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Autore: TheUnknownDevice    16/09/2017    0 recensioni
“La convinzione fotte la gente”, disse qualcuno.
Honey, dopo aver passato dieci dei suoi diciotto anni su una sedia a rotelle, è convinta di non avere nulla: non ha un paio di gambe funzionanti, non ha dei genitori, non possiede alcun amico né un qualche animale domestico.
Dylan, lo scapestrato e fin troppo attraente ragazzo che irrompe nella sua vita e le propone un patto a doppio senso, invece, sembra essere contento e fiero della propria vita.
Ma non è tutto come sembra, dipende solo dai punti di vista. E quando gli antipodi si scontrano, ogni cosa è davvero possibile, perché tutto passa, ma niente cambia davvero. Forse, solo se ne sei profondamente convinto.
È come in una guerra, come un accordo di mutuo soccorso tra Paesi alleati. Il primo a cadere perde, ma può contare sull’aiuto dell’altro.
Una solida alleanza, un tacito patto a doppio senso, un appiglio per salvarsi dalla fredda ed esigente realtà.
And nothing else matters - E non importa nient'altro.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Nono capitolo

Il silenzio


 
«Non ci credo…», lo sentii sibilare tra i denti. Con un punto interrogativo enorme stampato in fronte mi voltai poi verso Dylan, aspettando stupidamente una spiegazione. Come se mi dovesse spiegare qualcosa per un semplice saluto!

Con evidente imbarazzo si passò la mano sulla nuca e, improvvisando un sorriso imbarazzato, fece un passo verso la nuova arrivata.

«Ciao…»

In tutta la mia vita, non avevo mai visto Dylan così a disagio. Certo, è pur vero che avevo imparato a conoscerlo da poche settimane, ma restava comunque uno di quei momenti epico-tragici che la vita decide di donarti raramente.

Sorrisi di riflesso: qualcosa mi diceva che quell’incontro sarebbe stato più piacevole del previsto.

«Dylan, finalmente ti rivedo! Ma dove sei finito in questi giorni?», la rossa pareva sollevata. Dylan un po’ meno.

Quindi si conoscevano e si vedevano frequentemente; Dylan aveva altri interessi oltre allo sport? Stentavo a crederci.

«Ho avuto parecchio da fare, sai com’è… le feste, i regali, la scuola», fece una piccola pausa e cercò il mio sguardo in una muta richiesta d’aiuto, «non è vero, Honey?»

Stentai a formulare una risposta di senso compiuto; non c’era nulla da fare, ogni volta che il mio nome veniva pronunciato da quel ragazzo, il mio cuore faceva una capriola.

«Ehm, si ovvio… Dylan ormai non ha più un momento libero» mi limitai a balbettare. Non avrei saputo fare di meglio; ero una pessima improvvisatrice. E comunque la sua era una bugia bella e buona! Non era forse la stessa persona che aveva ammesso, poche ore prima, di non sapere d’essere nel periodo natalizio?

«Be’, bando alle ciance… Honey, lei è Samantha», e voltando lo sguardo verso di lei, «Samantha, ti presento Honey.»

Nessun appellativo, né per me né per lei. Forse un po’ mi dispiaceva non sapere che “etichetta” avesse il loro rapporto.

La rossa mi sorrise meccanicamente, mostrando una schiera di denti a dir poco luminosi. «Piacere di conoscerti!», la sua voce squillante la faceva sembrare più entusiasta di quanto in realtà fosse.

Mimai un cenno con la mano. «Piacere mio».

Quasi non mi fece concludere la frase, che subito spostò l’attenzione verso Dylan. «Comunque quasi non ti riconosco! Non dirmi che la ragazza delle ripetizioni ti tiene tutto il tempo con sé! Perché se è così… devi ammettere che ti stai rammollendo!»

Dylan ed io sgranammo gli occhi nello stesso istante, ma probabilmente per motivi diversi.

La mia espressione doveva essere poco fraintendibile, perché Samantha, sorridendo bonariamente, continuò: «Devi sapere che Dylan è un po’ indietro con lo studio e si sta facendo aiutare da questa ragazzetta per poter recuperare…»

Ragazzetta a chi?

Evidentemente c’era qualcosa che non andava. Non dissi nulla e, proprio quando Dylan stava cercando di dire qualcosa per fermare il discorso della rossa, lei proseguì: «A sentir Dylan, è la tipica studentessa secchiona sempre chiusa in casa sui libri, occhialuta e con una marea di brufoli! E puzza anche… una tale sfigata, a detta sua!»

Rimasi impietrita per un attimo. Ma cosa stava succedendo?

Mi voltai lentamente verso Dylan, che si ostinava ancora a non dire una parola. Quella conversazione stava sfiorando l’assurdo, senza contare che avevo la sensazione di esser diventata la protagonista del discorso senza nemmeno essermene accorta.

Lo sguardo attonito di Dylan era tutto un programma: dov’era finito il ragazzo spigliato ed estroverso che tutti avevano conosciuto fino a quel momento? E fu proprio quella sua titubanza, quella sua improvvisa incapacità di improvvisazione che mi fece fare due più due.

Il mio viso si aprì quasi automaticamente in un sorriso tirato, malefico; non ero quel tipo di persona – non lo sarei mai stata – ma già che eravamo in ballo, tanto valeva ballare. Sì, volevo proprio vedere fino a che punto si sarebbe spinto Dylan, quella volta.

«Ma non mi dire! Dylan, non me ne avevi mai parlato! Dai, raccontami qualcosa su di lei, sono curiosa!», dissi con tono eloquente. Il ragazzo aveva ormai assunto varie tonalità di bordeaux, mentre la sua amica sembrava sinceramente divertita da quella scenetta, tant’è che aggiunse: «Suvvia, Dylanuccio, promettiamo di non ridere troppo!», coprendosi maliziosamente la bocca con le unghie laccate.

C’era qualcosa di strano in tutta quella situazione, qualcosa che offuscava i miei pensieri e m’impediva di ragionare con lucidità, come avrei fatto in qualsiasi altra situazione. Solo di fronte al continuo silenzio di Dylan mi resi conto di esserci caduta con tutte le scarpe; ero delusa, senza ‘se’ e senza ‘ma’. Senza rendermene conto avevo fatto entrare Dylan nella mia vita, nella mia quotidianità, così facilmente e naturalmente da non riconoscere me stessa; non ero una persona così socievole e il mio definirmi ‘riservata’ mi aveva tenuto alla larga da ogni tipo di relazione. Probabilmente l’arrivo di un amico come Dylan era stato un toccasana, l’avevo sperato, inconsciamente e per così tanto tempo, che non avrei potuto che dimostrargli tutta la mia riconoscenza, per la sua compagnia e le sue cure. E per quanto mi fossi ostinata a pensare, durante quelle settimane, che il nostro era solo un patto, che tutto sarebbe finito una volta rimessami in piedi, intimamente desideravo che quel qualcosa che stavamo costruendo – qualsiasi fosse la sua etichetta – durasse di più.

Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Già, ma ci ero arrivata troppo tardi, quella volta.

«Ma no, ragazze, lasciamo stare… Non ne vale la pena, sul serio!», asserì titubante, grattandosi la nuca ancora palesemente in imbarazzo.

La mia mente produceva segnali a intermittenza, come una lampadina che sta per fulminarsi. Il caos di quel grande salone, lo sguardo fissamente divertito della rossa, l’espressione abbattuta di Dylan, il vocio indistinto domato dagli altoparlanti che richiamavano a ripetizione continua commesse alle rispettive casse, tutto quanto stava lentamente svanendo. Era un brutto segno, era il segno: stavo per mettermi a piangere come una cretina e ciò non era assolutamente ammissibile, non in quel posto, non davanti a lui. Trovai a fatica un briciolo di lucidità cui aggrapparmi e, mentre Samantha lo stuzzicava per riuscire a carpire qualcosa in più sulla ragazzetta delle ripetizioni, con un filo di voce proferii: «Dylan, scusa ma voglio tornare a casa.»

Salutai sbrigativamente Samantha, che quasi non ebbe il tempo di rispondere al mio saluto, ché già mi ero fiondata fuori da quel luogo così improvvisamente soffocante. Nonostante ci stessi mettendo tutta la forza possibile nelle braccia, sentivo già la fatica e poco mancava che iniziassero a tremarmi violentemente le mani.

E, ciliegina sulla torta, come una stupida non avevo fatto caso ad un particolare quasi irrilevante: volevo andarmene da quel posto che era lontano chissà quante miglia da casa mia, senza contare che ero costretta su una cavolo di sedia a rotelle. «Accidenti!»

Mi fermai stancamente vicino all’ingresso del grande palazzo, rischiando anche di essere d’intralcio per chi entrava nell’edificio. Guardai il grande orologio appeso alla parete: era passato parecchio tempo e fuori doveva già essere buio. Un altro vantaggio per Honey, la viaggiatrice in carrozzella.

Chiusi gli occhi per un attimo, il tempo di riprendere il controllo e fare mente locale. Ma cosa mi stava accadendo? Ero sola in mezzo ad un mare di gente scatenata e ancora furiosa con Dylan per il suo comportamento; ed era inutile che me ne sorprendessi, perché per quanto lui avesse sbagliato e avesse parlato così male di me a quella sua amica, parte della colpa era anche mia, che come una stupida disperata avevo abbassato la guardia. Sì, la verità era che a Dylan mi ci stavo affezionando; aveva quel modo di fare tutto suo che in un modo o nell’altro riusciva a coinvolgermi, qualsiasi cosa s’inventasse. E ciò che mi faceva più rabbia era il fatto che non mi sarei mai aspettato – non da me! – di rimanerci così male. E intanto mille domande, mille dubbi affollavano il mio povero cervello; non riuscivo a capacitarmene e mi chiedevo perché l’avesse fatto, quale assurdo motivo l’avesse spinto a rendermi oggetto di derisione di Samantha e di chissà quanti altri suoi conoscenti. Perché inventarsi una cosa simile? La risposta era così ovvia, così prorompente che faticavo ad accettarla.

Lui si vergogna di te.

Era così chiaro, così dannatamente palese! Mi sorprendevo solo di non essermene accorta giusto un po’ prima. Ci doveva pur essere stato un motivo se, in tutti quegli anni, nessuna persona si era avvicinata a me per fare amicizia o solamente due chiacchiere. E di nuovo, fare due più due non era mai stato così facile.

Perché, a ben pensarci, Cedric stava con me in quanto mio parente e si poteva considerare quasi un ‘amico costretto’, e lo stesso potevo dire di Matilda. Ma ciò che più mi sorprendeva era la mia arrendevolezza, la mia totale mancanza di senno nel pensare che forse lui sarebbe stato differente. Invece no, Dylan considerava il nostro come semplice patto, ed era esattamente ciò che era sempre stato dall’inizio, come d’accordo. Allora perché me la prendevo tanto?

Forse perché…

«Honey!», come non riconoscere la sua voce? Avevo imparato a riconoscerne l’inflessione anche tra milioni di altre. Che patetica. «Ma dove diavolo stai andando? È pericoloso, non puoi tornare a casa da sola; ti riaccompagno.»

A malapena annuii, tanto ero stanca. Stanca di pensare, stanca di stare male e di sentirmi in colpa per ciò che non ero.

Inutile dire che durante il tragitto verso casa regnò un mutismo pesante e imbarazzato. Dylan cambiava quasi convulsamente stazione radio ogni qual volta iniziasse la pubblicità. In realtà era una cosa che faceva spesso quando mi scarrozzava da una parte all’altra; non sopportava il ‘blaterare continuo e inutile degli speaker’ e non si dava pace finché non trovava una canzone che gli andasse a genio. Piccole cose senza importanza, almeno era ciò che seguitavo a ripetere al mio cervello annacquato.

Aprii lo sportello dell’auto, una volta giunti a destinazione. «Aspetta, ti aiuto.»

Il suo essere così gentile e al contempo così impacciato mi avrebbe dovuto spingere a dire qualcosa, a chiedergli spiegazioni; avrei dovuto sputargli in faccia il mio risentimento e il mio affetto per lui. Avrei dovuto parlare, invece tutto ciò che riuscii a balbettare fu un «grazie» a denti stretti. Per un secondo alzai gli occhi – fino a quel momento avevo evitato bene di guardare quelle profonde pozze verdi – e ciò che vidi fu l’equivalente mentale di uno schiaffo in pieno viso: mi osservava col suo sguardo da cucciolo bastonato e, se le sue iridi avessero potuto parlare, ero quasi certa che avrebbero gridato un «mi dispiace».

Ma così non fu; rimase in silenzio e io non potei far altro che imitarlo. Avevo capito che fosse rammaricato per quella stupida situazione, avrei potuto dargli la possibilità di spiegarmi, ma le parole mi morirono in gola e probabilmente altrettanto fecero in lui. Dire che fossi una frana nel relazionarmi agli altri sarebbe stato un eufemismo, ma in quel momento capii che non ero l’unica e sola. Con quel pensiero in testa mi allontanai da lui, percorrendo il vialetto di casa mentre un sorriso amaro mi sorgeva sul viso.


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«Buongiorno principessa!»

Se il buongiorno si vede dal mattino, quella sarebbe stata una giornata orribile.

«’Giorno», bofonchiai, addentando al volo una brioche.

«Uh-uh… ci sono guai in paradiso?»

«Cedric, scusami ma non è davvero aria. E comunque no: nessun guaio in nessun paradiso!», cercai di essere gentile almeno con lui, dato che comunque col mio malumore non aveva niente a che fare.

Le vacanze invernali erano appena cominciate, dunque niente scuola o studio per un po’, il che per me avrebbe significato un’emerita cippa da fare per due settimane, dato che studiare, studiare e studiare era la mia maggiore occupazione da circa una vita. Nell’ultimo mese si era aggiunta la fisioterapia con Dylan – la sua Dylanterapia, come egocentricamente l’aveva denominata lui – ma dopo l’accaduto non contavo più molto sulla sua presenza.

La notte più che portare consiglio mi aveva regalato un bel paio di occhiaie violacee e un umore a dir poco pessimo; già, io e le mie sacre otto ore di sonno eravamo da sempre inseparabili. Quella volta, invece, avevo passato la maggior parte del tempo a rigirarmi nervosamente nel letto – per quanto le mie gambe mi permettessero il movimento – e a pensare a quelle ultime settimane. Non avrei mai ammesso con me stessa di aver avuto una reazione esagerata in quel centro commerciale, ma era pur vero che Dylan si era comportato da idiota e rimanere impalato e muto tutto il tempo non aveva affatto migliorato le cose. Ma la verità era che ci pensavo e ripensavo non perché la reputassi una questione di importanza nazionale – d’altronde ero una persona molto permalosa e su questo non ci pioveva –, quanto piuttosto perché raggelavo all’idea di poter perdere l’unico potenziale amico che sembrasse stare con me in maniera disinteressata, dopo anni di frustrante solitudine.

In parole povere: stavo mandando alle ortiche una probabile vera amicizia per uno stupido malinteso, una incomprensione di cui tra l’altro non eravamo stati neppure capaci di discutere. E il fatto che stessi lì ferma a far nulla mi mandava ancora di più fuori dai gangheri! Ero furiosa, con me stessa perché non gli avevo urlato contro qualcosa – nemmeno un «ciao!» isterico alla teen drama americano – e con lui che probabilmente aveva avuto paura di dire la cosa sbagliata. Sì, perché ormai mi rifiutavo di pensare che non gliene importasse nulla di me, non lo ritenevo possibile; tutto nel suo comportamento in quelle settimane mi aveva dimostrato il contrario, e di certo, per quanto cretino fosse stato a dire quelle cose sulla ‘ragazza delle ripetizioni’, non meritava di essere denigrato da parte mia.

Stavo decisamente ingigantendo il tutto. Eppure, una vocina in fondo alla mia testa mandava ancora il suo eco…

Lui si vergogna di te.

Scossi la testa, perché ormai temevo seriamente che sarebbe potuta scoppiare da un momento all’altro. Rimandai con uno «scusa zio, devo… andare in bagno» la conversazione che Cedric stava invano cercando di intavolare con me circa il vestito perfetto a cui teneva probabilmente più lui di me.

Deviai all’ultimo per la mia camera da letto, consapevole che Cedric sapesse che non sarei realmente andata al bagno.

Controllai per scrupolo il cellulare, ma niente: nessuna notifica. Circa una ventina di volte pensai di scrivergli un messaggio, scrivendo e cancellando tutto all’ultimo. Ero davvero un caso perso.

Abbandonai il telefono sul letto e decisi che era il momento di pensare ad altro; automacerarmi per tutto il giorno chiusa in camera mi avrebbe portata molto vicino all’esaurimento. Sentii il tonfo della porta che si chiudeva, segno che Cedric era uscito per andare al lavoro. Normalmente mi sarei comodamente sistemata sul divano con un pacco di biscotti e una serie TV vista e rivista – sì, sono fondamentalmente una nostalgica – ma quella mattina sarebbe stato deleterio per me. Infilai giacca e cappello, scivolai giù fino alla porta e uscii fuori, dove il consueto freddo pungente di dicembre era pronto a mietere un’altra povera vittima: la sottoscritta.

Girovagare su una sedia a rotelle non sarà l’attività meno stancante del mondo, ma quella volta mi fu d’aiuto per non pensare, tanto ero impegnata a far muovere la carrozzella. Per un attimo la mia coscienza bacata registrò un pensiero positivo: forse quella giornata sarebbe potuta andare bene, il segreto stava solo nel non pensare troppo e rimuovere le idee negative.

Spirito zen che sei in me, esci subito da questo corpo!

Mai proposito fu più sbagliato; non appena giunsi al parchetto più vicino, l’immagine che si presentò ai miei occhi fece tornare il ricordo della sera prima con ancora più prepotenza.

Una classica scenetta da film: una dolce bambina che saltella allegramente da una giostrina all’altra, per poi tuffarsi in braccio alla sua mamma, che le sorride intenerita. O forse era sua sorella? La sua babysitter? Una semplice amica?

Perché non vai lì a chiederglielo, Honey?

No, non l’avrei fatto, per due semplici ragioni: la madre/sorella/babysitter in questione era impersonata dalla stessa ragazza che la sera prima mi aveva inconsapevolmente dato della ‘secchiona puzzolente’; oltre a ciò, la bambina che era con lei era spaventosamente la copia carbone di Dylan. La sua versione mini al femminile, insomma.

E sapevo bene che avevo ripetuto quell’azione più volte nelle ultime ventiquattro ore che in tutta la mia vita, ma ancora una volta tutto ciò che riuscii a fare fu voltarmi e scappare – si fa per dire, nelle mie condizioni – dritta alla volta di casa. Ero confusa, ero stranita ma soprattutto ero terrorizzata dalla possibilità che la rossa potesse vedermi e magari riconoscermi.

Che egocentrica!

No, non avrei sostenuto un’altra conversazione con lei, magari ancora convinta che volessi saperne di più sulla secchiona brufolosa che dava una mano al suo Dylanuccio, ignara del fatto che quella persona era proprio davanti ai suoi occhi. No, evitare di farmi vedere era stata sicuramente la soluzione migliore. Senza parlare poi della bambina che era con lei! Era palese che lei e Dylan condividessero più di qualche gene; e se quella fanciulla e Samantha avevano una persona in comune, quella persona era proprio lui. Dunque era chiaro che si conoscessero più che bene e questa consapevolezza non fece che aumentare la mia angoscia verso tutta quella situazione. Certo, era pur vero che una ‘persona in comune’ l’avevamo anche io e Dylan – e cioè Cedric – ma la familiarità di quella ragazza con la mini-Dylan era la prova lampante che Samantha nella vita di Dylan aveva un ruolo ben poco marginale.

Entrai in casa mentalmente più esausta di quanto lo fossi stata alla mia partenza; poco male, me l’ero cercata. In una occasione futura ci avrei pensato due volte prima di abbandonare divano e biscotti.
 
 
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«Zio, non credi di aver lavorato abbastanza per oggi? Sei davanti a quel PC da quasi otto ore!», gli dissi, guardandolo in tralice, «E non per essere maleducata, ma sarebbe anche ora di cena…»

Finalmente alzò lo sguardo; io e il cibo eravamo due delle sue più grandi soddisfazioni da sempre, a suo avviso. «Sì, hai ragione. Non posso lavorare anche la vigilia di Natale. Che ne dici se ti facessi assaggiare qualcuno dei deliziosi piatti che ho preparato per la cena di domani?»

«Oh, che idea geniale! Me l’hai proposto solo una dozzina di volta in questa settimana», risi al solo pensiero di vederlo ogni giorno indaffarato a provare ricette su ricette.

Il mio umore si era leggermente risollevato; d’altronde era meglio così, piuttosto che deprimermi ed aspettare un misero messaggio per un’intera settimana, che tra l’altro non sarebbe mai arrivato.

«Non deridermi! Sai che ci tengo a questa cena.»

«Sì sì, lo so bene. Farai un figurone, te lo garantisco.»

Non appena conclusi la frase, sentimmo il campanello suonare. «Aspetti qualcuno?»

«No», risposi solamente, chiedendomi chi fosse a quell’ora, la sera della vigilia di Natale.

«Sarà Dorothy, la mia nuova segretaria; le avevo detto che avrebbe potuto consegnarmi i documenti anche a casa, ma non pensavo che mi avrebbe preso in parola!», mi disse mentre si apprestava ad aprire la porta.

Afferrai il telecomando, pronta a cambiare canale, ma Cedric continuò: «Honey, è per te!»

Mi diressi verso l’ingresso, il fiato corto e il cuore che batteva forte.

«Ciao, Honey.»

Il mio nome. La sua voce. Il mio cervello, nuovamente annacquato. 








NOTE DELL'AUTRICE
Ciao! So che non c'è più nessuno, che sono passati anni e che ho abbandonato questa storia e questo sito per tanto tempo... ma ora sono tornata, ho scritto un nuovo capitolo e ho voluto condividerlo perché questa storia merita di essere continuata. Che ci vogliano settimane, mesi o anni. Sarò lieta di sapere cosa ne pensate!
Con affetto per chiunque ci sia e ci sarà
Martina

 
  
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