raggiunta da una delle cameriere che cercava invano di consolarla.
« Ho bisogno d'aiuto per organizzare una battuta » Silenzio, alcuni nobili si girarono dalla parte opposta. « Vi prego! Da solo come faccio?» stava dicendo intanto Luke, ma tutti i nobili a cui si rivolgeva abbassavano lo sguardo.
Il pianto di Clary si faceva più sommesso.
Catarina raggiunse alcune sue amiche e uscì dal salone.
Magnus non poteva sopportare oltre e si liberò della presa di Ragnor, raggiungendo il medico.
«Magnus, almeno tu, ti prego» lo supplicò Luke.
Magnus lo conosceva bene e, a dispetto di tutti gli altri nobili, non aveva mai cambiato idea su di lui. E quando era partito per l'esercito, il medico aveva pianto sinceramente, conscio dell'aver perso l'unico amico che gli era rimasto. Ma adesso era lì e forse lo avrebbe aiutato.
Alec, accanto al medico, incrociò quegli occhi verdi pieni di determinazione.
Il conte Bane non esitò. « Andiamo, tutta la servitù con me » ordinò.


Si divisero in più spedizioni, una delle quali guidata da Simon.
Magnus batteva i sentieri più a ovest, insieme ad Alec e Luke.
Le ricerche di Jocelyn durarono tutta la notte, una lunga notte rischiarata dalle decine di fiaccole che animarono i dintorni della casa del medico e si spinsero fino al lago. Sulla riva, piccole onde sciabordavano lente, come in un lugubre sottofondo, e la luce della luna si scheggiava sulla superficie oscura del lago.
« Jocelyn! » chiamò a gran voce Luke. Per ore, disperato, tormentato dai sensi di colpa per non aver colto il significato delle lacrime di sua moglie in tutti quegli anni e delle parole che aveva trovato in una lettera, al ritorno da una visita al figlio di un contadino. Poco dopo era giunta Clary, che era andata in paese e insieme avevano letto quella lettera, terrorizzati e sconvolti.
Non riuscirò mai a perdonarmi per quello che ti ho fatto. Per colpa mia e solo per colpa mia, tu hai perso tutto. Non posso più vivere con queste colpe. Spero che Clary possa perdonarmi. Ricordati
sempre che ti amo. Sempre.

Alla luce cinerea dell'alba, una barca si avvicinò lenta alla riva.
«Jocelyn, no!» gridò Luke, non appena intravide nella foschia il profilo scuro del corpo della moglie, abbandonato senza vita sull'imbarcazione.
Scosso dai singhiozzi, il volto pallido e distrutto dal dolore, entrò in acqua e raggiunse la barca, ormai quasi a riva. Si gettò sul corpo della moglie, poi la sollevò tra le braccia e la posò con delicatezza sulla sabbia, dove la strinse in un abbraccio disperato, sotto lo sguardo costernato
di Magnus e Alec.
Il conte vide il ragazzo dagli occhi blu, lucidi di lacrime che sgorgavano sul volto pallido, avvicinarsi al medico e stringergli le spalle con le braccia, sostenendolo per quanto poteva.
«Perché l'ha fatto, perché?» urlò disperato Luke, fra i singhiozzi.
«Vi prego, Luke, non fate così» mormorò Alec e lo strinse a sé, nel tentativo di calmarlo.
Ad esso si aggiunsero le braccia di Magnus, che tirarono via Alec, lasciando al dottore un momento per piangere la moglie.
« Lasciatemi! » urlò, ma Magnus lo tenne stretto per le braccia.
« Non potete fare niente per lui, calmatevi » E Alec, stanco e disperato per la perdita, pensando a Clary e a quello che lei e Luke avrebbero dovuto sopportare, si sentì mancare le forze e si lasciò abbracciare dal conte.
Il corpo caldo di lui, parve cullarlo.
Pianse le sue lacrime sul quel bel vestito rosso scuro, stringendo la stoffa con afflizione.
Poco dopo, il corpo di Jocelyn venne caricato su un carro.
Luke accarezzò per l'ultima volta il volto della moglie e fece un cenno al carro, che si allontanò lento. I paesani che avevano assistito alla scena ammutoliti a poco a poco si dispersero, lasciando i tre da soli.
« Non ho più niente » era il sussurro roco dal troppo piangere di Luke. A quel punto Alec si strinse a lui e poi lo guardò dritto negli occhi, la speranza in quelle iridi blu come il cielo.
« No, Luke » disse. « Tu hai Clary »
Gli occhi del medico parvero riaccendersi.
« Non sei solo » aggiunse il ragazzo, la voce sorprendentemente ferma. « Lei ha bisogno di te adesso » Gli occhi ancora lucidi, Luke lo ringraziò e poi ringraziò anche il conte, prima di seguire il carro a piedi.
Rimasti soli, Alec e Magnus si lasciarono avvolgere dai primi suoni del giorno.
Gli uccelli cantavano e dietro di loro, il cielo aveva iniziato a rischiararsi e si era tinto di un azzurro pallido e indeciso.
«Povero Luke» disse piano Alec. «Ha sacrificato a questo amore tutto quello che aveva. Ha combattuto contro tutti » Magnus lo osservava, assorto. « Non meritava un destino così crudele »
Poi il conte sospirò.
« Luke sapeva che cosa rischiava, quando ha deciso di andare contro le leggi » rispose Magnus.
« Era molto innamorato » aggiunse il ragazzo, incominciando ad incamminarsi al fianco del conte, per tornare alla villa.
« Lo è ancora. Non vorrei essere al suo posto » confessò l'ufficiale. « Sapete, io non lo giudico» proseguì il conte. «Tutti facciamo sciocchezze in amore. L'importante è fermarsi in tempo »
Alec lo fissò, gli occhi ancora arrossati dalle lacrime.
« Non erano sciocchezze » Magnus gli restituì lo sguardo, scoprendo una profonda decisione e una potente speranza in quelle iridi azzurre. « Combattere per amore è nobile »
Magnus rimase in silenzio per qualche istante, rapito da quello sguardo, da quelle parole. E da lui in generale.
Quel ragazzo... non era come tutti gli altri nobili.
Era nobile, certo. Ma non in maniera convenzionale.
C'era qualcosa di più in lui, qualcosa da scoprire.
« Siete il primo nobile che sia mai stato in grado di sorprendermi con così poche parole »
Alec sbarrò gli occhi.
Nobile?
Quindi il conte credeva che lui...
Un'improvvisa ondata di panico lo avvolse.
« Io... Devo parlarvi, conte...» cominciò con urgenza, ma l'altro lo bloccò.
« Non ora, Alexander »
Alexander.
Il conte aveva pronunciato il suo nome per intero. Un nome che aveva sempre odiato ma che detto da lui, per la prima volta da quando era nato, sembrava più simile a una carezza che a un richiamo altisonante e da vecchio.
Ma Alec non poteva lasciar correre.
Una cosa del genere gli avrebbe procurato più guai di quanti ne potesse immaginare.
Così lo fermò, afferrandogli una mano.
« No, conte, quello che è successo al ballo- »
«Avete le mani gelide» lo interruppe l'altro, e le strinse fra le sue per scaldarle.
« E' stata una serata piena di eventi. Non c'è notizia che non possa attendere » Lo fissò intensamente, equivocando le preoccupazioni che si agitavano dentro il ragazzo. « Sarà meglio rientrare ora »
Poi si allontanò, diretto ai loro cavalli.











NdA:
Eccovi il primo capitolo, spero vi sia piaciuto. La storia, che ripeto è ispirata alla serie televisiva "Elisa di Rivombrosa" che conosco da qualche anno, è una specie di esperimento per investire il mio tempo libero, ma è praticamente già scritta^^ Beh, a presto (cercherò di aggiornare con costanza).
Ps. Ovviamente la storia non è scritta a scopo di lucro, non possiedo nessuno dei personaggi del mondo di "Shadowhunters" (anche se vorrei ahaha) eccetera eccetera.

 

   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Shadowhunters / Vai alla pagina dell'autore: WallisDennie