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Autore: Alice Elle    19/09/2017    1 recensioni
Un sogno ricorrente.
Un incontro inaspettato.
Quando hai vent'anni, devi avere il coraggio di osare.
Gaia è una ragazza tranquilla, studia all'università, ma ogni notte fa lo stesso sogno e ogni mattina trova un cuscino vuoto ad aspettarla, in cui affogare le lacrime.
Ma oggi andrà diversamente.
Oggi incontrerà lui.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Questo è un racconto lungo già terminato. L'ho scritto di getto in appena tre serate. La storia di Gaia e Daniele non ne voleva sapere di rimanere nella mia testa. 
Sono circa 70.000 battute e penso che in tutto saranno sei capitoli, al massimo sette. Fatemi sapere cosa ne pensate e se volete sapere come andrà a finire... grazie!

 

***
L’erba sotto la sua schiena è soffice, profuma di pane fragrante ed è di un delicato rosa, che vira al rosso sulle punte tenere. Il cielo le riempie gli occhi di riflessi cangianti, come le scaglie di una sirena.
L’aria è immota, piena di un silenzio innaturale ma perfetto, di una pace rasserenante. Un soffio leggero e fresco le muove i capelli, sollevandoli leggeri come le nuvole che mancano in quel cielo iridescente.
Nella mente le risuona una voce familiare, come zucchero filato le riempie le vene di una struggente dolcezza. Non riesce a distinguere le parole, ma sa che sono d’amore infinito.
Vuole voltare il capo, per vedere chi le sta parlando, ma è come se corde di velluto la tenessero prigioniera consenziente di quella dolce immobilità.
Risponde alle parole d’amore allo stesso modo, lasciando che i pensieri fluiscano dalla sua mente a quella della persona stesa a un soffio da lei. Ed è come se tutto in un attimo divenisse incredibilmente vivido e luminoso e caldo.
La riempie la consapevolezza che ora può muoversi. Con la lentezza di chi ha tutto il tempo del mondo, inizia a ruotare il capo verso il suo destino e…

 

Dannazione! Tutte le volte finiva allo stesso modo. Gaia sbattè le palpebre nel buio della sua stanza. Mise faticosamente a fuoco, nella penombra, il cuscino vicino al suo, sperando di trovare qualcosa, ma già sapendo che lo avrebbe trovato tristemente vuoto.
Ogni volta che faceva quel sogno, il paesaggio onirico che la circondava si arricchiva di particolari e di colori, ma il flusso si interrompeva immancabilmente sempre nello stesso momento: quando iniziava a voltare il capo e, fremente di aspettativa, realizzava che mancava poco, così poco, per vederlo!
Nell’infinitesimale attimo prima di aprire gli occhi, provava la certezza incrollabile che, nel momento in cui lo avrebbe fatto, avrebbe trovato qualcuno intento a fissarla di rimando, su quel cuscino che invece rimaneva dolorosamente vuoto.
Era a quel punto che la pace e la felicità fluivano via da lei, come sangue da un’arteria lacerata, e sopraggiungeva la tristezza e il senso di perdita. Si poteva essere innamorati di un sogno?
Non sapeva nemmeno che volto avrebbe desiderato trovare, su quel cuscino, ma le mancava come se fosse parte di lei da tutta la vita. Così si sentiva incompleta, imperfetta, come un corpo senza la sua ombra.
Fortunatamente la sensazione svaniva nel giro di qualche minuto, tra il dormiveglia e il ritorno completo della coscienza, altrimenti sentiva che sarebbe, con buona probabilità, impazzita.  
La languida spossatezza che, puntualmente, le lasciava quello strambo sogno la accompagnò per tutto il tempo che le occorse per prepararsi, fare colazione e uscire.  
Era una splendida giornata di primavera, nell’aria si avvertiva il timido odore dell’imminente fioritura.
Non era ancora quello stordente tripudio di profumi che caratterizzava la primavera nel pieno vigore vegetativo, ma un accenno timido della vita che riprendeva lentamente a scorrere, come un sottile ruscello di ghiacciai sciolti.
Il sole splendeva arrogante, quasi violento, nel cielo terso, ma l’aria era fresca. I colori della terra iniziavano a lasciare il posto al verde tenero dell’erba nuova.
Gaia per un attimo si fermò ad ammirare il meraviglioso scorcio del parco davanti casa, riflettendo su quanto i colori fossero completamente diversi da quelli del suo sogno.
Qualche tempo prima, aveva letto su qualche rivista che i sogni dovrebbero essere in bianco e nero, mentre le immagini che le rimanevano del suo erano decisamente a colori, peraltro bizzarri e del tutto assurdi.
“Che il mio subconscio processi in colori le sensazioni che provo nel sogno?”
Trovare una logica in una fantasia così illogica sembrava impossibile.
Improvvisamente provò l’irresistibile desiderio di andare a stendersi su quel prato di un ordinario verde brillante, non di un assurdo rosa, di osservare il cielo di un comune azzurro chiaro, non cangiante di mille riflessi inafferrabili.
Forse avrebbe finalmente riportato la calma nel suo trambusto interiore. Certo, il terreno sarebbe stato rugiadoso e poco confortevole, si sarebbe con ogni probabilità inumidita gli abiti, ma aveva bisogno di tornare sui consueti binari psicologici.
Con passo deciso si avviò verso il parco, cercando con lo sguardo un posticino libero al sole. Diverse persone stavano approfittando della bella giornata per rilassarsi sotto i tiepidi raggi primaverili.
Studenti buttati in gruppo sull’erba, senza nessun timore di sporcarsi; giovani mamme più previdenti che facevano giocare i loro bambini su teli buttati per terra; altre persone, più solitarie, erano sedute compostamente su soprabiti e giacche.
Gaia posò il proprio impermeabile sull’erba umida, vi si distese sopra, con le gambe piegate, e chiuse gli occhi, assaporando il momento.
Le membra che si rilassavano, i nervi che si scioglievano, il fresco del terreno sulla schiena, la carezza delicata dei raggi che le scaldava il volto e intiepidiva i vestiti.
Il rumore del traffico le arrivava attutito, così come l’indolente vociare delle persone intorno a lei e l’allegro cinguettio degli uccelli.
Si sentiva estraniata dal mondo, quasi come fosse sott’acqua, come quando nella vasca da bagno si immergeva completamente e le sembrava di tornare nel grembo materno. Il tempo e lo spazio non esistevano più, la sua mente era finalmente quietata, serena, quasi vuota.
Dopo un tempo che le parve insieme interminabile e brevissimo, sentì qualcosa muoversi tra i capelli, vicino all’orecchio.
Spaventata, si raddrizzò a sedere di colpo. Per un attimo vide tutto nero, poi dei puntini luminosi le danzarono davanti agli occhi e infine, quando il sangue le tornò finalmente a circolare come doveva, una distesa rosa.
L’inquietudine le fece rizzare i capelli sulla nuca. In un secondo, la sua mente riuscì a formulare cento diverse ipotesi. Si era addormentata e aveva sognato di nuovo? No, era sicura di non essersi addormentata, eppure per un attimo le era sembrato di vedere delle immagini incredibilmente rassomiglianti al suo sogno.
Infine, la realtà le si palesò in tutta la sua semplicità. Aveva davanti un ragazzo con una maglietta rosa (rosa!), che la fissava vagamente impaurito, con gli occhi spalancati.
«Scusa, non volevo spaventarti, ma avevi un insetto orribile che ti si stava arrampicando tra i capelli. Speravo di toglierlo senza svegliarti. Ti assicuro che non sono un maniaco» disse tutto d’un fiato, con i palmi alzati, per dimostrare la propria inoffensività.
Gaia lo fissò diffidente per qualche secondo, in silenzio sospettoso. La situazione era a dir poco inquietante. Le immagini del sogno si sovrapponevano a quanto appena vissuto, in una inconcepibile similitudine cromatica.
Appena prima di aprire gli occhi, la luce del sole dietro le palpebre chiuse le aveva ricordato il rosa e il rosso dell’erba del suo sogno, colore rafforzato poi da quell’assurda maglietta, i lampi luminosi provocati dallo sbalzo di pressione le avevano rammentato il cielo cangiante e poi lo smuoversi dei capelli, come se fossero stati mossi da una brezza... tutto le ricordava quello stupido sogno.
Non sapeva cosa pensare, probabilmente stava lavorando troppo con la fantasia, ma le coincidenze erano veramente troppe per la sua salute mentale.
D’altra parte, il ragazzo sembrava sincero, la fissava schiettamente con il paio di occhi nocciola più limpidi che avesse mai visto.
Con la coda dell’occhio notò i suoi amici, seduti poco distante, che li osservavano con curiosità, ma senza darsi di gomito o fare battutine, come avrebbero fatto se si fosse trattato di uno scherzo.
«Ok» fu tutto quello che riuscì a dire, complimentandosi ironicamente con se stessa per l’eloquenza.
Il ragazzo rimase accosciato vicino a lei, fissandola perplesso e incerto.
«Ok» rispose.
Beh, a quanto pareva, nemmeno lui era un genio nell’arte oratoria.
Rimasero a fissarsi ancora qualche secondo, in un silenzio che si faceva via via sempre più denso di imbarazzo.
«Ehm, ciao allora» si decise a dire lui, facendo il gesto di alzarsi.
Gaia per un attimo provo lo stesso angosciante sensazione di perdita di quando si svegliava e trovava il cuscino vuoto.
Come se fosse dotata di vita propria, la sua mano scattò ad afferrare l’avambraccio del ragazzo. Lui si immobilizzò e sgranò gli occhi, stupefatto.
«Ti ringrazio» disse lei, non sapendo come giustificare il suo gesto, ma desiderando disperatamente trovare un modo per tenerlo lì con lei ancora un istante, solo il tempo per riprendersi da quelle sensazioni inspiegabili.
Il ragazzo si rilassò impercettibilmente alle sue parole e tornò ad appoggiare il peso del corpo sulle punte dei piedi, i talloni sollevati. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e la fissò negli occhi, con quel suo sguardo sincero e pulito.
«Prego» le disse piano e, dopo un attimo di esitazione, continuò con cautela «mi chiamo Daniele.»
Rendendosi conto che intendeva rimanere, Gaia si sentì riempire di un sollievo così potente che per un attimo fece fatica a far scendere l’aria nei polmoni. In quel momento di smarrimento, l’abituale educazione le venne in soccorso.
«Piacere, io sono Gaia» rispose, la voce un soffio.
Le labbra le si stirarono in un incontrollabile e luminoso sorriso.
Il ragazzo inarcò le sopracciglia, in un’espressione buffa, come se non sapesse decidersi se giudicarla simpatica o semplicemente pazza. Lei stessa iniziava a propendere per la seconda ipotesi.
«Posso?» chiese lui, indicando l’erba al suo fianco.
Per un attimo Gaia si chiese cosa diavolo stesse facendo, ma poi si disse che aveva ventiquattro anni, era single e soprattutto in un luogo pubblico. Cosa mai poteva capitarle di male?
Al peggio Daniele si sarebbe rivelato un marpione antipatico e lei se ne sarebbe andata, archiviando l’episodio come uno dei più bizzarri della sua vita. Al meglio… al meglio cosa? Non ne aveva idea, sapeva solo che era un ragazzo carino, che le aveva tolto un insetto dai capelli e che aveva gli occhi buoni.
«Certo» rispose, spostandosi di lato e lasciandogli un po’ di posto per permettergli di sedersi al suo fianco, sul suo impermeabile.
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, si accomodò vicino a lei, le lunghe gambe fasciate nei jeans che sfioravano le sue.
«Stai andando a lezione?» le domandò, adocchiando la borsa a tracolla traboccante di libri e quaderni.
«Sì, ma inizia tra mezz’ora ed è a cinque minuti da qui.»
«Cosa studi?»
«Economia. Tu invece?»
«Ingegneria meccanica. Mi mancano due esami.»
«Non ti ho mai visto da queste parti e la tua facoltà è dall’altra parte della città. Cosa ci fai qui?» Gaia si sentiva un po’ sfacciata, ma la città era piccola e le sembrava strano non averlo mai incrociato prima.
«Mi dovevo trovare con alcuni amici per scambiarci degli appunti e mi hanno trascinato in un bar qui vicino, assicurandomi che avevano le brioche migliori di tutta la città.»
«Se era il Vogue avevano ragione, sono le migliori» annuì, sorridendo.
«Purtroppo non posso confermare né smentire, visto che hanno adocchiato un paio di ragazze e hanno deviato verso questo parco.»
Si espresse con un tono tra l’esasperato e il vergognoso, massaggiandosi lo stomaco piatto e guardandola da sotto in su.
Gaia si alzò in piedi, spazzolandosi i pantaloni sotto lo sguardo interrogativo di Daniele.
«Non sia mai che dica di no a un croissant alla crema di Vogue! Andiamo!»
Allungò una mano, facendogli cenno di afferrarla. Lui la osservò divertito, le sopracciglia che si sollevavano in un’espressione che cominciava a intuire gli fosse abituale.
Dopo un attimo di esitazione, le afferrò la mano in una presa calda e sicura e si sollevò agilmente, superandola in altezza di tutta la testa. Quanto accidenti era alto? Non se ne era resa conto.
Sentì uno strano calore arrampicarsi su per il collo, mentre pregava di non arrossire.
Daniele si chinò e le raccolse l’impermeabile e la borsa, porgendoli con un sorriso gentile e malizioso insieme.
«Fammi strada, non so dove si trovi questo straordinario bar.»
«Certo, seguimi, è a due passi da qui, ci vado spesso a fare colazione. Si può dire che abbia scelto il mio appartamento solo perché era il più vicino al Vogue» ammise ridacchiando e guadagnandosi un’occhiata sfrontata dal ragazzo.
«Non si direbbe, hai un corpo da favola.»
Gaia arrossì per il complimento, chiedendosi come avesse fatto a dirle una frase del genere senza apparire un viscido e volgare piacione.
«Beh, grazie, anche tu non sei niente male.»
Tanto valeva ricambiare la sua schiettezza con la stessa moneta. Si premurò anche di dargli una bella guardata al fondoschiena che, dovette ammetterlo almeno con se stessa, era davvero notevole.
La sua sceneggiata si guadagnò una risata divertita e una nuova alzata di sopracciglia.
«Se stai tentando di mettermi in imbarazzo, sappi che è una battaglia persa in partenza. Sono del tutto sprovvisto di pudore. Mia madre dice che l’ha dato tutto a mia sorella maggiore e non ne è rimasto niente per me.»
«Il pudore è sopravvalutato, ma non la colazione! Dai, smettila di perdere tempo, che tra poco devo andare a lezione.»
Lo prese per mano e lo trascinò correndo verso il bar, entrarono ridendo e rischiarono di travolgere una vecchietta che li guardò storto, borbottando sulla mancanza di rispetto dei giovani d’oggi.
   
 
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