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Autore: Norgor    18/09/2017    0 recensioni
« Pare sia lecito considerare sintomo di una buona educazione, nonché prova sufficiente di una raffinata estrazione sociale, l'indossare un corsetto nella maniera più diligentemente consona e con l'eleganza più perentoriamente accettabile. »
Verona, 1819. L'irrefrenabile desiderio di ribellione nei confronti di una società dalle radici inique; quella cinica arroganza frutto di un'erudizione ambiziosa vissuta come un appiglio indispensabile per non precipitare nell'oblio; l'avversità nei confronti di un mondo scomodo e opprimente che sembra fare di tutto per apparire inospitale. Tutti questi tratti confluiscono nella figura di Doralice Guerra, una tredicenne dalla mentalità talmente inusuale da risultare distorta, dall'atteggiamento talmente anticonformista da apparire non solo indecoroso, ma addirittura malavitoso in quella nobiltà ottocentesca basata sull'etichetta. Doralice deve imparare a crescere in un ambiente che non fa per lei, divenire usa ad abitudini che disprezza categoricamente e moderare il suo pensiero all'ipocrisia da cui è circondata. Altrimenti, con l'andare del tempo, le conseguenze del suo libertinaggio potrebbero condurla su un sentiero fin troppo pericoloso e corroderla ad un livello talmente intimo da spingerla a decisioni estreme ed indelebili.
Genere: Introspettivo, Storico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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III

 
          Filtrata dai rami affusolati dei cipressi di Roverchiara, l’alba diffondeva nitida pennellate indistinte di luce neonata, e le nuvole, veli increspati nella volta cerulea, parevano arrossire dal pudore di essere illuminate e ritirarsi discrete fra i grugniti del vento. Doralice si trovava appresso all’enorme orologio a pendolo che, ticchettando attimi d’un infinito divenire, abbelliva lo studio in cui il padre soleva ritirarsi quando gli affari pubblici gliene garantivano l’occasione; accanto allo scrittoio lucido e finemente intagliato, ella scrutava fuori dalla finestra con vivace contemplazione, ostinatamente certa di aver scelto come antro personale il salone più distante dall’ingresso in cui, con fervente dimestichezza, gli ultimi preparativi per l’imminente partenza venivano ultimati. La lunga veste da camera che le ingabbiava il corpo, ancora esile e acerbo, le pizzicava la pelle in maniera irritante, e la sua chioma, intrappolata finemente da una treccia solitaria, raccoglieva le gocce di sudore che le imperlavano il collo per via del caldo eccessivo. 
          La vetrata dinnanzi a cui trascorreva il mattino, impreziosita da lievi tocchi di polvere al bordo degli angoli, rifletteva l'immagine d’una fanciulla dal volto torbido e impensierito, inerme alle carezze del sole nascente e restìa nel dedicarsi a qualsiasi occupazione che potesse distrarla dal più piccolo pensiero. Fugaci ricordi del giorno prima continuavano a ritornarle alla mente, obbligandola a reprimere l’impulso di mordersi la lingua per la frustrazione e la collera; un flebile, piacevole formicolio gioiva nel solleticarle il ventre, provocandole un rossore d’eccitazione sul volto, simile a quello che la gente rispettabile avverte nel ricevere il calore d’un abbraccio indelebile. La potenza del fuoco le faceva ancora vibrare le ossa, resti d’un’anima succube, affranta, prigioniera indomabile d’un irrazionale impulso di distruzione. Doralice n’era consapevole, eppure adorava fingere, nel corso delle sue giornate, di non essere depositaria d’un tale turbamento interiore. Ella amava plasmare la duttilità del suo carattere, e sfruttava questo passatempo per consolare se stessa dei suoi travagli psicologici; l’avventatezza del giorno precedente era dunque da ricondurre ad una delle tante Doralici che albergavano dentro di sé, e l’animo ch’era stato in grado di realizzare un’azione tanto sconsiderata doveva per forza appartenere ad una creatura differente da quella che si stava specchiando nel vetro, in quel mattino colorato. Da ciò trapelava la certezza che lei non avesse in realtà nulla di cui rimproverarsi circa i recenti avvenimenti, e questa consapevolezza le consentiva di dileguare qualsiasi superflua preoccupazione sull’accaduto. O perlomeno, questo era ciò che bramava ripetersi con una dovuta serietà ed una altrettanto estenuante solerzia, ogni qual volta avesse necessità di sentirselo dire.
          «Ammetto di essere alquanto delusa. Supponevo che trovarti sarebbe stata una faccenda assai più complicata e dispendiosa d’energie». Si udì lo scatto di una serratura. «Invece questa volta sei stata sorprendentemente prevedibile».
Dora non palesò intenzione alcuna di voltarsi. Il ritmo concitato dei passi della madre, udibile fin dall’estremità più remota del corridoio antistante, le era apparso a tal punto famigliare da non destarle il minimo dubbio, e il tono fastidioso ed irritante della sua voce non aveva che confermato le sue precoci convinzioni. Clotilde Pindemonte era giunta, come accadeva in ogni occasione di cui lei avesse memoria, per sentirsi dare ragione; e Doralice, come accadeva in ognuna di queste circostanze, era più che mai determinata a non lasciar trapelare il minimo interesse verso le sue intromissioni.
          «Deludente è anche la strategia che stai utilizzando per escludermi dalla tua vita» aggiunse approssimandosi a lei. «Al contrario di come pare avvenire alla tua facoltà di giudizio, non è sufficiente ignorarmi per scacciarmi via».
          Dora serrò i pugni. «Immagino che questo possa offrirti delucidazioni sui risultati della tua formidabile educazione». Poi si voltò e la squadrò con aria di accusa. «Sarebbe un folle chiunque si abbassasse ad ascoltare le elucubrazioni sulla facoltà di giudizio di una strenua paladina delle più stupide tendenze».
«Lungi da me invogliarti ad intraprendere un percorso che sembra attirarti efficacemente senza il mio aiuto. L’unico mio auspicio è che tu riesca a ritornare suoi tuoi passi in tempo, prima di rendere la follia la tua astuta e inconscia amante».
          «La follia non è un’amante fedele. Essa è esperta nel tradire e ricattare» ribatté la fanciulla.
          Clotilde aggrottò la fronte e assunse un cipiglio d’irritazione. «Eppure sembravi andarci d’accordo ieri pomeriggio, quando hai trovato saggio scatenare un incendio nel mio salone». Il suo sguardo si tinse d’intensa profondità. «Non sono più disposta a tollerare comportamenti simili. Non finché tu puoi approfittarti dell’agio di questa casa, e delle cortesie della nostra Adele. È ora che impari cosa siano il decoro ed il rispetto; e se non possiedi la bontà necessaria per mostrarli di tua spontanea volontà, considerali un pegno da pagare per tutta la ricchezza di cui ti puoi approfittare».
         Doralice mantenne fissi gli occhi in quelli della madre. «Se credi che sia il denaro ciò che mi sta più a cuore, potrei averti sopravvalutata come genitrice. Non che abbia mai avuto un’alta opinione di te, comunque».
         Clotilde si morse il labbro con un’aria infastidita; poi estrasse un ventaglio dal soprabito da viaggio che le circondava le spalle, e prese a sventolarlo con mani tremanti. Dal suo volto traspariva ansia, e tacita arrendevolezza. Trascorsero minuti silenziosi e assillanti, in cui Dora fu certa di avvertire un fastidio sempre più pesante gravitarle nello stomaco, una sensazione proibitiva e cagionevole farsi strada nei meandri del suo essere. Le pareti attorno a lei parevano farsi più anguste e ritirarsi su sé stesse fino a comprimerle il petto; l’aria, coltre irrespirabile per un’esistenza nociva, le perforava il torace in piccoli buchi da cui sgorgavano rivoli d’ira e disperazione. La sensazione avvilente di sporcizia, che tanto l’aveva infastidita il giorno precedente, tornò a marchiarle la pelle, nuda e pallida e spettrale. I raggi del sole, prima carezzevoli e rassicuranti, ora la violentavano con feroce irruenza; il tempo diveniva una collezione di supplizi consecutivi, uno più acuto dell’altro. Il suo cuore riprendeva ad esitare.
          «Io non ti capisco».
         Il sussurro della madre, perenne movente d’ostilità e fonte di disprezzo, ebbe l’accortezza di offrirle un rifugio. Dora tentò d’aggrapparsi all’inusuale appiglio senza lasciare che la propria sofferenza avesse la meglio sul suo rigido contegno esteriore. Il suo sguardo acquisì un’orgogliosa malinconia. «Tu non mi conosci».
        Clotilde parve ricevere uno schiaffo in viso. La collera serrò la sua mascella con una rigidità tale da evidenziarne le prime rughe in prossimità del mento. «È vero» convenne dopo qualche attimo. Il suo tono era una fredda esalazione di labbra insicure. «Io non ti conosco. Fai vanto d’essere un’estranea a cui capita di cenare al mio desco, e di vivere sotto il mio tetto. Io non so nulla di te, se non che hai deciso di respingere una madre dedita alle facili preoccupazioni e ai sentimenti inconsiderati. La mia anima è divenuta un pozzo di solitudine ed incomprensione. Ogni mattina, davanti allo specchio, scorgo nel mio volto una marcata sfumatura della tragedia che alimenta la mia vita. Ciascun attimo delle mie giornate è imbevuto delle più depresse afflizioni d’animo, perché mi hai saputo strappare via l’unica forma di conforto di una madre: la possibilità di amare sua figlia. Così ora esibisci una presenza straniante, e i tuoi occhi celano due baratri in cui alberga l’ignoto. Dunque chi sei tu? Mi stai mostrando il volto di uno sconosciuto».
         Allora Doralice fu percorsa da un brivido di piacere; la sua espressione, teatro improvviso di fervida regalità, s’impadronì d’una calma trasparente. «Io sono il flebile respiro della Volontà. Schiava della mia schiava. Io sono la voce delirante che ride davanti alla vergogna di Dio. Io sono l’enigma più difficile: quando ti sembra di approssimarti alla soluzione, sai che devi ricominciare da capo».
      Sua madre fu costretta a sorreggersi al davanzale per non perdere l’equilibrio. Dora non riuscì a evitare che un ghigno di rinnovata soddisfazione sgorgasse dalla sua instabile, cupa interiorità. La fanciulla ora irradiava sollievo, fierezza, libertà assoluta. Rinata foce di vivida autocoscienza.
      Clotilde si esibì in un’espressione indecifrabile; al di sotto dell’abito che le abbelliva il corpo, i suoi arti tremolavano febbrilmente. Poi alla mente le giunse una realizzazione. «È senz’altro colpa dei libri che leggi». Lo ripeté tre volte, annuendo con alterigia, prima di aggiungere: «Adele l’ha intuito e ha avuto l’accortezza di dirmelo, e ora mi è chiaro l’effetto che essi hanno sulla tua mente, e sulla tua condotta. Fluiscono come veleno nei tuoi ragionamenti, ti seducono con la loro avvenenza e mortificano la tua essenza giorno dopo giorno».
       Doralice interpretò la voce della madre come un ronzio sussurrato debolmente e spezzato dalla più delicata raffica di vento. Qualsiasi cosa fuoriuscisse dalla sua bocca era ora banale, nudo rumore di sottofondo.
      «Dimmi il titolo di un libro che ho letto» la sfidò allora, tentando di demolire quella muraglia dal nome vittimismo dietro cui la madre spesso amava nascondersi. Clotilde non lasciò intravedere nemmeno l’intenzione di sforzarsi nell’impresa; si limitò ad incrociare le braccia al petto e arricciare il naso, chinando il capo con rammarico. Dora scoppiò a ridere; poi si volse verso l’ampia finestra che aveva davanti e studiò il suo riflesso per qualche secondo. Quando tornò a parlare, il cuore le palpitava in fermento. «Desideri sapere che cosa penso?» Ci fu una breve pausa, prima che proseguisse. «La trasparenza è debolezza, e l’onestà è soltanto un difetto. La solitudine è l’unica compagna ideale a cui i segreti possano essere confidati. La condivisione della coscienza la espone al pericolo dell’influenza del prossimo; il sapere è figlio del controllo. Si tratta di potere. Di chi sa abilmente esercitarlo, e di chi inconsciamente lo subisce. Io ho potere su di te, perché di te so anche il più piccolo dettaglio. Ma io per te sono un mistero, e questa oscurità ti sta accecando; io sono infiniti passi innanzi a te, e tu non sai ancora che stai camminando».
         Clotilde non riuscì più a trattenersi e proruppe in un pianto addolorato. Doralice, nota per il senso di disagio che inavvertitamente la coglieva ogni volta fosse testimone di un tale scompiglio emotivo, colse l’occasione per avere l’ultima parola.
         «Per quanto sia di tuo gradimento perdere tempo in questa maniera, la cara Adele sarà già in pensiero per la nostra assenza prolungata» disse. «Meglio non far attendere gli austriaci: non sono noti per la loro pazienza».
          Dunque, senza degnare la madre di uno sguardo, Dora si allontanò dalla vetrata ed uscì dalla sala, premurandosi di chiudersi la porta alle spalle, con un enigmatico sorriso a deformarle i lineamenti del viso.
 
 

 
          La Chiesa di San Zeno, pupilla dell’iride cittadina, arricchiva il mattino con il consueto rumore assorto delle sue campane, e lungo le vie era possibile scorgere il tramestio dei primi lavoratori che si allontanavano dall’uscio di casa, bipedi macchie in un dipinto dalle tinte calde e invitanti. La fragranza del pane appena sfornato si diffondeva anche fra le strade più remote, scandendo il risveglio di coloro che ivi conducevano le loro vite. In lontananza, si poteva già avvertire il lieve nitrito dei cavalli che si destavano sgranchendo il muso; le prime carrozze, abbellite di tutto punto, calpestavano ormai i ciottoli colorati con le loro ruote pesanti.
          Eleonora Guerra s’incamminava rapida all’estremità di un vicolo che sfociava lungo gli argini dell’Adige. Le sue mani, generalmente fini ed eleganti al di sotto di morbidi guanti di stoffa, palesavano ora evidenti segni di trascuratezza e incuria; il completo sfarzoso che avrebbe dovuto esibire durante il viaggio di famiglia era ancora appeso nell’armadio di casa sua, e al suo posto ora indossava abiti beceri e trasandati. La grazia affascinante che il suo portamento poteva giustamente vantare, e per la quale era spesso elogiata nei salotti più altolocati, aveva lasciato il posto ad un manierismo più rozzo e ad un’andatura più accidentale. La pettinatura scomposta e gli stivali macchiati, in cui i suoi piedi potevano entrare almeno tre volte, contribuivano a trasmettere l’idea di una popolana confusa, avvezza alla vita di strada e ai costumi da mendicante.
         Nora avanzava dunque goffamente ed indiscreta, con quell’aria di spontanea innocenza per la quale era naturalmente portata, dignitosamente certa che anche la più esperta fra le pettegole del luogo avrebbe incontrato ardue difficoltà nel riconoscere la sua identità. Dentro di sé, un gaudio profondo germogliava. Sebbene non fosse la prima volta che la sua indole la obbligava a trovare una via di fuga dalla cancerogena vita nobiliare, tanto abile nell’ingabbiarla quanto nel deturparla, era comunque innegabile la rinvigorente sensazione di sollievo che la coglieva ogni qual volta riuscisse ad eludere i propri doveri di dama dell’alta società. In quel momento, ogni suo passo cadenzava il ritmo di una leggera emancipazione a lungo rivendicata, e il suo sorriso poteva evocare una sincerità finora recondita e inespressa. Era libera. Era potente.
          Giunta al limitare del sentiero sterrato che stava percorrendo, si ritrovò davanti alla consueta catapecchia abbandonata che l’aveva ospitata in molteplici occasioni, e a cui ricollegava una sensazione di famigliarità che la sua dimora non avrebbe mai potuto pretendere. Ad accoglierla all’interno, come di consueto, v’era un giovane dalla corporatura massiccia e la carnagione abbronzata, con una cicatrice sul labbro inferiore e delle leggere efelidi sul viso.
         «Finalmente, Màlia!» esordì andandole incontro. Durante il fugace bacio che i due si scambiarono, Eleonora poté avvertire il calore che irradiava dalla sua pelle abituata al sole, e il lezzo di terra di cui erano impregnati i suoi indumenti da lavoro. «Iniziavo a pensare che mi avresti lasciato senza un ultimo saluto».
       «Io mantengo le mie promesse» rispose lei. Al di sotto delle sue lunghe ciglia brune, gli occhi gagliardi brillavano vividamente. «Ma dobbiamo sbrigarci, Berto. La compagnia di guitti che serve mio padre partirà a minuti, e non posso farli tardare. Il viaggio che ci attende è lungo e insidioso».
        Alberto si rabbuiò. «Non sei obbligata a partire. Tuo padre potrebbe mettersi al servizio di qualcun altro, o smettere di essere un mezzadro». Sospirò, sollevando lo sguardo. «Mi sento come se mi stessi abbandonando, come se fossi intrappolato in un vicolo cieco e non potessi nemmeno urlare».
        «Ne abbiamo già parlato» ribatté. «Il debito che mio padre ha nei loro confronti è troppo grande per essere tradito. Ci hanno salvati da una terribile morte d’inedia, accogliendoci in casa loro». Nora parve esitare, ma non perse la sua compostezza. Poi gli prese il volto fra le mani e inscenò un senso di audace costernazione. «Lo sai che fuggire sarebbe l’ultima cosa che prenderei in considerazione. Tu sei l’unica ragione per cui sorrido durante il giorno, e la prova concreta che ho un cuore che batte. Perché lo avverto, in ogni momento, quando ti penso. Detesto l’idea di perderti, ma sono forzata ad andarmene».
          Lui la strinse a sé. «Promettimi che mi ricorderai, e che mi penserai ogni giorno» le disse.
        Si scambiarono un secondo bacio, in cui Eleonora si accertò di impiegare il massimo impegno che riuscisse a sfoderare. Quando si separarono, le sue labbra tremolavano. «Te lo prometto».
        I due rimasero abbracciati mentre i primi raggi del sole si intrufolavano fra le fessure del soffitto, scie dal calore materno e accogliente. Lo scrociare dell’acqua del fiume rimbombava fra le umide pareti che li separavano dalla mondanità; all’interno dominava un’atmosfera quieta e candida, intervallata soltanto dai profondi respiri dei due amanti della baracca, protagonisti della nuova alba.
           A sciogliere l’intreccio fu Nora. «Mi hai portato quello che ti ho chiesto?»
          Berto annuì dolcemente, socchiudendo gli occhi; in seguito si tastò la tasca posteriore dei pantaloni e ne estrasse un involucro ben impacchettato che si premurò di maneggiare con estrema cautela. «Ecco qua» e lo tese a lei. Poi abbozzò un sorriso malinconico. «Forse l’unica cosa che posso permettermi di regalarti».
          Eleonora arrossì. «Probabilmente l’unica cosa che posso accettare».
          Lui le accarezzò il viso con studiata delicatezza e poi indicò il pacchetto. «Questo a cosa ti serve, comunque?»
         «Mio padre è convinto che possa aiutare a conservare i vegetali che coltiva. Sarebbe una comodità che ci è sempre stata negata» fu la risposta. «Ma ora che dobbiamo partire non può più farne a meno».
         «Capisco» disse lui.
        Eleonora lo prese per mano e lo condusse all’entrata. Al di fuori, i primi uccellini della giornata iniziavano ad appollaiarsi sul tetto, e in prossimità si potevano già distinguere i passi dei consueti viandanti, e il mellifluo ridacchiare di qualche prostituta del paese. Berto deglutì a fatica e non distolse lo sguardo dal corpo dell’amata, ora illuminato da una luce radiosa, fonte benedetta di diletto. Lei tornò a fissarlo.
         «Dimmi che mi ami».
         «Ti amo».
         «Dimmi che mi vuoi».
         «Ti voglio, sempre».
        Mentre le campane tornavano a risuonare per le vie, i due si baciarono per l’ultima volta. Quadro di gote umide e parole dimenticate. Le loro mani si riscaldavano a vicenda per l’ultima volta.
         «Tornerò» affermò lei, la convinzione palpabile negli occhi spalancati.
         Lui le solleticò i capelli e le assicurò: «Io non vado da nessuna parte».
         Poi le avvicinò la mano alla bocca e appoggiò lievemente le labbra su di essa. Un baciamano. Pegno d’amore d’un amante insaziabile. Il gesto, che a lui convenne come una spontanea conclusione per un addio inevitabile, colse lei completamente alla sprovvista. Nora, avvezza a praticare tale meccanicismo nel corso della sua vita quotidiana, venne investita dell’immediata consapevolezza che lui aspirava a concederle proprio ciò da cui lei tentava disperatamente di fuggire. La fastidiosa convenzionalità che la assorbiva durante le sue giornate sfruttava un’aggressività tale da costringerla ad improvvisare assenze premeditate per non soffocare. La vita da Guerra rischiava di trascinarla in un cupo oblio di commiserazione, monotonia e amarezza. Màlia le dava l’opportunità di respirare apertamente, fra un corsetto e quello successivo. Ma ora Berto intendeva fare di Màlia la sua personale, insostituibile Eleonora Guerra. Un grave senso di sconforto prese ad invaderle l’animo e ad appesantirle l’essere. Si sentiva di nuovo in trappola. Condannata. Inerme.
         Tremando, rivolse un ultimo sguardo disperato all’amato, per voi voltarsi e scomparire dietro l’angolo. Lui provò a chiamarla ripetutamente, ma lei non reputò di fermarsi neanche una volta. Il suo cuore premeva nel petto come un macigno destinato a crollare. Prima che potesse accorgersene, lacrime salate le solcavano il volto come rivoli d’acqua dolce che attraversano una valle. Ogni passo era più difficile del precedente, adesso. Quando infine si ritrovò davanti all’ingresso secondario della sua abitazione, nel suo sguardo dimorava un’esausta arrendevolezza. Adele la stava aspettando.
      «Sbrigatevi signorina!» le sussurrò con vispa maniacalità. «La signora Pindemonte al momento è impegnata a cercare vostra sorella; sarebbe uno sfortunato inconveniente se dovesse incontrarvi addobbata con un tale vestiario».
      Nora si asciugò rapidamente il viso e, nell’entrare in casa, si tolse la parrucca che Màlia soleva sempre portare. «Questo vestiario mi rispecchia. L’Eleonora che conoscete voi è solo un’infelice maschera a cui non sono ancora riuscita ad abituarmi completamente».
         Adele aprì l’armadio della sua camera ed estrasse un lungo abito da viaggio. «Sarà meglio che quell’Eleonora sia presentabile e di buon umore quando vostra madre verrà ad annunciare la partenza».
       La fanciulla si spogliò degli stracci che aveva addosso e trascorse i successivi minuti a prendersi cura di se stessa, ripensando a tutto ciò che aveva vissuto quella mattina. Le sembrò dunque doveroso rivolgersi alla domestica ed adornare il suo volto del consueto sorriso che le faceva da firma. «Carissima Adele, credo di non averti ancora ringraziato abbastanza per quello che fai per me. Sei la mia àncora di salvezza in una famiglia che cerca di farmi affondare giorno dopo giorno. Ti sono profondamente debitrice».
          Adele strinse le labbra. «Sai che non sono una grande estimatrice delle parole spoglie» obiettò. «Sei riuscita a procurarti quanto mi serve?»
        Eleonora sorrise e le porse il fagotto che Alberto le aveva consegnato con tenero orgoglio. La donna scartò la confezione ed esaminò con cura quanto conteneva. Una smorfia di soddisfazione le deformò il viso.
          «Per lo meno adesso potrai risolvere il problema del tuo orto» la rassicurò Nora.
          «Oh sì» concordò lei. «L’arsenico sa essere un ottimo e diligente risolutore di problemi».
 
 
 
   
 
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