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Autore: LyaStark    22/09/2017    4 recensioni
C'è qualcosa di oscuro all'opera nel villaggio di Briar, una bestia che sembra uscito dai peggiori incubi della popolazione. L'unica possibilità di salvezza è chiamare un Cacciatore, un membro di un'antica razza detestata e ormai quasi scomparsa, il cui compito è sempre stato uno solo: uccidere ciò che di mostruoso c'è al mondo.
Ma a volte i veri mostri non sono quelli che ci si aspetta.
Genere: Dark, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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WHAT KIND OF MAN
 
LA CACCIATRICE
 
“Did you ever feel
We're falling as we grow
No I would not believe
The light could ever go
But the golden age is over”
The Golden Age, Woodkid
 
La chiamavano Cenere.
Non era il nome che le avevano dato i suoi genitori, quello non lo usava più. Era il lascito di un’età dorata da tempo finita e troppo dolorosa da ricordare. No, Cenere era il nome che le avevano dato gli uomini che l’avevano trovata. Per via della cenere che le avevano trovato addosso per mesi, le dicevano, ma la storia che raccontavano quando credevano che lei dormisse era diversa. Cenere era quello che pensavano sarebbe diventata nel giro di qualche mese. Cenere e polvere, e una memoria troppo sbiadita anche solo per poterne più parlare.
Per sua fortuna non si erano mai sbagliati così tanto.
 
▪▪▪
 
Gli uomini del villaggio la trovarono sulla Strada.
Non era un bello spettacolo.
La Banshee era scappata nel profondo della brughiera, cercando di nascondersi nelle paludi e tra la torba puzzolente. Cenere l’aveva dovuta inseguire per ore e ore, affondando nell’acqua stagnante fino al polpaccio e tormentata da quelli che sembravano essere tutti gli insetti del continente messi insieme. Ci aveva messo un’eternità a trovare il mostro e a ucciderlo, ragion per cui ora cavalcava sulla Strada sporca di fango secco fino alla testa e puzzando terribilmente di erba bagnata. Il corpo della Banshee era buttato di traverso sulla groppa del suo cavallo, la bocca ancora spalancata in un grido muto. Sfortunatamente per lei, non avrebbe urlato mai più.
La sua giumenta scura camminava piano sulla strada, alzando nuvolette di polvere chiara, calma nonostante l’orrore che portava in groppa. Il pallido sole invernale accarezzava tenue il viso della Cacciatrice, che chiuse gli occhi per godersi meglio il tiepido calore, le redini molli nelle mani. Un sorrisetto le increspò gli angoli della bocca: aveva ucciso la Banshee, il sole splendeva, era ancora viva.
Era una bella giornata.
 
▪▪▪
 
Era a poche miglia da Tula quando gli uomini del villaggio la raggiunsero, camminando abbastanza vicini al suo cavallo da infastidirla. I loro sguardi oscillavano tra lei e la Banshee, fissandole come si potrebbe guardare un uomo uscito dagli inferi, con orrore e incredulità. Uno si azzardò perfino ad allungare la mano per toccare la pelle della creatura, prima che Cenere lo incenerisse con il suo sguardo asimmetrico.
Erano pochi quelli che osavano avvicinarla così tanto. La Cacciatrice si prese qualche istante per studiarli meglio: era un gruppetto sparuto, quattro persone che camminavano infagottate nei loro tristi vestiti invernali. Non sembravano pericolosi, solo disperati. Solo uno la guardava apertamente in viso, come cercando il coraggio per dire qualcosa.
Cenere si era abituata a essere guardata con timore e disprezzo e aveva imparato a procedere per la sua via, ignorando i commenti malevoli delle persone che incontrava. Alcuni sputavano per terra quando passava, pensando che potesse allontanare il malaugurio di averla vicina. Alla fine, se li ignorava, quasi tutti la lasciavano in pace e Cenere sperava che quello fosse anche il caso dei contadini. Pensava che una volta soddisfatta la loro curiosità per la Banshee se ne sarebbero andati per la loro strada.
Passarono lunghi secondi e quando Cenere capì che non avevano intenzione di allontanarsi spronò la giumenta a un passo un po’ più vivace: se volevano dirle qualcosa che parlassero, lei non aveva tempo da perdere. Ridacchiò dentro di sé quando il gruppetto accelerò il passo per starle dietro. Stava per passare al galoppo e lasciarsi dietro quegli uomini quando un grido la bloccò.
– Aspetta! –
Cenere fermò il cavallo in mezzo alla Strada, girandosi per fronteggiare il piccolo gruppo.
– Si può sapere cosa volete? –
– Sei… – l’uomo che sembrava a capo della combriccola si schiarì la voce. – Sei tu la Cacciatrice? –
Cenere sollevò un sopracciglio, dando una pacca al corpo della Banshee dietro di lei. – Tu che dici? –
L’uomo tacque, osservandola. I suoi compagni dietro di lui continuava a guardare allucinati il cadavere della creatura.
– Potresti averlo rubato – disse, titubante.
Cenere si sfilò il cappuccio scuro e lo fissò. I suoi occhi, uno azzurro e uno nero, brillarono minacciosi nella tenue luce invernale.
– Soddisfatto? –
L’uomo deglutì, visibilmente sconvolto. Non era la prima volta che Cenere vedeva una reazione del genere. Erano in molti a rimanere impressionati dai suoi occhi, retaggio di un tempo antico in cui gli Haris, la sua razza, erano dei protettori, non semplici assassini prezzolati. Quando il gruppetto continuò a tacere, Cenere decise che aveva aspettato abbastanza. Scosse la testa e spronò il cavallo, avanzando piano sulla strada.
L’uomo le corse dietro, affiancandola. – Abbiamo un lavoro per te. –
Cenere non si fermò.
– Che tipo di lavoro? –
– C’è qualcosa di malvagio, nel nostro villaggio. Crediamo sia un uomo lupo. Aiutaci! –
L’uomo si era infervorato parlando e aveva messo una mano sulla gamba della Cacciatrice, sopra allo stivale. Cenere lo fulminò con lo sguardo e lui rimosse la mano.
– Ti prego – l’uomo indietreggiò. – Possiamo pagare. –
La Cacciatrice lo squadrò dall’alto al basso. – Il prezzo per un uomo lupo è di trenta pezzi d’argento. –
Cenere poté leggere la disperazione negli occhi dell’uomo.
– Noi non abbiamo tanto denaro. Se tu… –
Cenere lo interruppe subito, guardandolo con un’espressione che non accettava obiezioni. – Niente soldi, niente lavoro. –
Tutta la paura scomparve dal volto dell’uomo, sostituita dalla rabbia crescente. Si allontanò dal cavallo di Cenere come se fosse stato scottato, con una smorfia amara sul viso.
– Non possiamo ucciderlo da soli. Tu devi aiutarci! –
Cenere sollevò le sopracciglia, fermando la giumenta in mezzo alla Strada e squadrando l’uomo con disprezzo. – Io non “devo” proprio niente. Voi non siete nessuno per me. Ve lo ripeterò, e spero che questa volta sia chiaro – scandì talmente tanto le parole che queste furono quasi visibili nell’aria fredda dell’inverno. – Niente soldi, niente lavoro. –
Cenere riuscì a vedere il momento in cui tutte le speranze si infransero sul volto dell’uomo. Scosse la testa e portò la cavalla al trotto e poi al galoppo, lasciando il piccolo gruppo a guardare la sua schiena che si allontanava sempre di più nella luce livida del pomeriggio.
 
▪▪▪
 
Quando arrivò a Tula era ormai calata la sera. Cenere aveva cavalcato rapida, non vedendo l’ora di sbarazzarsi del cadavere della Banshee che iniziava a liberare un odore che le aggrediva le narici a ogni respiro. Il villaggio era piccolo e triste, provato dalle morti causate dalla creatura prima che il podestà si decidesse ad assumere un cacciatore degno di questo nome. Erano molte le case che mostravano ancora la tintura nera del lutto dipinta sugli stipiti. Se non avessero esitato a chiamarla, molte di quelle persone sarebbero state ancora vive.
Cenere portò la giumenta al passò, asciugandosi il sudore dalla fronte. Fece una smorfia quando vide che sul guanto di pelle era rimasta una striscia di fango marroncino. Aveva bisogno di darsi una bella lavata. Prima però, aveva bisogno di riscuotere la sua taglia.
Si diresse verso la casa del podestà, riconoscibile perché l’unica con le fondamenta in pietra. Legò il cavallo all’abbeveratoio e coprì le poche centinaia di metri che la separavano dall’ingresso. Vicino alla porta sostavano due uomini, immersi in una conversazione sommessa. Ognuno di loro teneva in mano un forcone, le punte nere quasi brillavano alla luce rossa delle lampade che illuminavano la strada. Quando Cenere gli passò vicino i due si zittirono, fissando la Cacciatrice che camminava sicura, l’elsa della spada che le spuntava da dietro la spalla.
Cenere aveva vissuto più a lungo di molti della sua razza solo perché col tempo aveva imparato a essere insieme sospettosa e prudente. Fu per questo motivo che, mentre passava tra i due uomini di guardia e scorgeva il ghigno che si dipinse sui loro volti, un sentimento di allarme iniziò a strisciarle sotto la pelle. Prima di aprire la porta si assicurò di avere il pugnale appeso alla cintura, calmandosi grazie al suo peso familiare.
La casa del podestà era spartana, unico segno di ricchezza lo spesso tappeto di lana d’agnello steso davanti al camino che scoppiettava allegro. Il bianco del tessuto era ormai virato al grigio e Cenere poteva notare anche da quella distanza le macchie di unto che campeggiavano sulla lana, segno di un benessere passato da molto tempo.
La stanza era stranamente gremita e Cenere si fermò quando la porta si chiuse alle sue spalle, sentendosi come un animale in trappola. Poteva scorgere manici di falci e coltelli nel buio. Il suo istinto le urlava che quella non era una situazione sicura.
Il podestà sedeva su una sedia di legno che nel suo immaginario doveva essere l’equivalente di un trono. Tracce di vernice dorata si potevano ancora intravedere sotto i braccioli e nella parte più alta dello schienale. Il capo del villaggio doveva essere stato un uomo corpulento, lo si notava dalla pelle cascante che gli stava sotto al mento. Adesso, dopo mesi e mesi d’inverno e di privazioni, i suoi occhi erano scavati e nel fondo brillava la luce febbrile tipica di chi non riesce a mangiare tutte le volte che ha fame. Una barba scura gli incorniciava il volto, crescendo a chiazze e prematuramente bianca. I vestiti gli cascavano addosso e macchie di sporco che non sarebbero mai andate vie ornavano il davanti della casacca pesante.
– Vieni avanti Symblantë. –
Cenere odiava quel nome, un derivato storpiato dell’antica lingua dei cacciatori. Il suo popolo usava la parola originale per indicare i traditori. Suonava incredibilmente insultante sulla bocca di quell’uomo.
– Podestà Corin – salutò Cenere avanzando. – Lieta che il sole splenda sul tuo cammino. –
– E che la neve sia lontana dal tuo – rispose il podestà con un cenno del capo. A quel gesto due uomini si affiancarono a Cenere, magri come spettri alla luce tremolante del fuoco. – Vorrai scusarmi se ti chiedo di posare le armi. –
A quella richiesta la Cacciatrice si irrigidì. Il loro primo incontro non si era svolto su quei toni, era stato tutto estremamente cordiale. Ora che ci ripensava, fin troppo. C’era stato qualcosa di untuoso nel modo in cui il podestà aveva contrattato con lei.
– Non ne vedo il motivo, – disse Cenere, con un tono che nonostante tutto le uscì esitante. – Siamo tra amici qui. –
– Siamo tra amici, ma l’inverno è un periodo duro – rispose il podestà con tono secco. – Suvvia, fai un favore a un vecchio che potrebbe essere tuo padre, – continuò poi più dolcemente, aprendosi in un sorriso.
Cenere si guardò attorno per un istante, rigida. Ci saranno state almeno una ventina di persone in quella stanza e, a quanto poteva vedere, quasi tutte erano armate. Maledizione, pensò. Non ho scelta.
La Cacciatrice fece un rigido cenno d’assenso col capo, contornato da un ancor più rigido sorriso. Portò le mani a sciogliere il complicato nodo che sorreggeva la sua spada, porgendola all’uomo alla sua destra.
– Ne sei responsabile – ringhiò mentre l’altro la afferrava. La spada era la sua unica fonte di sostentamento. Se gliel’avessero persa, o rovinata, sarebbe morta prima della fine dell’inverno. Sempre se finirà.
– Anche i coltelli – aggiunse il podestà con tono mellifluo.
Quando Cenere finì di consegnare il suo discreto arsenale si sentiva vulnerabile come se stesse correndo nuda in mezzo ai rovi.
Visto che nessuno parlava prese la parola. – Ho portato a termine il mio compito. –
Il podestà sorrise. – Non ti offenderai se ti chiedo di vedere il cadavere di quella, come l’hai chiamata… Bansai. –
Cenere scosse la testa, ignorando l’errore. – È legato fuori, sul mio cavallo. Ho pensato che portarlo dentro avrebbe potuto turbare qualcuno – aggiunse poi guardando la moglie del podestà, in piedi dietro al seggio del marito e illuminata dalle fiamme del focolare.
– Ben fatto, ben fatto, – gongolò il capo villaggio, girandosi verso l’uomo alla sua sinistra. – Mani, vai a vedere. –
Mani si diresse rapido verso la porta, sparendo presto nell’oscurità della notte invernale. Nessuno parlò nell’attesa e Cenere non cercò di rompere il silenzio. Non era mai stata a suo agio con le chiacchiere vuote. Si sentiva la gola pizzicare e gli occhi lacrimare per il fumo acre che si stava espandendo per la stanza. La sensazione di pericolo non l’abbandonava, la sentiva come una presenza quasi tangibile vicino a lei.
Mani rientrò in fretta nella sala gremita. – L’ho vista, Corin! È sul cavallo, come dice lei. –
– Molto bene, molto bene, – il podestà sorrise a Cenere mettendo in mostra una fila di denti storti e giallastri. – Qual era il pagamento, secondo il contratto? –
– Quindici pezzi d’argento – rispose rapida la Cacciatrice. Aveva contrattato per più di due ore per raggiungere quel prezzo, non se lo sarebbe dimenticato molto presto.
Il podestà assunse un’aria pensierosa. – Non ne sono sicuro. –
Cenere gelò a quelle parole, mentre il capo villaggio sporgeva una mano e qualcuno dal buio gli passava una pergamena che aveva visto tempi migliori.
Il podestà gliela mostrò. – Questo è il nostro contratto, vero? –
Cenere annuì, esitante. Anche da lontano riconosceva la sua firma in calce al documento. Lei stessa ne portava una copia in una tasca della casacca.
– Cale, vieni a leggere – chiamò il podestà, porgendo la pergamena a un uomo segaligno e grigiastro che si era avvicinato al seggio del capo villaggio.
Cale prese il documento e scandì bene le parole mentre leggeva, facendo sì che queste rimbombassero nella piccola stanza. – Per l’uccisione del mostro si pagherà il prezzo di quindici pezzi d’argento – Cenere annuì. – Se la prova dell’uccisione verrà portata dopo il tramonto del quarto giorno, tuttavia, il prezzo scenderà a… – Cale fece una pausa ad effetto, squadrando Cenere con uno sguardo di disgusto. – Pezzi d’argento: quattro. –
Cenere spalancò gli occhi e fece un passo in avanti. – Io non ho mai… – iniziò a urlare, quando una decina di lame di diversa natura gli si puntò contro. La Cacciatrice si immobilizzò, mentre il suo corpo iniziava quasi a tremare per la rabbia trattenuta. Guardò il podestà con odio, ringhiando bassa. – Io non ho mai firmato una porcheria del genere. È una truffa! –
– Eppure… – iniziò il podestà, ghignando al suo indirizzo. – Eppure qua c’è la tua firma. –
Cenere fece per prendere il documento che portava sotto alla casacca quando una lama le si puntò sul collo. Poteva sentire la punta della falce pizzicare esattamente dove si trovava la sua giugulare. Fu costretta ad alzare il mento e si immobilizzò come un animale in trappola. Sentì i suoi occhi assottigliarsi mentre li puntava sul podestà.
– Oh, io non lo farei… – mormorò il capo villaggio con un’espressione di finto dolore in viso. – Non sappiamo che cosa tu possa avere lì sotto. Sarei costretto a ucciderti – aggiunse, torcendosi le mani. – Per la mia sicurezza, capisci. –
Cenere strinse i denti talmente forte che sentì la mascella scricchiolare.
– Allora – continuò il podestà, aggiustandosi meglio sulla sua parodia di trono. – Accetti questo prezzo o te ne andrai senza essere pagata? O rimarrai qui a morire? –
– Accetto il prezzo – rispose Cenere, in un ringhio che rendeva a stento riconoscibile la sua voce. Sentiva il suo cuore rombare nel petto, il sangue scaldarle il viso. Il capo villaggio era stato saggio a toglierle le armi, se le avesse avute tra le mani lo avrebbe ucciso.
– Molto bene, molto bene – il podestà annuì, iniziando a frugare nel borsello che portava in vita. Estrasse quattro pezzi d’argento tondeggiante e li rimirò alla luce del fuoco, con un sospiro. Poi li lanciò davanti a Cenere. Le monete risplendettero deboli sulla terra battuta del pavimento.
– Sam, ritira quell’arma – continuò poi il capo villaggio con tono di finto rimprovero, rivolto all’uomo che ancora minacciava Cenere con la sua falce. – Siamo tra amici, qui. –
La Cacciatrice puntò i suoi occhi asimmetrici su Sam, godendosi l’espressione di terrore che passò sul suo volto. Quando non fu più minacciata si chinò per terra e raccolse le monete, sentendo sulla nuca gli sguardi di tutte le persone che riempivano la stanza. Poteva quasi percepire il loro divertimento per la sua umiliazione. Non poteva permettersi il lusso di perdere anche quel denaro.
– Le mie armi? – domandò gelida mentre si tirava su e metteva via i pezzi d’argento.
– Ti saranno consegnate all’uscita dal villaggio. E sappi, Symblantë, che ti uccideremo se tornerai indietro. –
Cenere annuì e si diresse verso la porta, con il mento alto come quello di una regina. Prima di uscire si rivolse alla sala e fissò il podestà.
Namèi sarie farnë, arai na sulati – dichiarò nella sua lingua madre, lasciando che tutta la rabbia e l’odio che provava trasparissero dalla sua voce. – Sämè laran sotrai, faurè na simnae. –
Che voi siate maledetti, per il sale e per la terra. Che l’inverno vi uccida, per il fuoco e per la neve.
Poi sputò per terra, fissando il podestà negli occhi. Si godette il suo strepito spaventato e l’ondata di terrore che percorse la sala alle sue parole. L’ultima cosa che vide prima di chiudersi la porta alle spalle fu il capo villaggio che quasi si arrampicava sul suo trono, strepitando di chiamare il sacerdote.
Cenere camminò nella neve verso la sua cavalla, che dondolava indolente la coda mentre mangiava con la testa infilata nel sacco di biada. Cenere sogghignò mentre pensava ai brutti momenti che avrebbe fatto passare al podestà e al suo villaggi. Non erano in molti a capire la sua lingua, ma tutti ormai la associavano a sventure e disgrazie. Quella che aveva lanciato era una maledizione tanto quanto fare piani sul futuro era esercitare la preveggenza, ma Cenere sentiva un guizzo di felicità al pensiero che ad ogni avversità che si sarebbe abbattuta sul villaggio avrebbero pensato a lei e a come l’avevano trattata. E visto che l’inverno sarebbe stato ancora lungo era sicura che di avversità ce ne sarebbero state in abbondanza. Era una piccola rivincita, ma pur sempre una rivincita.
Però, mentre liberava la sua giumenta dal cadavere della Banshee, la piccola gioia che aveva provato a vedere il terrore sulla faccia del podestà sparì, lasciandola solo con la rabbia e un sentimento che assomigliava molto alla disperazione.
Il denaro di quella taglia le serviva. L’inverno era cominciato da molti mesi e nessuno sapeva quando e se sarebbe finito. Aveva bisogno di comprare cibo per sé e per la sua cavalla, le sue armi avevano bisogno di una rimessa a posto. Doveva comprare indumenti più pesanti se non voleva morire di freddo e non poteva dormire sempre all’addiaccio, almeno non se avesse voluto svegliarsi al mattino dopo. Ci voleva del tempo per trovare un altro ingaggio, visto che persino i mostri sembravano essere stati vinti dal gelo dell’inverno.
Cenere accarezzò piano il manto della sua giumenta, godendosi la sensazione di calore che il pelo caldo dell’animale le trasmetteva. Fece un sospiro che si condensò nell’aria gelida della sera.
– Siamo io e te contro il mondo – mormorò con un sorriso triste mentre scioglieva un nodo dalla criniera della cavalla. – Come sempre, vero? –
Chiuse gli occhi per un momento, cercando di contrastare la disperazione e la tristezza che stavano avendo la meglio su di lei. Quando li riaprì ogni traccia di sofferenza era scomparsa, lasciando solo una ferrea caparbietà.
Andiamocene da qui.
Prese la giumenta per le redini, conducendola verso l’ingresso del villaggio. Il cadavere della Banshee riluceva di una luce verdastra nella neve vicino all’abbeveratoio. Che se ne liberasse il podestà Corin di quell’orrore, lei per quel giorno aveva finito.
Aveva quasi raggiunto il limitare del villaggio quando poco lontano dall’ingresso di Tula comparve un gruppetto di persone. Cenere si irrigidì quando capì che erano gli uomini che l’avevano fermata quel pomeriggio sulla Strada. In pochi secondi prese una decisione e accelerò il passo, tirandosi dietro la giumenta recalcitrante per il freddo.
Quando arrivò vicino al gruppo non si curò degli sguardi in parte speranzosi e in parte disperati che le furono rivolti.
– Sei tu il capo qui? – domandò all’uomo che le aveva parlato quel pomeriggio. Ora che lo guardava meglio il suo era il volto di un giovane, ma le rughe e l’espressione preoccupata lo facevano sembrare più vecchio di quello che era.
L’uomo annuì. – Sono io. –
– Ho deciso di venirvi incontro, – Cenere parlava rapida. Non c’era più tempo per i formalismi quando scendeva l’inverno. – Quanto potete offrirmi, per il Licantropo? –
I quattro si guardarono come chi vede riaccendersi le proprie speranze quando tutto ormai sembra perduto.
– Dieci pezzi d’argento e tre di bronzo. –
Cenere fece finta di prendersi un secondo per pensare. Era un prezzo ridicolo per un Lycan, ma solo gli Dei sapevano quanto avesse bisogno di quei soldi.
– Va bene. In più, però, il vostro fabbro mi ripara l’equipaggiamento. Gratis. –
Il capo del gruppetto annuì.
– E mi darete un posto dove dormire. Dove volete, basta che sia coperto. –
L’uomo aggrottò la fronte. – Quello l’avremmo fatto comunque. Non siamo mica animali. –
Questo non si può mai sapere. – Allora, affare fatto? –
Cenere tese la mano e il capo del gruppo la strinse. – Affare fatto. –
 
▪▪▪
 
Mi sono svegliato di nuovo in piedi in cucina. Non ho più la camicia, i miei pantaloni sono strappati. Da quando loro sono morti, non riesco più a dormire. Gli attacchi di insonnia si fanno sempre più frequenti. Le mie occhiaie sono sempre più livide, il volto più scavato. Non mangio più. Bevo soltanto, sempre di più. Forse l’insonnia è dovuta a questo. So che dovrei smettere, che non avrebbero voluto che mi riducessi così, ma non ce la faccio. Meglio bere fino all’incoscienza piuttosto che ricordare.
Ora torno a letto, è malapena l’alba. Farò bene a dormire per qualche ora.
Mi sono svegliato quando ormai il sole era alto nel cielo. Pat stava bussando alla mia porta, talmente forte che per un istante ho avuto paura che potesse venire giù. Il mio primo pensiero è stato che avrebbe svegliato il bambino. Poi mi sono ricordato che non c’è più nessun bambino da svegliare.
Avrei voluto che se ne andasse, ma Pat sa essere testardo come un mulo quando vuole. Mi ha portato da mangiare, mi ha convinto a lavarmi, mi ha invitato ad andare da lui e da Anne stasera. So che non lo farò. Preferisco bere fino a perdere i sensi, di nuovo. Quanto ci metterà a capire che non voglio essere salvato?

 

ANGOLO DELL'AUTRICE!
Ciao a tutti! 
Benarrivati alla fine di questo primo capitolo, spero che vi sia piaciuto. Ci tenevo a fare un po' di chiarimenti su questo mondo particolare, che nella mia testa prende il nome di Egea. I mostri sono creature all'ordine del giorno, esistono quelli più "classici", come le Banshee, e altri più strani e mai visti che arrivano direttamente dagli angolini bui della mia mente. La razza di Cenere, quella degli Haris, si è presa il mestiere di farli sparire dalla circolazione. Una volta, anni e anni prima della vicenda, gli Haris non erano banali assassini prezzolati ma erano i Guardiani degli uomini, che avevano il compito di proteggerli e salvaguardarli dai mali del mondo. Poi c'è stata una guerra, gli Haris hanno perso e hanno subito, come dire, un ridimensionamento da parte delle altre razze (classici nani ed elfi, per intenderci). 
Ok, fine dei deliri e delle spiegazioni accademiche, visto che tra un po' sono più lunghe di tutto il capitolo.
Ci tenevo ancora a dire che, essendo la storia già scritta, verrà pubblicata in poco tempo. Dovrei riuscire, esami permettendo, a caricare un capitolo ogni 3/4 giorni. 
Grazie di essere arrivati fin qui, spero che vi sia piaciuta ^^
Lunghi giorni e piacevoli notti,

Lya

 
   
 
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